Quello che internet ci nasconde 06.07.2011
Eli Pariser, The Observer, Gran Bretagna
I motori di ricerca e i social network ci conoscono sempre meglio. Grazie alle tracce che lasciamo in rete, sanno cosa ci piace. E selezionano i risultati, scegliendo solo i più adatti a noi. Ma in questo modo la nostra visione del mondo rischia di essere distorta.
Poche persone hanno notato il post apparso sul blog ufficiale di Google il 4 dicembre 2009. Non cercava di attirare l’attenzione: nessuna dichiarazione sconvolgente né annunci roboanti da Silicon valley, solo pochi paragrafi infilati tra la lista delle parole più cercate e un aggiornamento sul software finanziario di Google. Ma non è sfuggito a tutti. Il blogger Danny Sullivan analizza sempre con cura i post di Google per cercare di capire quali sono i prossimi progetti dell’azienda californiana, e lo ha trovato molto interessante. Più tardi, quel giorno, ha scritto che si trattava del “più grande cambiamento mai avvenuto nei motori di ricerca”. Bastava il titolo per capirlo: “Ricerche personalizzate per tutti”.
Oggi Google usa 57 indicatori – dal luogo in cui siamo al browser che stiamo usando al tipo di ricerche che abbiamo fatto in precedenza – per cercare di capire chi siamo e che genere di siti ci piacerebbe visitare. Anche quando non siamo collegati, continua a personalizzare i risultati e a mostrarci le pagine sulle quali probabilmente cliccheremo. Di solito si pensa che facendo una ricerca su Google tutti ottengano gli stessi risultati: quelli che secondo il famoso algoritmo dell’azienda, PageRank, hanno maggiore rilevanza in relazione ai termini cercati. Ma dal dicembre 2009 non è più così. Oggi vediamo i risultati che secondo PageRank sono più adatti a noi, mentre altre persone vedono cose completamente diverse. In poche parole, Google non è più uguale per tutti.
Accorgersi della differenza non è difficile. Nella primavera del 2010, mentre la piattaforma Deepwater Horizon vomitava petrolio nel golfo del Messico, ho chiesto a due mie amiche di fare la stessa ricerca su Google. Entrambe vivono nel nordest degli Stati Uniti e sono bianche, colte e di sinistra: insomma, due persone abbastanza simili. Entrambe hanno cercato “Bp”. Ma hanno ottenuto risultati molto diversi. Una ha trovato informazioni sugli investimenti legati alla Bp. L’altra le notizie. In un caso, la prima pagina dei risultati di Google conteneva i link sull’incidente nel golfo, nell’altro non c’era niente del genere, solo una pubblicità della compagnia petrolifera. Perfino il numero dei risultati era diverso: 180 milioni per una e 139 milioni per l’altra. Se le differenze tra due donne di sinistra della costa est erano così grandi, immaginate quanto possono esserlo, per esempio, rispetto a quelle di un vecchio repubblicano del Texas o di un uomo d’affari giapponese.
Ora che Google è personalizzato, la ricerca di “cellule staminali” probabilmente dà risultati diametralmente opposti agli scienziati che sono favorevoli alla ricerca sulle staminali e a quelli che sono contrari. Scrivendo “prove del cambiamento climatico” un ambientalista e il dirigente di una compagnia petrolifera troveranno risposte contrastanti. La maggioranza di noi crede che i motori di ricerca siano neutrali. Ma probabilmente lo pensiamo perché sono impostati in modo da assecondare le nostre idee. Lo schermo del computer rispetta sempre più i nostri interessi mentre gli analisti degli algoritmi osservano tutto quello che clicchiamo. L’annuncio di Google ha segnato il punto di svolta di una rivoluzione importante ma quasi invisibile del nostro modo di consumare le informazioni. Potremmo dire che il 4 dicembre 2009 è cominciata l’era della personalizzazione.
Dimmi cosa voglio
Il mondo digitale sta cambiando, discretamente e senza fare troppo chiasso. Quello che un tempo era un mezzo anonimo in cui tutti potevano essere chiunque – in cui nessuno sa che sei un cane, come diceva una famosa vignetta del New Yorker – ora è un modo per raccogliere e analizzare i nostri dati personali. Secondo uno studio del Wall Street Journal, i cinquanta siti più popolari del mondo, dalla Cnn a Yahoo! a Msn, installano in media 64 cookie e beacon carichi di dati su di noi. Se cerchiamo una parola come “depressione” su un dizionario online, il sito installa nel nostro computer fino a 223 cookie e beacon che permettono ad altri siti di inviarci pubblicità di antidepressivi. Se facciamo una ricerca sulla possibilità che nostra moglie ci tradisca, saremo tempestati di annunci sui test del dna per accertare la paternità dei figli. Oggi la rete non solo sa che sei un cane, ma anche di che razza sei, e vuole venderti una ciotola di cibo.
La gara per sapere il più possibile su di noi è ormai al centro della battaglia del secolo tra colossi come Google, Facebook, Apple e Microsoft. Come mi ha spiegato Chris Palmer dell’Electronic frontier foundation, “il servizio sembra gratuito, ma lo paghiamo con le informazioni su di noi. Informazioni che Google e Facebook sono pronti a trasformare in denaro”. Anche se sono strumenti utili e gratuiti, Gmail e Facebook sono anche efficienti e voracissime macchine per estrarre informazioni, in cui noi riversiamo i dettagli più intimi della nostra vita. Il nostro iPhone sa esattamente dove andiamo, chi chiamiamo, cosa leggiamo. Con il suo microfono incorporato, il giroscopio e il gps, è in grado di capire se stiamo camminando, siamo in macchina o a una festa.
Anche se (finora) Google ha promesso di non divulgare i nostri dati personali, altri siti e applicazioni molto popolari non garantiscono nulla del genere. Dietro le pagine che visitiamo, si annida un enorme mercato di informazioni su quello che facciamo online. Lo controllano società per la raccolta dei dati poco conosciute ma molto redditizie, come BlueKai e Acxiom. La sola Acxiom ha accumulato una media di 1.500 informazioni – dalla capacità di credito ai farmaci comprati online – su ogni persona nel suo database, che comprende il 96 per cento degli americani. E qualsiasi sito web, non solo Google e Facebook, ora può partecipare al banchetto.
Secondo i piazzisti del “mercato dei comportamenti”, ogni clic è una merce e ogni movimento del nostro mouse può essere venduto, in pochi microsecondi, al miglior offerente. Come strategia di mercato, la formula dei colossi di internet è semplice: più informazioni personali sono in grado di offrire, più spazi pubblicitari possono vendere, e più probabilità ci sono che compriamo i prodotti che ci vengono mostrati. È una formula che funziona. Amazon vende miliardi di dollari di merce provando a prevedere quello che può interessare a ogni consumatore e mettendo i risultati in evidenza nel suo negozio virtuale. Più del 60 per cento dei film scaricati o dei dvd affittati su Netflix dipende dalle ipotesi che il sito fa sulle preferenze di ciascun cliente.
Secondo la direttrice operativa di Facebook, Sheryl Sandberg, nel giro di tre, al massimo cinque anni l’idea di un sito non personalizzato sembrerà assurda. Uno dei vicepresidenti di Yahoo!, Tapan Bhat, è d’accordo: “Il futuro del web è la personalizzazione. Ormai il web parla con ‘me’. La rete deve essere intelligente e fatta su misura per ogni utente”. L’ex amministratore delegato di Google, Eric Schmidt, dichiara con entusiasmo: “Il prodotto che ho sempre voluto creare” è un codice che “indovina quello che sto per scrivere”. Google instant, che anticipa quello che vogliamo cercare mentre scriviamo, è uscito nell’autunno del 2010, ed è solo l’inizio. Secondo Schmidt gli utenti vogliono che Google “dica cosa devono fare dopo”.
Se fosse solo un modo per vendere pubblicità mirata, non sarebbe tanto grave. Ma la personalizzazione non condiziona solo quello che compriamo. Per una percentuale sempre maggiore di utenti, i siti di notizie personalizzate come Facebook stanno diventando fonti di informazione fondamentali: il 36 per cento degli americani sotto i trent’anni legge le notizie sui social network. Come dice il suo fondatore, Mark Zuckerberg, Facebook è forse la più grande fonte di notizie del mondo (almeno per quanto riguarda una certa idea di “notizie”). Ma la personalizzazione non sta condizionando il flusso delle informazioni solo su Facebook: ormai servizi come Yahoo News e News.me, lanciato dal New York Times, adattano i titoli ai nostri particolari interessi e desideri.
La personalizzazione interviene anche nella scelta dei video che guardiamo su YouTube e sui blog. Influisce sulle email che riceviamo, sui potenziali partner che incontriamo su OkCupid, e sui ristoranti che ci consiglia Yelp: la personalizzazione può stabilire non solo con chi usciamo, ma anche dove andiamo e di cosa parleremo. Gli algoritmi che gestiscono le pubblicità mirate stanno cominciando a gestire la nostra vita. Come ha spiegato Eric Schmidt, “sarà molto difficile guardare o comprare qualcosa che in un certo senso non sia stato creato su misura per noi”.
Il codice della nuova rete è piuttosto semplice. I filtri di nuova generazione guardano le cose che ci piacciano – basandosi su quello che abbiamo fatto o che piace alle persone simili a noi – e poi estrapolano le informazioni. Sono in grado di fare previsioni, di creare e raffinare continuamente una teoria su chi siamo, cosa faremo e cosa vorremo. Insieme, filtrano un universo di informazioni specifico per ciascuno di noi, una “bolla dei filtri”, che altera il modo in cui entriamo in contatto con le idee e le informazioni. In un modo o nell’altro tutti abbiamo sempre scelto cose che ci interessano e ignorato quasi tutto il resto. Ma la bolla dei filtri introduce tre nuove dinamiche.
Prima di tutto, al suo interno siamo soli. Un canale via cavo dedicato a chi ha un interesse specifico (per esempio il golf), ha altri telespettatori che hanno qualcosa in comune tra loro. Nella bolla invece siamo soli. In un’epoca in cui le informazioni condivise sono alla base di esperienze condivise, la bolla dei filtri è una forza centrifuga che ci divide. In secondo luogo, la bolla è invisibile. La maggior parte delle persone che consultano fonti di notizie di destra o di sinistra sa che quelle informazioni si rivolgono a chi ha un particolare orientamento politico. Ma Google non è così trasparente. Non ci dice chi pensa che siamo o perché ci mostra i risultati che vediamo.
Non sappiamo se sta facendo ipotesi giuste o sbagliate su di noi, non sappiamo neanche se le sta facendo. La mia amica che cercava notizie sulla Bp non ha idea del perché abbia trovato informazioni sugli investimenti, non è un’agente di borsa. Dato che non abbiamo scelto i criteri con cui i siti filtrano le informazioni in entrata e in uscita, è facile immaginare che quelle che ci arrivano attraverso la bolla siano obiettive e neutrali. Ma non è così. In realtà, dall’interno della bolla è quasi impossibile accorgersi di quanto quelle informazioni siano mirate. Non decidiamo noi quello che ci arriva. E, soprattutto, non vediamo quello che esce.
Infine, non scegliamo noi di entrare nella bolla. Quando guardiamo Fox News o leggiamo The New Statesman, abbiamo già deciso che filtro usare per interpretare il mondo. È un processo attivo, e come se inforcassimo volontariamente un paio di lenti colorate, sappiamo benissimo che le opinioni dei giornalisti condizionano la nostra percezione del mondo. Ma nel caso dei filtri personalizzati non facciamo lo stesso tipo di scelta. Sono loro a venire da noi, e dato che si arricchiscono, sarà sempre più difficile sfuggirgli.
La fine dello spazio pubblico
La personalizzazione si basa su un accordo economico. In cambio del servizio che offrono i filtri, regaliamo alle grandi aziende un’enorme quantità di dati sulla nostra vita privata. E queste aziende diventano ogni giorno più brave a usarli per prendere decisioni. Ma non abbiamo nessuna garanzia che li trattino con cura, e quando sulla base di questi dati vengono prese decisioni che influiscono negativamente su di noi, di solito nessuno ce lo dice. La bolla dei filtri può influire sulla nostra capacità di scegliere come vogliamo vivere. Secondo Yochai Benkler, professore di legge ad Harvard e studioso della nuova economia della rete, per essere artefici della nostra vita dobbiamo essere consapevoli di una serie di modi di vivere alternativi.
Quando entriamo in una bolla dei filtri, permettiamo alle aziende che la costruiscono di scegliere quali alternative possiamo prendere in considerazione. Ci illudiamo di essere padroni del nostro destino, ma la personalizzazione può produrre una sorta di determinismo dell’informazione, in cui quello che abbiamo cliccato in passato determina quello che vedremo in futuro, una storia destinata a ripetersi all’infinito. Rischiamo di restare bloccati in una versione statica e sempre più ridotta di noi stessi, una specie di circolo vizioso. Ci sono anche conseguenze più ampie. Nel suo Capitale sociale e individualismo., il libro sul declino del senso civico in America, Robert Putnam affronta il problema dell’assottigliamento del “capitale sociale”, cioè di quei legami di fiducia e lealtà reciproca che spingono le persone a scambiarsi favori e a collaborare per risolvere problemi comuni.
Putnam individua due tipi di capitale sociale: “Lo spirito di gruppo”, che per esempio si crea tra gli ex studenti della stessa università, e il “senso della comunità”, che per esempio si crea quando persone diverse si incontrano in un’assemblea pubblica. Questo secondo tipo di capitale è molto potente: se lo accumuliamo, abbiamo più probabilità di trovare un posto di lavoro o qualcuno disposto a investire nella nostra impresa, perché ci consente di attingere a tante reti diverse.
Tutti si aspettavano che internet sarebbe stata una grande fonte di capitale del secondo tipo. Al culmine della bolla tecnologica di dieci anni fa, Thomas L. Friedman scriveva che internet ci avrebbe resi “tutti vicini di casa”. Questa idea era alla base del suo libro Le radici del futuro: “Internet diventerà una grande morsa che prenderà il sistema della globalizzazione e continuerà a stringerlo intorno a tutti fino a rendere il mondo ogni giorno più piccolo e veloce”.
Friedman aveva in mente una sorta di villaggio globale in cui i bambini africani e i dirigenti d’azienda di New York avrebbero formato un’unica comunità. Ma non è quello che sta succedendo. I nostri vicini virtuali somigliano sempre più a quelli reali, e i nostri vicini reali somigliano sempre più a noi. Abbiamo sempre più “spirito di gruppo” ma pochissimo “senso della comunità”. E questo è importante perché dal senso della comunità nasce la nostra idea di uno “spazio pubblico” in cui cerchiamo di risolvere i problemi che vanno oltre i nostri interessi personali. Di solito tendiamo a reagire a una gamma di stimoli molto limitata: leggiamo per prima una notizia che riguarda il sesso, il potere, la violenza, una persona famosa, oppure che ci fa ridere. Questo è il tipo di contenuti che entra più facilmente nella bolla dei filtri. È facile cliccare su “mi piace” e aumentare la visibilità del post di un amico che ha partecipato a una maratona o di una ricetta della zuppa di cipolle.
È molto più difficile cliccare “mi piace” su un articolo intitolato “In Darfur è stato il mese più sanguinoso degli ultimi due anni”. In un mondo personalizzato, ci sono poche probabilità che questioni importanti, ma complesse o sgradevoli, arrivino alla nostra attenzione. Tutto questo non è particolarmente preoccupante se le informazioni che entrano ed escono nel nostro universo personale riguardano solo prodotti di consumo. Ma quando la personalizzazione riguarda anche i nostri pensieri, oltre che i nostri acquisti, nascono altri problemi. La democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni, internet limita questo confronto. Anche se a volte ci fa comodo vedere quello che vogliamo, in altri momenti è importante che non sia così.
Come i vecchi guardiani delle porte della città, i tecnici che scrivono i nuovi codici hanno l’enorme potere di determinare quello che sappiamo del mondo. Ma diversamente da quei guardiani, quelli di oggi non si sentono i difensori del bene pubblico. Non esiste l’algoritmo dell’etica giornalistica. Una volta Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, ha detto ai suoi colleghi che per un utente “uno scoiattolo che muore nel suo giardino può essere più rilevante di tutte le persone che muoiono in Africa”. Su Facebook la “rilevanza” è praticamente l’unico criterio che determina quello che vedono gli utenti. Concentrarsi sulle notizie più rilevanti sul piano personale, come lo scoiattolo che muore, è una grande strategia di mercato. Ma ci lascia vedere solo il nostro giardino e non le persone che altrove soffrono, muoiono o lottano per la libertà.
Non è possibile tornare al vecchio sistema dei guardiani, e non sarebbe neanche giusto. Ma se adesso sono gli algoritmi a prendere le decisioni e a stabilire quello che vediamo, dobbiamo essere sicuri che le variabili di cui tengono conto vadano oltre la stretta “rilevanza” personale. Devono farci vedere l’Afghanistan e la Libia, non solo Apple e il nostro cantante preferito. Come consumatori, non è difficile stabilire quello che per noi è irrilevante o poco interessante. Ma quello che va bene per un consumatore non va bene necessariamente anche per un cittadino. Non è detto che quello che apparentemente mi piace sia quello che voglio veramente, e tantomeno che sia quello che devo sapere per essere un cittadino informato di una comunità o di un paese. “È nostro dovere di cittadini essere informati anche su cose che sembrano essere al di fuori dei nostri interessi”, mi ha detto l’esperto di tecnologia Clive Thompson. Il critico Lee Siegel la mette in un altro modo: “I clienti hanno sempre ragione, le persone no”.
Lobotomia globale
L’era della personalizzazione sta ribaltando tutte le nostre previsioni su internet. I creatori della rete avevano immaginato qualcosa di più grande e di più importante di un sistema globale per condividere le foto del nostro gatto. Il manifesto dell’Electronic frontier foundation all’inizio degli anni novanta parlava di una “civiltà della mente nel ciberspazio”, una sorta di metacervello globale. Ma i filtri personalizzati troncano le sinapsi di quel cervello. Senza saperlo, ci stiamo facendo una lobotomia globale.
I primi entusiasti di internet, come il creatore del web Tim Berners-Lee, speravano che la rete sarebbe stata una nuova piattaforma da cui affrontare insieme i problemi del mondo. Io penso che possa ancora esserlo, ma prima dobbiamo guardare dietro le quinte, capire quali forze stanno spingendo nella direzione attuale. Dobbiamo smascherare il codice e i suoi creatori, quelli che ci hanno dato la personalizzazione.
Se “il codice è legge”, come ha dichiarato il fondatore di Creative commons Larry Lessig, è importante capire quello che stanno cercando di fare i nuovi legislatori. Dobbiamo sapere in cosa credono i programmatori di Google e Facebook. Dobbiamo capire quali forze economiche e sociali sono dietro alla personalizzazione, che in parte sono inevitabili e in parte no. E dobbiamo capire cosa significa tutto questo per la politica, la cultura e il nostro futuro. Le aziende che usano gli algoritmi devono assumersi questa responsabilità. Devono lasciarci il controllo di quello che vediamo, dicendoci chiaramente quando stanno personalizzando e permettendoci di modificare i nostri filtri. Ma anche noi cittadini dobbiamo fare la nostra parte, imparare a “conoscere i filtri” per usarli bene e chiedere contenuti che allarghino i nostri orizzonti anche quando sono sgradevoli. È nel nostro interesse collettivo assicurarci che internet esprima tutto il suo potenziale di mezzo di connessione rivoluzionario. Ma non potrà farlo se resteremo chiusi nel nostro mondo online personalizzato.
Traduzione di Bruna Tortorella
Internazionale numero 904, 1 luglio 2011
Eli Pariser è nato nel 1980 a Lincolnville, nel Maine. È stato il direttore di MoveOn.org, che raggruppa i movimenti e la base della sinistra statunitense, e tra i fondatori di Avaaz, un’organizzazione che sostiene campagne per l’ambiente e la democrazia in tutto il mondo. Nel febbraio del 2011 ha tenuto una Ted conference sulle bolle dei filtri, l’argomento del suo libro The filter bubble.
http://www.internazionale.it/news/internet/2011/07/06/quello-che-internet-ci-nasconde-2/
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Il solare a getto d’inchiostro 04.07.2011
Ricercatori statunitensi sviluppano una tecnologia in grado di realizzare “pannelli” fotovoltaici estremamente sottili. Con l’equivalente delle moderne stampanti a getto d’inchiostro
Roma – L’obiettivo è quello di riuscire a stampare circuiti in grado di funzionare da accumulatori energetici con la stessa facilità con cui le moderne stampanti a getto d’inchiostro producono stampe di qualità fotografica. Lo perseguono i ricercatori della Oregon State University, che indicano la calcopirite come il materiale potenzialmente candidato a sostituire il silicio nei pannelli solari stampati prossimi venturi.
La calcopirite – anche nota come CIGS – è un materiale composto da rame, indio, gallio e selenio, ed è dotato di ottime qualità in quanto a efficienza energetica: un singolo strato di calcopirite spesso uno o due micron, dicono i ricercatori, ha la stessa capacità di accumulazione energetica di uno strato di silicio da 50 micron.
Usando CIGS al posto del silicio si potrebbe arrivare a un risparmio enorme sia in termini di sprechi e rifiuti – i ricercatori USA stimano una riduzione del 90% – che per quanto riguarda l’economicità di produzione dei pannelli.
Finora gli scienziati sono riusciti a realizzare un composto di calcopirite simil-inchiostro da stampare su un substrato usando tecnologia a getto d’inchiostro, e i risultanti pannelli sono stati in grado di raggiungere un’efficienza di conversione energetica pari al 5%. L’obiettivo primario è ora raggiungere un’efficienza di almeno il 12%.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3205911/PI/News/solare-getto-inchiostro.aspx
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I cartelloni pubblicitari e il Direct Marketing: prove tecniche di convergenza? 15.06.2011
Perché le vecchie regole non bastano più: è arrivato il momento della Privacy 2.0.
Immaginatevi questa scena: vi aggirate per le vie della città in una calda giornata estiva. Avete sete. Passando davanti ad uno schermo posto all’angolo della via, venite riconosciuti dal sofisticato sistema di identificazione facciale in grado di analizzare gusti, interessi e bisogni di chi passa.
Quando siete arrivati alla giusta distanza lo schermo si anima e vi accoglie dandovi il benvenuto, magari con il vostro nome e cognome, e visualizza questo messaggio tutto per voi: “Prenditi una sosta e vai a bere la tua birra preferita (non una qualsiasi ma proprio la tua, quella che hai comprato tante volte, come vedo grazie al codice a barre della carta fedeltà che tieni in tasca). Anzi se vai subito nel bar all’angolo, la troverai al bancone che ti aspetta, ghiacciata e appena stappata, senza nemmeno dover far la fila alla cassa e sforzarti di ordinarla. E ci sarà pure uno sconto tutto per te. Cosa aspetti?”.
Si lo so, è fantascienza e queste cose ancora non succedono. Però……
Quella che ho descritto è grosso modo uno spezzone tratto dal film “Minority Report”, un film di qualche anno fa che descrive la futuribile realtà quotidiana di Washington D.C. nel 2054.
Ricordo che quando vidi quel film mi chiesi, da giurista appassionato di marketing, che regole avremmo dovuto creare in futuro per difendere i consumatori dall’invadenza delle tecnologie e giunsi alla conclusione che le norme non avrebbero semplicemente dovuto seguire l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, ma avrebbero dovuto precederla ed intuirne i possibili sviluppi. Solo così si sarebbe potuta tutelare la libertà di scelta delle persone. Siamo ancora lontani da quella data ma sembra che si avvicini sempre di più la necessità di tracciare una linea di confine per garantire l’equilibrio tra la libertà individuale e le pressioni del marketing diretto. Fino ad ora la comunicazione indirizzata ci ha raggiunti nelle nostre case, inviandoci messaggi postali e di posta elettronica, ovvero inseguendoci mentre stiamo consultando un sito in internet o contattandoci al telefono. Ora la prospettiva realistica è che il direct scenda nelle strade e ci segua mentre ci muoviamo liberamente nella città.
Senza dover aspettare che il futuro di Minority Report diventi realtà vi invito a pensare per un attimo a quante sono le invasioni di campo che subiamo ogni giorno, in una giornata tipo.
A chi non è capitato di passare qualche ora in una stazione ferroviaria o in un aeroporto? mentre aspettiamo il mezzo che ci deve condurre verso la nostra destinazione siamo costretti a sorbirci spot pubblicitari ripetuti ossessivamente da schermi onnipresenti. Non sono ancora messaggi personalizzati ma i tempi sono destinati presto a cambiare e penso che nel prossimo futuro il direct uscirà dalle case delle persone ed invaderà gli spazi pubblici nei quali gli strumenti tecnologici ci permettono di essere perennemente connessi.
E questa non è fantascienza ma è la realtà, con la quale dobbiamo fare i conti.
Per averne una conferma basta chiedere alla NEC, colosso informatico giapponese, che ha messo a punto i primi cartelloni pubblicitari interattivi che sono in grado di riconoscere i desideri dei passanti. In pratica si tratta di forme di comunicazione indirizzata, fatte per strada. Grazie a un potente software il cartellone pubblicitario digitale riesce a distinguere le caratteristiche principali dei passanti e di volta in volta pubblicizza prodotti mirati che potrebbe realmente interessare al potenziale cliente. Per ora i cartelloni di nuova generazione sono in grado di riconoscere istantaneamente l’età media, il genere e l’etnia del passante e dopo pochi attimi di reclamizzare un prodotto che il software ritiene possa interessare al consumatore. Ma la tecnologia avanza vorticosamente e il futuro sarà sempre di più caratterizzato da comunicazioni direct che ci seguiranno per strada. È in atto una convergenza forte tra pubblicità di massa e forme di marketing diretto integrato.
Credo quindi che sia urgente che chi si occupare di diritto del marketing prenda atto che la tutela della libertà di scelta dei consumatori non riguarda più solo la casella postale o il numero di telefono. Dopo aver dedicato leggi e sanzioni per proteggere la privacy di casa, sarebbe bene che ci occupassimo anche di quello che succede fuori dalle mura domestiche. In questo modo si raggiungeranno due risultati in un colpo solo: si preverranno gli abusi che, come sempre, sono resi possibile dall’evoluzione tecnologica e si potrà affrontare la questione dei messaggi non sollecitati con più equilibrio e con più efficacia di quanto non si sia fatto fino ad ora. Perché, come dimostrano i nuovi cartelloni interattivi, la tutela del consumatore rispetto al marketing invadente non è più solo una questione di privacy, non riguarda cioè la protezione della propria casella postale o del proprio telefono. È forse arrivato il momento, anche per questa materia, per passare ad un nuovo approccio al problema: è giunto il tempo della Privacy 2.0.
Di Marco Maglio
Presidente di Gìurì per l’autodisciplina nella comunicazione commerciale diretta e nelle vendite a distanza
Vicepresidente di AIDiM – Ass. Italiana per il Direct Marketing
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Nel Pacifico le terre rare per l’elettronica 05.08.2011
Montagne sottomarine di elementi rarissimi sulla terraferma: una scoperta che rende le terre rare meno rare, e che toglie qualche preoccupazione ai produttori e ai consumatori
Roma – Un recente studio giapponese ha scoperto tonnellate di terre rare sotto l’Oceano Pacifico.
Le terre rare (in inglese rare earth elements, REE), raccolgono elementi chimici come lo scandio, l’ittrio e i lantanoidi, molto utili nella produzione di semiconduttori e altre componenti dei moderni apparecchi tecnologici.
Una grande quantità di questi elementi chimici è stata individuata nel terriccio che costituisce il fondo marino del Pacifico. Appena un chilometro quadro del materiale individuato potrebbe bastare, dicono i ricercatori, al fabbisogno annuale mondiale degli elementi chimici contenuti nelle terre rare e minacciare il monopolio che detiene nel settore la Cina essendo responsabile del 97 per cento delle esportazioni.
Tuttavia potrebbe non valer la pena provvedere all’estrazione: date le profondità (si parla di oltre 5mila metri sotto il livello del mare) e le procedure di raffinazione della melma rossa che contiene i materiali potenzialmente utili all’industria tecnologia, l’operazione rischia di costare più di quanto il mercato sarebbe disposto a pagare per i componenti chimici ricercati, anche se il loro prezzo è pericolosamente in aumento.
L’aumento dei costi di questi componenti essenziali (ma scarsi in natura) per alcune parti di device tecnologici, d’altronde, sta diventando una preoccupazione per i produttori, per cui la scoperta della risorsa sottomarina, coadiuvata dalla giusta tecnica di estrazione e raffinazione, potrebbe fermare il rialzo dei prezzi che rischiava di ricadere sul consumatore finale.
Claudio Tamburino
http://punto-informatico.it/3207765/PI/News/nel-pacifico-terre-rare-elettronica.aspx
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Anche gli animali si drogano 05.07.2011
Secondo uno studio, elefanti, gorilla e renne andrebbero in cerca di piante e funghi allucinogeni per “godersi” gli effetti.
Secondo il neuroscienziato David Linden, gli esseri umani non sono i soli a indulgere nei piaceri procurati dalle sostanze stupefacenti.
Anche gli animali, nel loro piccolo, ne fanno uso: elefanti, uccelli, scimmie e renne sono stati tutti osservati mentre si nutrivano di frutti e bacche caduti sul terreno e fermentati, quindi contenenti alcool.
Nel suo libro The compass of pleasure Linden spiega che, nel Gabon, gorilla, cinghiali ed elefanti sono stati visti consumare l’arbusto allucinogeno iboga: nel caso degli elefanti, i più giovani imparano ad apprezzare la pianta dai componenti più anziani del branco.
Il neuroscienziato afferma che si può escludere che il consumo di sostanze allucinogene – sotto forma di piante, frutti e funghi – sia solo un effetto secondario della ricerca di cibo nutriente.
Sono stati osservati casi di animali che consumavano piccole razioni di questo tipo di vegetali e funghi: non in quantità sufficienti da soddisfare il bisogno di nutrirsi, ma certamente abbastanza perché gli effetti psicoattivi fossero ben visibili.
Un caso ancora più evidente è quello delle renne allevate dal popolo siberiano dei Ciukci: questi hanno un rituale che comporta il consumo, da parte degli sciamani, del fungo allucinogeno Amanita muscaria (il cui ingrediente attivo è l’acido ibotenico).
Le renne hanno scoperto queste proprietà del fungo e hanno iniziato a cercarlo e consumarlo, vagando poi per alcune ore in stato evidentemente confusionale.
Inoltre – spiega sempre Linden – le renne sono attratte da lontano dall’urina degli sciamani, che contiene circa l’80% dell’acido ibotenico assunto tramite i funghi, per poter accedere alla quale mettono in atto anche dei veri combattimenti.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=15229
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Genetica: correggere un errore si può
06 luglio 2011 di Linnea Passaler
Nell’ultimo decennio,grazie alla mappatura dei circa 20-25 000 geni con il progetto Genoma Umano, la scienza medica ha acquisito conoscenze formidabili sulle l’implicazione dei geni nello sviluppo delle malattie umane.
Fino a pochi mesi fa, era impensabile tuttavia immaginare un intervento diretto dei medici sul corredo genetico umano.
L’equipe del prof. Robert Bambara dell’università di Rochester ha ideato una sorta di “gomma da cancellare”, capace appunto di cancellare un errore genetico prima che possa causare gravi malattie.
Questa particolare tecnica non agisce sul Dna, ma direttamente sull’RNA messaggero, che ha il compito di copiare le proteine per i ribosomi, che ne producono di nuove.
I ribosomi normalmente leggono le istruzioni contenute sull’RNA messaggero fino ad un segnale di stop, ma quando il segnale di stop si trova nel punto sbagliato, la produzione della proteina non è completa o è addirittura difettosa.
Il prof.Robert Bambara ha quindi ideato questa terapia che si basa sulla produzione di una sostanza, a sua volta un frammento di Rna, chiamato Rna guida, che cancella il segnale di stop, così il ribosoma continua a scrivere la proteina sintetizzandola in modo corretto.
Secondo Robert Bambara ”la capacita’ di manipolare la produzione di una proteina può essere sfruttata per contrastare la tendenza a sviluppare alcune malattie genetiche debilitanti e, a volte, fatali”.
Questa terapia ad oggi è in fase di sperimentazione su dei lieviti: riuscendo a ripristinare la corretta sintesi proteica ed ha già suscitato il plauso della comunità scientifica in seguito alla pubblicazione di un articolo sulla rivista Nature.
In gioco ci sono milioni di pazienti in tutto il mondo. Gli errori capaci di essere “cancellati” si ritiengono essere responsabili di malattie genetiche quali la distrofia muscolare, la fibrosi cistica e anche alcune forme tumorali.
Anna Maria Campise
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L’economia cinese è in difficoltà? 06.07.2011
Bric/Cina. Può durare indefinitamente una crescita economica che viaggia al ritmo del dieci per cento all’anno? Ecco alcuni spunti per riflettere in un modo argomentato sulla questione
“…il modello dell’economia cinese è instabile, sbilanciato, non coordinato e insostenibile…”
Wen Jiabao, 2007
Premessa
Da quando nel 1979 Deng Tsiao Ping varò la nuova politica economica del paese, che avrebbe portato a una crescita forte dell’economia cinese sino ai giorni nostri, non sono mancati quelli che hanno periodicamente previsto l’arresto del boom e questo per tutta una serie anche plausibile di ragioni. Ma il tempo è paziente e si è incaricato sempre di smentire, almeno sino a oggi, tutti i dubbiosi. Così il pil del paese si è sviluppato, tra il 1979 e il 2010, a un tasso annuo prossimo al 10%.
Oggi le previsioni di un rallentamento dello sviluppo vengono riproposte da varie fonti ed esse presentano un livello di attendibilità che sembra superare quello solito.
I critici
Sulla stampa internazionale sono apparsi di recente numerosi articoli che mostrano preoccupazione per l’andamento futuro dell’economia. Ricordiamo un rapporto speciale dell’Economist (“Rising Power, anxious state)”, nel numero del 25 giugno 2011; uno scritto di M. Wolf sul numero del 15 giugno del Financial Times, “How China could yet fail like Japan”; sempre sul Financial Times, questa volta del 18-19 giugno, un pezzo di J. Anderlini, “China’s army of migrant workers grows restless” e su quello del 31 maggio, dello stesso autore, “Fate of China property is global concern”; ancora, un editoriale apparso su Le Monde del 16 giugno dal titolo “Le modèle chinois pris dans ses contradictions;” sullo stesso numero del giornale un articolo di B. Pedroletti, “Le modèle chinois de controle social est en crise;” ricordiamo poi un ultimo testo reperibile sul numero del 15 giugno a firma di H. Thibault, “L’inflation chinoise reste élevée, tandis che l’économie commence à ralentir;” segnaliamo, tra i diversi scritti dedicati dal New York Times al tema, uno di D. Barboza sul numero del 20 giugno, “China’s boom is beginnning to show cracks, analysts say.” Al coro dei critici si è aggiunto anche N. Roubini, come è segnalato in un articolo di Le monde del 15 giugno a firma di M. de Vergès, “Nouriel Roubini prédit un atterrissage difficile.”
Ridotto è invece il numero dei testi più ottimistici sulla questione. Segnaliamo, tra questi, un articolo di Yukon Huang sul Financial Times del 25 giugno, “The mith of China’s unbalanced growth”, nonché uno scritto dello stesso Wen Jaobao, apparso sul Financial Times del 24 giugno. Inoltre, nel supplemento dell’Economist, sono riportate delle analisi di A. Kroebel della FK Dragonomics e di L. Kuijs, della Banca Mondiale, importanti esperti dell’economia cinese, che vanno anch’essi nella stessa direzione.
I problemi rilevati
I critici sottolineano almeno sette questioni, alcune di tipo strutturale, altre, invece, di carattere, almeno apparentemente, più congiunturale.
Li elenchiamo di seguito.
a) i problemi economici
1) M. Wolf, appoggiandosi anche alle analisi di M. Pettis, dell’università di Pechino, ricorda che il 12° piano quinquennale prevede un forte mutamento nella velocità e nella struttura dello sviluppo economico del paese. Esso indica che il tasso di crescita del pil scenderà al 7% annuo e che l’economia passerà da uno sviluppo centrato sugli investimenti a uno focalizzato sui consumi. Wolf e Pettis sottolineano le rilevanti difficoltà di una tale trasformazione. In un modello di sviluppo quale quello attuale, sostengono gli autori, il contenimento dei consumi gioca un ruolo centrale nel sussidiare gli stessi investimenti. Rimuovere tale freno rischia di portare a una forte caduta nei livelli di produzione e degli investimenti, come è accaduto del resto in Giappone negli anni ’90. Appare difficile per un paese che investe ogni anno il 50% del suo pil ridurre fortemente tale percentuale in maniera ordinata. Per altro verso, alcuni autori, tra i quali Pettis e Roubini, sottolineano la crescente caduta nei livelli di produttività degli stessi investimenti, il cui finanziamento sta, d’altro canto, aumentando in maniera rilevante il livello di indebitamento pubblico. Nessun paese, afferma Roubini, può concentrare il 50% del suo pil in nuovi investimenti senza doversi alla fine confrontare con una sopracapacità produttiva immensa e una altrettanto rilevante difficoltà a restituire i debiti contratti allo scopo;
2) nel supplemento dell’Economist già citato, in un secondo testo precedente (Economist, 2011), nello scritto di Wolf e in uno di Magnus (Magnus, 2011) viene ricordato il problema della “trappola dei paesi a medio reddito”. Si fa riferimento al fatto che, spesso, a un certo punto dei processi di sviluppo di un paese, la crescita rallenta o svanisce del tutto. Così, guadagnare per un certo periodo terreno sulle nazioni già sviluppate è molto più facile che raggiungerle. Secondo le analisi sviluppate da alcuni studiosi (Eichengreen, Park, Kwano Shin, 2011) la soglia critica può essere fissata al livello di 16.740 dollari di reddito pro-capite misurato con il criterio della parità dei poteri di acquisto. Soltanto il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore sono riusciti a fare il salto negli ultimi 60 anni. Il fatto è che man mano che l’economia cresce essa diventa più complessa e richiede, per continuare a svilupparsi, grandi mutamenti strutturali, tra i quali una molto maggiore capacità di innovazione (prima, aumentare la produzione era più semplice e bastava copiare quello che avevano già fatto i paesi ricchi) e la messa in opera di istituzioni di grande qualità, in particolare nell’area legale. Il problema, su questo ultimo fronte, è che la riforma si scontrerebbe in Cina con il primato del partito sullo stato e sul potere giudiziario. Per altro verso, dal punto di vista più strettamente tecnico, un rischio rilevante è quello che un paese emergente possa, a un certo punto, perdere competitività nelle industrie labour-intensive e non riuscire però a trovare nuove fonti di crescita;
3) Anderlini fa riferimento, nel suo scritto del 31 maggio, al tema delle attività immobiliari. L’autore ricorda come il settore sia alla fine cruciale anche per il buon andamento dell’economia globale. La Cina consuma sino al 50% della produzione mondiale di alcune commodity chiave come cemento, materiali ferrosi, acciaio e carbone, mentre il settore delle costruzioni è alla radice di questa domanda. I governi locali, per andare avanti, dipendono poi finanziariamente dalla vendita di terreni agli immobiliaristi. L’attuale livello di crescita record del settore, parallelamente a un costante e rilevante aumento dei prezzi, non è però sostenibile nel lungo termine;
4) come sottolinea H. Tibault su Le monde, il livello dell’inflazione suscita molte preoccupazioni; esso ha raggiunto il tasso del 5,5% a maggio del 2011, contro un obiettivo dichiarato del governo per l’intero anno del 4%. E questo malgrado gli sforzi importanti per frenare il fenomeno, attraverso in particolare quattro aumenti successivi dei tassi di interesse e nove incrementi del livello di riserva obbligatoria per le banche. Tale aumento è, da una parte, una conseguenza dell’atteggiamento monetario lassista tenuto negli scorsi anni per superare la crisi economica mondiale, dall’altra esso è anche da collegare all’aumento internazionale dei prezzi delle materie prime e dell’energia. Ora, la crescita dei prezzi in un paese ancora emergente come la Cina porta instabilità e scontento sociale. D’altro canto, la stretta creditizia in atto rischia di frenare la crescita dell’economia, come sembrano indicare le cifre recenti che mostrano in particolare un rallentamento della produzione industriale;
5) sul fronte finanziario, secondo alcuni (Rabinovitch, Anderlini, 2011), l’indebitamento del settore pubblico potrebbe aver raggiunto livelli critici. Secondo le cifre ufficiali esso sarebbe pari almeno al 20% del pil. Ma se aggiungiamo i debiti contratti dalle amministrazioni locali arriviamo al 47%; se sommiamo ancora quelli inesigibili delle grandi banche pubbliche e altre voci, raggiungiamo il 70%; ma, secondo alcuni studiosi, in realtà, se considerassimo anche tutte le garanzie pubbliche fornite alle imprese e diverse altre questioni, ci avvicineremmo al 150%, cifra molto diversa da quella ufficiale.
Per quanto riguarda il settore bancario, esso negli scorsi anni ha sostenuto la crescita dell’economia in un momento difficile aumentando fortemente il livello dei finanziamenti al sistema delle imprese; ma questo potrebbe comportare una forte crescita dei prestiti dubbi. Il governo riesce poi sempre meno a governare il credito, sia per lo sviluppo di un settore finanziario clandestino, sia anche per l’espansione di un sistema bancario ombra (Sender, 2011);
b) i problemi sociali e politici
6) il modello cinese di controllo sociale appare oggi in crisi, come ricorda su Le monde B. Pedroletti. Mentre le minoranze etniche si mostrano sempre più inquiete, nelle città la corruzione esaspera la popolazione, mentre la borghesia emergente sembra accettare sempre di meno di non avere alcuna voce negli affari che la riguardano. Soprattutto viene ricordato il problema dei migranti, circa 150 milioni di persone che sono per il giornale “i grandi perdenti del miracolo economico cinese”. Essi, che hanno contribuito in misura fondamentale allo sviluppo degli ultimi trent’anni ricavandone pochi vantaggi e godendo di pochi diritti, ora si vanno svegliando, come mostrano i disordini che si sono svolti di recente nella provincia del Guangdong, cuore dell’apparato produttivo del paese. Se essi non saranno assorbiti nella società urbana e non saranno loro riconosciuti i diritti dovuti, le agitazioni continueranno a crescere. Tutto questo mentre i salari stanno aumentando fortemente sotto la spinta delle lotte dei lavoratori; tale aumento minaccia la competitività dell’industria;
7) bisogna infine mettere in rilievo che ai problemi ricordati si aggiungono anche delle tensioni di tipo politico, originate da una parte da una certa dialettica in seno al partito tra i sostenitori di una linea “conservatrice” e quelli di una linea “riformatrice”, in presenza anche di un rinnovamento della dirigenza del paese l’anno prossimo, dall’altra dai timori di un possibile contagio della primavera araba.
Conclusioni
Cosa si può pensare delle analisi sin qui ricordate?
Intanto va sottolineato che alcuni dei testi citati prevedono una caduta drastica e rapida del tasso di crescita del pil del paese. Altri pensano invece che la diminuzione sarà relativamente moderata e/o avverrà in tempi più lunghi.
Per quanto riguarda alcune delle questioni specifiche sollevate, si può dire che in relazione ai tassi di inflazione, lo stesso Wen Jiaobao, nell’articolo da lui scritto, annuncia che il fenomeno è ormai sotto controllo e alcuni dati usciti subito dopo il suo intervento sembrano dargli in qualche modo ragione.
Sul livello degli investimenti, Kroeber e Kuijs pensano che il loro forte sviluppo non porterà affatto a una situazione di sopracapacità; anche se il rapporto tra investimenti e pil appare molto elevato, in realtà il totale degli stessi investimenti accumulati sino a ora appare ancora basso rispetto alle necessità del paese. Yukon Huang sottolinea come una fetta cospicua di tali investimenti si concentri poi nel settore immobiliare, area nella quale il paese deve ancora recuperare le carenze dell’epoca di Mao. Pure il basso livello dei consumi sul pil non appare inusuale per un paese in via di industrializzazione, sottolineano altri, come è successo anche agli Stati Uniti durante il periodo della sua industrializzazione nel ventesimo secolo. In relazione al presunto alto livello di indebitamento del settore pubblico, alcune fonti, quale la Chartered Bank, ricordano che in realtà, se misurato con i criteri internazionali, esso si può stimare al livello dell’80% del pil, percentuale simile o inferiore a quello di diversi paesi occidentali e molto più ridotta rispetto a quella di Stati Uniti, Giappone, Italia. Per quanto riguarda ancora il fenomeno della trappola dei paesi a medio reddito, ci sono segni per Kroeber che fanno pensare che la Cina riuscirà a evitarla. Sul tema dei lavoratori migranti, per la verità lo stesso Anderlini, nel suo articolo del 18-19 giugno, mostra come siano stati compiuti dei progressi rilevanti.
Alla fine, l’ipotesi di una rilevante crisi dell’economia cinese, che non è comunque da escludere, esce però, a parere di chi scrive, meno probabile di quanto possa sembrare a prima vista. Il gruppo dirigente cinese, che è sempre stato capace di superare gli ostacoli che gli si sono parati davanti, potrebbe riuscire, sia pure con qualche fatica, ad andare oltre anche alle difficoltà presenti e la crescita potrebbe continuare a essere elevata ancora per un periodo di tempo rilevante, date anche le grandi potenzialità presenti ancora nel paese.
Questo non significa che chi scrive non auspichi riforme profonde del modello di sviluppo cinese, che portino, tra l’altro, a una forte riduzione nei livelli di diseguaglianza tra i suoi cittadini, a una rilevante crescita dei servizi di welfare e a una maggiore democrazia politica ed economica.
Testi citati nell’articolo
Eichengreen B., D. Park, Kwano Shin, When fast growth slow down: international evidence and implications for China, NBER working paper, marzo 2011
Magnus G., China can yet avoid a midle-income trap, www.ft.com, 29 giugno 2
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/L-economia-cinese-e-in-difficolta-8839
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Sud Sudan: l’Italia riconosca il nuovo stato, più impegno per sostenere la pace 07.07.2011
“Riconoscere immediatamente il nuovo Stato del Sud Sudan e avviare relazioni diplomatiche per contribuire allo sviluppo del nuovo paese e di relazioni di buon vicinato tra il Sud Sudan e il vicino Sudan”. Sono queste le principali richieste che Campagna Italiana per il Sudan ha fatto al Governo italiano e alle forze parlamentari in occasione della presentazione del dossier “Un nuovo Sudan: il Sud” (in .pdf) presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati. I membri della Campagna riconoscono la volontà popolare con cui i cittadini del Sud Sudan si sono espressi a favore dell’indipendenza del proprio paese dal Sudan, ma esprimono anche la preoccupazione per la futura stabilità dei territori coinvolti.
La Campagna ha chiesto con urgenza il cessate il fuoco e l’invio di aiuti umanitari alle popolazioni colpite dai conflitti in corso. Inoltre ha chiesto al Governo di condizionare gli aiuti ai due governi al rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini, indipendentemente dalle differenze di genere, etnia, religione e cultura e che l’Italia si faccia promotore di queste istanze anche presso l’Unione Europea e le Nazioni Unite. Nei giorni scorsi la campagna segnalava che la situazione in Sud Kordofan si sta aggravando: dopo gli scontri tra esercito del nord (SAF) e forze militari del sud (SPLA) a Kadugli, capitale dello stato, e in diverse altre località, si susseguono le notizie di violenze, rapimenti, saccheggi e altre altre atrocità nei confronti dei civili. Le Nazioni Unite parlano di 30-40mila civili in fuga da Kadugli a causa degli scontri tra eserciti e di 50mila sfollati da tutta la zona.
“A nostro avviso – ha commentato Giovanni Sartor, referente Campagna Sudan e responsabile Africa di Mani Tese – la pace e la stabilità potranno essere realizzate soltanto attraverso un pieno e reale coinvolgimento della società civile sudanese. È doveroso che lo Stato italiano e la comunità internazionale intervengano per contribuire al processo di pace ed evitare che il Sud Sudan si aggiunga alla lista degli stati falliti dell’area del Corno d’Africa”. Tutti i parlamentari presenti alla conferenza stampa (Savino Pezzotta, Renato Farina, Giuseppe Giulietti e Franco Narducci) hanno manifestato la volontà di appoggiare le richieste della campagna.
Al termine della conferenza, Campagna Italiana per il Sudan, Tavola della Pace, Articolo 21, Libera Informazione e l’agenzia Misna hanno denunciato la scomparsa dei grandi temi sociali e internazionali dai media e dichiarato l’impegno futuro di chiedere alla Rai l’istituzione di un Dipartimento editoriale dedicato ai diritti umani per informare quotidianamente su ciò che accade nel mondo e mettere in primo piano i grandi temi della vita delle persone e dei popoli. “Chiediamo una par condicio tra le centinaia di ore dedicate dai media ai tre pur dolorosi delitti ‘domestici’ e gli spaventosi e grandi delitti sociali che si stanno consumando nel mondo. La scomparsa dai media dei grandi problemi internazionali e degli sforzi messi in atto per risolverli comporta la loro cancellazione dalle coscienze e dall’agenda politica”.
Nei giorni scorsi anche missionari Comboniani hanno invitato a solidalizzare con il nuovo stato del Sud Sudan che nascerà il 9 luglio. E hanno chiesto al Governo italiano di rivedere i suoi rapporti “petroliferi” con Khartoum, ai cristiani e alla chiesa di essere vicini al popolo Nuba sotto attacco e ai giornalisti di seguire con continuità queste vicende.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno auspicato che l’indipendenza del Sud Sudan sia caratterizzata da passi avanti importanti sul piano dei diritti umani, tra cui una moratoria sulle esecuzioni, il rilascio di tutte le persone la cui continua prigionia sia ingiustificata e la ratifica della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. “Sono enormi le sfide che attendono il Sud Sudan, una regione sconvolta dalle conseguenze di una lunga guerra civile e da una grave disoccupazione – sottolineano le due associazioni”. “Ma il governo può e deve, secondo le due organizzazioni che hanno presentato un’Agenda per i diritti umani nel Sud Sudan, prendere sei provvedimenti nel breve periodo per assicurare la protezione, il rispetto e la promozione dei diritti delle sue cittadine e dei suoi cittadini”.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno sollecitato inoltre azioni per promuovere la libertà d’espressione, di associazione e di riunione. Le due organizzazioni hanno anche sollecitato, data la cronica debolezza del sistema giudiziario, la proclamazione di una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pena capitale e della commutazione di tutte le condanne a morte. “Per rimediare alle carenze del sistema giudiziario, il nuovo governo dovrebbe riesaminare i casi di tutte le persone che si trovano in carcere, per determinare la necessità e la legalità della loro detenzione” – sottolineano le due associazioni.
Se è previsto che il Sud Sudan sia vincolato, tramite successione, ai trattati internazionali ratificati dal governo del Sudan, la nuova nazione dovrebbe ratificare ulteriori strumenti del diritto internazionale, tra cui la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale e la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno infine chiesto ai leader del Sud Sudan di dichiarare “tolleranza zero” nei confronti dei matrimoni forzati e precoci e della violenza di genere. Al riguardo chiedono al governo di “sviluppare immediatamente una strategia nazionale su questi due temi che includa una formazione intensiva per i leader tradizionali che applicano leggi basate su consuetudini”. [GB]
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Largo alle centrali solari ibride 07.07.2011
Dopo la California, anche l’Australia avvia la costruzione di una centrale termoelettrica, la più potente nel suo genere. Costo: 1,2 miliardi di dollari
di Martina Saporiti
L’ Australia ha deciso di rottamare i vecchi, costosi e inquinanti combustibili fossili per abbracciare le energie rinnovabili. E lo ha fatto in grande stile, annunciando la costruzione di una centrale termoelettrica a tecnologia Compact Linear Fresnel Reflector (Clfr) dal valore di ben 1,2 miliardi di dollari. Da un progetto della Solar Dawn, consorzio che riunisce numerose aziende leader nel campo delle energie rinnovabili ( Areva Solar, Cs Energy e Wind Prospect Cwp) sorgerà vicino Chinchilla, nella parte sud-occidentale del Queensland, e una volta a regime sarà in grado di produrre 250 megawatt di energia. Forse non tanti quanto la centrale che sta per essere costruita nel deserto del Mojave, in California, ma certamente la più potente nel suo genere.
Ma cos’è una centrale Clfr? Si tratta di una centrale termoelettrica costituita da una serie di specchi a minima curvatura che catturano la radiazione solare e la concentrano su un ricevitore, cioè un elemento fisso che contiene una serie di tubi all’interno dei quali scorre l’ acqua. Il calore dei raggi solari scalda l’acqua producendo vapore, il quale a sua volta mette in moto le turbine di un generatore per produrre energia elettrica.
Una delle caratteristiche delle centrali Clfr è che sono ibride, nel senso che abbinano a una classica centrale termoelettrica un sistema di accumulo del vapore surriscaldato. In altre parole, per ovviare alle momentanee assenza del sole (nella notte così come nelle giornate nuvolose), un sistema di serbatoi sotterranei garantirà la produzione del vapore in ogni momento della giornata. In questo modo, l’energia elettrica sarà sempre disponibile con minime emissioni (l’ 85% dell’energia prodotta da una centrale di questo tipo ha emissioni pari a zero).
L’Australia crede così tanto nel progetto che il suo Governo ha investito nella realizzazione della centrale ben 416 milioni di dollari, un chiaro segno di quella che sarà la politica energetica del paese: puntare sull’energia pulita per abbattere l’inquinamento, soddisfare i bisogni energetici della popolazione, mettere in moto l’economia e creare posti di lavoro. Secondo Solar Dawn, infatti, il progetto smuoverà capitali per 570 milioni di dollari e porterà 300 posti di lavoro. E quando la centrale sarà finita, si stima intorno al 2015, i 250 megawatt di energia prodotti saranno in grado di alimentare 700 mila case. Il tutto scarificando 450 ettari di terreno, che verranno coperti dagli specchi e dalle altre infrastrutture. Un sacrificio tutto sommato di poco conto, considerati gli immensi spazi australiani e il sole che picchia forte.
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Beni Comuni. Il sipario aperto dal potere del noi
Autore: Mattei, Ugo
Ragioniamo sul diritto dei beni comuni, anche a partire dalla vicenda del Teatro Valle. Il manifesto, 8 luglio 2011
Il percorso necessario alla definizione delle forme istituzionali affinché la conoscenza e il sapere siano sottratti alla gestione burocratica o alla logica mercantile. Una riflessione a partire dalle proposte maturate dentro l’occupazione del Teatro Valle
I beni comuni non sono una categoria merceologica, un oggetto inanimato del mondo esterno. Per questo motivo ogni habitus positivistico (ossia una metodologia analitica che separa nettamente il mondo dell’essere da quello del dover essere) è inadatto a coglierne la natura. Un bene comune lega inestricabilmente una soggettività collettiva (fatta di bisogni, sogni, desideri) con un luogo fisico (il bene comune appunto) in una relazione qualitativa paragonabile a quella che lega un organismo vivente al suo ecosistema. Infine, il bene comune emerge innanzitutto da pratiche di lotta per il suo riconoscimento e la sua difesa. Queste pratiche sono volte a interpretarlo in modo collettivo, al fine di universalizzarne l’accesso sottraendolo dalle ganasce della grande tenaglia fra Stato e proprietà privata che, fin dagli albori della modernità, lo stritola. Una volta salvato (attraverso la lotta) dal suo triste destino di sfruttamento e distruzione, ogni bene comune deve essere interpretato dal punto di vista sociale ed istituzionale in modo coerente con la sua natura.
Nessuna sfida è più affascinante oggi per il giurista rispetto a quella di trovare un vestito giuridico adatto ai diversi beni comuni. Vestito giuridico che, lungi dall’essere universalistico, deve essere a sua volta necessariamene contestuale perché soltanto i contesti (luoghi dove si declinano i conflitti e le relazioni sociali) danno senso a quella grande astrazione che è il diritto. Da questi contesti, intorno a quanto rivendicato come bene comune, sgorga un diritto nuovo, una legalità costituente che sfida il riduzionismo meccanicistico e formalistico di quella costituita. Ciò non toglie che questa «legalità nuova», fondata su un sentimento profondo di giustizia e di obbligazione anche intergenerazionale, non possa (e forse debba) trovare, nella cassetta degli attrezzi del giurista, forme idonee ad una sua rappresentazione compatibile con l’ordine giuridico attuale. Il «comune» può così realizzare il proprio potenziale trasformativo con le armi del diritto e non solamente con quelle della politica.
In cerca di egemonia
In che senso il Teatro Valle occupato di Roma è un bene comune e quali sono le implicazione del suo essere bene comune sulle forme giuridiche della sua futura gestione? Innanzitutto va detto che il Teatro Valle è oggi, proprio come il territorio della Valle di Susa e l’acqua bene comune, uno straordinario laboratorio costituente di una nuova legalità, alternativa tanto alla logica costituita del profitto (privato) quanto a quella del potere (pubblico). Il Teatro Valle acquista senso come bene comune in quanto funzionalizzato oggi, nell’ambito di un fondamentale atto di lotta e di coscienza collettiva, al grande disegno, destinato ad avere ricadute intergenerazionali evidenti, di dotare anche l’Italia di un centro dedicato alla elaborazione di una propria drammaturgia (ne ha scritto su questo giornale, Gianfranco Capitta il 6 luglio).
La narrazione che facciamo del presente trasmetterà il testimone della nostra cultura a chi verrà domani, proprio come oggi noi abbiamo maturato la nostra identità collettiva sulle spalle dei nostri antenati. Questa prospettiva di lungo periodo dà senso all’idea che la cultura è un bene comune, qualcosa che va ben oltre l’asfittica idea del «qui e adesso» che caratterizza la logica aziendalistica che si è impadronita della narrazione dominante negli ultimi vent’anni. La «buona azione civile» degli ocupanti del Teatro Valle, come quella dei manifestanti No Tav, degli attivisti referendari, e di tanti altri cittadini attivi nelle vertenze aperte nel paese (dal movimento dei precari dell’Università, alla lotta contro gli inceneritori, a quella contro le basi Nato, per il recupero democratico dell’Aquila o contro lo sfruttamento sui luoghi di lavoro) mostra che in Italia oggi si sta diffondendo una nuova egemonia dei beni comuni. Questa nuova egemonia, deve potersi rappresentare in forme drammaturgiche nuove, anche per riscattarci a livello internazionale dei nostro modo particolarmente vergognoso di interpretare il ventennio della «fine della storia» (che di per sé costituisce una fase assai vergognosa del cammino dell’uomo occidentale).
Il contributo del Teatro Valle occupato a questo recupero di immagine internazionale del paese è già adesso importante (eccezionale il numero e la qualità degli attestati di solidarietà internazionale già incassati dagli occupanti); lo sarà molto di più se la battaglia sarà vinta e il «Centro di Drammaturgia Italiana» sarà realizzato. Soprattutto sarà un contributo inestimabile se questo esempio virtuoso saprà contaminarne altri, (occorrono pratiche serie di occupazione dei beni comuni: penso al centro sociale Tijuana di Pisa) fino a costruire una rete capace di riconquistare la cultura come bene comune (con tutte le ricadute politiche, culturali ed economiche di una tale impresa). Il Teatro Valle si candida a divenire, in questa fare storica italiana in cui, grazie alla nuova consapevolezza dei beni comuni una nuova egemonia si sta configurando, una delle più interessanti pratiche di governo democratico dei beni comuni. Una pratica che, godendo di una relativa calma rispetto alla brutalità poliziesca con cui altre declinazioni dei beni comuni vengono affrontate (l’esempio del territorio della «Libera Repubblica della Maddalena» insegna), si sta affinando ed ambisce a proporsi come modello di riferimento per per ogni progetto alternativo di gestione della cultura.
Deliri neoliberisti di onnipotenza
Il Valle è il più antico teatro di Roma, e si colloca propro nel centro della città alle spalle del Senato. L’occupazione fin dall’inizio ha visto coinvolte personalità importanti del mondo della cultura e dell’arte ed è stata destinataria di una buona copertura mediatica. L’occupazione è iniziata subito dopo la vittoria referendaria del 13 giugno, che ha mostrato in modo non equivoco che la maggioranza del paese si rende conto che la retorica sulla «fine della storia» ha perso la sua forza performativa e che ocorre adesso «invertire la rotta» rispetto ai delirii di onnipotenza del neoliberismo.
Gli occupanti del Teatro Valle inoltre hanno da subito dimostrato un talento incredibile nell’interpretarlo come «bene comune», offrendo gratuitamente alla cittadinanza una programmazione di buon livello ed un luogo sempre aperto di dibattito politico e culturale. È impossibile, per chiunque ci passi anche solo una sera, non voler bene alle ragazze e ai ragazzi che con grande sacrificio personale si battono per scongiurare la privatizzazione ed il conseguente scempio di questo magico «luogo comune» faro della cultura italiana fin dala metà del XVIII secolo. Inoltre, non è in vista qui, almeno nell’immediato, un’opportunità (irresistibile per tanti spiriti miserabili che ci governano) di arraffare, a qualunque costo sociale, una grande quantità di denaro pubblico come nel caso del tunnel della Tav, sicché l’urgenza di sgomberare con la violenza sembra meno pressante che altrove. Un attacco militare al Teatro Valle lo trasformerebbe inevitabilmente in una piazza Tahir di casa nostra, sicché il nostro regime agonizzante farà bene a guardarsi dal correre questo rischio.
In questo contesto ci sono le condizioni di relativa stabilità che consentono di apprezzare pienamente e trasformare in un progetto giuridico le caratteristiche del Valle come bene comune. L’itinerario discusso nel corso dell’occupazione potrebbe articolarsi in una serie di «fasi giuridico-formali» all’interno delle quali tuttavia la sostanza del bene comune, declinato per così dire dal sotto in su, caratterizza l’intiero procedimento, mantenendo un sistema flessibile ed adattabile alle esigenze della lotta. Il senso del percorso sarebbe quello di riempire di significato «dal basso» i forti appigli costituzionali che non solo promuovono la cultura, l’identità e la libera espressione a «bisogni fondamentale della persona» ma che (il riferimento è all’articolo 43 della Costituzione) legittimano percorsi di autogestione ad opera di utenti e lavoratori, rendendo il nostro processo «costituente» dei beni comuni l’attuazione (in ritardo) di un disegno e di una visione costituzionale di lungo periodo fino ad oggi tradita in modo bipartisan. Fra gli strumenti di autonomia attraverso i quali si forgia il diritto delle persone, (il diritto dei privati si diceva un tempo) ve ne sono alcuni nettamente interpretabili in quello spirito del «noi», collettivistico, solidaristico, plurale ed ecologico (ma sempre attento a non tarpare le ali agli spiriti liberi) che rende già oggi il Valle un bene comune.
La sostanza costituzionale
In questo spirito del «noi», attento ai diritti e agli obblighi costituzionali nei confronti degli altri e della comunità ecologica di riferimento, i beni comuni sono funzionalizzati alla soddisfazione di bisogni fondamentali della persona, collocati fuori commercio, e governati anche nell’interesse delle generazioni future, come previsto dal disegno di legge delega presentato dalla Commissione Rodotà sui beni pubblici. Questo programma di governo ecologico dei beni comuni è indifferente rispetto alla forma giuridica pubblicistica o privatistica, perché entrambe sono forme in quanto tali compatibili o incompatibili con la sostanza costituzionale dei beni comuni. In effetti, l’azienda pubblica può essere verticistica, partitocratica e burocratica e l’ingerenza bruta del ceto politico su scelte che dovrebbero fondarsi sul sapere e non sul potere è stata più volta stigmatizzata dagli occupanti del Teatro Valle.
D’altra parte, la gestione privatistica for profit, in un contesto quale quello della drammaturgia di qualità che certamente non può produrre profitti diretti, altro non farebbe che causare l’ennesimo trasferimento di risorse pubbliche ad interessi privati ed è questa la ragione per cui al Valle occupato si avversa la «messa a gara» della gestione. Chi scrive sta lavorando assieme agli occupanti su un processo di istituzionalizzazione del «Valle bene comune» studiando le nuove forme di governo partecipato dei beni comuni che rompano con la logica della distinzione fra titolo di proprietà e gestione inserendo garanzie effettive di un governo del teatro che sia incentrato allo spirito dell’apertura, della trasparenza (codice etico) e della corresponsabilità politico-culturale solidale. Il primo passo sarà probabilmente la costituzione di un «Comitato per il Valle Bene Comune» che metta da subito in pratica, embrionalmente almeno, le garanzie e le forme di governo che potrebbero portare ad una «Fondazione Pubblica Valle Bene Comune», dotata di un proprio fondo, di un proprio organico non precarizzato, e di proprie modalità di funzionalmento aperto. Tale struttura, capace di collegare intimamente il bene culturale comune alla comunità di utenti e lavoratori che gli danno vita, potrà lottare, nelle forme del diritto e non più sontanto in quelle della politica, per conquistare un diritto soggettivo di natura costituzionale (e quindi sottratto alle variabili contingenze della politica rappresentativa) ad un equo e trasparente finanziamento pubblico di lungo periodo, possibilimente sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.
La partita è ancora lunga ed affascinante e l’occupazione ne è parte irrinunciabile. Ne vale la pena.
http://eddyburg.it/article/articleview/17281/1/398
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Illuminazione pubblica, le proposte per risparmiare in Italia 08.07.2011
la luce per le strade è uno dei costi che gravano d più sui bilanci delle amminisrazioni locali. Ma la tecnologia può dare una mano
di Martina Pennisi
Nelle grandi città ce n’è uno ogni sei abitanti, ogni 30 metri più o meno, e quando si parla si parla di consumo di energia sono fra i principali indiziati. I lampioni e, in generale, l’ illuminazione pubblica sono una delle questioni quotidianamente sulla scrivania delle amministrazioni: l’obiettivo è il risparmio energetico, con la deadline 2020 dell’Unione europea che si avvicina, e il limiti sono di carattere economico e strutturale, gli impianti sono spesso datati e mettervici mano è oneroso. Passando all’ illuminazione a Led, per esempio, si taglia il consumo del 60% ma non si torna in utile prima di tre anni: ” L’Italia si sta muovendo in questa direzione, ma è ancora indietro rispetto alla media europea”, spiega a Wired.it Marialuisa Cordone, responsabile marketing di Sireclab, società italiana che si è imposta su altri 18 fornitori internazionali e si è aggiudicata la sostituzione integrale dell’illuminazione del quartiere greco di Atene.
Soluzione complementare ed eventualmente alternativa al Led è quella del telecontrollo. Umpi, altra realtà nostrana, mette a disposizione un sistema in grado di controllare e gestire a distanza il funzionamento dei lampioni appoggiandosi esclusivamente alla già esistente rete elettrica. Anche in questo caso, conferma a Wired.it l’amministratore delegato Gianluca Moretti, “solo il 30% dei nostri clienti è italiano”. Con Minos, questo il nome della soluzione, è sufficiente inserire nei lampioni “un dispositivo grande come un telefono cellulare” per tenerne sotto controllo l’attività – quando spegnerli e accenderli -, intervenire in modo mirato in caso di guasto e veicolare servizi aggiuntivi, come il Wi-Fi o l’alimentazione di automobili o biciclette elettriche. Tutto ciò viaggia sulle onde convogliate: ” Non c’è bisogno di stendere fili, la rete elettrica è già presente”, spiega Moretti. Piazzare l’aggeggio all’interno lampioni costa circa 300 euro a punto luce e il risparmio immediato è del 32% ogni settimana sulla bolletta, come ha rilevato il comune di Barletta. Interessante il modello di business di Umpi: il cliente, le amministrazioni nel caso in esame, continuano a pagare quanto scritto sulla la bolletta originaria e nel giro di qualche anno ammortizzano il costo dell’intervento vista la riduzione effettiva dello spreco energetico. Il sistema è già presente in una quarantina di comuni nostrani e a Cesenatico è parte del più ampio intervento di Smart Town orchestrato da Telecom Italia.
Normalmente, invece, cosa accade? I lampioni vengono gestiti da sensori comuni e non è possibile regolarne la singola attività: se uno si rompe devi accendere l’intero impianto per individuare di quale si tratti e la gestione crepuscolare di accensione e spegnimento è sensibile agli agenti atmosferici e non permette alcun tipo di controllo e coordinamento. Rendere i punti luci teste (quasi) pensanti e gestibili agevolmente è uno scenario dalle indubbie potenzialità e sono svariate le realtà che si stanno muovendo in questa direzione, Eulux e il neonato Piteco ne sono un esempio. La palla, e le reti, alle amministrazioni.
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Le Agenzie di rating giocano sporco. Servono regole che le neutralizzino
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**, 08.07.2011
Finalmente la grande stampa nazionale sembra capire i giochi sporchi delle agenzie di rating e ha cominciato a sfidare le loro sentenze sullo stato di salute dell’economia. L’ultima riguarda il Portogallo i cui titoli sono stati declassati a livello junk, spazzatura
A risvegliare un senso di difesa dell’interesse nazionale sono state le valutazioni negative sulla manovra di finanza pubblica e sulla situazione delle 16 maggiori banche italiane. Finora i rating delle agenzie sono stati usati come clava da molti politici contro gli avversari.
Nel 2006 quando abbassarono il rating italiano, l’opposizione gridò al fallimento del governo di Romano Prodi, che pure riuscì a ridurre il debito pubblico di circa 3 punti senza una politica di lacrime e sangue.
Adesso gli annunci di abbassamento del rating da parte delle agenzie offrono il destro per asserire tout court che le politiche economiche non vanno bene. È legittimo opporsi alle varie scelte governative. Ma perché consegnare il governo dell’economia e la nostra sovranità nelle mani delle agenzie di rating?
In tempi non sospetti abbiamo sollevato seri dubbi sui comportamenti delle tre sorelle, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, e sui loro conflitti di interessi. Nel 2006 in uno studio, citando i resoconti ufficiali, dimostrammo che i loro executive board, i direttori ed gli alti dirigenti provenivano dalle maggiori banche d’affari e dalle principali corporation americane.
Oggi non è cambiato niente. Moody’s e S&P controllano oltre il 40% del mercato del rating. Moody’s vanta direttori provenienti da Citigroup, Chase Manatthan Bank, American Express e altri big. S&P è una controllata della McGraw-Hill, un gigante privato dei servizi finanziari, dell’informazione e dei media. È guidata anche da uomini provenienti dalle grandi banche a cominciare da Citigroup. Guarda caso proprio dalle banche che dominavano e dominano il mercato dei derivati Otc.
Tutto legittimo, ma le agenzie di rating non ci parlino di trasparenza, indipendenza e garanzie contro possibili conflitti di interessi!
Già in questa commistione appare lampante il conflitto di interessi, aggravato dal fatto che le agenzie sono pagate dalle banche per certificare i loro prodotti finanziari, come i Cdo e gli Abs.Titoli derivati su altri titoli di dubbio valore, quali ipoteche, mutui, carte di credito: debiti spesso difficilmente solvibili. Quasi tutti certificati con il bollino della tripla A.
Si ricordi che più del 90% dei Mbs con rating AAA emessi nel 2006-2007 è stato poi declassato al livello di junk. In Italia ed in Europa la stampa parla solo delle difficoltà della Grecia o del Portogallo.
Ma non dà il dovuto risalto alla decisione della Sec di avviare azioni legali nei confronti di alcune agenzie di rating, tra cui S&P, per il loro ruolo nella valutazione del merito creditizio di titoli legati ai mutui che hanno causato la crisi finanziaria.
Nel mondo la credibilità delle tre sorelle è in discussione. La Cina ha la sua Dagong, che ha tagliato da AA ad A+ il rating del debito americano e poi a quello del Regno Unito.
Sotto la spinta cinese in Malesia è stata costituita l’Associazione asiatica delle agenzie di rating con il compito di riformare il sistema e creare nuovi e condivisi standard internazionali di. Anche il premier russo Vladimir Putin ha annunciato che il suo governo era intenzionato a creare proprie agenzie.
L’Europa mostra di essere troppo succube dei vecchi poteri finanziari. Continuiamo a ritenere urgente l’intervento dei governi per dettare norme stringenti a mercati finanziari, sistema bancario e agenzie di rating. Queste ultime sfuggono a qualsiasi seria regolamentazione.
* Sottosegretario dell’Economia nel governo Prodi, * Economista
articolo pubblicato su ItaliaOggi del 7/7/2011
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18198
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Dai semi di palma le navi del futuro 08.07.2011
di Irene A. Pappalardo
Un nuovo materiale creato imitando la superficie dei semi di palma potrebbe risolvere il problema delle vernici tossiche utilizzate per difendere le imbarcazioni dalle incrostazioni. L’idea è venuta a un gruppo di ricercatori tedeschi della Biomimetics-Innovation Centre dell’Università di Brema che, lo scorso 4 luglio, hanno presentato lo studio a Glasgow in occasione della Conferenza annuale della Society for Experimental Biology. Oggi, per proteggere gli scafi delle imbarcazioni vengono usate vernici in grado di rilasciare sostanze tossiche per gli organismi marini che si avvicinano. “Il nostro scopo”, ha sottolineato Katrin Mühlenbruch, “è invece quello di creare un rivestimento per navi privo di tossine. Ciò consentirà di evitare dei danni ambientali senza per questo limitare l’efficienza delle navi”.
I semi degli alberi di palme, trasportati dalle correnti dell’oceano, percorrono lunghi tragitti durante i quali riescono a mantenere intatta la propria superficie esterna. I ricercatori hanno quindi analizzato a fondo le loro caratteristiche così da comprenderne il segreto e poi tradurlo in una risorsa utile sia per l’essere umano sia per la difesa dell’ambiente: un materiale con cui costruire scafi che non vengano aggrediti dalle incrostazioni senza bisogno di essere verniciate con prodotti repellenti. A fare la differenza, e rendere i semi così resistenti all’attacco dei microrganismi presenti in mare, è la forma delle fibre superficiali, che si presentano con una struttura filamentosa simile a quella dei capelli. E come una folta capigliatura, queste fibre vengono mosse dall’acqua, evitando così il deposito dei microrganismi.
Sulla base di queste osservazioni è stata ricreata in laboratorio una superficie artificiale che riproduce la struttura delle fibre dei semi di palma. ‘I dati ottenuti sembrano essere promettenti, ma il cammino è ancora molto lungo”, ha continuato Mühlenbruch. I ricercatori sono ora impegnati a studiare queste fibre anche dal punto di vista chimico, per scoprire così se le loro proprietà anti-macchia siano dovute solo all’azione meccanica o anche alla presenza di particolari componenti molecolari.
http://www.galileonet.it/articles/4e15b31372b7ab19810000fc
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Province o non Province? E se studiassimo prima? 11.07.2011
di Flavia Marzano
Un gruppo di ricercatori italiani (Università e CNR) ha definito una proposta per la progettazione di modelli di riaggregazione territoriale per la futura Pubblica Amministrazione Locale con l’obiettivo di offrire scientificità alle scelte politiche di semplificazione della macchina pubblica.
Esiste un’esigenza da anni largamente avvertita(1[i]) di razionalizzare e possibilmente semplificare la struttura della Pubblica Amministrazione Locale italiana (PAL), anche alla luce della grande trasformazione della mobilità individuale, dei mezzi di comunicazione e della domanda e dell’offerta di servizi favorite anche dagli interventi normativi degli ultimi venti anni.
In questo contesto, è necessario fondare ogni tipo di intervento basandosi su studi e dati concreti che riflettano gli schemi di mobilità fisica e le reti di comunicazione sociali esistenti sul territorio e facendo riferimento ad un quadro puntuale dei servizi esistenti e necessari per una Pubblica Amministrazione (PA) efficiente ma soprattutto pronta ad adattarsi all’evoluzione delle tecnologie e alle mutevoli esigenze dei cittadini e delle imprese. Non si tratta, cioè, di cancellare a priori e indiscriminatamente l’uno o l’altro ente territoriale.
Metodologia
Il progetto prevede di studiare da diversi punti di vista (amministrativo, tecnologico, statistico, sociologico, economico,…) il territorio per contribuire a definire la mappatura ideale della Pubblica Amministrazione Locale. A tale scopo si farà leva sulle grandi masse di dati, oggi disponibili, provenienti sia dalle fonti ufficiali ed istituzionali, sia dalle infrastrutture ICT che permettono di rilevare le tracce digitali delle attività umane, quali le reti di telefonia mobile ed il web. Questi “big data” rappresentano oggi un microscopio sociale di ampiezza e precisione senza precedenti, capace di registrare i sistemi complessi di relazioni sociali ed economiche. Recenti tecniche di analisi di questi dati mostrano come sia possibile far emergere da questi le aggregazioni territoriali o funzionali che meglio riflettono la struttura e la dinamica dei sistemi di relazioni – confini virtuali emergenti, che possono suggerire aggregazioni ottimali per la PA. Trattandosi di informazioni georeferenziate sarà inoltre possibile impiegare tecniche statistiche di analisi spaziale in grado di modellare le potenziali relazioni fra le osservazioni per definire aggregazioni che tengano conto anche di questa informazione.
In particolare si dovranno, per tutta la PAL, raccogliere, analizzare e rappresentare su mappe georeferenziate le seguenti informazioni:
Continua qui:
http://blog.wired.it/codiceaperto/2011/07/11/province-o-non-province-e-se-studiassimo-prima.html
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Biotestamento, è imbroglio
Red. , 12.07.2011
Sul testamento biologico alla Camera maggioranza e Udc approvano emendamenti che in pratica annullano il concetto stesso di dat (dichiarazione anticipate di trattamento). Non solo non saranno vincolanti, ma l’idratazione e l’alimentazione artificiale si potranno sospendere solo ai pazienti in fase terminale. Marino propone il referendum, la Cgil protesta, dissensi anche nel Pdl. Necessario un altro passaggio al Senato a settembre
L’aula della Camera ha approvato, grazie all’asse Pdl – Lega – Udc, l’articolo 3 del ddl sul testamento biologico, quello che, in pratica, vieta che nelle dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) siano inserite disposizioni su idratazione e alimentazione artificiali.
Non solo. Nel corso dell’esame in aula sono state inserite, tra i dissensi anche di alcuni esponenti di maggioranza, modifiche sostanziali rispetto al testo del Senato. Oggi sono passati due emendamenti. Uno, del relatore, che restringe la platea dei destinatari delle Dat solo a coloro in cui sia riscontrata assenza di attività cerebrale integrativa cortico – sottocorticale.
E soprattutto un altro, targato Pdl e Udc, ha invece apportato una “stretta” rispetto agli ammorbidimenti che erano stati apportati in commissione Affari sociali: alimentazione e idratazione artificiali potranno essere sì sospese in casi eccezionali, quando non vengono più assimilate, ma solo per i pazienti in fase terminale. Questo, secondo la maggioranza, vuol dire mai più casi Eluana Englaro. La modifica, proposta da Paola Binetti (Udc) e Carla Castellani (Pdl) restringe notevolmente la formulazione iniziale che parlava semplicemente di “pazienti”.
Margherita Miotto (Pd) protesta: “E’ giusto il principio che idratazione e alimentazione possono essere sospesi a patto che non siano più efficaci. Ma se aggiungiamo la parola ‘in fase terminale’ vuol dire che idratazione e alimentazione non possono essere interrotte se non sono più efficaci e non ci troviamo in una fase terminale. E questo è un paradosso, darà adito a conflitti”. Castellani interviene e difende l’emendamento: “Non vogliamo che si verifichino nuovi casi Englaro, perché i casi come quello di Eluana non sono in fase terminale”.
La scorsa settimana è passata poi un altra modifica. Nelle dat si potranno esprimere “orientamenti” (e non volontà, dunque non vincolanti per il medico) solo sui trattamenti che si intende attivare, ma non su quelli che si vuole sospendere o a cui ci si rifiuta di essere sottoposti. I trattamenti vengono ora definiti “terapeutici” e non più “sanitari”. Rimane comunque la previsione che si possa esplicitare la rinuncia ciò che è “di carattere sproporzionato o sperimentale”.
Il voto è avvenuto a scrutinio segreto. L’articolo è passato con 274 sì, 225 no e 6 astenuti. Malumori sono stati esplicitati anche dentro il Pdl. A titolo personale è intervenuto Manlio Contento annunciando la sua astensione perché “nutro dubbi sull’equilibrio dell’articolo 3 quanto a ciò che è costituzionalmente garantito”. Peppino Calderisi ha espresso il suo “voto contrario” sull’articolo sottolineando che “il livello di invasività e illiberalità del provvedimento anche con questo articolo raggiunge livelli altissimi”. E l’ex Pdl ed ex ‘Responsabili’, Mario Pepe, che comunque è in quota maggioranza nel gruppo Misto, ha aggiunto: “Io credo che con questa legge ci siamo messi in un bel guaio”.
Il voto sul testo intero è previsto entro la giornata di oggi, ma a settembre sarà necessario un ulteriore pronunciamento di Palazzo Madama. Ignazio Marino del Pd già parla di referendum: “Quando il testo passerà dalla Camera al Senato, bisognerà promuovere un comitato referendario e depositare i quesiti referendari”. Marino aggiunge: “Anche se arriverà prima la Corte Costituzionale sarà importante dare un segnale, perché qui viene sbeffeggiata la scienza, come già è stato fatto con la fecondazione assistita”.
Protesta anche la Cgil, con Massimo Cozza, segretario nazionale dei medici del sindacato di Susanna Camusso: “La legge contro il biotestamento, in votazione alla Camera, stravolge l’atto medico, che non deve più tenere conto delle volontà anticipate del paziente e non viene riconosciuto anche nel caso dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale”. Cozza spiega: “Se il medico non ottempera a quanto gli viene imposto dalla legge, in modo contrario al codice deontologico e all’alleanza terapeutica con il paziente- sottolinea- rischia di essere incriminato con accusa di omicidio. Il 6 luglio abbiamo formalmente invitato il ministro della Salute Ferruccio Fazio, per fax e per email, a chiedere il parere del Consiglio superiore di sanità sul riconoscimento dell’alimentazione e della idratazione artificiale quali atti medici. Lo sollecitiamo a farlo-aggiunge- prima che il testo vada in discussione al Senato, a tutela della dignità professionale dei medici e delle volontà anticipate dei cittadini”. Cozza conclude: “Ricordiamo che lo stesso Consiglio Superiore di Sanità ha già riconosciuto come atto di competenze medica anche la semplice prescrizione di una dieta in una persona con problematiche cliniche”.
Ma il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella risponde dura sia a Marino che alla Cgil. Al senatore Pd la Roccella dice: “Se ci dovesse essere un referendum sul testamento biologico finirà come quello per la legge 40”. Quanto alla richiesta di un parere al Consiglio superiore di sanità su alimentazione e idratazione artificiale Roccella sottolinea che “sarà il ministro Fazio a valutare. In ogni caso, la richiesta che viene dagli stessi medici conferma che non c’è unanimità da parte della comunità scientifica sul tema. E quando una materia è controversa il principio di cautela si impone”.
Livia Turco del Pd denuncia la strategia della maggioranza (allargata in questo caso all’Udc): “La legge della destra sul fine vita è arcigna, autoritaria e proibizionista. Nel dibattito oggi alla Camera la maggioranza ha gettato la maschera ed è chiaro a tutti che siamo davanti a un imbroglio per i cittadini e i medici. È una brutta legge- sottolinea la Turco- che colpisce l’alleanza terapeutica medico-paziente e vieta, di fatto, il testamento biologico; nelle Dat si potrà infatti scrivere solo nome, cognome e che non si vuole essere sottoposti ad accanimento terapeutico, cosa che nessun medico farebbe. Una brutta pagina di cui è pienamente, ed esclusivamente, responsabile la destra”.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18227
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Moto ondoso: potrà essere sfruttato anche nel Mediterraneo 07.2011
Sono numerosi in Europa e nel mondo i sistemi di sfruttamento del moto ondoso per la produzione di energia elettrica, alcuni sono in uso o in sperimentazione da molti anni.
Alcuni convertitori di moto ondoso (Wave Energy Converters) presentano inconvenienti, quali parti mobili immerse in acqua, presenza di sostanze inquinanti a bordo, difficoltà di manutenzione delle parti completamente sommerse, limite critico di funzionamento dei sistemi; invece, il convertitore Iswec (Inertial Sea Wave Energy Converter), progettato da ricercatori del Politecnico di Torino (PDF), si distingue dagli altri convertitori di moto ondoso perché non presenta parti mobili immerse in acqua, non presenta quantitativi significativi di sostanze inquinanti a bordo, é facilmente ispezionabile e accessibile per manutenzioni, il dispositivo presenta un maggiore campo di funzionamento grazie alla regolazione della velocità del volano.
I ricercatori del Dipartimento di meccanica progettano, dunque, come utilizzare l’energia del moto ondoso nel Mediterraneo e la Wave For Energy sta anche cercando di farlo concretamente.
Il progetto è fondato sulla considerazione che la risorsa energetica del moto ondoso, a livello planetario, è stimata tra 8.000 e 80.000 TWh annui in confronto alla produzione attuale di energia elettrica che raggiunge i 20.000 TWh all’anno, mentre attualmente la migliore tecnologia potrebbe essere in grado di estrarre approssimativamente 800 GW per un totale di 2.000 TWh di energia prodotta. Le potenzialità produttive del Mediterraneo, poi, sono probabilmente sottovalutate mentre potrebbero rivestire un’importanza strategica, soprattutto per l’installazione di prototipi di nuovi wave energy converter (WEC), in grado di sfruttare un’onda più regolare e meno potente di quelle oceaniche, per la presenza di numerose isole e arcipelaghi minori, che con lo sfruttamento della tecnologia ondosa potrebbero raggiungere l’indipendenza energetica dal territorio nazionale e per la capacità di connessione costiera elevata che caratterizza l’Italia e l’intero bacino del Mediterraneo.
Il Convertitore Iswec, spiegano i ricercatori Giuliana Mattiazzo e Andrea Gulisano, è di tipo galleggiante che utilizza l’inclinazione del fianco dell’onda per produrre energia elettrica. Il sistema Iswec nasce per trovare una risposta al fabbisogno energetico di arcipelaghi e isole minori tipiche del Mediterraneo. I ricercatori evidenziano le differenze tra il Mediterraneo, mare chiuso, e gli oceani: gli oceani presentano una potenza media delle onde maggiore, i bacini chiusi come il Mediterraneo hanno una frequenza delle onde più alta rispetto ai mari aperti.
I dispositivi ottimizzati per gli oceani sfruttano principalmente l’altezza elevata dell’onda, Iswec, invece, lavora sulla frequenza e sulla pendenza del fianco dell’onda, e può estrarre un elevato quantitativo di energia anche da onde poco potenti. Nonostante questo, Iswec è applicabile con successo anche su onde oceaniche, dove è capace di sfruttare le elevate pendenze dei fianchi delle onde, create dalle altezze elevate, nonostante le basse frequenze.
I ricercatori stanno studiando 3 siti di installazione nel Mediterraneo italiano: a La Spezia, per un sistema integrato di approvvigionamento energetico per l’isola di Gorgona, ad Alghero, in quanto è uno dei siti d’installazione con la maggior potenza d’onda disponibile, a Pantelleria, per un progetto di installazione.
La produttività annua stimata per i tre sistemi, fatti salvi i problemi di protezione ambientale riguardanti le installazioni è di 2.080 MWh/anno per La Spezia, 3.110 MWh/anno per Alghero e 2.600 MWh/anno per Pantelleria.
Considerato che un dispositivo di 60 kWp potrebbe produrre una quantità di energia da moto ondoso interessante anche per bacini chiusi come il mar Mediterraneo, questa risorsa energetica innovativa risulta conveniente anche rispetto alle tradizionali fonti di energia rinnovabile, fotovoltaico ed eolico, sia in termini di produttività sia in termini di ingombri e impatto ambientale.
Wave for Energy Srl (W4E) è lo spin-off del Politecnico di Torino nato per lo sviluppo e la commercializzazione di Iswec. Attualmente la società sta per portare prima in vasca e poi in mare, entro il 2011, un modello in scala 1:8 del sistema di conversione Iswec.
W4E intende sfruttare la tecnologia sviluppata per due tipologie diverse di applicazioni:
1. Stand-Alone, per alimentare dispositivi di segnalazione e comunicazione necessari in aree marine per la sicurezza, la gestione e il controllo.
2. Grid-Connected, per la generazione di energia da introdurre nella rete elettrica terrestre alimentando la produzione da risorse rinnovabili. Il mercato di sbocco della società sarà sia il bacino del Mediterraneo sia aree oceaniche, potendo contare su di una tecnologia altamente versatile e scalabile.
Fonte: Politecnico di Torino
http://www.scienzaegoverno.org/n/100/100_04.htm
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Uno studio italiano fa luce sull’aumento del rischio di asma per gli sportivi 07.2011
L’asma colpisce, stando ai numeri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, più di cento milioni di persone. Si tratta di un trend in aumento, complice anche l’inquinamento urbano, l’esposizione al fumo passivo e l’incremento dell’incidenza delle allergie.
Tuttavia un soggetto che soffre di asma può vivere una vita del tutto normale e gratificante e può anche diventare uno sportivo. Sono tanti i casi, a guardare solo il panorama nazionale, di atleti che sono riusciti a raggiungere traguardi importanti nelle loro discipline anche se soffrono di asma: due esempi per tutti, la nuotatrice Federica Pellegrini e lo sciatore Giorgio Di Centa.
Ma se un soggetto asmatico può tranquillamente fare sport, purché segua qualche accorgimento indicato dallo specialista, non si può dire lo stesso per chi di asma non ha mai sofferto e fa sport a livello agonistico.
Un recente studio presentato in occasione del congresso dell’Accademia europea di allergologia ha mostrato come un allenamento troppo intenso possa causare un aumento del rischio di asma per atleti che ancora non soffrono di questo disturbo.
Gli studiosi dell’Istituto di Medicina Molecolare del Cnr di Roma hanno arruolato, in collaborazione con il CONI, circa un migliaio di atleti che hanno preso parte ai Giochi Olimpici di Pechino e hanno scoperto che tra loro il tasso di asma era del 15%: un dato molto superiore a quello che si registra nella popolazione e che non va oltre il 3-5%.
Sergio Bonini, autore dello studio, ha spiegato che la causa di questo aumento del rischio sta nell’allenamento fisico, spesso troppo intenso, “che riduce il numero delle cellule immunitarie che proteggono dalle infezioni” e ciò provoca una maggiore esposizione a infiammazioni allergiche e asma.
Inoltre quando si fa un allenamento intenso si va in iperventilazione, un respiro rapido e corto che viene mantenuto per lungo tempo e che è responsabile della disidratazione, che a sua volta può favorire l’improvviso restringimento delle vie aeree e provocare l’asma.
Secondo quanto spiegato dai ricercatori questa scoperta potrebbe anche contribuire a spiegare l’eccessivo l’impiego, spesso sotto accusa, dei farmaci anti-asma da parte degli atleti con l’obiettivo di migliorare la propria prestazione in gara. Come ridurre il rischio di asma se si fa sport a livelli agonistici?
E’ importante seguire una alimentazione ricca di grassi Omega 3, contenuti, ad esempio, nell’olio di pesce perché questi preziosi antiossidanti contribuiscono a prevenire le infiammazioni, ad aumentare la resistenza e a migliorare dell’80% la funzionalità polmonare.
Fonti
American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine
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Se Internet è appendice della mente 15.07.2011
Una ricerca della Columbia University mostra come la navigazione online influenzi la memoria. Si ricorda meno perché c’è Google. Ma l’auspicio è positivo: serve a comprendere i meccanismi del cervello umano
Roma – Che il rapporto, sempre più complesso, tra mente umana e apparecchi elettronici fosse portatore di diverse conseguenze per la struttura neurobiologica sembra essere una consapevolezza scientifica ormai acquisita. Ora, la ricerca prova ad andare ancora più a fondo nell’analisi dell’impatto che la navigazione in Rete provoca sulla capacità mnemonica umana.
Che influenza producono Google e Wikipedia, il crescente uso di smartphone e il conseguente boom di app e, più in generale, l’afflusso ininterrotto di informazioni che va sotto il nome di “information overload”? Secondo un paper pubblicato di recente sulla rivista Science Express (parente della più nota Science), la possibilità di rintracciare qualsiasi tipo di informazione in pochi secondi è sicuramente un beneficio, ma si tratta di una conquista carica di ripercussioni negative sulla memoria umana. Gli autori dello studio, intitolato “Gli effetti di Google sulla memoria: conseguenze cognitive dell’avere le informazioni sulla punta del dito”, hanno presentato quattro esperimenti a dimostrazione di tale asserzione.
Nel primo, gli scienziati hanno sottoposto il focus group a una serie di semplici quiz, per poi testare, mediante uno Stroop Test modificato, i tempi di risposta nel colorare parole relative al computer e altre non inerenti all’informatica. Si è scoperto che, nel momento in cui venivano somministrate domande complicate, il campione si soffermava più tempo sulle parole collegate al computer, comportamneto che, secondo i ricercatori, suggerisce una relazione stretta tra il bisogno di informazioni e l’uso del PC.
Il secondo test ha valutato se gli individui ricordano le informazioni sapendo di avere la possibilità di accedervi in un secondo momento. Il risultato è stato che, inconsciamente, compiamo un piccolo sforzo nel ricordare qualcosa che sappiamo poter consultare in futuro. Una conclusione ritrovata anche nel terzo esperimento, nel quale i soggetti hanno dimostrato di ricordare meglio le informazioni quando sanno che queste sono state salvate da qualche parte, pur non sapendo dove.
L’ultima prova, infine, ha segnalato che le persone ricordano meglio il luogo in cui le informazioni sono state salvate piuttosto che l’informazione in sè. I risultati disegnano una cornice entro la quale i soggetti dimostrano di essere sempre più dipendenti dalle fonti digitali di informazioni, atteggiamento che li spinge a compiere meno sforzi di memoria (quindi ricordare meno) quando sanno che potranno navigare online.
“Le persone si preoccupano circa la relazione che intercorre tra tecnologia e capacità cognitive”, spiega Betty Sparrow, ricercatrice della Columbia University e capo del progetto di ricerca. “Gli individui – continua Sparrow – si preoccupano di cercare qualsiasi cosa online e non di ricordare ciò che leggono”. Si tratta di una cornice mentale entro la quale le tecnologie di elaborazione delle informazioni hanno un grande potere nel forgiare il nostro cervello. Gli esperti la definiscono memoria transattiva: fondamentalmente, ci si ricorda di più il supporto dal quale si attinge l’informazione e non il contenuto in sé.
Lo scopo di tale ricerca, come sottolinea la stessa coordinatrice, non è creare un allarme sociale sulle conseguenze nefaste della tecnologia, bensì cercare di raggiungere una comprensione maggiore della memoria umana nell’era di Google e scorgere, così, i benefici nell’apprendimento e nell’insegnamento. Morale: c’è bisogno, dunque, che la memoria umana si adatti al meglio alle tecnologie della comunicazione.
Cristina Sciannamblo
http://punto-informatico.it/3217200/PI/News/se-internet-appendice-della-mente.aspx
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Una chiave per vaccini universali 14.07.2011
Un nuovo potenziale vaccino universale contro la meningite. La chiave per realizzarlo è una proteina disegnata in laboratorio da un team di ricercatori italiani: una sostanza estranea all’organismo che ne scatena la risposta immunitaria proteggendolo da più di 300 ceppi di meningococco B. Lo studio, firmato fra gli altri da Rino Rappuoli di Novartis Vaccines e Lucia Banci dell’Università di Firenze, è pubblicato sulle pagine di Science Translational Medicine.
La meningite è causata da diversi microrganismi: per alcuni esiste già un vaccino (gruppi A, C, W, W-135 e Y), mentre per il B, il più comune e più difficile da controllare, al momento non esiste immunizzazione. L’infezione, che colpisce non solo i bambini ma anche gli adulti, può avere conseguenze molto gravi e portare alla morte nel giro di poche ore. Ragione per cui la meningite è considerata un pericolo importante per la salute pubblica a livello mondiale.
La proteina chimerica, disegnata in laboratorio, è stata identificata grazie alla tecnica della reverse vaccinology, decodificando cioè la sequenza genomica del meningococco B e selezionando le proteine che hanno più probabilità di essere efficaci nella realizzazione di un vaccino. La stessa strategia che ha consentito alla multinazionale svizzera di sviluppare un vaccino altamente efficace contro la meningite, attualmente in fase di registrazione presso l’Agenzia Europea del Farmaco (EMA).
Genoma alla mano, i ricercatori sono riusciti a scovare una particolare proteina, chiamata factor H binding protein (fHBP), in grado di stimolare un’intensa risposta da parte del sistema immunitario ma anche di variare nei diversi ceppi: un target molto importante, quindi, ma allo stesso tempo difficile da centrare. Per aggirare questo ostacolo, gli studiosi italiani hanno sequenziato i geni che codificano per questa proteina in circa 2000 ceppi di meningococco B, riuscendo così a identificare tre varianti antigeniche di cui una, la più diffusa, è alla base del vaccino in via di registrazione.
Lo studio su Science Translational Medicine segna però un ulteriore passo avanti: sulla base delle informazioni ottenute con la genomica, il team ha deciso di disegnare e “costruire” in laboratorio una proteina chimerica che contiene in sé le varianti geniche identificate. Testata sui topi di laboratorio questa proteina, chiamata G1, si è rivelata in grado di indurre anticorpi funzionali contro le diverse varianti di meningococco.
Lo studio si inserisce in un nuovo filone di ricerca, la vaccinologia strutturale. L’idea è quella di costruire a tavolino le sostanze che suscitano una risposta immunitaria migliore e più efficace. “Questo approccio basato sulla struttura permette di disegnare vaccini ad ampio spettro non solo nel caso del meningococco B: si tratta infatti di un approccio del tutto generale che può essere strategico anche nello sviluppo di vaccini contro patogeni con un alto livello di variazione antigenica”, ha dichiarato Lucia Banci. Per questo gli autori sono convinti che questa sia la strada giusta per arrivare a prevenire un ampio spettro di infezioni, da quelle causate dai rinovirus alla malaria scatenata dal tripanosoma, fino a quella da HIV. “La genomica offre potenzialità sempre maggiori e grazie ad essa siamo stati in grado di mettere a punto strategie altamente innovative nella ricerca di nuovi vaccini”, ha concluso Rino Rappuoli, responsabile mondiale della Ricerca Novartis Vaccines.
Riferimenti: DOI 10.1126/scitranslmed.3002234
http://www.galileonet.it/articles/4e1ea80872b7ab26b000000b
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Se la manovra economica-finanziaria del 1992 e l’accordo sindacale del luglio 1993 sono stati definiti un “golpe bianco”
La privatizzazione di Finmeccanica: un Nuovo Modello di Difesa mai discusso
Questa strada potrebbe essere decisa al fine di monetizzare le relative partecipazioni per ridurre il debito pubblico, e allentare il rapporto con lo Stato-cliente, azionista, erogatore dei finanziamenti alla ricerca e sviluppo, responsabile delle regole del mercato, regolatore delle esportazioni.
14 luglio 2011 – Rossana De Simone
13 luglio 2011. Nel sito del quotidiano il Manifesto si legge: Domanda del giorno: unità nazionale sulla manovra?
“due giorni di crollo delle borse e di attacchi speculativi hanno reso digeribile l’ennesima manovra di tagli alle spese sociali e di privatizzazioni: dal ticket sulle prescrizioni mediche e sul pronto soccorso alla vendita di quote delle società municipalizzate. È giusto pensare all’unità nazionale di fronte al rischio default o si tratta dell’ennesimo inciucio bipartisan? In buona sostanza, un governo di centrosinistra avrebbe fatto meglio di Tremonti?”.
Proviamo a dare una risposta entrando nel merito della manovra al capitolo privatizzazioni.
Le privatizzazioni di Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica, Fintecna, Cassa depositi e prestiti e Rai porterebbero140 miliardi di euro con un risparmio di circa 5 miliardi di interessi l’anno. Ridurrebbero la spesa per interessi,darebbero un segnale molto forte ai mercati e toglierebbero il terreno sotto i piedi al clientelismo, all’inefficienza e alla corruzione. (il sole24ore)
In una intervista ad Affaritaliani Stefano Fassina, responsabile economico del Pd e braccio destro di Bersani, dichiara che la privatizzazione di grandi imprese italiane partecipate dallo Stato (come Enel, Eni, Poste, Finmeccanica e Ferrovie) non è una buona idea perché si perderebbero asset preziosissimi sul piano industriale con scarsissimo impatto sul debito e la spesa per interessi.
Sembrerebbe dunque che queste privatizzazioni siano un lampo a ciel sereno, ma non è così. In particolare la storia di Finmeccanica permette di rispondere alla domanda del Manifesto “si tratta dell’ennesimo inciucio bipartisan?”
La risposta è sì perchè la sua privatizzazione è una soluzione presa in considerazione almeno dal 2008, dunque vi è stato tutto il tempo per decidere altrimenti ed eventualmente indicare altre strade.
Una premessa è necessaria. Sono anni che l’Italia non discute di un Nuovo Modello di Difesa, del futuro delle forze armate nazionali e del ruolo del paese sulla scena internazionale. Il Libro Bianco della Difesa 2002 aveva tentato di indicare le linee guida della politica di difesa e sicurezza nazionale e descritto i compiti dell’apparato industriale, ma un Libro Bianco non soddisfa la parte programmatica e propositiva presente in un Modello di Difesa.
Minniti (Pd) sappella a La Russa per salvare il Modello di difesa italiano http://www.nsd.it/images/storiesfile/5634_2.pdf
Sebbene l’art. 11 della Costituzione ripudia espressamente la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, l’Italia non solo non ha scelto di rafforzare la sua capacità di risolvere i conflitti con mezzi non militari (di seguito i documenti sin qui elaborati), ma di fatto ha aumentato le spese militari continuando a finanziare programmi militari e missioni di guerra.
Stato di previsione della spesa del Ministero della Difesa: 2011 pari a 20.556.850.176 €, 2012 a 21.015.959.050 € e 2013 pari a 21.366.774.743 € con differenze in percentuale rispetto al 2010 di + 0,9% +3,20% +4,92%.
In questo modo si perseguono interessi particolari che non corrispondono alla tanto esaltata capacità di creare nuovi posti di lavoro (vedere la presenza di cassa integrazione in aziende come Alenia, Telespazio, Selex Communications Eslag Datamat, ecc) e si continua a mantiene una linea ambigua nello scenario internazionale.
Nel documento “Il controllo degli investimenti stranieri nel nascente mercato europeo della difesa e sicurezza” si legge che in Italia pur non essendoci una specifica normativa in materia per la forte presenza dello Stato-azionista, si rende urgente una regolamentazione per via di un mutamento della situazione internazionale.
Questa manovra ha colto l’occasione per l’avvio di una privatizzazione di Finmeccanica (e probabilmente Fincantieri).
Così recita il documento : “Questa strada potrebbe, in futuro, essere decisa al fine di monetizzare le relative partecipazioni per ridurre il debito pubblico e/o per aumentare il grado di indipendenza di questi due gruppi e metterli al riparo da uno stretto, ma insidioso, rapporto con lo Stato-cliente, azionista, erogatore dei finanziamenti alla ricerca e sviluppo, responsabile delle regole del mercato, regolatore delle esportazioni”.
Sarà allora necessario porre l’attenzione sugli esiti di questa manovra tenendo occhi aperti anche sulla proposta, contenuta nel documento citato, che riguarda l’idea espressa da Sarkozy di creare un fondo sovrano per gli investimenti strategici.
L’intento di Sarkozy è chiaro: in un contesto di crisi e quindi di sotto-capitalizzazione in Borsa, le aziende strategiche francesi possono costituire investimenti appetibili per fondi sovrani esteri in grado di rilevarne parte del capitale sul mercato. A differenza della Germania, l’Italia ha recepito la proposta e tale dispositivo é allo studio della Cassa Depositi e Prestiti.
Vi è almeno un altro punto fondamentale che la manovra non risolve: il passaggio dal concetto strategico di difesa a quello di sicurezza e difesa che implica anche il controllo di attività di ricerca, sviluppo e produzione (nella prospettiva duale).
Si può privatizzare Finmeccanica senza avere prima discusso un Nuovo Modello di Difesa?
http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pubblicazioni/Documents/36177_iai_cemispdf.pdf
La mancanza di una discussione pubblica e trasparente circa il Nuovo Modello di Difesa fa sì che la popolazione sia all’oscuro delle motivazioni di scelte militare-industriali, e lascia spazio a dubbie affermazioni dettate dall’ignoranza (che diventa pura propaganda) da parte di politici impegnati nei vari livelli di governance istituzionale.
Siamo in presenza di personaggi che non solo non leggono i resoconti delle discussioni parlamentari (pochissime in verità) e sono incapaci di inserirli in un quadro strategico di Difesa, ma si arrogano il diritto di decidere quali scelte effettuare su un territorio senza prevederne seriamente gli effetti ambientali ed economici oltre a quelli dovuti alla presenza di strutture militari (vedere caso F-35).
Audizione del presidente e amministratore delegato di Finmeccanica Spa, Pier Francesco Guarguaglini
“Se vogliamo mantenere alto il livello in Italia, per Finmeccanica Spa la tecnologia è essenziale perché le persone sviluppano la tecnologia e trasferiscono negli altri Paesi quella di secondo livello o attività, perché l’assemblaggio finale, anche se piace tanto a livello tecnologico, non è molto rilevante: saper fare le pale di un elicottero o gli ingranaggi è molto più importante e, soprattutto, più difficile”. http://documenti.camera.it/_dati/leg16/lavori/stencomm/05/indag/regioni/2011/0309p/INTERO.pdf
Se la manovra economica-finanziaria del 1992 e l’accordo sindacale del luglio 1993 sono stati definiti un “golpe bianco”, come possiamo chiamare quella attuale preceduta dall’accordo fra Confindustria e CGIL-CISL e UIL?
Italia e Nuovo Modello di Difesa
La presentazione di un progetto per un Nuovo Modello di Difesa (N.M.D) italiano, elaborato dal ministero per la difesa guidato Rognoni (governo Andreotti) nel 1991, avveniva sei anni dopo l’approvazione del Libro Bianco 1985 con Giovanni Spadolini (Partito Repubblicano).
Se la stesura del libro bianco subiva l’influenza dell’esperienza fallimentare in Libano (1982-84) e segnava una svolta ulteriore nell’approccio nazionale all’uso della forza militare, il Nuovo Modello di Difesa risentì notevolmente delle conseguenze dell’operazione “Desert Storm”.
Dopo il crollo del Muro di Berlino avviene così un cambiamento estremamente rilevante: il contesto strategico internazionale non appare più limitato al confronto est-ovest ma si amplia di nuovi fronti di sicurezza come Nord e Sud ed i conflitti nel cosiddetto “terzo mondo”. La netta separazione tra pace e guerra iniziava a dissolversi.
Desert Storm contribuì a ridefinire le necessità di trasformazione nel nuovo decennio e le lezioni apprese durante il conflitto furono determinanti per favorire un generale cambiamento nella politica di difesa italiana. Il Nuovo Modello descrive il passaggio dalla semplice necessità di difesa al “mantenimento della stabilità”. In questo contesto il documento evidenzia la collocazione geo-strategica dell’Italia come elemento condizionante la sua politica di difesa ed evidenzia la vulnerabilità strategica dell’Italia nel settore dell’approvvigionamento petrolifero. Lo Strumento militare italiano deve avere lo scopo prioritario di difendere gli interessi strategici all’estero e di salvaguardare la pace nello scenario internazionale
Il Nuovo Modello continuava però a precisare la volontà di evitare un “confronto competitivo” per perseguire la ricerca del dialogo e la cooperazione attraverso interventi militari a “prevalente connotazione politica”.
Nel 2001 viene elaborato un documento sul futuro della Difesa italiana.
Una sorta di libro bianco intitolato “Nuove Forze per un Nuovo Secolo” che da un lato trae un bilancio sul percorso compiuto dopo il crollo del Muro di Berlino, dall’altro guarda ad un futuro sempre più europeo e atlantico e alle modalità con cui l’Italia deve impiegare i propri contingenti al di fuori del territorio nazionale investendo di più e meglio. Il documento era stato elaborato e pubblicato nei mesi precedenti all’attacco dell’11 Settembre. Il ministro della difesa era Sergio Mattarella (Popolari).
I nodi centrali di una nuova cultura strategica erano l’interpretazione multidimensionale della sicurezza, l’integrazione internazionale ed interforze, la rivoluzione nel campo dell’informazione, l’accresciuto ruolo globale dell’Italia e le sue responsabilità. Questi indirizzi portavano ad alla costituzione di una forza interamente professionale e un’adeguata politica industriale di settore.
Il Libro Bianco del 2002 risente del nuovo contesto internazionale emerso in seguito agli attentati di New York e Washington dell’11 Settembre 2001.
Nella premessa del testo, a cura dell’allora Ministro della Difesa Antonio Martino (Forza Italia), si rileva una “nuova realtà della sicurezza planetaria” e si auspica che la coesione atlantica contrasti la nuova minaccia: il terrorismo. La partecipazione italiane alle PSO (operazioni a supporto della pace) rappresenta ormai il cuore dei cambiamenti intervenuti in quasi vent’anni dall’ultimo libro bianco, e si parla chiaramente di missioni delle forze armate italiane che devono evolvere da una dimensione statica di difesa della sovranità alla prevenzione e gestione delle crisi a livello internazionale. A queste missioni si devono aggiungere le operazioni di assistenza e quelle di prevenzione dell’immigrazione illegale. Durante le missioni militari all’estero viene applicato il codice penale militare di pace e non di guerra.
In questo Libro Bianco si introduce L’F-35: Programma di cooperazione internazionale (con USA, Regno Unito ed altri) per realizzare un velivolo stealth multiruolo che soddisfi le esigenze di differenti Forze Armate (per l’Italia Marina e Aeronautica), utilizzando criteri di progetto in grado di ridurre i costi di sviluppo, di produzione e di supporto in genere, facendo uso di soluzioni modulari con integrazione di molteplici tecnologie avanzate.
Il “Concetto Strategico del Capo di Stato Maggiore” del 2005 tratta della logica di interoperabilità delle forze sia a livello nazionale che internazionale. Vi deve essere un processo di adattamento delle forze, della dottrina e delle capacità esprimibili dallo Strumento Militare. Il Concetto Strategico sottolinea la possibilità di far intervenire le Forze Armate italiane anche a grande distanza dai confini nazionali, per “far fronte dinamicamente alla minaccia laddove essa si alimenta”, e fa riferimento alle forme di conflitto simmetrico e alla necessità di dotarsi di un’aliquota di forze con “adeguate capacità combat per interventi brevi ed intensi”.
Il Capo di Stato Maggiore illustra la necessita di una forza “expeditionary” dotata di una a struttura flessibile e net-centrica. Non vi sono riferimenti espliciti ad una dottrina nazionale di counterinsurgency ma illustra le “capacità operative fondamentali” necessarie per soddisfare tali missioni. Dunque non solo missioni per la ricostruzione ed assistenza ma anche operazioni ad alta intensità.
“Investire in Sicurezza 2005” è un documento che richiama la necessità di destinare risorse adeguate per lo sviluppo dello Strumento Militare e mette in luce il forte squilibrio nel bilancio della difesa e i rischi in termini di impoverimento di capacità. il documento identifica tre distinti microscenari strategici e per ognuno prevede diverse tipologie di forze sia per quanto riguarda le capacità di proiettabilità, sia per quanto attiene a mezzi ed addestramento. Sicurezza degli spazi nazionali, partecipazione ad operazioni di coalizione per la tutela degli interessi vitali e per la risoluzione delle crisi in tempi rapidi e “operazioni risolutive”.
Anche qui troviamo l’F-35: Le capacità di trasporto e supporto della componente aerea imbarcata saranno rafforzate con l’introduzione in servizio dei nuovi elicotteri EH-101 e NH-90, mentre l’ammodernamento dei velivoli AV8-B garantirà migliori capacità di protezione della flotta e di proiezione di potenza in attesa della loro sostituzione, prevedibilmente affidata al JSF.
Gli sviluppi nel settore degli armamenti di precisione, dell’integrazione net-centrica e delle capacità individuali delle nuove piattaforme consentiranno il progressivo incremento delle capacità della forze aeree, anche a fronte della prevista riduzione del livello quantitativo. Il futuro “potere aereo” nazionale sarà realizzato attraverso un mix calibrato di velivoli multiruolo Eurofighter Typhoon e JSF, in grado di fornire l’insieme delle capacità difensive e offensive oggi esprimibili da un numero maggiore di velivoli dedicati.
Emerge dunque una nuova concezione multidimensionale di sicurezza non più limitata alla difesa dei confini nazionali. La minaccia del terrorismo e le crisi regionali che possono minare la stabilità internazionale appaiono come i rischi più concreti che l’Italia deve affrontare nel nuovo contesto post-bipolare. Allo stesso tempo, però, si sviluppa un’immagine precisa dell’Italia come peacekeeping internazionale.
Nel 2006 viene pubblicato il documento “La Trasformazione net-centrica” il cui obiettivo è quello di mettere in rete informazioni e capacità operative per il raggiungimento degli esiti ed effetti voluti. L’Italia deve inserirsi nei processi di trasformazione tecnologica e dottrinale in atto nei paesi alleati. Il concetto di Network Centric Warfare (NCW) si applica alle operazioni ad alta intensità di tipo combat, a quelle PSO e assistenza umanitaria. La partecipazione attiva alle missioni internazionale richiede all’Italia di adeguare il proprio strumento militare a nuove realtà operative, e la trasformazione net-centrica ha il ruolo di moltiplicatore di forze nelle aree di intervento.In questo documento si dà rilievo all’ UAV (Unmanned Aerial Vehicle).
Dai vari documenti si evince che le Forze Armate mantengono un atteggiamento ambiguo che passa da un approccio incentrato sul dialogo, sulla cooperazione civile-militare e su un uso minimo della forza, ad operazioni combat di counter-insurgency in cui le armi e il ruolo dell’intelligence sono fondamentali per ottenere il controllo sul territorio per cui si rende necessaria una redistribuzione delle risorse all’interno della Funzione difesa e della voce investimenti.
E’ importante perciò per i pacifisti e gli antimilitaristi che si battono contro l’F-35 mantenere una forte attenzione a quello che sarà il nuovo modello di difesa visto che è da tempo che il Governo annuncia grandi cambiamenti.
Per l’elaborazione della proposta di un nuovo modello di difesa è stata insediata un’apposita Commissione di alta consulenza e studio che ha da tempo concluso i suoi lavori ma non risulta essere stata elaborata e presentata la relazione finale.
http://www.peacelink.it/disarmo/a/34378.html
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Come uscire dalla crisi 16.07.2011
Intervista a Emiliano Brancaccio
In più occasioni ci è capitato di leggere dell’Europa come di un continente destinato al declino. C’è ancora spazio per il “vecchio mondo” o siamo destinati a essere “periferia dell’economia mondiale”?
L’Unione europea è il più grande esportatore mondiale di manufatti e servizi. Definirla una “periferia” mondiale è un errore. Seguendo una chiave interpretativa ancora attuale, fondata sulla categoria di imperialismo, l’Unione europea si situa tuttora al “centro” degli assetti del capitale mondiale, e mantiene un rapporto di controllo sulle periferie che orbitano attorno ad essa. Si tratta di un controllo economico ma anche politico e militare, come la guerra in Libia sta dimostrando in questi mesi.
Il grande limite dell’Europa, rispetto agli USA, risiede principalmente nella moneta. Gli Stati Uniti, forti della posizione di dominio monetario internazionale garantita dal dollaro, hanno per lungo tempo governato endogenamente lo sviluppo nazionale e mondiale. L’Europa invece si è mossa al traino, in una posizione che sul piano macroeconomico è stata quasi sempre subordinata agli USA. La stessa moneta unica non è nata con il proposito di diventare una moneta internazionale realmente alternativa al dollaro, ma sembra piuttosto essersi proposta quale baluardo della stabilità monetaria, una sorta di rifugio per il capitale ogni volta che il dollaro fosse stato soggetto a crisi e fluttuazioni eccessive. Fino ad oggi, dunque, le autorità europee non hanno quasi mai messo seriamente in discussione il primato macroeconomico e monetario americano.
Un ruolo nuovo e alternativo dell’Europa potrebbe allora consistere nel contribuire a delineare, con la Cina e gli altri paesi emergenti, un credibile sentiero di uscita dall’era del dollaro. Si tratta di una operazione complessa e potenzialmente rischiosa. Bisogna infatti capire che il passaggio da un regime monetario internazionale a un altro non avviene mai spontaneamente a seguito di una crisi, ma costituisce sempre un dirompente atto politico.
Esistono oggi le condizioni effettive di una teoria economica a livello internazionale della sinistra di alternativa? Dopo la “caduta” del socialismo reale che pur nei suoi limiti aveva alcuni riferimenti economici forti, oggi sembrano assenti anche sul piano teorico, indicazioni di modificazione strutturale e funzionale per la società.
Credo, con altri, che per innovare la riflessione teorica e politica degli eredi del movimento operaio sarebbe utile cominciare a esaminare l’esperienza sovietica, le sue grandezze ed anche i suoi orrori, in chiave finalmente scientifica e storico-critica. Fino ad oggi, anche a sinistra ha prevalso una lettura demagogica della vicenda politica che più di ogni altra ha segnato il Novecento. Questa approssimazione la si sta pagando cara. Si tratta infatti di una questione non desueta ma molto attuale, come dimostra il fatto che la minaccia sovietica è entrata per tanti anni nella funzione di produzione del sistema di welfare occidentale, e che il welfare è entrato in crisi anche a seguito della scomparsa di quella minaccia.
Potremmo dire, a questo riguardo, che la presenza di quel “Grande Altro” in un certo senso rappresentava la ragion d’essere non solo e non semplicemente dei comunisti della terza internazionale ma anche di tutti gli altri eredi della tradizione del movimento operaio, anche degli stessi socialdemocratici. Questi ultimi, non a caso, finita l’esperienza sovietica sono entrati essi stessi in una crisi d’identità generale.
Ridiscutere dell’esperienza sovietica sarebbe utile dunque per ridefinire una possibile alterità politica al mercato, ossia per attualizzare il tema più generale della pianificazione. Occorre indagare in chiave scientifica e storico-critica delle potenzialità e degli enormi limiti della politica economica sovietica proprio per riscoprire la potenziale modernità del “piano”. La crisi iniziata nel 2007-2008, da cui non siamo ancora usciti, offre spunti importanti in questo senso, che purtroppo non sono stati ancora colti.
Naturalmente, sarebbe ingenuo discutere oggi di “pianificazione socialista” in termini ideali. Il discorso sulla pianificazione si articola e si modifica in funzione dell’articolazione e del mutamento dei rapporti di forza. È chiaro quindi che esso andrebbe sviluppato e riproposto in funzione della dinamica di quei rapporti, perché “piano” può significare molte cose. Basti ricordare che durante la prima crisi petrolifera furono addirittura gli Stati Uniti ad essere investiti da un grande dibattito sulla pianificazione, a seguito delle proposte avanzate al Congresso dal Comitato per la Pianificazione Nazionale guidato dal premio Nobel per l’economia Wassily Leontief. A mio avviso, nell’attuale fase storica, maggiore sarà la capacità di articolare il discorso della pianificazione, maggiori saranno le possibilità di costituire un insieme credibile di alternative alla ideologia anarco-liberista del mercato capitalistico, in piena crisi ma tutt’altro che sconfitta.
La situazione economica è tale da creare oggettive difficoltà per una politica di redistribuzione della ricchezza. Ciò deriva non solo dai rapporti di forza tra le classi (elemento sicuramente importante) ma anche dall’assenza di strumenti internazionali votati ad una visione più equa dei rapporti fra lavoro e capitale. Secondo te un governo di centrosinistra, ammettendo anche una presenza non marginale della sinistra, avrebbe la possibilità concreta di dare un effettivo segnale di inversione di tendenza alle masse popolari e lavoratori?
Cominciamo col dire che l’Italia si trova in questo momento all’intero di una partita che riguarda l’assetto dell’unione monetaria europea. Una partita che ruota attorno ad un progetto di matrice tedesca e che mira a fare dell’Europa una sorta di “grande Germania”. Si tratta di un processo che dura da tempo ma che a seguito della crisi 2007-2008 è andato inasprendosi. Ciò determina uno scontro interno agli assetti del capitale europeo, tra paesi e capitali in avanzo e paesi e capitali in disavanzo. Oggi più che mai la contesa tra capitale e lavoro non può essere esaminata separatamente dallo scontro in atto tra capitali. Anzi, potremmo dire che esaminarla in termini separati è del tutto velleitario.
In questo scenario una politica economica nazionale dovrebbe vertere su due obbiettivi chiave.
Il primo obiettivo dovrebbe consistere nel mettere in discussione il progetto di “germanizzazione europea”. Questo progetto mira a fare dell’Europa una sorta di gigantografia della Germania: vale a dire una grande zona economica votata alla deflazione, alla competizione internazionale e alla esportazione di merci e servizi all’estero. Per realizzare questo programma occorre tuttavia che il controllo del capitale europeo risulti sempre più centralizzato e unificato. Questo meccanismo unificante avviene in termini conflittuali, nel senso che il paese guida, la Germania, attua una deflazione competitiva che colpisce duramente i capitali periferici del’Unione e i lavoratori europei nel loro complesso. Per questo motivo bisognerebbe assumere una posizione precisa nello scenario europeo, alternativa a quella tedesca. Se mai ciò avvenisse, sarebbe una interessante novità sul piano dei rapporti politici intra-europei.
In secondo luogo, occorre partire da una evidenza: il capitale nazionale è in estrema difficoltà nella contesa europea in atto. Si fatica a riconoscerlo, ma sussiste persino un rischio di take-over esteri sul capitale bancario nazionale. Tra i motivi di questo continuo affanno del sistema produttivo italiano vi è il fatto che nel nostro paese, non solo al Sud ma anche al Nord, c’è una netta prevalenza di piccole e piccolissime imprese. Il capitale dunque risulta polverizzato, frammentato, disorganizzato e quindi, a lungo andare, scarsamente competitivo. Abbiamo a lungo assecondato questi micro-capitali a colpi di de-sindacalizzazioni, agevolazioni e prebende. I risultati sono stati a dir poco deludenti. Siamo passati dai salari tra i più alti ai salari tra i più bassi d’Europa, abbiamo fatto precipitare gli indici di protezione del lavoro. Eppure la competitività dei capitali nazionali si è comunque ridotta. Per uscire dalla crisi nazionale in atto bisognerebbe allora chiudere quella lunga stagione di politica economica e del consenso che si è fondata sullo slogan “piccolo è bello”. Bisognerebbe cioè fare in modo che si acceleri un processo di riorganizzazione e centralizzazione dei capitali nazionali. Affinché questo processo possa iniziare occorre che i costi di produzione non diminuiscano, ma aumentino! In altre parole, la dinamica dei salari dovrebbe essere resa più sostenuta attraverso un rilancio dei contratti nazionali, bisognerebbe chiudere la stagione delle prebende a favore di piccole imprese fuori mercato, bisognerebbe insistere con la lotta all’evasione fiscale e alle violazioni delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro. Tutto questo potrebbe creare condizioni favorevoli per “forzare” il capitale nazionale a riorganizzarsi per una volta in termini “virtuosi”. Sono in molti a riconoscere che questo è il sentiero di politica economica e industriale che un paese periferico come il nostro dovrebbe percorrere. Tuttavia, allo stato dei fatti, è molto difficile che si possano creare le condizioni affinché una operazione politica così ambiziosa possa compiersi in Italia. Di certo è molto improbabile che ciò avvenga in assenza di nuove spinte e rivendicazioni provenienti dal mondo del lavoro.
Nel quadro che abbiamo tracciato, quale dovrebbe essere a tuo giudizio l’atteggiamento delle forze di sinistra d’alternativa nei confronti della dimensione europea?
Qualche segnale di ripensamento intorno all’impianto del trattato europeo lo abbiamo avvertito, in maniera anche netta. Sia pure con un enorme ritardo, che rischiamo di pagare caro, anche l’ultimo documento del PSE, pubblicato a Varsavia nel dicembre 2010, rappresenta una svolta rispetto a quella che era la linea prevalente tra i socialdemocratici fino a poco tempo fa. Questo significa che anche tra i più riottosi nei confronti di un’esigenza di riforma dei trattati la crisi morde e produce qualche effetto positivo.
Fondamentalmente, in questo documento, come in altri, si indica un’alternativa al progetto di “germanizzazione europea”. In alternativa alla logica deflazionista del progetto di marca tedesca, questi documenti suggeriscono una linea che consiste nella definizione di un motore interno dello sviluppo economico europeo.
E’ la strada giusta, Tuttavia, anche nei documenti di impronta socialista più avanzati di solito manca un’analisi approfondita degli squilibri interni all’Unione europea, tra paesi centrali caratterizzati da un sistematico surplus verso l’estero e paesi periferici caratterizzati da un crescente deficit verso l’estero.
Le forze di sinistra e le rappresentanze politiche e sociali del lavoro dovrebbero allora concentrarsi proprio su questi squilibri interni. Personalmente ho avanzato una proposta in questo senso: si chiama “standard salariale” o “standard retributivo europeo” (per articoli e interviste dedicate all’argomento si può visitare il sito www.emilianobrancaccio.it, Ndr). Si tratta di uno strumento che mira a costringere la Germania e gli altri paesi in surplus commerciale a far crescere i salari reali più della produttività. In questo modo i paesi in surplus non potrebbero più condurre l’Europa lungo un sentiero di deflazione competitiva ma dovrebbero al contrario sviluppare la loro domanda interna, a partire dai redditi dei lavoratori, attivando così da un lato un meccanismo endogeno di sviluppo dell’Europa nel suo complesso, e determinando dall’altro anche un processo di riequilibro commerciale tra centri e periferie europee. Questo è uno strumento interessante perché ci fa capire che l’interesse all’unità europea può essere fatto coincidere con gli interessi dei lavoratori, siano essi tedeschi o greci, italiani o spagnoli. Potremmo definirlo un modo concreto e non retorico di concepire un nuovo internazionalismo del lavoro.
In effetti di “standard retributivo” si è iniziato a discutere in sede politica, a livello nazionale ed europeo. Naturalmente, è difficile dire se vi siano oggi i margini per tramutarlo in una proposta politica concreta. Quel che è certo è che se non si verrà a creare un varco per una linea di politica economica alternativa, finalizzata alla costituzione di un motore interno dello sviluppo e di un meccanismo di riequilibrio tra centri e periferie, l’unità europea correrà un grave rischio e i lavoratori del continente, più di tutti, continueranno a subire i pesantissimi effetti della deflazione.
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La memoria gelatinosa bio-compatibile 18.07.2011
Ricercatori statunitensi creano un complesso capace di immagazzinare informazioni in formato binario. E di interagire con composti biologici poco compatibili con l’elettronica tradizionale
Roma – La “memoria-gelatina” biocompatibile è un’idea della North Carolina State University, dove i ricercatori hanno realizzato il prototipo di quello che potrebbe rappresentare un importante passo in avanti verso l’interazione fra biologia (umana) e tecnologie elettroniche basate su freddi (e velenosi) metalli.
“Abbiamo creato un dispositivo di memoria con le proprietà fisiche del Jell-O”, dice il professor Michael Dickey riferendosi all’omonima marca di dessert gelatinosi venduti negli USA. Il dispositivo è composto da una amalgama liquida di gallio e indio immersa in gel acquosi, ed è in grado di reagire alle cariche positive o negative attraverso un’attività ionica che modifica la resistenza elettrica del composto.
Ma soprattutto la memoria gelatinosa dell’NCSU ha la capacità di funzionare in ambienti umidi che porterebbero i tradizionali circuiti integrati a una sicura morte per cortocircuito. La quantità di memoria attualmente integrata nel dispositivo è modesta, ma le possibilità di utilizzo sono interessanti.
Poter impiegare la memoria-gelatina in ambienti acquosi potrebbe portare alla realizzazione di “sensori biologici per il monitoraggio medico”, suggerisce il professor Dickey, così come si potrebbero realizzare soluzioni biotech in grado di interagire a stretto contatto con cellule e tessuti viventi.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/3217623/PI/Commenti/memoria-gelatinosa-bio-compatibile.aspx
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No logo dieci anni dopo 20.07.2011
Naomi Klein, The Guardian, Gran Bretagna
La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali. Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento deve venire dal basso.
Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea.
Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.
Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto molto poco su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il romanzo di William Gibson L’accademia dei sogni. La protagonista, Cayce Pollard, è allergica ai marchi, in particolare a Tommy Hilfiger e all’omino Michelin. Questa “insofferenza morbosa e a volte violenta alla semiotica del mercato” è così forte che Cayce fa raschiare i bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il logo.
Quando ho letto queste parole, ho capito subito di soffrire della stessa malattia di Cayce. Non è un disturbo congenito, ma una malattia che insorge con il tempo a causa di una sovraesposizione prolungata. Da bambina e da adolescente ero attratta dai marchi in modo quasi ossessivo. Ma per scrivere No logo mi sono immersa completamente nella cultura della pubblicità per quattro anni: quattro anni passati a studiare gli spot del Super bowl, a sfogliare Advertising Age in cerca delle ultime idee per migliorare le sinergie aziendali, a leggere deprimenti libri di marketing sul valore del personal brand, a frequentare seminari aziendali e a girare per le Niketown e i centri commerciali.
Per certi versi è stato divertente. Ma alla fine mi sembrava di aver varcato una soglia e, come Cayce, ho sviluppato una specie di allergia ai marchi. I marchi hanno perso gran parte del loro fascino ai miei occhi, ed è stato un bene perché, quando No logo è diventato un bestseller, se avessi bevuto una Diet Coke in pubblico sarei finita subito nella rubrica di gossip di qualche quotidiano locale.
L’insofferenza si è estesa anche al marchio che io stessa avevo involontariamente creato: No logo. Dopo aver studiato marchi come Nike e Starbucks, conoscevo bene le tecniche del brand management: trovare il messaggio, brevettarlo, proteggerlo e ripeterlo fino alla nausea facendo interagire mezzi di comunicazione diversi. Ho deciso di infrangere queste regole ogni volta che mi si presentava l’occasione. Ho rifiutato le offerte per alcuni progetti basati su No logo (un lungometraggio, una serie tv, una linea di abbigliamento) e gli inviti delle multinazionali e delle agenzie pubblicitarie a tenere seminari sull’odio contro le multinazionali (stavo imparando che si può costruire una carriera sul personaggio della dominatrice sadomaso antiaziendalista, e far felici i manager strapagati spiegandogli quanto sono cattivi). Contro il parere di tante persone, sono rimasta fedele al proposito di non registrare il titolo del libro come un marchio (non ho percepito diritti d’autore dalla linea di prodotti alimentari italiani No logo, ma mi hanno mandato del delizioso olio d’oliva in omaggio).
Il programma di disintossicazione a cui mi sono sottoposta si può riassumere in due parole: cambiare argomento. Quando non era ancora passato un anno dall’uscita di No logo, ho smesso di parlare di marchi. Nelle interviste e negli incontri pubblici, invece di discutere delle ultime frontiere del marketing virale e del nuovo superstore di Prada, parlavo del movimento di resistenza al dominio delle multinazionali che si era fatto conoscere in tutto il mondo protestando contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a Seattle. “Ma non sei un marchio anche tu?”, mi chiedevano i giornalisti furbi. “È probabile”, rispondevo io. “Ma mi sforzo di essere un pessimo marchio”.
Cambiare argomento – passare dai marchi alla politica – non è stato un grande sacrificio, perché era stata la politica a farmi avvicinare al marketing. I miei primi articoli denunciavano le scarse opportunità di lavoro per me e per i miei coetanei, la diffusione dei contratti a breve termine e lo sfruttamento della manodopera per produrre la merce che ci viene venduta. Da brava “giovane opinionista”, denunciavo il modo in cui la cultura del marketing si espandeva anche fuori dalle aziende in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e i parchi. Intanto le idee e le parole d’ordine che io e i miei compagni consideravamo radicali venivano assorbiti nelle nuove campagne pubblicitarie della Nike, di Benetton e della Apple.
Imprese vuote
Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.
Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.
Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il mondo.
Il governo all’asta
Quando è uscito No logo, il movimento si era già schierato davanti ai cancelli delle istituzioni che diffondevano il corporativismo nel mondo. Migliaia di dimostranti protestavano fuori dai summit sul commercio internazionale e dalle riunioni del G8, a Seattle come a Nuova Delhi, e in molti casi riuscivano a fermare sul nascere i nuovi accordi. Quello che i mezzi d’informazione istituzionali continuavano a definire “il movimento contro la globalizzazione” non era niente del genere. L’ala riformista del movimento si opponeva alle grandi aziende, l’ala radicale era anticapitalista. Ma a renderlo unico era l’insistenza sull’internazionalismo. Tutto questo per dire che mentre facevo il tour promozionale del libro c’erano cose più interessanti dei loghi di cui parlare: per esempio da dove veniva quel movimento, cosa voleva e se esistevano alternative a quella spietata difesa di interessi particolari che andava sotto l’innocuo pseudonimo di “globalizzazione”.
Negli ultimi anni, tuttavia, mi sono ritrovata a fare una cosa che avevo giurato di non fare più: rileggere i grandi esperti di branding citati nel mio libro. Mi sono serviti per capire cosa stava succedendo non nei centri commerciali, ma alla Casa Bianca, sia durante la presidenza di George W. Bush sia oggi con Barack Obama, il primo presidente statunitense che è anche un supermarchio.
Gli anni di Bush sono stati odiosi e violenti per molti motivi: le invasioni, le guerre, la difesa di metodi violenti come la tortura, il tracollo dell’economia globale. Ma l’eredità più pesante lasciata dall’amministrazione Bush è il modo in cui ha sistematicamente fatto al governo statunitense quello che i dirigenti fissati con il branding avevano fatto alle loro aziende dieci anni prima: l’ha svuotato, assegnando al settore privato molte funzioni essenziali, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence. Questo svuotamento non è stato un progetto secondario dell’amministrazione Bush, ma una missione centrale, che ha riguardato ogni ambito della sfera governativa. E anche se il clan di Bush è stato spesso preso in giro per la sua incompetenza, l’impresa di mettere all’asta lo stato, riducendolo a un guscio vuoto – o a un marchio – è stata condotta con un impegno e una dedizione straordinari.
Oggi molti servizi fondamentali sono forniti dalla Lockheed Martin, la più grande azienda privata del mondo nel settore della difesa. “La Lockheed Martin non governa gli Stati Uniti”, scriveva il New York Times nel 2004, “ma contribuisce a governarne una percentuale enorme. Smista la vostra corrispondenza e calcola le tasse che dovete pagare. Stacca gli assegni di previdenza sociale e organizza il censimento. Gestisce i voli spaziali e controlla il traffico aereo. Per fare tutto questo, scrive più codice informatico della Microsoft”.
Nessuno si è impegnato con più zelo a mettere all’asta il governo degli Stati Uniti del tanto vituperato segretario di stato di Bush, Donald Rumsfeld. Avendo lavorato per più di vent’anni nel settore privato, Rumsfeld era imbevuto di cultura del branding e dell’esternalizzazione. E aveva molto chiaro qual era il marchio che il suo dipartimento doveva promuovere: il dominio globale. La competenza chiave era combattere. Per tutto il resto, diceva Rumsfeld con un tono che lo faceva somigliare a Bill Gates, “dobbiamo cercare fornitori che implementino le attività secondarie”.
Questa visione radicale è stata sperimentata in Iraq durante l’occupazione statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato la dislocazione delle truppe come un vicepresidente di Walmart che cerca di risparmiare sul personale. I generali volevano 500mila soldati, lui ne offriva 200mila, con i contractor e i riservisti a colmare le lacune secondo necessità. Seguiva la filosofia industriale del just in time: produrre solo quello che è già stato venduto o che si venderà immediatamente. Nella pratica, mentre la situazione irachena sfuggiva al controllo degli Stati Uniti, l’industria privata della guerra cresceva sempre di più per sostenere un esercito ridotto all’osso.
La Blackwater, che originariamente doveva limitarsi a fornire guardie del corpo al diplomatico statunitense Paul Bremer, presto si è assunta altri compiti, compresa una battaglia contro l’esercito del Mahdi nel 2004. Quando la guerra si è spostata nelle prigioni, piene di migliaia di iracheni rastrellati dai soldati americani, i contractor si sono occupati di interrogare i prigionieri, e in alcuni casi sono stati accusati di torture. Nel frattempo, la gigantesca Green zone era amministrata dalla Halliburton come una città-stato aziendale. Se la Nike e la Microsoft sono state le prime imprese vuote, la guerra in Iraq in molti sensi è stata una guerra vuota. E quando uno degli appaltatori ha commesso un errore grave – per esempio quando nel 2007 gli uomini della Blackwater hanno aperto il fuoco in piazza Nisour a Baghdad uccidendo diciassette civili – l’amministrazione Bush, come tante imprese vuote prima di lei, ha potuto negare ogni responsabilità, scaricando la colpa sui contractor. La Blackwater, la Disney delle compagnie mercenarie, aveva perfino la sua linea di abiti e orsacchiotti con il logo. E sapete come ha risposto agli scandali? Con un rebranding. Oggi si chiama Xe Services.
L’America rinata
L’amministrazione Bush ha deciso di imitare le imprese vuote, che tanto ammirava, anche nel modo di reagire alla rabbia suscitata in giro per il mondo. Invece di cambiare davvero la sua politica, o anche solo di aggiustare il tiro, ha lanciato una serie di sfortunate campagne per un rebranding degli Stati Uniti di fronte a un mondo sempre più ostile.
Osservando quegli imbarazzanti tentativi, mi sono persuasa che avesse ragione Price Floyd, l’ex direttore dell’ufficio stampa del dipartimento di stato. Dopo essersi dimesso per la frustrazione, Floyd ha dichiarato che gli Stati Uniti erano il bersaglio di tanta rabbia non a causa di una campagna di comunicazione sbagliata, ma a causa di una politica sbagliata. “Partecipavo a riunioni con altri funzionari del dipartimento di stato e della Casa Bianca”, ha raccontato Floyd al magazine online Slate. “Dicevano: ‘Dobbiamo dare più visibilità ai nostri sui mezzi d’informazione’. Io ribattevo: ‘Il problema non è l’apparenza, ma la sostanza’”. Una potenza imperialista non è come un hamburger o una scarpa da jogging. Il problema dell’America non era il marchio, ma il prodotto. Un tempo la pensavo così, ma a un certo punto ho pensato che forse mi ero sbagliata.
Quando Barack Obama è diventato presidente, il marchio statunitense era ai minimi storici: Bush era per il suo paese quello che la New Coke era per la Coca-Cola, o quello che il cianuro era stato per il Tylenol. Eppure Obama, con una delle campagne di rebranding più efficaci della storia, è riuscito a invertire la tendenza. Kevin Roberts, l’amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, ha voluto illustrare graficamente quello che il nuovo presidente rappresentava. In un’immagine a tutta pagina pubblicata sulla rivista patinata Paper Magazine, ha messo la statua della libertà a gambe aperte che partorisce Barack Obama. L’America rinata.
Sembrava che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi problemi di reputazione con il branding: servivano solo una buona campagna promozionale e un testimonial abbastanza giovane e alla moda per riuscire a competere nel difficile mercato del momento. E il testimonial è stato trovato in Barack Obama, un uomo dotato di un istinto naturale per il marketing, che si è circondato di una squadra di grandi esperti di pubblicità.
Come coordinatore della sua campagna sui social network ha scelto Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook. E come responsabile degli eventi sociali della Casa Bianca ha preso Desirée Rogers, un’affascinante laureata in gestione d’impresa ad Harvard ed ex responsabile del marketing di alcune aziende private. David Axelrod, il principale consigliere di Obama, è stato socio della Ask Public Strategies, una società di pubbliche relazioni che ha organizzato campagne per aziende come Cablevision e At&t.
Questa squadra di consulenti ha sfruttato tutte le risorse del moderno arsenale del marketing per lanciare e far crescere il marchio Obama: un logo perfettamente calibrato (un sole che sorge sopra la bandiera a stelle e strisce); un uso attento del marketing virale (suonerie a tema Obama); il product placement (spot a favore di Obama nei videogiochi); uno spot tv da trenta minuti (che rischiava di apparire melenso, ma che invece è stato definito da tutti “autentico”); e alleanze strategiche con altri marchi (Oprah Winfrey per ampliare al massimo il bacino d’ascolto, la famiglia Kennedy per darsi un tono serio; e un mucchio di star dell’hip-hop per costruirsi un’immagine al passo con i tempi).
Quando ho visto per la prima volta il video di Yes we can, quello prodotto da will.i.am (il cantante dei Black Eyed Peas), in cui alcune celebrità parlano e cantano sul sottofondo di un discorso di Obama in stile Martin Luther King, ho pensato: ecco finalmente un politico che trasmette in tv uno spot fico come quello della Nike. Le agenzie pubblicitarie erano d’accordo con me. Poche settimane prima di vincere le elezioni, Obama ha battuto la Nike, la Apple, la Coors e la Zappos aggiudicandosi il premio dell’Associazione nazionale dei pubblicitari. Di sicuro è stata una svolta. Negli anni novanta i grandi marchi rubavano completamente la scena alla politica, oggi le aziende fanno a gara per salire sul carro di Obama – basta pensare alla campagna Choose change (scegli il cambiamento) della Pepsi-Cola, allo slogan Embrace change (accogli il cambiamento) dell’Ikea e ai biglietti Yes you can offerti dalle linee aeree Southwest.
In effetti, ogni cosa sfiorata da Obama o dalla sua famiglia si trasforma in oro. Il valore di mercato della J.Crew è cresciuto del 200 per cento nei primi sei mesi della presidenza Obama, anche grazie alla nota predilezione di Michelle per quel marchio di abbigliamento. La passione di Obama per il Blackberry ha fruttato vantaggi simili al produttore Research In Motion. Il modo più sicuro per vendere giornali e riviste in questi tempi difficili è mettere Obama in copertina, e per vendere a quindici dollari un cocktail a base di vodka e succo di frutta basta chiamarlo Obamapolitan o Barackatini.
Secondo la rivista Portfolio, a febbraio del 2009 la “Obama economy” – il turismo generato dal presidente e i gadget a lui ispirati – valeva 2,5 miliardi di dollari. Niente male, in piena crisi economica. Desirée Rogers si è messa nei guai con alcuni colleghi quando ha parlato con troppa franchezza al Wall Street Journal: “Abbiamo il marchio migliore del mondo: il marchio Obama”, ha detto. “Le nostre possibilità sono infinite”.
Bush aveva usato il suo ranch di Crawford, in Texas, come fondale per la sua interpretazione del Marlboro Man, che passa il tempo a sfrondare cespugli e a preparare barbecue con gli stivali da cowboy ai piedi. Obama si è spinto molto più in là, trasformando la Casa Bianca in una specie di reality show senza fine che ha per protagonista l’adorabile clan Obama. Anche questo ha a che fare con la mania per il branding, quella esplosa a metà degli anni novanta, quando gli esperti di marketing si sono stancati dei limiti della pubblicità tradizionale e hanno cominciato a creare “esperienze” tridimensionali: dei templi delle griffe dove i clienti potevano esplorare la personalità dei loro marchi preferiti. Desirée Rogers somigliava molto a quei guru quando ha definito la Casa Bianca il “fiore all’occhiello” del marchio Obama, uno spazio fisico in cui il governo può incarnare i valori di trasparenza, innovazione e diversità che hanno portato alle urne tanti elettori.
La Coca-Cola e la tisana
Il problema non è che Obama usa gli stessi trucchi dei grandi marchi. Oggi chiunque voglia influenzare la società deve farlo. Il problema è che, come è successo prima di lui a tanti altri marchi legati agli stili di vita, quello che fa non è minimamente all’altezza delle aspettative. È presto per emettere un verdetto sulla sua presidenza, ma sappiamo questo: Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo.
Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore ”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano.
Questa predilezione per i simboli a scapito della sostanza, e la riluttanza a tenere fede a un’etica cristallina quando questa comporta scelte impopolari, sono i punti su cui Obama si allontana decisamente dai movimenti politici rivoluzionari a cui tanto si è ispirato (i poster di pop art che ha preso dal Che, il modo di parlare alla Martin Luther King, lo slogan yes we can che richiama il Sí, se puede degli agricoltori immigrati). Le richieste di quei movimenti erano molto chiare: la distribuzione delle terre, l’aumento dei salari, programmi sociali ambiziosi. Quelle richieste avevano costi elevati, e per questo i movimenti avevano non solo militanti convinti ma anche nemici agguerriti.
Invece Obama, a differenza non solo dei movimenti ma anche di presidenti innovatori come Franklin D. Roosevelt, segue la logica del marketing: offrire uno schermo invitante su cui ognuno è chiamato a proiettare i suoi desideri più profondi, e farlo in modo abbastanza vago da non lasciare indietro nessuno, a parte i più radicali (che peraltro sono un segmento non irrilevante di popolazione negli Stati Uniti). Advertising Age aveva ragione quando scriveva che il marchio Obama “è grande abbastanza da poter rappresentare qualunque cosa, ma anche abbastanza personale da guadagnarsi il sostegno di chiunque”. E poi, la lode più sperticata: “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.
In altri termini: Obama ha interpretato il ruolo del guastafeste pacifista e nemico di Wall street agli occhi della sua base. L’ha fatta sentire protagonista di una rivolta contro il monopolio politico dei due grandi partiti americani condotta grazie a un’organizzazione perfetta e a colpi di donazioni raccolte vendendo limonata e racimolando spiccioli tra i cuscini del divano. Contemporaneamente, ha preso più soldi da Wall street di qualsiasi altro candidato alla presidenza. Dopo aver sconfitto Hillary Clinton, prima ha divorato in un sol boccone la dirigenza del partito democratico e poi, una volta insediato alla Casa Bianca, ha imboccato la strada del dialogo con i fanatici repubblicani.
Le regole del gioco
Il fatto che Obama non si sia rivelato all’altezza del suo nobile marchio lo ha danneggiato? All’inizio no. Cinque mesi dopo l’ingresso di Obama alla Casa Bianca il Pew’s global attitudes project ha chiesto a un campione significativo di persone in tutto il mondo se pensavano che Obama avrebbe fatto “la cosa giusta in politica estera ”. Anche se c’erano già molti indizi del fatto che Obama stava proseguendo sulla linea di Bush (con uno stile meno arrogante), la maggioranza degli intervistati approvava le scelte di Obama: in Giordania e in Egitto la percentuale di consensi era quattro volte superiore a quella dell’era Bush. In Europa l’inversione di rotta era drastica: il 91 per cento degli intervistati francesi e l’86 per cento dei britannici aveva fiducia nelle scelte di Obama, rispetto al 13 e 16 per cento dell’era Bush. Secondo Usa Today, il sondaggio dimostrava che “Obama ha restituito credibilità all’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni di amministrazione Bush”. Secondo David Axelrod era successa una cosa molto semplice: l’antiamericanismo non andava più di moda.
Questo era sicuramente vero, e ha avuto conseguenze molto concrete. Obama è stato eletto – e il mondo si è innamorato della sua nuova America – in un momento cruciale. Nei due mesi prima delle elezioni, la colpa della crisi finanziaria che scuoteva i mercati mondiali veniva giustamente attribuita non solo alle cattive scommesse di Wall street, ma all’intero modello economico di deregolamentazione e privatizzazione (chiamato “neoliberismo” in gran parte del mondo) che era stato osannato da istituzioni controllate dagli Stati Uniti, come il Fondo monetario internazionale e la Wto.
Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar globale, il loro prestigio avrebbe continuato a colare a picco, e la rabbia nei confronti del modello economico responsabile della crisi globale si sarebbe probabilmente trasformata nella richiesta pressante di nuove regole per imbrigliare (e tassare sul serio) la finanza speculativa.
Quelle regole avrebbero dovuto essere all’ordine del giorno all’incontro del G20 a Londra nell’aprile del 2009, nel pieno della crisi economica. Invece, mentre i giornalisti erano impegnati a riferire gli avvistamenti della coppia Obama, i leader mondiali si mettevano d’accordo per tirare fuori dalla crisi il Fondo monetario internazionale – uno dei principali colpevoli di quei guai – con finanziamenti per quasi mille miliardi di dollari. In poche parole, Obama non ha solo restaurato l’immagine degli Stati Uniti, ha anche resuscitato quel progetto economico neoliberista che aveva già un piede nella fossa. Solo Obama, a torto considerato un nuovo Roosevelt, poteva riuscire in quest’impresa.
Eppure, rileggere No logo dopo dieci anni ci ricorda anche che il successo nel branding può essere effimero, e che nulla è più transitorio della moda. Molti grandi marchi e personaggi griffati che fino a poco tempo fa sembravano intramontabili, oggi appaiono sbiaditi o sono in piena crisi. Il marchio Obama potrebbe fare la stessa fine.
Certo, molte persone hanno sostenuto Obama solo per motivi strategici: era il candidato migliore per cacciare i repubblicani dal governo. Ma cosa succederà quando le folle dei fedelissimi di Obama si renderanno conto di aver donato il cuore non a un movimento che condivideva i loro valori più profondi, ma a un partito sottomesso a interessi particolari, che si preoccupa più dei profitti delle aziende farmaceutiche che di creare un sistema sanitario sostenibile, che tutela Wall street e le sue bolle finanziarie invece dei milioni di cittadini che avrebbero potuto salvare la casa e il posto di lavoro con una ricapitalizzazione più prudente?
Il rischio – ed è un rischio reale – è che la reazione sia un’ondata di profondo cinismo, soprattutto tra i più giovani, per i quali la campagna elettorale di Obama è stata il primo assaggio della politica. Più che cambiare partito, la maggior parte di loro farà quello che hanno sempre fatto i giovani durante le elezioni: restare a casa e infischiarsene. Nella migliore delle ipotesi, l’obamamania finirà per diventare quella che i consulenti del presidente chiamano “un’occasione per imparare”. Obama è un politico di talento, molto intelligente e più interessato alla giustizia sociale di ogni altro leader democratico nella storia recente. Se non riesce a cambiare il sistema per mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema stesso è marcio.
Era di questo che discutevamo in quel breve periodo tra le proteste contro la Wto a Seattle, nel novembre 1999, e l’inizio della cosiddetta guerra al terrore. Forse era un suo limite, ma il movimento che i mezzi d’informazione insistevano a chiamare “noglobal” si preoccupava poco dei partiti. La nostra attenzione era focalizzata sulle regole del gioco e su come erano state distorte per servire gli interessi delle grandi aziende a tutti i livelli: dagli accordi internazionali sul libero mercato a quelli locali per la privatizzazione dell’acqua. Quello che apprezzavo di più era la spudorata secchionaggine di tutti noi.
Nei due anni successivi alla pubblicazione di No logo ho partecipato a decine di conferenze e incontri, a volte con migliaia di persone (decine di migliaia, nel caso del World social forum) che avevano l’obiettivo di informare l’opinione pubblica sui meccanismi della finanza e del mercato globale. Era come se all’improvviso le persone avessero capito che raccogliere quelle informazioni era cruciale per la sopravvivenza non solo della democrazia, ma del pianeta. Sì, era complicato, ma accettavamo questa complessità perché finalmente potevamo studiare dei sistemi, non solo dei simboli.
Richieste concrete
In certe parti del mondo, in particolare in America Latina, quel movimento si è diffuso e rafforzato. In alcuni paesi è diventato talmente forte che ha fatto accordi con i partiti, vincendo le elezioni e avviando la creazione di un sistema regionale di commercio equo. Ma altrove, e sicuramente negli Stati Uniti, il movimento è stato annientato dall’11 settembre. È stato come se avessimo dimenticato quello che sapevamo sulla complessità del corporativismo globale: cioè che tutte le ingiustizie del mondo non possono essere colpa di un solo partito di destra o di una sola nazione, per quanto potente.
Se mai c’è stato un momento giusto per ricordare le lezioni che abbiamo imparato alla svolta del millennio, quel momento è ora. Una conseguenza positiva dell’impossibilità di regolare la finanza internazionale, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato per quello che è: non un “libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro sostegno. Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto alla luce. Di conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per l’avidità delle aziende ha raggiunto livelli altissimi. Molte idee che gli attivisti dei movimenti gridavano nelle strade dieci anni fa, oggi sono date per scontate nei talk show delle tv e negli editoriali dei grandi quotidiani.
Eppure, oggi manca quello che dieci anni fa cominciava a emergere: un movimento capace non solo di rispondere all’indignazione dei singoli, ma anche di avanzare delle richieste concrete per un modello economico più equo e sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa, invece, la rabbia contro gli interessi particolari si esprime attraverso i partiti di estrema destra e perfino con il neofascismo.
Personalmente, nulla di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack Obama. Provo piuttosto un sentimento ambivalente, simile a quello che provavo nei confronti della Nike e della Apple quando hanno cominciato a usare l’iconografia della rivoluzione nelle loro campagne pubblicitarie. Dalle loro costose ricerche di mercato era emerso che le persone desideravano qualcosa di più dello shopping: il cambiamento sociale, lo spazio pubblico, l’eguaglianza, il diritto alla diversità.
Certo, i marchi hanno cercato di cavalcare quel desiderio solo per vendere caffè e computer portatili. Eppure mi sembrava che noi di sinistra, in un certo senso, dovevamo essere grati ai pubblicitari: le nostre idee non erano antiquate come ci avevano detto. E poiché i grandi marchi non avevano saputo esaudire i desideri profondi che risvegliavano, ai movimenti sociali è venuta voglia di riprovarci.
Forse dovremmo pensare a Obama proprio in questi termini. Anche stavolta, c’è una ricerca di mercato già bella e fatta. La vittoria di Obama e l’entusiasmo per il suo marchio hanno dimostrato che c’è un’enorme fame di cambiamento in senso democratico: moltissime persone non vogliono conquistare i mercati con la forza delle armi, disprezzano la tortura, credono nelle libertà civili, vogliono che le aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il riscaldamento globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far parte di un progetto politico più grande.
Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i movimenti avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposte dalle élite. Obama ha vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la nostra profonda nostalgia per quei movimenti. Ma era solo un’eco, un ricordo. Il nostro compito ora è costruire un movimento che sia – per rubare un vecchio slogan alla Coca-Cola – the real thing, un vero movimento. Come diceva Studs Terkel, un grande storico dell’oralità: “La speranza non è mai discesa dall’alto, è sempre spuntata dal basso”.
Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011
Naomi Klein è una giornalista canadese, nata a Montréal nel 1970. Questo articolo è un estratto dell’introduzione alla nuova edizione di No logo, pubblicata in Italia da Rizzoli. In Italia sono usciti anche Recinti e finestre e Shock economy.
http://www.internazionale.it/news/naomi-klein/2011/07/20/no-logo-dieci-anni-dopo/
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Grecia, l’europa ha partorito un topolino
Alfiero Grandi, 22.07.2011
La decisione europea per salvare la Grecia dal tracollo è finalmente arrivata. Tardi, molto tardi, speriamo non troppo tardi. Nel frattempo la situazione greca si è aggravata, per il suo debito pubblico sono stati pagati interessi disastrosi, facendo pesare ancora di più le conseguenze sulle persone di questo paese e finendo con il costare di più anche per gli europei. E’ chiaro che quanto è ritenuto necessario oggi per fronteggiare la speculazione è più di quanto sarebbe stato necessario per un intervento tempestivo
E’ curioso che una delle aree economiche più importanti del mondo (almeno per ora) come l’Europa penda dalle labbra delle agenzie di rating, le stesse che hanno avallato la bolla speculativa sulle abitazioni e in generale le speculazioni che hanno finito con il mettere in ginocchio l’economia mondiale. Non a caso nel loro board siedono i rappresentanti dei più importanti fondi speculativi. Eppure proprio i loro pareri così catastrofici hanno creato una possibile via per la Grecia per alleggerire un poco il debito. Si tratta del riacquisto del debito greco che nel frattempo è stato svalutato sul mercato proprio dal parere delle Agenzie di rating e quindi è offerto da chi l’aveva acquistato in precedenza a condizioni molto convenienti.
Il buy back è un modo come un altro per ridurre il debito pubblico greco, creato per una sorta di contrappasso dalla stessa azione speculativa. Lo fanno anche i privati. Chissà perché se lo fa uno Stato diventa una tragedia. Per fare questa operazione ci si è inventati una modalità complicatissima, è sperabile che comunque sia possibile attuarla.
Dalle misure decise per salvare la Grecia risulta evidente che la montagna europea ha partorito, tardi e con fatica, il topolino. Il problema vero che emerge, più che la Grecia, è l’Europa che prende solo decisioni tardive, quindi più costose, farraginose e impegna risorse ingenti solo per fronteggiare la speculazione.
Basteranno queste misure? Per il debito della Grecia forse si, ma le misure, paradossalmente, sono anche carburante per la speculazione. Perché rendono esplicito che per l’Europa il modo per farvi fronte è rendere disponibili enormi somme da bruciare nella fornace della speculazione. Certo la speculazione non otterrà tutto quello che pretende e tuttavia intascherà risorse non disprezzabili. Quando la speculazione avverte che questa è la natura della risposta in genere rilancia, magari non sulla Grecia ma su altri paesi. Per prudenza teniamo allacciata la cintura di sicurezza, perché l’Italia già ora paga 1 punto e mezzo in più nel servizio del debito pubblico, che fortunatamente è distribuito su più anni, altrimenti sarebbero 16/18 miliardi di euro di maggiori costi.
Il punto di forza della decisione europea è il fatto che c’è stata. I punti deboli sono almeno due. Il primo è avere impostato il contrasto alla speculazione come un’iniziativa che si sviluppa nel mercato finanziario, quindi potenzialmente molto costosa, e non sul mercato finanziario per regolarlo e ricondurlo a regole accettabili.
Il secondo è avere adottato tardivamente misure per impedire il fallimento dello Stato greco, che per di più avrebbe aperto una voragine in cui sarebbe probabilmente finito anche l’Euro, ma non avere deciso misure per la ripresa economica, a partire da un sostegno alla stessa Grecia, che per ora dell’Europa conosce più il volto arcigno che il sostegno fraterno e solidale.
Come si fa a parlare di piano Marshall per la Grecia? I prestiti del piano Marshall erano destinati a finanziare la ripresa produttiva e l’occupazione nell’Europa in rovina dopo la seconda guerra mondiale. Parole in libertà.
Purtroppo appare chiaro che l’Europa di oggi non ha i grandi sogni dei padri fondatori ma nemmeno conservatori illuminati, più o meno come Marshall, appunto.
La destra domina i Governi europei e si vede. Gli interessi nazionali, quando va bene, vengono prima di quelli dell’Europa.
La sinistra europea, fin troppo afona, dovrebbe porre con forza la questione dello sviluppo e dell’occupazione, della costruzione di un punto politico europeo di direzione della politica economica (Ministro dell’Economia) in grado di confrontarsi con la BCE, con i mercati e di adottare quanto è necessario per regolare i mercati e fermare la speculazione. Se il dibattito continuerà ad avere come centro il rafforzamento del patrimonio delle banche, riducendo così la leva del credito, cosa in sé non disprezzabile, anziché andare alla radice delle regole che si dovrebbero adottare per i mercati finanziari e anziché porsi il problema del reperimento delle risorse per finanziare il rilancio economico dell’Europa, le cose non miglioreranno. Almeno non per tutti.
Non so quanti hanno riflettuto che l’altra faccia della medaglia dei costi da usura dei crediti concessi alla Grecia dai mercati finanziari sono i tassi assolutamente convenienti per la Germania. La differenza tra i bund tedeschi e quelli dei paesi sotto tiro dice appunto questo. Chi sta messo meglio non vorrebbe pagare per chi è in difficoltà e pazienza se l’Europa deperirà. C’è sempre il buy back anche per un’Europa in crisi e si chiama euro a più velocità e area ristretta di paesi che decidono. Si potrebbe ribattere che tanto con Berlusconi al Governo l’Italia è fuori comunque dalla cabina di regia. Vero, ma non inevitabile. Basta cambiare il Governo e forse un contributo europeo l’Italia potrebbe darlo.
http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18313
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In Cina un’altra marea nera, ma tenuta nascosta 24.07.2011
Quando avvenne il disastro della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, con la gigantesca marea nera che ha messo in ginocchio l’ambiente e l’economia locale, tutti gli occhi del mondo erano puntati sull’enorme pasticcio provocato dalla piattaforma della BP. Questo non poteva certamente consolare, ma può aver contribuito a diffondere la verità incontestabile della pericolosità per l’uomo e per l’ambiente di questo tipo di attività estrattive.
Non in tutto il mondo succede lo stesso. Negli scorsi giorni le notizie della piattaforma Penglai 19-3, proprietà dell’azienda statale cinese Cnooc e della statunitense ConocoPhillips, sono state puntualmente silenziate. Le due aziende avevano inizialmente smentito la fuoriuscita, salvo poi dichiarare che era tutto “sotto controllo“.
Ora anche gli addomesticati media cinesi sono furiosi perché con il passare delle ore diventa evidente che il disastro non solo c’è stato, ma è ormai palese il tentativo delle due aziende di nascondere la verità. Secondo il China Daily, che ha duramente criticato la censura delle autorità, complici dei proprietari della piattaforma, una gigantesca macchia d’olio che si sviluppa su 4200 chilometri quadrati nel mare a nord della Cina si avvicina alla costa e le prime particelle essiccate di petrolio sono state ritrovate sulla spiaggia di Dongdaihe, nella provincia di Liaoning. Certamente più facile negare l’evidenza quando i media non vengono (o non vogliono essere) messi nella posizione di informare i cittadini.
[Via | Bluewin]
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