Botulino, un alleato prezioso… non solo contro le rughe
Non tutti sanno che il botulino, noto al grande pubblico soprattutto per il suo uso cosmetico, in particolare per il trattamento delle rughe facciali, è uno dei veleni più potenti che si conoscano. Questa sostanza, infatti, interrompe la neurotrasmissione e riduce l’attività muscolare. “La tossina botulinica è un enzima di origine batterica”, spiega Matteo Caleo dell’Istituto di neuroscienze (In) del Cnr di Pisa. “Blocca la comunicazione nervosa a livello delle sinapsi, perché è un bisturi altamente selettivo che degrada una proteina, detta SNAP-25, coinvolta nel processo di rilascio del neurotrasmettitore alle terminazioni nervose”.
Sugli effetti e sui possibili rischi dell’uso della cosiddetta ‘tossina della bellezza’ per cure estetiche la discussione è ancora aperta. “Le dosi usate per i trattamenti sono molto ridotte: i rischi, se esistono, possono dipendere dalla scarsa preparazione del personale. Rimane comunque da determinare quali siano le conseguenze di un ricorso alla tossina protratto nel tempo”.
In medicina il botulino è però già largamente adoperato. “La tossina botulinica”, chiarisce il ricercatore, “viene utilizzata efficacemente per il trattamento dell’ipereccitabilità del sistema nervoso periferico, ad esempio nei casi di distonia o di spasticità. Stiamo raccogliendo prove, attraverso esperimenti su modelli animali, per dimostrare anche una possibile applicazione del botulino per il trattamento dell’ipereccitabilità del sistema nervoso centrale, come nel caso di crisi epilettiche. Inoltre, un filone di ricerca molto promettente sta esplorando la possibilità di usare la tossina per trattare il dolore”.
Sono stati proprio recenti studi condotti dall’In-Cnr ad aprire nuovi orizzonti di ricerca. “Si pensava che la tossina botulinica agisse solo a livello del muscolo iniettato: i nostri studi dimostrano invece che il botulino agisce anche a distanza, in particolare nelle aree i cui neuroni innervano il sito di somministrazione”.
Il botulino è quindi una tossina estremamente versatile, che non rimane confinata nella parte del corpo dove viene iniettata, ma si sposta nelle zone adiacenti in percentuali minime, ma significative. “In questo modo tale sostanza si può rivelare un prezioso bisturi molecolare, poiché ha un’azione estremamente specifica e può essere ingegnerizzata per esercitare la sua azione solo su tipi specifici di cellule”, conclude Caleo. “Il blocco dell’attività elettrica da parte della tossina offre dunque opportunità sia terapeutiche sia scientifiche: infatti si può rivelare un efficace strumento per inibire transitoriamente l’attività cerebrale di una specifica area o di un gruppo di neuroni, permettendo quindi di identificarne il ruolo”.
Luigi Rossi
Fonte: Matteo Caleo, Istituto di neuroscienze del Cnr, Pisa, tel. 050/3153195-3183, e-mail: caleo@in.cnr.it
http://www.almanacco.cnr.it/articoli.asp?ID_rubrica=1&nome_file=03_17_2008
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13.08.2009
Il Fisco indaga sull’eredità Agnelli
Nel mirino un patrimonio
da un miliardo
MARCO SODANO
TORINO
Un patrimonio personale di oltre un miliardo, forse quasi due, depositato in Svizzera e sconosciuto al fisco italiano. Nella vicenda dell’eredità di Gianni Agnelli si fa spazio per un nuovo protagonista: l’Agenzia delle Entrate. Che vuole far chiarezza sul presunto tesoro nascosto dell’Avvocato e, soprattutto, incassare eventuali pendenze fiscali. La notizia è stata lanciata ieri dal Tg5, nell’edizione serale. La cifra in questione sarebbe stata «accumulata negli anni in Svizzera attraverso attività riconducibili ad Agnelli e mai dichiarate al fisco». Gli 007 fiscali sono stati messi sulla pista nel 2007, quando Margherita Agnelli (la figlia di Gianni), decise di avviare una azione legale contro i gestori del patrimonio del padre e di conseguenza contro la madre Marella, l’unica coerede e quindi «interessata a una valutazione corretta della consistenza dell’eredità», come ebbe a dire la stessa Margherita cercando di spiegare perché avesse fatto causa a sua madre. Un anno dopo la morte di Gianni Agnelli, nel marzo 2004, madre e figlia avevano raggiunto un accordo sull’eredità.
Margherita avrebbe rinunciato alla successione della madre, vendendole le proprie quote nelle attività industriali di famiglia e permettendo a suo figlio John Elkann di avere la maggioranza in Dicembre, la società che controlla Fiat e tutto il resto. Il patrimonio personale dell’Avvocato era invece nella fondazione Alkyone, costituita nel 2001, della quale erano beneficiarie le stesse Marella e Margherita. Chiuso il capitolo industriale senza scossoni, restava quello famigliare. E lì gli scossoni sarebbero arrivati eccome: nel 2007 Margherita Agnelli annuncia una causa per ottenere rendiconti più precisi sull’eredità che ha diviso con la madre. È convinta che Gianluigi Gabetti e Sigfried Maron, curando la successione, non abbiano messo sul piatto l’intero patrimonio di suo padre. Sostiene di aver scritto almeno sette lettere e di aver ottenuto solo un inventario «limitato ai beni italiani». A giugno di quest’anno, l’ennesima sorpresa: ancora Margherita, ancora una lite. Questa volta contro i legali – lo svizzero Jean Patry e l’italiano Emanuele Gamna – che avevano curato per conto suo l’accordo sull’eredità del 2004. Margherita sostiene che gli avvocati avevano lavorato per lei avendo un mandato anche da Gianluigi Gabetti e Sigfried Maron. Per convincere il legale italiano ad ammettere l’esistenza di quel mandato, Margherita non esita a riferire di una parcella da 50 milioni di euro transitata su conti via Singapore. La Finanza si mette sulle tracce di Gamna, mentre dalla Svizzera spunta un documento da cui risulta che Margherita Agnelli avrebbe preso come liquidazione per l’eredità un miliardo e 166 milioni di euro. C’era dell’altro? Margherita sostiene di sì e ne chiede ragione. Ovvio che ne chieda ragione anche l’Agenzia delle Entrate. Il calcolo che quantifica quel patrimonio in due miliardi è basato sulla valutazione della rivista americana Forbes, la bibbia dei patrimoni personali.
Nel 1990 attribuiva all’Avvocato un patrimonio di 1,7 miliardi di dollari: oggi la cifra avrebbe raggiunto 1 miliardo e 950 milioni (in euro) tenendo conto della crescita della Borsa, della bolla nella new economy e dell’attacco alle torri gemelle l’11 settembre 2001. E non si tratta solo di denaro. Secondo Margherita il tesoro comprenderebbe posti barca in Costa Azzurra, appartamenti di pregio a Parigi e New York, quadri di grande valore, conti correnti e pacchetti azionari mantenuti riservati – a detta di Margherita – anche dopo l’apertura della successione del padre. Con le nuove norme del decreto anticrisi sull’evasione, concludeva il servizio del Tg5, se il Fisco trovasse davvero un patrimonio simile, la multa potrebbe superare il capitale. Niente scudo fiscale: non si applica ai procedimenti aperti. Come questo.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/200908articoli/46345girata.asp
A proposito posto qui il trafiletto pubblicato nel blog il 24.04.09
Margherita Agnelli, figlia di Gianni Agnelli, ha richiesto per sé l’eredità paterna. Che, a sentir lei, sarebbe stato occultato per favorire i figli che Margherita ha avuto da Alain Elkann.
La richiesta è basata su documenti che indicano depositi all’estero per oltre due miliardi di euro.
Alla faccia dei tempi del mantenimento da parte nostra, Stato, della Fiat.
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13.08.2009
Innse: raggiunto accordo, operai scesi da gru
MILANO – Clima disteso e sorrisi davanti alla fabbrica Innse il giorno dopo la firma dell’accordo e la discesa degli operai che per piu’ di una settimana sono rimasti su un carroponte. Una ventina di operai hanno rioccupato il presidio dove erano rimasti per 14 mesi, i poliziotti hanno abbandonato le postazioni fuori dai cancelli e il via vai di sostenitori e di cittadini del quartiere di Lambrate e’ continuo. ”Abbiamo dimostrato – ha detto un operaio – che con la forza e la tenacia si puo’ ottenere tutto. Rimarremo qui fino a quando la fabbrica non verra’ riaperta”. Durante la mattinata sono arrivati al presidio anche alcuni dei cinque uomini che domenica scorsa si sono arrampicati sui carriponte. Fuori dalla fabbrica rimangono alcune bandiere della Fiom-Cgil e lo striscione con scritto ‘Hic sunt leones’ appeso ieri notte davanti all’ingresso.
”Ho molto rispetto per gli operai della Innse perche’ hanno sofferto, cercheremo di ricompensarli e sono ansioso di incontrarli”. Lo ha affermato l’industriale bresciano Attilio Camozzi, che con il suo gruppo ha acquistato, dopo una frenetica trattativa che si e’ conclusa la notte scorsa, la Innse, storica azienda metalmeccanica milanese, che i lavoratori hanno difeso con una strenua lotta. Riferendosi alle quattro tute blu che sono rimaste, assieme a un funzionario Fiom, su una gru in segno di protesta, per quasi otto giorni, Camozzi ha spiegato: ”loro hanno sofferto molto, li capisco, li rispetto e appena possibile li incontrero”’. Camozzi, in merito al presidio dei lavoratori durato piu’ di un anno per difendere la fabbrica e continuare la produzione, ha detto: ”Hanno avuto le loro buone ragioni, perche’ permettere che un’azienda cosi’ venisse distrutta sarebbe stato veramente un delitto”.
Ha parlato di “obiettivi ambiziosi” l’industriale bresciano Attilio Camozzi, che con il suo omonimo gruppo ha acquisito ieri la Innse di Milano, dopo una protesta degli operai contro lo smantellamento andata avanti per mesi. Nell’accordo, ha precisato l’imprenditore, c’é l’impegno di portare avanti secondo logica industriale l’azienda fino al 2025. Nel corso di una conferenza stampa è emerso che è stato il solo gruppo Camozzi ad acquisire la Innse e non c’é quindi la cordata di imprenditori di cui si era parlato. I rappresentanti del gruppo e il suo legale, infatti, hanno in questi giorni mantenuto costantemente il riserbo sulle operazioni, affinché non fallissero. L’industriale ha spiegato, inoltre, che la Innse farà parte di un polo industriale, attivo nelle macchine utensili e nel tessile in particolare, settori nei quali la Camozzi opera già da anni con filiali in tutto il mondo. Secondo Attilio Camozzi la Innse potrà negli anni anche sviluppare la propria attività in realtà diverse, come la componentistica del settore nucleare e l’energia, “l’eolico, ad esempio”.
L’ACCORDO NELLA NOTTE
Al termine di una seconda, interminabile giornata di trattative, è stato raggiunto l’accordo per la vendita della Innse di Milano alla cordata guidata dalla Camozzi di Brescia. Lo stabilimento non sarà smantellato e l’azienda metalmeccanica continuerà a produrre. I quattro operai che con un delegato della Fiom si trovavano da oltre una settimana su una gru all’interno della fabbrica sono scesi e hanno riabbracciato parenti e colleghi in festa.
La svolta è avvenuta poco dopo la mezzanotte in prefettura a Milano, sede della trattativa. E’ stata trovata l’intesa fra Silvano Genta, proprietario della fabbrica metalmeccanica, il gruppo di imprenditori capeggiato dalla Camozzi e la Aedes, l’immobiliare proprietaria del terreno su cui sorge lo stabilimento. La Fiom ha visto accolte le sue richieste, concordate con gli operai della Innse, su piano industriale, riassunzione dei lavoratori, ammortizzatori sociali e cassa integrazione, oltre al riavvio della produzione da settembre. Nell’accordo, firmato dalla Fiom-Cgil e dalla Rsu, c’é la garanzia del posto per tutti e 49 gli operai che dal maggio del 2008 sono stati messi in mobilità e che hanno portato avanti in questi mesi la loro protesta. A quel punto i lavoratori hanno dato il loro assenso e messo fine alla protesta che ha attirato l’attenzione dell’intero Paese. “E’ frutto questo successo della lotta eccezionale dei lavoratori”, ha detto il segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi”. “Oggi è una giornata positiva per il lavoro – ha commentato il segretario generale di Cgil Lombardia Nino Baseotto -. L’accordo raggiunto per il mantenimento e il rilancio delle attività produttive alla Innse è un successo che va ascritto alla lotta caparbia dei lavoratori ed alla mobilitazione del sindacato”. La giornata di estenuanti trattative è stata scandita dalla spola dei rappresentanti sindacali, in testa Maria Sciancati della Fiom-Cgil Milano, tra la prefettura e la fabbrica. La Camozzi aveva fatto sapere nel pomeriggio che non avrebbe portato il negoziato oltre la mezzanotte. Trovata l’intesa fra venditore e acquirente – dopo aver sciolto i nodi del prezzo e dell’ampiezza del terreno richiesto dalla nuova proprietà – tutto si è bloccato per il rifiuto degli operai. Questi ultimi chiedevano maggiori garanzie sull’occupazione e sul riavvio della fabbrica e minacciavano nuove iniziative di protesta. Alla fine tutto si è risolto per il meglio e gli operai che assieme al delegato della Fiom erano saliti per protesta su una gru otto giorni fa sono scesi a terra, provati e con la barba lunga, ma felici per la conclusione positiva della vicenda. Nel corso della giornata i cinque si erano anche collegati, grazie a Radio popolare, con i quattro lavoratori della Cim di Marcellina (Roma), che a loro volta protestano su una torre alta 37 metri. “Il vecchio tipo di lotta, lo sciopero, non funziona più. Bisogna utilizzare nuove forme di lotta. Dobbiamo resistere. Più punti di resistenza ci sono, meglio è per tutti”, ha detto un operaio della Innse al collega della Cim.
“In tutti questi giorni non abbiamo mai perso la speranza”. Lo ha detto Roberto, il sindacalista della Fiom che assieme ai quattro operai si è arrampicato domenica scorsa sopra i carri ponte della Innse per protesta contro lo smantellamento dei macchinari della fabbrica. “Passavamo il tempo discutendo, anche divertendoci e dormendo nel pomeriggio per il troppo caldo – ha detto il sindacalista -. Rimanevamo attaccati al telefono per sapere cosa succedeva giù”. Riguardo alla decisione di salire sui carri ponti, Roberto ha detto: “Abbiamo deciso all’improvviso, senza prima consultarci. Ci siamo ritrovati in una posizione ben difendibile”, ha aggiunto -. Lo stato d’animo dei gruisti in questo momento è “positivo”. “Questa vicenda – prosegue Roberto – ha dimostrato che abbassando la testa non si va da nessuna parte”. Gli operai sono tornati a casa per riposarsi dopo la settimana trascorsa sulla gru. “Sono contenta – dice Cristina, la moglie di uno degli operai -. Non ne potevamo più. Ora andremo a casa a dormire”.
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L’ora di religione cattolica
di Antonia Sani
Con sentenza n. 7076 del 17 luglio 2009 il Tar del Lazio ha accolto due ricorsi proposti per l’annullamento delle Ordinanze ministeriali emanate dall’allora Ministro P. I. Fioroni per gli esami di Stato del 2007 e 2008 che prevedevano la valutazione della frequenza dell’insegnamento della religione cattolica ai fini della determinazione del credito scolastico, e la partecipazione “a pieno titolo” agli scrutini da parte degli insegnanti di religione cattolica.
Il TAR ha affermato che “l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica”.
Motiva ancora la sentenza che l’interpretazione data dal Ministero dell’Istruzione “ha portato all’adozione di una disciplina annuale delle modalità organizzative degli scrutini d’esame, che appare aver generato una violazione dei diritti di libertà religiosa e della libera espressione del pensiero; nonché di libera determinazione degli studenti relativamente all’insegnamento della religione cattolica”.
I ricorsi sono stati promossi a partire dal 2007 da alcuni studenti e studentesse con numerose associazioni laiche e confessioni religiose non cattoliche (elenco completo a fine comunicato) coordinate dalla Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni e dall’ Associazione “per la Scuola della Repubblica” ed assistite dagli Avvocati prof. Massimo Luciani, Fausto Buccellato e Massimo Togna. Ad esse il TAR ha riconosciuto la richiesta “di tutela di valori di carattere morale, spirituale e/o confessionale che […] sono tutelati direttamente dalla Costituzione e che quindi come tali non possono restare estranei all’alveo della tutela del giudice amministrativo”
La sentenza 7076/2009 del TAR del Lazio è importante perché dà una concreta applicazione al principio supremo della laicità dello Stato nei termini in cui era stato affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 203/1989.
Il TAR, dopo aver ricordato il principio della laicità dello Stato, enunciato dalla Corte Costituzionale come “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà religiosa, in regime di pluralismo confessionale e culturale (C. Cost. n. 203/89), ha precisato che “sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico”, la scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica deve essere assolutamente libera e in nessun modo condizionata. “In una società democratica” ha affermato il TAR, “certamente può essere considerata una violazione del principio del pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con un’implicita promessa di vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali”.
A tal proposito, ha precisato ancora la sentenza che “lo Stato, dopo aver sancito il postulato costituzionale dell’assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, non può conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” – e quindi una indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta poziorità – violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno”, infatti “qualsiasi religione- per sua natura – non è né un’attività culturale, né artistica, né ludica, né un’attività sportiva né un’attività lavorativa, ma attiene all’essere più profondo della spiritualità dell’uomo ed a tale stregua va considerata a tutti gli effetti”.
La sentenza è illuminante su quali siano oggi i confini posti dalla legge all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Le associazioni e le confessioni promotrici dei ricorsi continueranno ad operare per garantire il rispetto di tali limiti ed auspicano che il Ministero dell’Istruzione prenda atto dell’illegittimità delle ordinanze e non le riproponga negli anni a venire.
11 agosto 2009
per ulteriori informazioni è possibile contattare Antonia Sani tel. 3497865685
ASSOCIAZIONI e CONFESSIONI RELIGIOSE PROMOTRICI DEI RICORSI:
Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni
Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (CIEI)
Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
Comitato torinese per la Laicità della scuola
Tavola Valdese
CRIDES- Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti nella Scuola
FNISM – Federazione Nazionale degli Insegnanti
Associazione Democrazia Laica
Associazione “XXXI ottobre per una scuola laica e pluralista (promossa dagli evangelici italiani)”
Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”
UAAR- Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti
Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni
Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno
Alleanza Evangelica Italiana
Associazione “per la Scuola della Repubblica”
Comitato Bolognese Scuola e Costituzione
C.I.D.I. “Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti”
Coordinamento Genitori Democratici
Associazione Scuola Università e Ricerca “As.SUR”
Chiesa Evangelica Luterana in Italia
Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia
Movimento di Cooperazione Educativa
UCEI – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Federazione delle Chiese Pentecostali
Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni
Sede: Via delle Carrozze, 19 00187 Roma Tel. 06 6796011
romalaica@gmail.com
http://romalaica.blogspot.com
http://www.nazioneindiana.com/2009/08/11/lora-di-religione-cattolica/
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7 agosto 2009
Fiat- Bertone
Prima della cronaca…..sempre la solita domanda ma la Fiat dove trova i soldini…..e la risposta la troviamo dalla chiusura di impianti italiani che hanno linee produttive vecchie, che verranno sostituite dalle nuove linee produttive della Bertone.Anche la Pininfarina era interessata alla Bertone, ma non gliela hanno fatta comprare perchè vista la cassa integrazione attuale, sembrava brutto fare delle acquisizioni anche se, la line produttive per quel prezzo sono praticamente regalate.
Morale la Fiat usa la cassa integrazione per andare avanti, e i contribuenti pagano, gli regalano la Bertone, che gli consentirà di cambiarsi gli impianti gratis e dei dipendenti…. se salvano quelli della Bertone faranno fuori quelli da un’altra parte, la somma sara sempre negativa.
Io penso che sia giusto favorire la Fiat, perchè per l’Italia è un’azienda importante, ma non a qualunque costo come avviene attualmente.
Lo shopping di Sergio Marchionne continua. Questa volta non ha dovuto attraversare l´Oceano ma è stato sufficiente percorrere i pochi chilometri che separano il Lingotto da Grugliasco, dove ha sede la carrozzeria Bertone. Un impianto per la produzione di auto di lusso che fino allo scorso anno sfornava modelli della Lamborghini, anche se è in gran parte in disuso dal 2005. Claudio Scajola, ministro delle attività produttive, ha deciso ieri che l´offerta migliore per l´antica carrozzeria ormai fallita è quella della Fiat.
Esce così sconfitto dall´asta l´imprenditore torinese Gian Mario Rossignolo: «Da tempo – ha commentato – era chiaro che sarebbe andata a finire così. Avevo vinto la partita alla fine dei tempi regolamentari ma nei supplementari è sceso in campo Marchionne e il match non ha più avuto storia. Peccato».
A tremare adesso sono i dipendenti della ex Delphi di Livorno che Rossignolo avrebbe voluto coinvolgere in un progetto per la realizzazione di Suv: «Cercherò di capire come fare ma non è detto che il mio piano si possa realizzare in Italia», ha aggiunto l´imprenditore. Per lavoratori e sindacati della Fiat si apre invece il capitolo del piano industriale e delle conseguenze che l´ingresso di Bertone potrà avere sul pianeta Fiat. Il Lingotto ha vinto la gara offrendo 18 milioni per l´acquisto, garantendo l´occupazione per gli oltre mille dipendenti e impegnandosi a investire 150 milioni in tre anni.
Nel piano presentato al ministero sta scritto che la Fiat intende realizzare nella carrozzeria di Grugliasco due nuovi modelli: un´auto sportiva e la nuova ammiraglia, destinata a raccogliere l´eredità della Thesis. Vetture che saranno realizzate su due piattaforme frutto dell´alleanza con Chrysler. Maggiori dettagli si conosceranno a settembre quando il Lingotto deciderà il piano di modelli comuni con la casa di Detroit che verrà poi presentato al salone di Francoforte.
I sindacati, pur soddisfatti per la conclusione di una vicenda che salva molti posti di lavoro, chiedono a questo punto «l´avvio di una trattativa stringente con la Fiat per conoscere i piani di Torino sugli stabilimenti italiani». Il rischio infatti è che l´aumento di capacità produttiva determinato dall´acquisto di Bertone possa tradursi in nuovi tagli in altri stabilimenti. Oltre a Termini Imerese e Pomigliano rischierebbero anche i dipendenti della Maserati in Emilia se la Bertone fosse il primo tassello di quel polo torinese dell´auto di lusso di cui si parla da tempo. Nel polo potrebbero entrare in futuro anche parti degli insediamenti produttivi della Pininfarina, l´altra storica carrozzeria oggi in crisi.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.blogspot.com
http://lamiaeconomia.blogspot.com/2009/08/fiat-bertone.html
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Giustizia: un’azione legale collettiva contro il sovraffollamento
Da L’Unità, – 12.08.2009
Il Garante dei diritti dei detenuti Desi Bruno: “Pronti a chiedere un risarcimento collettivo”. Leggi l’intervista dall’Unità del 12 agosto 2009.
Un’azione legale collettiva contro lo Stato per difendere il diritto alla dignità dei carcerati in Italia. È quanto stanno valutando di fare i Garanti per i diritti delle persone prive di libertà, tra cui Desi Bruno, l’avvocato che si occupa della realtà bolognese.
Esiste questa possibilità?
Dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, molti detenuti stanno valutando la possibilità di avanzare la stessa richiesta di risarcimento. Ma è un percorso lungo e complesso, bisogna prima esperire tutti e tre i gradi di giudizio in Italia, e poi rivolgersi in Europa. Per questo assieme agli altri Garanti si pesa piuttosto a un’azione collettiva
A Bologna com’è la situazione?
I parametri europei considerano che lo spazio vitale minimo da garantire sia di 7 metri quadrati a testa. Alla Dozza ci sono celle da 9 metri quadri dove si sta in tre, anche in quattro, e stare in piedi tutti in una volta è impossibile.
Che conseguenze ha il sovraffollamento sul percorso di riabilitazione che i detenuti dovrebbero effettuare?
Non avendo spazi di movimento in cella, non c’è la possibilità di compiere i gesti della normale vita quotidiana, non c’è privacy, non c’è riservatezza, aumento il rischio di malattie. La sperequazione tra numero di detenuti e numero di agenti, psicologi, psichiatri, volontari – i quali comunque non riescono a effettuare colloqui per la mancanza di agenti – fa sì che di fatto si stia in cella 20 ore su 24. Il carcere oggi è una sorta di discarica sociale, e quel che è peggio le prospettive non sono di miglioramento
Perché?
Il piano carceri del Governo prevede nuove strutture, ma non nuovi servizi né tanto meno incrementi del personale operativo.
Riguardo problemi storici come quello dei detenuti tossicodipendenti, si prevede qualcosa?
Assolutamente no, mancano soprattutto quelle riforme che avrebbero fatto la differenza.
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Perché l’Occidente ha bisogno della Siria
Una conversazione con Sami Moubayed
“Obama ha finalmente capito che la Siria gioca un ruolo fondamentale: Damasco è divenuta l’asse portante di un possibile accordo tra blocchi contrapposti in Medio Oriente. Spetterà alla Siria costruire un nuovo equilibrio tra gli Stati Uniti e l’Iran, e tra l’Iran e l’Arabia Saudita.” Sami Moubayed, analista politico e professore presso la Facoltà di Relazioni Internazionali dell’Università al-Kalamoun in Siria, commenta per Resetdoc la nuova linea siriana negli affari esteri e la sua recente apertura verso l’Occidente. “La Siria oggi vanta una grande schiera di alleati: Francia, Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Iran ed anche Stati Uniti.” L’editorialista del Forward Magazine sottolinea poi: “Sebbene la Siria oggi sia schierata con vecchi amici ed al tempo stesso secolari nemici, per Damasco la priorità assoluta era e resta la riannessione delle alture del Golan”.
Un’intervista di Nancy Porsia.
Quali sono i fattori che hanno portato la Siria ad un’apertura verso i paesi arabi “moderati”?
Io adotterei un punto di vista diametralmente opposto: perché i cosiddetti stati arabi moderati sono tornati a negoziare con la Siria? In primo luogo perché hanno realizzato che Obama era sul punto di invitare Damasco a sedere al tavolo delle trattative. Inoltre la guerra di Gaza ha dimostrato che Hamas non può essere sconfitta facilmente. L’unica via per trattare con Hamas passa attraverso Damasco; e questo significa intraprendere lo stesso sentiero battuto ai tempi dei negoziati con gli Hezbollah nel 2006.
Sarebbe corretto dire che Bashar al Assad ha optato per la politica del pragmatismo, abbandonando una linea più marcatamente idealista?
L’ideologia è importante, ma non ha mai prodotto grandi risultati sulla tabella di marcia siriana. Abbiamo partecipato alla guerra contro l’Iraq nel 1991, sebbene si trattasse di una nazione araba e con forze alleate guidate dagli Stati Uniti. Era interesse della Siria vedere il Kuwait libero. Ci siamo seduti al tavolo dei negoziati di Madrid in funzione della riannessione delle alture del Golan. Non credo dunque che l’ideologia sia stata uno strumento efficace per la Siria, eccetto nel breve periodo che va dal 1966 al 1970. La Siria ha accettato di partecipare al meeting di Riyadh insieme con l’Arabia Saudita, l’Egitto ed il Kuwait così come ha preso parte ai lavori per la sottoscrizione dell’accordo di Doha puntando unicamente alla costruzione di un ponte tra i giocatori arabi in campo. La Siria non è mai stata artefice di rotture e divisioni. Fu l’Arabia Saudita ad assumere un atteggiamento aggressivo nei confronti della Siria, sulla scorta di una possibile minaccia iraniana. Lo stesso è accaduto al Cairo. Ma percorrendo a ritroso la storia delle relazioni tra la Siria, l’Arabia Saudita e l’Egitto, già negli anni Cinquanta i tre paesi erano stretti in sodalizio. Noi non possiamo rinnegare la nostra storia.
Come può la Siria garantirsi i vecchi alleati ed al tempo stesso costruire nuove alleanze sul versante opposto?
La Siria è un alleato dell’Iran sin dal 1979. Ma durante gli anni novanta la connessione tra Damasco e Teheran non veniva propagandata perché era l’epoca dell’America di Clinton, un’amministrazione amica del governo saudita, iracheno (dopo il 1998), egiziano e francese. La comunità internazionale ha iniziato a percepire l’alleanza tra Damasco e Teheran come una minaccia a partire dal 2003, quando si sono incrinati i rapporti tra Washington ed i suoi alleati. Dopodiché la Siria ha preso parte al summit di Annapolis nel 2007, sebbene contro il volere sia di Hamas sia di Teheran. La Siria ha dimostrato al mondo di tenere fede esclusivamente al proprio interesse nazionale. Infatti Damasco continua a perseguire la stessa linea: nonostante la Siria goda oggi di un grande ventaglio di alleanze sul tavolo come la Francia, il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Iran ed allo stesso tempo gli Stati Uniti, il fine ultimo della Siria è la riannessione delle alture del Golan. A tal fine, la politica di Damasco è “più amici per la Siria e meno nemici”.
Qual è il peso della Siria nel processo di pace iracheno?
La Siria ha un rapporto ottimale con le tribù irachene. Damasco è in grado di coinvolgere le parti sunnite nel processo politico. La nomina dell’ambasciatore siriano in Iraq rappresenta un passaggio cruciale e chiaramente simbolico, poiché si tratta della nomina dell’ambasciatore di uno stato nazionalista arabo che si è opposto all’occupazione dal primo giorno. La Siria intrattiene inoltre buoni rapporti con Muqtada al-Sadr e l’entourage di rappresentati ufficiali come Nuri al Maliki. Bashar al Assad può infatti legittimare il governo di Maliki e della sua squadra agli occhi degli iracheni. Allo stesso tempo può aiutare gli americani – come ha detto il ministro degli Esteri Mouallem – a ritirarsi dall’Iraq dignitosamente. La Siria non ha alcun interesse a vedere umiliati gli Stati Uniti nel loro ritiro dall’Iraq. La preoccupazione principale per Damasco è che l’escalation di violenza in Iraq possa sconfinare in territorio siriano.
Che cosa si aspetta la Siria in cambio dai paesi arabi? E dagli Stati Uniti?
La Siria si aspetta che i leader arabi collaborino nel processo di pace in Iraq e che dismettano il loro atteggiamento ostile verso i gruppi di resistenza come Hamas e Hezbollah. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la Casa Bianca dovrebbe esercitare pressione sul governo di Netanyahu in quanto la Knesset ha dimostrato di non essere interessata al processo di pace.
Che cosa rappresenta per la Siria la vittoria in Libano dell’Alleanza del “14 Marzo”?
Credo che la vittoria in sé non sia una sorpresa, ma lo scarto numerico in termini di seggi tra la coalizione “8 marzo” e l’Alleanza “14 marzo” è rilevante. Il partito di Dio non ha perso, ma è uscito vittorioso dalle elezioni. Ma la coalizione ha perso, e Hezbollah è parte di essa. Ora si lavora per mantenere lo status quo del 2005-09, ma con un nuovo slancio verso la comprensione tra le parti. Non credo che i risultati elettorali in Libano rappresentino un arretramento sul fronte libanese per i siriani. Al contrario, dimostrano che i siriani non interferiscono con gli affari interni libanesi, rispettando la linea indicata dagli Stati Uniti. Damasco è convinta della sua innocenza nel caso di Rafiq Hariri. Lo stesso Bashar ha ribadito in più interviste che se avrà luogo un processo trasparente – non politicizzato – ed i siriani risulteranno colpevoli, verranno puniti. Io credo che il neoeletto governo libanese spianerà la strada per una nuova intesa tra gli Stati Uniti e la Siria.
11 Aug 2009
http://www.resetdoc.org/IT/Moubayed-intervista-Siria.php
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Berlusconi sblocca 4,3 miliardi per calmare la Sicilia
Articolo di Economia salute e ambiente, pubblicato lunedì 3 agosto 2009 in Francia.
Le Figaro
Questi fondi dovrebbero permettere il finanziamento di un centinaio di progetti di infrastrutture presentati come strategici per l’isola.
Il Presidente del Consiglio italiano ha autorizzato lo sblocco di 4,3 miliardi di euro per finanziare 130 progetti di infrastrutture in Sicilia. Queste risorse erano già parte del Fondo Aree Sottoutilizzate (FAS) dotato di un budget di 18 miliardi di euro per il periodo 2007-2013. Non erano tuttavia state assegnate, per mancanza di progetti precisi.
Tra i 130 progetti figurano la costruzione di un’autostrada tra Siracusa ed il porto petrolifero di Gela, la trasformazione dell’ex base militare di Comiso (dove erano posizionati i missili Pershing) in un aeroporto civile, il raddoppio della linea ferroviaria Palermo-Catania e la costruzione di una metropolitana leggera a Palermo.
È inoltre prevista la realizzazione, a partire dalla costa siciliana, dei lavori di preparazione per il ponte sullo stretto di Messina, un’opera colossale da sei miliardi di euro in sei anni che dovrebbe iniziare l’anno prossimo.
Da sempre, gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, che si tratti della Sicilia, della Calabria, della Campania o della Puglia, hanno dato luogo a sprechi e si sono rivelati un modello d’inefficacia.
In quarantadue anni di esistenza, fino alla sua abolizione nel 1992, la Cassa per il Mezzogiorno (Casmez), vero e proprio mastodonte burocratico, ha dilapidato 142 miliardi di euro in una miriade di microprogetti la cui sola finalità era di rafforzare il potere della classe politica locale, senza mai riuscire ad assicurare il decollo economico del Sud.
Di fronte alla rivolta degli eletti siciliani della sua maggioranza, Silvio Berlusconi ha voluto rispondere alle loro lamentele. Il presidente della Regione, il centrista Raffaele Lombardo, che si proclama suo alleato,ha protestato, sostenuto da molti eletti siciliani del PDL, il partito di Silvio Berlusconi. Egli rimprovera apertamente al governo di impostare troppo la sua politica sulla Lega Nord.
Il segnale d’allarme è stato dato la settimana scorsa alla Camera dei deputati dove due disegni di legge importanti, tra cui un decreto “anticrisi”, sono stati adottati con 35 e 21 voti di differenza, dei risultati estremamente mediocri in un’assemblea dove il presidente del Consiglio gode normalmente di una larga maggioranza.
Giochi di potere
“Finiamola con i giochi di potere personali”, ha esclamato Berlusconi annunciando l’assegnazione dei nuovi fondi. Intende tuttavia garantire che questi fondi serviranno a finanziare delle infrastrutture e non la spesa corrente, come è spesso accaduto in passato.
Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia, ha intenzione di creare una struttura d’assegnazione e di controllo delle spese per mostrare che “la questione meridionale è d’interesse nazionale”. Si tratterà di ricreare una nuova Casmez? “Vedremo”, ha risposto.
Egli ha inoltre ipotizzato l’idea di creare una “banca per il Mezzogiorno” che potrebbe avere la sua sede a Napoli. Il suo obiettivo sarebbe quello di “raccogliere il risparmio delle famiglie e delle imprese per riutilizzarlo sul territorio, e non di delocalizzarlo come fanno le banche nazionali”.
[Articolo originale “Berlusconi débloque 4,3 milliards pour apaiser la Sicile” di Richard Heuzé]
http://italiadallestero.info/archives/7103
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Brutte notizie da Pechino: arrivano i derivati in salsa cinese
13.08.09
Il clima è vacanziero, quindi prima le buone notizie. La crisi baltica è ufficialmente esplosa, certificata dal downgrading dell’altro giorno da parte di Standard&Poor’s del rating di Lettonia ed Estonia, scivolate nella categoria BB e A- dopo che gli ultimi dati parlano di una contrazione dell’economia del 16% e un debito pubblico schizzato fuori controllo e destinato a raggiungere l’80% del Pil nel 2011 quando solo lo scorso anno era al 19%. La Lituania, addirittura, può contare su una contrazione del Pil del 22%. Chi ha investito laggiù, svedesi in testa, passerà un’estate un po’ tribolata.
Sempre nella categoria buone notizie possiamo classificare la contrazione dell’11% dell’economia russa, con un deficit di budget al 9,4% e un tasso di disoccupazione a quota 13% e in continua crescita. Ieri, a Londra, si parlava chiaramente di “fine del modello Putin”: evviva
Passiamo ora alle cattive notizie che purtroppo non mancano mai. Ma, questa volta, sono decisamente peggiori del solito. E arrivano, come al solito, dalla Cina. Per chi segue quanto scrivo la questione è già chiara, ma meglio fare un breve riassunto prima di rendere note le novità di giornata. La Cina non solo non trascinerà il mondo verso la ripresa ma anzi sta pagando a caro prezzo la politica scelta dalla Banca centrale di rendere più semplice e accessibile il credito.
Occorre, insomma, trovare strade alternative. Da Pechino è infatti giunta la richiesta agli istituti affinché controllino che il credito che hanno offerto in eccesso, qualcosa come 1.080 miliardi di dollari nel primo semestre dell’anno, vada verso l’economia reale e non a creare bolle in asset nei mercati dell’equity e del real estate: troppo tardi, le bolle si sono già formate e purtroppo non ci metteranno molto a gonfiarsi a dismisura. Inoltre questa enorme, ennesima massa di prestito emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato – come già detto – per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi.
Inoltre la società di rating Fitch si è messa a fare le pulci alla Cina in questo periodo e il quadro che ne è uscito è stato tutt’altro che consolante: «Le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero presentare entità maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina nell’indicatore “macro-prudential risk” da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda).
Ecco la novità. La China Construction Bank, secondo istituto del paese per quanto riguarda i prestiti, ha annunciato un taglio del 70% del numero di prestiti nella seconda metà dell’anno, per il semplice motivo che, parole del presidente dell’istituto Zhang Jianguo, «ci siamo resi conto che questi soldi non terminavano all’economia reale come stimolo. I prezzi delle case, infatti, sono cresciuti troppo».
Evviva, non c’è più il timore della bolla, c’è la bolla bella e buona. Prepariamoci ai subprime in salsa cinese e sarà tutt’altro che piacevole. Tanto più che Andy Xie, il principale consulente finanziario del paese, parla della politica bancaria come di «un gigantesco schema Ponzi che creerà danni enormi, difficilmente preventivabili, all’economia del paese». Insomma, siamo alle piramidi albanesi del 1996 all’ennesima potenza
Il problema è che se la Cina crolla, come crollerà, ti saluto rally dei mercati resi possibili da speculazioni sulle commodities e fiumi di liquidità garantiti da Pechino su quei mercati e via alla fase peggiore della crisi, quella che non abbiamo ancora vissuto. L’export cinese si è già contratto del 23% rispetto allo scorso anno e il fatto che quella voce rappresenti il 40% del Pil cinese, la dice molto lunga anche sulla tenuta dell’economia reale. Le navi restano in porto, il costo dell’affitto di un cargo è ridicolo rispetto a due anni fa, la bolletta energetica cala: la Cina, motore della ripresa, sta andando in testacoda. Il prossimo passo sarà l’inversione di tendenza dell’indice Shanghai Composite che trascinerà con sé, al ribasso, Wall Street e di conseguenza l’Europa e i suoi listini con book illiquidi e prese di beneficio salutate come nuove Fenici che risorgono dalle loro ceneri. Buona estate ottimisti, godetevela perché settembre ci svelerà, finalmente e purtroppo, la vera entità di questa crisi.
P.S. Nonostante questo, la sonnolenta Europa ci regalava un unico motivo di dibattito ieri. Ovvero, la minaccia simil-mafiosa del leader dei social-democratici tedeschi, Frank-Walter Steinmeier, a Londra: «Non potete opporvi a una più stretta regolamentazione dei mercati finanziari». Complimenti, un vero genio.
http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=34747
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Come riconoscere un ictus cerebrale
La maggior parte delle persone non muoiono immediatamente.
Basta 1 minuto per leggere il seguito:
Un neurologo sostiene che se si riesce ad intervenire entro tre ore dall’attacco si può facilmente porvi rimedio.
Il trucco è riconoscere per tempo l’ictus!!!
Riuscire a diagnosticarlo e portare il paziente entro tre ore in terapia.
Cosa che non è facile.
Nei prossimi 4 punti vi è il segreto per riconoscere se qualcuno ha avuto un ictus cerebrale:
* Chiedete alla persona di sorridere (non ce la farà);
* Chiedete alla persona di pronunciare una frase completa (esempio: oggi è una bella giornata) e non ce la farà;
* Chiedete alla persona di alzare le braccia (non ce la farà o ci riuscirà solo parzialmente);
* Chiedete alla persona di mostrarvi la lingua (se la lingua è gonfia o la muove solo lateralmente è un segno di allarme).
Nel caso si verifichino uno o più dei sovra citati punti chiamate immediatamente il pronto soccorso.
Descrivete i sintomi della persona per telefono.
Pervenuto via Facebook da Alessandro Sirianni
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Rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ particolarmente saliente del 17.08.09
RASSEGNA ITALIANA, di Ada Pagliarulo, Paolo Martini
Le prime pagine
In apertura oggi su quasi tutti i giornali l’Afghanistan. Il Corriere della Sera: “I talebani: fuoco contro il voto”. “Minaccia agli elettori afghani: restate a casa, colpiremo. Serie di attacchi contro obiettivi civili e forze Nato per far saltare le presidenziali di giovedì”.
Su La Stampa “Afghanistan attacco al voto. A Kabul cresce la tensione,. I terroristi puntano alla sconfitta di Karzai e vogliono spaventare i suoi sostenitori. I taleban: restate a casa, colpiremo i seggi. Assalto Kamikaze alla Nato”. In prima anche un editoriale firmato da Barbara Spinelli: “La strana guerra”.
La Repubblica apre con Bossi, e dedica all’Affghanistan solo il titolo di centro pagina. Il titolo di apertura è “Bossi, attacco all’inno”. In evidenza anche il “tragico rave party”, due eventi diversi in cui ieri sono morti due ventenni.
Il Giornale cerca di spiegare in apertura “quello che Bossi vuole davvero”, mentre sul Messaggero – che pure apre con Bossi – Paolo Pombeni spiega: “Giochi pericolosi con i simboli di un Paese”. L’Unità offre la prima pagina a Roberto Benigni, in visita a Ferragosto in Abruzzo: “L’altro comico”. Da segnalare sulla prima di LIbero l’editoriale di Maurizio Belpietro, dedicato a Giovanni Agnelli, all’atteggiamento della grande stampa sulla sua presunta evasione fiscale e a Gianni Riotta, direttore del Sole 24 Ore.
Afghanistan
Secondo Guido Rampoldi, che firma un commento su La Repubblica, i talebani afghani, in vista del voto del 20, “hanno capito che possono vincere la guerra soltanto in casa del nemico, lì dove settori crescenti di opinione pubblica si domandano perché i nostri soldati debbano morire per Kabul. Quanto più quei guerrieri ci sorprendono con i loro attacchi spettacolari, tanto più abbiamo l’impressione che la nostra presenza sia insensata, la mischia irrisolvibile; e l’Afghanistan “un Paese remoto di cui sappiamo nulla”. Ma questa è appunto la definizione che Chamberlain diede della Cecoslovacchia dopo averla consegnata alle armate di Hitler. Qui non vogliamo proporre una grossolana similitudine tra Taliban e nazisti, ma soltanto suggerire che talvolta la rinuncia a conoscere e a capire può avere un prezzo altissimo”. Ma se “si può dare per scontato che, giovedì prossimo, qua e là i Taliban assassineranno elettori ed elettrici, in esecuzione del loro proclama che bolla come “anti-islamica” la democrazia parlamentare”, è anche vero che “nelle circoscrizioni dove la guerriglia è stata convinta a fermare le operazioni, quel cessate-il-fuoco regge”. E che in ogni caso “in un Paese neo-feudale, raso al suolo da un trentennio di guerre, e da alcuni secoli privo di un’autorità centrale in grado di imporre un principio di statualità alle satrapie locali, queste elezioni, le prime gestite dagli stessi afgani, hanno prodotto eventi davvero straordinari”. Dibattiti tv e radio, passione della popolazione, soprattutto giovane, che difficilmente accetterà di tornare “sotto la sferza dei mullah”. Ma “tutto questo non può far dimenticare quanto stolta sia stata sette anni fa la decisione occidentale di forzare un Paese disastrato dentro la camicia di forza di una democrazia parlamentare, subito e senza una vera transizione”.
Secondo Barbara Spinelli, che firma un commento su La Stampa, “come nella follia di Amleto, c’è del metodo anche nell’ignoranza cieca dell’Occidente, ed è con metodica ignoranza che gli europei aderiscono, da anni ormai, alle mutevoli scelte americane in Afghanistan. Hanno condiviso il rifiuto netto di trattare con insorti e talebani locali, senza mai studiare l’evoluzione degli uni o degli altri e senza accorgersi che gli insorti non coincidono sempre con i talebani e che i talebani hanno spesso rapporti tesi con Al Qaeda. Presto scopriranno che la trattativa è invece cosa buona, e forse tutto l’Occidente comincerà fervidamente a patteggiare con bande armate che hanno voluto non meno fervidamente, ma senza riuscirvi, sterminare”. E poi la conclusione: “A pochi giorni dal voto afghano, l’Occidente ha grandi compiti di fronte a sé, se vuol mobilitare le menti e non solo gli eserciti”. Sull’Afghanistan interviene oggi anche Emma Bonino, anche come fondatrice dell’associazione “Non c’è pace senza giustizia”. La vicepresidente del Senato scrive sul Corriere della Sera del ruolo europeo dopo le elezioni del 20 agosto, e ricorda che “l’impunità dei criminali di guerra mette a rischio il futuro dell’Afghanistan”.
Bossi
“Non sarebbe agosto se la Lega non ci desse qualche opinione forte, con modalita’ da dibattito in stile La Versiliana e Cortina InConTra. Detto questo, la vita continua”. Lo dice il Ministro Gianfranco Rotondi, intervistato dal Giornale, replica così alle polemiche sulla Lega e le sue dichiarazioni estive: “Festeggiare i 150 anni dell’unita’ d’Italia, cambiando l’Inno, non sarebbe una trovata geniale. Ma l’ipotesi non e’ certo in discussione”. “Non facciamone un dramma”, insiste il Ministro, perché “cio’ che conta e’ il programma con il quale ci siamo presentati agli elettori, in cui si riconoscono Pdl e Lega. Il resto e’ legittimo dibattito estivo”.
Per Carlo Azeglio Ciampi, intervistato da La Repubblica, “il vero scopo della Lega e’ la secessione, ma credo che la maggioranza degli italiani e anche gran parte dell’attuale maggioranza di governo la secessione non la voglia”. Secessione che non sarebbe molto popolare, perché “quando ero presidente e andavo in visita nelle province e nelle valli del Nord ho sempre visto la gente sventolare il tricolore”.
Per Pierferdinando Casini, intervistato da La Stampa, quella della Lega è “una vera e propria strategia”, il partito di Bossi vuole “disgregare il Paese”, e “sfilacciare il senso di appartenenza nazionale”, cosa che “indebolisce l’Italia di fronte alle sfide della globalizzazione”.
Obama
Il Presidente degli Stati Uniti è in tour nel Paese per spiegare la sua riforma, ma deve fare qualche passo indietro. Incalzato da sondaggi negativi e da critiche dei media, il Presidente potrebbe rinunciare alla idea di una assicurazione statale sulla malattia, definita “non un elemento essenziale della nostra proposta” dal ministro della Sanità Sibelius. Al posto di una assicurazione statale potrebbero nascere “delle cooperative sociali finanziate con fondi federali ma destinate ad operare in maniera indipendente” per dare ai cittadini “più opzioni tra cui scegliere al momento di assicurarsi”, scrive La Stampa.
La Repubblica offre in prima pagina un discorso di Obama uscito ieri sul New York Times, e titolato: “Ora basta con le risse, chi è malato non può attendere”. Nel suo editoriale Obama scrive di non aver bisogno di spiegare la sua proposta ai “quasi 46 milioni di damericani sprovvisti di copertura sanitaria”, e confida nel fatto che in tutte le case americane, “malgrado ciò che abbiamo visto in televisione”, si stia discutendo seriamente la questione.
E poi
“Italia ed Eni troppo amiche della Russia”: lo dice un diplomatico americano al corrispondente della Stampa dagli Usa Maurizio Molinari. La Stampa dedica alla questione due pagine, riassumendo così: “La partnership per il gasdotto South Stream non piace agli Usa. Roma deve diversificare”.
Dell’Italia e del carattere degli italiani parla Antonio Scurati, con un lungo articolo su La Stampa: “Vizi e virtù di un popolo che si sente se stesso screditando le proprie istituzioni”.
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Il Sud si ribella alla Lega Nord
Articolo di Politica interna, pubblicato venerdì 14 agosto 2009 in Olanda.
[Het Parool]
ROMA – Il partito separatista e spesso razzista della Lega Nord decide l’agenda del governo Berlusconi. I meridionali ne hanno abbastanza e stanno pensando di fondare una Lega Sud.
I maturandi dal Sud Italia avevano raggiunto i voti più alti. Secondo il Ministero alla Pubblica Istruzione – con a capo un Ministro della Lega Nord, Mariastella Gelmini – ciò era sospetto. Ne è seguito un nuovo calcolo, dove sono stati considerati fattori come imbrogli e copiature. Alla fine ne è risultato che i migliori sono gli studenti del Nord Italia. L’atmosfera tra il Nord e il Sud Italia si è fatta pesante. Gli impiegati del Ministero dichiarano di essere neutrali e di avere utilizzato metodi di calcolo internazionali, ma nessuno ci crede. Soprattutto al Sud. La causa si chiama Lega Nord, il partito di Umberto Bossi, che ogni giorno presenta nuove proposte che bersagliano i meridionali ed indeboliscono l’unità nazionale.
La Lega è fortemente legata alla propria identità e vede nella “Padania”, uno Stato partorito dalla fantasia di Bossi, la propria patria. Lingua ed istruzione stanno a cuore ai leghisti. Così tanto che vogliono rendere i dialetti locali obbligatori per legge nelle scuole primarie e superiori. Ciò riguarda anche gli insegnanti meridionali che lavorano al Nord. Secondo la Lega, questi ultimi non parlano una parola d’italiano, per non parlare dei dialetti settentrionali. “Bisogna smetterla di far torturare i nostri figli da persone che non vengono dal Nord”, ha gridato Bossi durante un convegno di partito. Il Ministro Gelmini ha promesso “corsi intensivi” per i meridionali, ma per Bossi non basta. “Dei 118 posti vacanti per direttori scolastici al Nord, 117 vanno a meridionali. Inaccettabile”, sostiene Bossi. Il segretario milanese della Lega, Matteo Salvini, vuole che d’ora in avanti tutti i dipendenti pubblici siano “lombardi”.
Voti
La Lega guadagna molte preferenze con la sua critica a immigrati e meridionali, ma il Sud inizia a ribellarsi. Politici meridionali del partito di Berlusconi flirtano apertamente con il Movimento per l’Autonomia guidato da Raffaele Lombardo in Sicilia. Il partito di Lombardo è alleato di governo, ma è entrato ora in rotta di collisione. Ciò potrebbe costare voti a Berlusconi in Sicilia. La risposta del premier è la solita: promettere soldi, quattro miliardi di euro. Un Piano Marshall per il Sud, come l’ha chiamato entusiasticamente il premier. In Italia ciò richiama alla memoria la Cassa per il Mezzogiorno, che arricchì solo la mafia e i politici locali. Questa volta sarà diverso, promette Berlusconi. Lo scetticismo impera. Secondo il Corriere della Sera, Berlusconi sarà obbligato ad accomodare le richieste per evitare la decomposizione del proprio partito. L’economista ed ex-ministro Luigi Spaventa prevede che i soldi non andranno a nuove e promettenti aziende, ma solo ad amici del premier e ai suoi soci. “Non serve essere Leghista per preoccuparsi”, dice Spaventa.
Bossi vuole ora far passare una legge per cambiare le gabbie salariali in Italia del Sud e del Nord, dal momento che il costo della vita al Sud è più basso che al Nord. Quasi tutti gli altri politici, sindacati e associazioni di imprenditori hanno reagito furiosamente alla proposta. “Razzista” e “odorante di Unione Sovietica” sono i giudizi più moderati. Berlusconi prova a salvare il salvabile per evitare di cadere nel divario crescente tra Nord e Sud.
[Articolo originale “Zuid-Italië in opstand tegen de Lega Nord” di Eelco van der Linden]
http://italiadallestero.info/archives/7110
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Insegnamenti dall’Innse
Gianfranco Pagliarulo, 14.08.2009
La protesta simbolica è stata pacifica, ha utilizzato con intelligenza gli strumenti mediatici, mantenendo però un fortissimo ancoraggio alla realtà. Essa ha determinato una catena solidale, come non si vedeva da tempo, che non va affatto sottovalutata, perché ha spezzato il meccanismo dominante ove, dietro la retorica del lavoratore come “imprenditore di se stesso”, si svela la solitudine del dipendente contro l’imprenditore, l’invito alla concorrenza fra lavoratori, la tendenza ai bassi salari e l’aleatorietà del rapporto di lavoro
Vale la pena avviare una riflessione sulla conclusione della vicenda Innse, per capire se e cosa ci insegna l’attuale vittoria di quei lavoratori. Provo a riepilogare: la Innse è una fabbrica “classica”, da metalmeccanici (a tempo indeterminato) degli anni settanta. La Innse non ha problemi particolari né di produzione né di mercato. Il vecchio imprenditore decide la chiusura, meglio, la vendita ad altri a cui interessano solo i macchinari, il che comporta la chiusura dell’azienda e la disoccupazione per i dipendenti. Dopo una lunga lotta, la forma “estrema” che essa assume è questa: un piccolo gruppo di operai, assieme a Roberto Giudici, sindacalista della Fiom di Milano, sfugge alle maglie del blocco della forza pubblica (presente a difesa degli interessi del padrone), e sale sul carro ponte, dando vita così ad una protesta tanto clamorosa quanto pacifica. Le trattative vanno avanti mentre la vicenda assume un valore nazionale grazie all’impatto mediatico della notizia degli operai asserragliati sulla gru, fino a quando l’imprenditore Attilio Mario Camozzi perfeziona l’acquisto e si impegna a rilanciare l’azienda. Questi – mi pare – i fatti.
Considerazioni: la protesta simbolica è stata “pacifica”, diversamente da altre situazioni per alcuni aspetti analoghe avvenute in Francia e Germania, ove gruppi di lavoratori hanno “sequestrato” i manager. La protesta è stata seguita dal sindacato, che non ha mai perso il rapporto con i combattivi lavoratori. Essa ha determinato una catena solidale, come non si vedeva da tempo, che non va affatto sottovalutata, perché ha spezzato il meccanismo dominante ove, dietro la retorica del lavoratore come “imprenditore di se stesso”, si svela la solitudine del dipendente contro l’imprenditore, l’invito alla concorrenza fra lavoratori, la tendenza ai bassi salari e l’aleatorietà del rapporto di lavoro.. La protesta ha utilizzato con intelligenza gli strumenti mediatici, mantenendo però un fortissimo ancoraggio alla realtà: tutto il contrario di un modo oramai trasversale di far politica spesso limitato ad una presenza mediatica sostanzialmente priva di un collegamento reale. Tutto ciò avviene a Milano, e cioè in un luogo metropolitano che più di altri rappresenta i moderni nessi fra produzione, finanza e spesso speculazione edilizia, dove da anni (decenni?) la vita sociale sembra “normalizzata”, e il conflitto ne appare una patologia e non una fisiologia. La presenza della forza pubblica in una lotta di fabbrica non è certo nuova, ma apre inquietanti interrogativi sul ruolo del Ministero dell’Interno in una vicenda in cui si dava per scontata (o si voleva?) la soluzione della chiusura. Il che conferma, com’è ovvio, l’assoluta parzialità delle scelte di questo governo, che ha sempre ignorato, come i precedenti governi di destra, gli art. 41 e 42 della Costituzione (“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.), evocando addirittura, nei primi anni del millennio, la possibilità di modificarli.
La vicenda Innse può insegnare qualcosa per le future lotte a difesa dell’occupazione, e non solo? Sembrerebbe di sì, visto quello che sta succedendo alla Cim di Marcellina. Ma ciò su cui forse occorre ragionare in particolare riguarda le possibilità che si aprono nel settore del lavoro precario, dove lo sciopero è spesso difficilmente praticabile per l’immediato ricatto per il posto di lavoro. Il precedente degli “invisibili”, a cavallo fra il 900 e gli anni duemila, è utile; ma quella forma di presenza mediatica era prevalentemente propagandistica e svincolata da una vertenza concreta per una soluzione concreta. L’esperienza della Innse contiene questo “plus”. Lo sciopero non è necessariamente una forma di lotta obsoleta. Ma oggi appare che si possono praticare forme altre di lotta pacifiche e non necessariamente “violente”. Il corollario è che questo è tanto più possibile quanto più c’è la copertura e l’impegno diretto del sindacato e dei sindacalisti. Non convince la contrapposizione fra forme di lotta morbide e dure. Meglio sarebbe parlare di forme di lotta più o meno efficaci, riflettendo in particolare per il mondo del precariato che sta attraversando come uno tsunami l’intero sistema dei rapporti di lavoro nel nostro Paese. Per tutte queste ragioni la conclusione della vertenza Innse è essenziale, perché ha rotto l’incantesimo della presunta inevitabilità delle chiusure delle aziende e dei licenziamenti e ha confermato la possibilità di tornare a vincere.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=12737
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Idee per riscoprire il «bene» Italia
a cura di Pasquale Chessa
06-08-2009
Argomenti: Arti e culture
«E dobbiamo tenerci stretta l’Italia!!!»
Friedrich Nietzsche,
Lettera a Heinrich Köselitz, 20 aprile 1888
Sono filologici, letterali, i sei punti esclamativi che sgorgarono dalla penna di Nietzsche nella lettera scritta all’amico Köselitz in uno dei suoi viaggi per la penisola. L’inconsueta citazione, rimanda all’idea che il filosofo, viaggiatore poco ortodosso e affatto turistico, si era fatta dell’Italia. In gioco c’è quella «totalità del sapere» a cui fa riferimento Andrea Carandini nel suo ultimo libro Archeologia classica. Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000 (Einaudi, 2008). L’archeologo si trova ad affrontare una sfida inconsueta per uno studioso: sorvegliare la salvaguardia del patrimonio culturale come presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali. Una nomina, seguita alle dimissioni di Salvatore Settis, che ha sollevato polemiche politiche e diatribe intellettuali. Soprattutto su un tema cruciale: la valorizzazione del patrimonio.
«Reset» ha promosso con Mito di Francesco Micheli, una giornata di studio a inviti, mettendo intorno a un tavolo, insieme ad Andrea Carandini presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, Giulia Maria Crespi presidente del Fai, Guido Guerzoni professore alla Bocconi, Michele Trimarchi professore di Economia della cultura, Francesca Colombo responsabile coproduzioni internazionali della Scala e Marco Magnifico amministratore delegato del Fai.
Hanno coordinato l’incontro per «Reset», Giancarlo Bosetti e Pasquale Chessa. Pubblichiamo in queste pagine una parte della discussione tratta da Reset n. 114, Luglio-Agosto 2009
C’è nell’aria del tempo che stiamo attraversando una ridotta sensibilità nei confronti delle cose culturali intese come bene collettivo, come ricchezza diffusa che può produrre ricchezza individuale e personale attraverso l’impresa. Annosa è l’agenda dei disastri in atto, dal Palatino a Pompei, dal «Piano casa» alla Disneyland archeologica progettata per Roma.
Siamo un paese burocratico, in qualche modo arretrato rispetto alle più moderne frontiere della cultura internazionale, dove anche i rimedi più illuminati spesso hanno l’effetto paradossale di essere peggiori del male originario. Che fare quindi?
Crespi. Dopo anni che combatto per una nuova cultura del territorio, dell’ambiente, del paesaggio, per una città sostenibile e un’agricoltura compatibile, mi sto arrovellando su un problema che considero centrale ma in qualche modo anche trascendentale: parlo del senso delle parole che usiamo nel nostro impegno quotidiano in difesa del patrimonio italiano. In senso globale, perché tutto è collegato, non si può quindi parlare di monumenti da conservare senza pensare alla difesa delle coste, alla salvaguardia dei siti archeologici, alla valorizzazione dei parchi nazionali… Come si fa a comunicare, a far capire l’importanza di quello che l’Italia possiede e che, nel caso venisse distrutto, non potrà mai più essere recuperato? A furia di pensare e di ripensare sono arrivata alla seguente conclusione, che potreste considerare «alla San Vincenzo», e che comunque non mi vergogno a enunciare: secondo me in questo ultimo secolo l’uomo si è tremendamente «materializzato», ha dato un’importanza sempre maggiore ai beni materiali, ha via via dimenticato l’importanza dei beni spirituali nel mondo. Di conseguenza, per far capire l’importanza di tutto ciò – è questo il motivo del nostro incontro di oggi – dobbiamo rimettere i valori al centro del nostro pensiero. Come fare? I valori sono quelli eterni: a mio parere, leggendo l’Iliade e l’Odissea vi ritroviamo quasi tutti i valori. Questo è il mio grande quesito. Ho pensato che i valori rappresentano degli ideali, i quali però sono una cosa astratta e se questi ideali vengono raccontati agli uomini, ai giovani e ai vecchi, scatta una sorta di saracinesca mentale. Forse ci sono altri modi, ma a mio parere vi è un’unica strada: ridestare la consapevolezza, suscitare e resuscitare l’amor proprio degli italiani. Ma come si fa a ridestare la consapevolezza? Dato che l’uomo è così profondamente calato nella materialità, c’è solo un modo: rendendo l’idea vivente, portando l’uomo vicino alla realtà, facendogliela toccare, facendogliela sentire, vedere, odorare.
Micheli. Io ho una risposta di attualità: ciò che la signora Crespi denuncia – aver posto cioè la materialità al centro dei valori, e messo il valore economico, il dio denaro, su un piedistallo, origine primaria della grande crisi che stiamo attraversando – ha un effetto perverso sull’economia dei beni culturali. Il momento sarebbe straordinario infatti per stabilire nuove priorità e autentiche gerarchie di valori più rispettose della cultura nello sviluppo del mondo globale. Assistiamo invece a una sorta di sciacallaggio del patrimonio in nome della penuria economica, mentre si continua a spendere e a guadagnare a bocca di barile – e parlo di Stati, governi e imprese globali – anziché prendere decisioni che sarebbero virtuose anche da un punto di vista economico, si approfitta della crisi per penalizzare il patrimonio culturale. Le risorse per la cultura diventano la cosa più facile da tagliare.
Carandini. La signora Crespi ha ragione nel dire che ai valori si arriva anche attraverso i sensi, i sapori, e ha parlato di toccare, di godere, di ridere: ripartiamo dalle società aristocratiche, dove il signore girava tra oggetti d’arte, collezioni che ornavano giardini, palazzi, accompagnato da un pedagogo, un antiquario che poi ne spiegava il valore. Erano dei servitori di cultura. Poi l’aristocrazia è decaduta, i beni sono finiti nei musei. Sono cioè stati tolti dai contesti che ne mostravano il senso, per finire in luoghi di accumulazione di collezioni. Il contenitore museo è diventato una specie di ospedale del patrimonio culturale. I musei sono stati fatti per i borghesi, più colti e istruiti degli aristocratici, perché andavano a scuola, andavano all’università e facevano studi classici. Quindi bastava l’oggetto nudo, non serviva nemmeno la didascalia, per muoversi fra le opere che il borghese sapeva apprezzare. Tutto questo è stravolto, oggi. È nata una nuova «razza umana». Io, che sono un vecchio borghese, continuo a pensare di scrivere un libro che non scriverò mai, ma che si dovrebbe chiamare L’ultimo della classe. Vedo di fronte a me una società completamente diversa, che entra in questi musei, va nei parchi archeologici e non può capire assolutamente dove si trova, ne viene quindi di fatto respinta. L’oggetto nudo non racconta più nulla al nuovo pubblico, bisogna perciò che il racconto in qualche modo sia fatto di nuovo percepibile. Allora noi potremmo riappassionare alla cultura un pubblico nuovo, che talvolta si rivela immenso e globale. Perché una certa predisposizione c’è, ma viene continuamente respinta.
Immaginate dei giapponesi, o cinesi, indiani, ma anche degli americani, che vengono in questa penisola dalla storia al limite dell’inenarrabile per le ricchezze di storia, cultura e paesaggi che offre. Se esistesse un luogo dove viene raccolta tutta la storia della penisola, credo che questo sarebbe un bel modo per dire «questa è l’Italia, questa è la penisola». Immagino un «museo della penisola». E le città, chi le racconta? Nessuno. Non c’è un museo come a Londra, come ad Amsterdam o Berlino. Sembra che Sarkozy ne stia progettando uno per la Francia agli Invalides. Su questo argomento ho avuto un piccolo disaccordo con il mio amico Salvatore Settis, che non è favorevole a un museo della città di Roma, in quanto, a parere suo, Roma si racconta da sola. Io sono invece sicuro che se chiedessi a Salvatore, che non si è mai occupato del Foro, contrariamente a quanto ho fatto io, «cos’è questo? cos’è quello?», non credo che saprebbe rispondere. Come nessun altro, d’altronde, perché il Foro romano è difficile da conoscere, è un intrico incredibile. Lo capisce solo chi ha lavorato lì per 25 anni. Quindi non è vero che le cose si raccontano da sole, questo è un approccio di tipo estetico. Penso invece che per salvare il Foro e il Palatino, i siti archeologici forse più importanti del mondo, noi dobbiamo essere capaci di narrare la loro storia, far rivivere ruderi e monumenti, ricordare come erano a, cominciare dal loro nome. C’è quindi un lavoro immenso da fare.
Trimarchi. Io comincio le mie lezioni ai master dicendo: «Se un marziano atterrasse sulla Meta Sudans che cosa potrebbe capire del Colosseo?». L’esercizio per gli studenti è: «Fate i marziani, entrate in questo mondo del quale non sapete nulla e vediamo che cosa vi racconta». Quando si parla di cultura, si corre un forte rischio quando si fa un ragionamento sull’evoluzione, anzi sulla (presunta) involuzione della società: dalla società aristocratica, alla società borghese, alla nuova razza difficilmente definibile. Quando Jane Austen scrive Mansfield Park usa la metafora della wilderness per mostrare come la classe aristocratica si senta invasa dalla volgarità aggressiva della borghesia, che ne è consapevole, tanto che il giovane corteggiatore porta Fanny Price nella wilderness proprio per farla cedere, per farle perdere l’orizzonte. Noi non vogliamo perdere la bussola seguendo il positivismo di Lombroso mentre crediamo di riecheggiare l’aristocraticismo di Tocqueville. Perché bisogna fare attenzione quando si maneggiano i valori. L’Odissea è tanto bella anche perché è da Omero che traiamo l’idea della storia come racconto interpretato dagli uomini; tuttavia, essa si fonda su valori piuttosto truculenti e finisce in un bagno di sangue. Perciò mi chiedo: siamo sicuri che i valori del passato fossero valori migliori di quelli attuali? Detto in altri termini: mentre il precettore dell’aristocrazia e la koiné borghese fornivano gratuitamente, senza sforzo del destinatario, un apparato, una griglia concettuale, che poi ognuno usava a modo proprio, oggi nessuno fornisce alcunché a questa «nuova razza», che di differente ha solamente una maggiore complessità o piuttosto, una maggiore e diffusa «democraticità», per usare un termine consumato. Un riferimento su tutti: il web. Fino a che punto la rete sarà una fonte di conoscenza culturale e di trasmissione di valori? A mio avviso la «nuova razza umana» non esprime tanto un deficit di etica culturale, quanto – in modo sicuramente goffo e scomposto –un’urgenza valoriale e identitaria molto forte, alla quale però nessuno risponde da una prospettiva istituzionale. È questo lo snodo, l’anello mancante. Negli ultimi mesi del proprio mandato, Francesco Rutelli ha istituito presso il Minsitero una Commissione sulla creatività in Italia. Tra i molti dati che ne sono emersi un segnale che io giudico importante rigurda i meccanismi dello scambio, e dunque lo stesso funzionamento dei mercati: i settori creativi che dispongono di un canale di distribuzione di massa (design, moda, enogastronomia) hanno successo finanziario, mentre i settori creativi che hanno un canale di distribuzione tradizionale (teatro, musica, danza, ecc.) soffrono finanziariamente.
Guerzoni. Io non temo i «barbari alle porte», non condivido un’ipotesi catastrofista che ripropone poi un tema comune ai secoli precedenti. I dati di oggi ci dimostrano che è in atto una frammentazione dei saperi ma non possiamo affermare che le nuove generazioni posseggano meno conoscenza di quelle che le hanno precedute. Il livello di istruzione formale e informale sta aumentando, e questo è un elemento incontrovertibile. C’è un nuovo che si fa strada, che non ha niente di barbarico. Quello della comunicazione di massa, del design, dell’architettura, della fotografia è un territorio nuovo per la cultura, anche nel senso tradizionale, per così dire alto. Questi territori sono stati musealizzati in modo scrupolosissimo, mantengono vivo un rapporto con più pubblici, cercando ovviamente di graduare i linguaggi. Direi che il museo più bello che ho visto negli ultimi dieci anni è stato il museo dedicato alla storia del giornalismo statunitense: straordinario. In effetti, da una disamina degli argomenti di cui si è discusso, emerge questo spostamento in cui prevalgono i plurali. Oggi non si parla di pubblico ma di pubblici, riconoscendone legittimamente le aspettative e le diverse capacità interpretative. Sul Foro esiste materiale on-line con ricostruzioni 3d sbalorditive. Siamo dei generatori accreditati di contenuti, ma per farlo abbiamo bisogno di una struttura redazionale che alimenti questo flusso informativo, senza far venir meno lo scrupolo filologico o il rigore scientifico. Quanti musei italiani sono pronti a trasformarsi in redazioni, nel senso più alto del termine, o posseggono queste capacità editoriali? Forse negli ultimi quindici anni si sono perse delle occasioni importanti per far transitare questo tema molto marginale verso il centro del dibattito.
Trimarchi. Tocchiamo così il problema dei problemi, cioè l’assetto istituzionale, nel senso che se non si affronta il problema della griglia istituzionale in cui sono collocate le organizzazioni e i mercati culturali tutto ciò rimane rimane incompiuto. Processi decisionali, responsabilità di spesa, autonomia: sono temi finora elusi da tutti i governi.
Reset. Bisogna perseverare e arrivare al punto di partenza: il patrimonio. Siamo di fronte a un’erosione di quel bene primario generale che Carandini, suggestionato da Nietzsche, delimita come il patrimonio del sapere nella sua totalità, ciò che abbiamo già scoperto, ciò che c’è ancora sotto, ciò che sappiamo e ciò che ancora non sappiamo, ciò che sapevamo e ciò che abbiamo dimenticato, la storia, l’arte, la cultura, la scienza. A questo punto si impone una domanda: c’è questo patrimonio, quanto vale, quanto costa salvarlo e come possiamo valorizzarlo?
Crespi. È proprio qui che volevo arrivare: qui si parla di musei ed è molto importante, ma c’è una cosa più importante dei musei, ed è l’Italia. Ermanno Olmi diceva «L’Italia è un museo diffuso», questa è la cosa veramente importante. Ripeto: tutto si tiene in Italia, gli Uffizi insieme ai cipressi di Bolgheri, la costiera amalfitana insieme piazza Armerina, le zagare di Sicilia con la foca monaca in Sardegna. Il patrimonio è la cosa più importante.
Micheli. Vorrei soffermarmi sul campo della musica e della pittura, dove è più evidente che proprio la mancanza di conoscenza, la mancanza di cultura nel senso tradizionale del termine fa sì che pochi sacerdoti parlino tra di loro, mentre tutti gli altri brancolano nell’ignoranza. Sarebbe come stare in un campo da tennis, vedere le palline che passano senza capire il gioco. Ritengo quindi che l’aspetto del contemporaneo vada in qualche modo inserito in questa discussione che ha posto al centro, come fondamentale, il problema della comunicazione. Paradossalmente oggi comunicano meglio i libri per bambini che si trovano nei bookshop dei musei di quanto non facciano le didascalie dei libri d’arte e dei musei. Se Milano venisse carotata e si potesse mettere in mostra la Milano romana, la Milano medievale, la Milano neoclassica, la Milano del liberty, del futurismo, del fascismo, degli anni Cinquanta e Sessanta, tutti capirebbero di più il valore della città e delle cose che contiene. Io sostengo che l’Expo a Milano sarà un fallimento se in questi sei anni non si riuscirà a far sentire alla gente l’appartenenza a una città di cui nessuno conosce la storia.
Reset. Ci sono due modernità. La modernità delle arti, a cui ci ha richiamato Micheli e la modernità dell’uso del patrimonio. Al centro c’è però una domanda a cui non è facile rispondere: può la cultura creare ricchezza collettiva? Conservare in senso culturale e valorizzare in senso economico sono due corni del dilemma irrimediabilmente contraddittori? Quale modernità stiamo attraversando?
Carandini. Gli esempi più diffusi sulla modernizzazione del patrimonio archeologico di Roma sono ciarpame. Sul Foro romano non c’è nulla di serio, come nulla di serio c’è sulla storia della città di Milano. Dove sono le cartografie, le ricostruzioni, questo lavoro esatto che può comunicare proprio perché è fondato sulla ricostruzione scientifica del passato? Il paesaggio come bene collettivo e territoriale non è stato capito nella sua centralità né dal centrodestra né dal centrosinistra. E direi che l’uso del territorio per fini immediatamente lucrativi è stato messo in atto prima tramite l’abusivismo, poi tramite la legalizzazione dell’abusivismo, che è ciò che sta per avvenire. Da questo punto di vista la situazione è quindi tragica. Cosa mi aspetterei? In primo luogo vorrei aprire il Consiglio superiore alle associazioni, voglio invitare il Fai, voglio invitare i presenti a dire qualche parola di verità in un ambiente alquanto paludato, che poi è un ambiente di specialisti, di famosi ed eminenti personaggi della cultura. Il dramma attuale è che non abbiamo i piani paesistici. Ma la cosa peggiore è che non conosciamo il paesaggio. Ma come facciamo a dire che abbiamo più beni culturali degli altri se non li abbiamo mai contati? Tutti gli scavi di tutela in Italia sono inediti: gli scavi dei Fori imperiali sono inediti, il Palatino è inedito. È fondamentale avere i piani paesistici, che devono essere distinti dalla pianificazione ordinaria, naturalmente, perché devono essere redatti da Stato e Regioni, mentre la pianificazione ordinaria la fa la Regione. Esiste un Codice dei beni culturali, e qui siamo un fronte comune, stiamo facendo questa battaglia proprio in questo momento, che però non c’è. Perché? Perché ne rimandano l’efficacia proprio per la parte paesaggistica, prima la volevano rimandare al 2011, adesso la vogliono rimandare al 2010.
Reset. Chi la vuole rimandare?
Carandini. Ci sono a mio avviso due tipi di interessi: uno forse anche governativo tendente ad avere più mano libera sul piano casa, ma anche un interesse delle Regioni, che hanno accolto piuttosto obtorto collo questa revisione di Rutelli, e quindi vogliono una piccola vendetta. Quando entrerà in vigore il Codice dei beni culturali il soprintendente avrà un potere anche sul merito, quindi un potere molto superiore, ed è questo che fa paura. Per quanto riguarda la tutela, bisogna passare alla previsione e alla prevenzione anziché correre a restaurare di qua e di là. Ma come si fa se non si conoscono gli oggetti, se non li si sorveglia? Non esiste una carta del rischio, questo è il punto. E la valorizzazione dai beni nudi ai beni vestiti di servizi: i beni nudi oggi non vengono più percepiti, perché è vero che c’è più cultura scientifica rispetto a prima, ma la cultura umanistica non c’è. Ci vorrebbe una carta delle opportunità della valorizzazione: per esempio, in un determinato territorio, qual è il numero uno da valorizzare? Qual è il numero due? Qual è il numero tre?
Reset. Qual è il ruolo delle soprintendenze?
Carandini. I funzionari delle soprintendenze hanno una media di 56 anni, tra dieci anni non c’è più nessuno, problema risolto! E qui la sinistra non ha giovato, perché la sinistra ha sempre accarezzato il pelo di questi funzionari, invece di andargli contropelo e dire loro: «state attenti, se non vi rendete socialmente utili, è vero che siete pagati poco, ma potreste non essere pagati più, se vi fanno fuori». Quindi persuadere, cercare di trasformare: forse è per questo che io non ho mai ritenuto che una direzione generale per la valorizzazione del patrimonio fosse una cattiva idea (su questo punto c’è un piccolo dissenso con la signora Crespi, ma io sono aperto naturalmente a rivedere le mie posizioni, se vengo persuaso). Devo dire che lo stesso mio predecessore, Salvatore Settis, l’aveva favorita. Perché quello che fanno le soprintendenze è sacrosanto. Ma non basta: non c’è un’offerta culturale. Lei ha detto «il pubblico è ignorante». Confermo. Ma è l’idea di pubblico che nel funzionario non c’è, è andata perduta. C’è la corporazione dei funzionari, questa è la cosa più importante, poi vengono i beni e lì si ferma tutto. Bisogna rimettere al centro il pubblico: quindi, la scuola e la televisione dovrebbero aiutare. Viceversa, si vogliono diminuire le ore di storia dell’arte nei programmi scolastici. Preoccupante. La televisione sappiamo che cos’è. C’è il timore che il Ministero vada in rovina, che non ci sia più una lira, e che le forze economiche non si attivino neppure in questo momento. La Francia l’ha capito, Sarkozy l’ha capito e ha aumentato il bilancio della cultura.
Micheli. Oggi bisogna investire sulla cultura perché la cultura consente migliore qualità di vita, conservazione di cose che altrimenti verrebbero perse per sempre. Prima mi veniva in mente: pensate se per incanto ci fosse stata la possibilità di incidere nell’Ottocento le esecuzioni di Chopin, di Schumann, di Liszt. E poi immaginate che siano andate perdute. Bisogna fare lo stesso ragionamento su Pompei, che è uno dei casi più clamorosi perché quello che si conserva è quello che non viene tirato fuori, paradossalmente.
Reset. Il nostro atteggiamento volge verso un clima pessimistico, date le esperienze precedenti, sia del centrosinistra che del centrodestra. Il fatto però che Carandini abbia presieduto questo Consiglio superiore dei beni culturali è una scommessa personale che ci riguarda e ci coinvolge. È questa scommessa sensata? Quando si dice «l’Italia ha il 40% dei beni mondiali», si dice una cosa vera? E viene detto che i finanziamenti per la cultura sono calati. Cosa costerebbe la tutela,per una sopravvivenza minima, rispetto a quello che si spende adesso? Questa famosa storia che un euro investito in cultura ne produce nell’indotto quattro, è vera o non è vera? In altri termini: se servono tanti soldi vanno trovati subito. Come e dove, insomma da chi?
Trimarchi. Viviamo quella che chiamerei un’ossessione muscolare del settore culturale italiano: una volta ero in Messico e raccontavo di questa leggenda metropolitana secondo la quale in Italia avremmo tre quarti del patrimonio mondiale. Mi ha replicato la direttrice di un museo messicano, piuttosto arrabbiata, dicendo che è il Messico a possedere tre quarti del patrimonio mondiale. Come si soppianta l’ossessione dimensionale? Guardando in modo non sciovinistico ad alcuni aspetti del nostro patrimonio culturale che sono, secondo me, molto identitari. La signora Crespi diceva prima che c’è un problema di amor proprio. Benissimo. L’amor proprio italiano, invece di fare una gara, si sviluppa in questo modo (lo dico da profano appassionato): in primis l’Italia ha un palinsesto di civilizzazioni stratificate come nessun altro paese al mondo; in aree piuttosto piccole ci si imbatte in segni eloquenti di civilizzazioni successive, alcune volte sovrapposte, altre volte integrate. Tutto ciò non dialoga affatto, non viene mai messo a valore. Inoltre il patrimonio culturale italiano è fortemente legato al disegno della città, nel senso che l’offerta culturale monumentale, architettonica, artistica è giustificata dalla struttura, dalla concezione, dal disegno della città e viceversa, quindi leggere la città significa leggere la sua cultura e viceversa. Anche questo è del tutto ignorato. Infine, il patrimonio culturale da noi è strettamente legato allo spettacolo, che non soltanto si avvale di monumenti teatrali (dai teatri greci, ai teatri ottocenteschi, ad alcuni teatri contemporanei come l’Auditorium che è già studiato come patrimonio culturale), le città italiane sono delle quinte a cielo aperto, abbiamo tanti spazi teatrali anche senza farci teatro. Da questo può derivare un costruttivo amor proprio. Finché il museo (e questo vale per tutte le istituzioni, sito archeologico, teatro) non sarà un centro autonomo di decisione di spesa, possiamo stare secoli a discutere se la tutela muoia, se la valorizzazione sia convalescente, ma non risolviamo il problema. Il museo oggi non può nemmeno accettare una donazione, se il soprintendente non la autorizza.
Reset. Se i soldi non ci sono, non c’è nessuno che li possa raccogliere sugli alberi.
Guerzoni. I soldi non sono pochi. Uno dei primi miti da sfatare è che vi sia una spesa pro capite in Italia molto più bassa di quanto accade negli altri paesi. Normalmente i giornali analizzano i finanziamenti del Ministero e su quello basano l’eventuale diminuzione. Ma di fronte ai 2,2 miliardi di budget ministeriale ci sono 4,3 miliardi spesi dagli enti locali. La cifra totale, secondo i dati dell’Unione europea, ci porta a quasi 7 miliardi di euro di spesa in campo culturale: sono lontani dai 12 francesi ma sono vicini agli 8,5 della Germania. Ritorna la vicenda dei residui – una delle bandiere di Carandini – di allocazione a volte inefficiente delle risorse pubbliche, tenendo conto che il problema sarebbe scorporare gli investimenti per la tutela. È scellerato che il budget ministeriale diminuisca per rispettare il vincolo del patto di stabilità perché l’investimento in tutela andrebbe scorporato. Teniamolo fuori. E a questo punto il discorso sull’impatto ha un’importanza di carattere negoziale perché se a Firenze Uffizi, Accademia e Pitti serrassero i portoni per tre mesi vorrei vedere se gli albergatori non si lamenterebbero.
Crespi. Mi piace molto quello che ha detto.
Guerzoni. Gli investimenti dedicati alla tutela dovrebbero essere totalmente separati e uscire dal budget del Ministero dei beni culturali e ambientali. Si possono mettere in un fondo speciale, perché si tratta di un’attività di manutenzione di un patrimonio nazionale, non legata a un ministero particolare. Quindi, una volta definito un elenco di priorità, per cui sarebbe necessaria una carta del rischio, abbiamo bisogno di una sorta di classifica. In Italia si lavora sempre in urgenza, se invece si definissero le priorità di intervento sarebbe possibile su base triennale stabilire quante risorse servano. È evidente che in Italia paghiamo 10-15 anni di utilizzo di fondi straordinari ma non c’è una programmazione di interventi. Dovrebbero farlo le Regioni. Ma adesso le competenze in termini di catalogazione sono passate alle Province (un’altra delle follie italiane).
Micheli. Questa riunione mi ha colpito perché rispetto ad altre vedo un vero entusiasmo, una vera carica e un ardore che promette molto bene. Di questo vi ringrazio veramente perché c’è una forte tensione a questo tavolo. E quindi, a maggior ragione, mi sembra che possa valere la pena – e qui raccolgo ancora i suggerimenti di Carandini – di pensare proprio a delle proposte molto concrete, al di là del grido di dolore.
Crespi. Mi pare che stia venendo fuori a più riprese quanto ci sia poco da fare, dato che non possiamo fare altro che difendere questo Ministero. Il male generale sta nelle persone che oggi compongono il Ministero, non tanto nella mancanza di fondi, in quanto gli sprechi sono enormi: al sud vi sono schiere di custodi che non fanno niente. A Piazza Armerina i custodi stampano i biglietti, la soprintendenza lo sa benissimo, vendono i biglietti che stampano i custodi. Per quanto riguarda il «Piano casa» sappiamo che oggi è fermo, in un certo senso, perché gli allarmi lanciati sono serviti a qualcosa. Così come era stato concepito era un’istigazione a delinquere. Quando abbiamo detto «attenzione, qui ci distruggono i centri storici» la risposta, degna di nota, del Ministero è stata «non preoccupatevi, i beni vincolati non vengono toccati». Grazie, ma i beni vincolati sono pochissimi, sono l’estrema minoranza. Quindi questo ci ha dato nuovamente la sensazione che chi ci governa non ha la più pallida di idea di qual è il patrimonio da proteggere.
Carandini. Posso aggiungere una cosa? Se uscisse da questo gruppo di lavoro, un documento che tutti voi potreste presentare al Consiglio, davanti al Ministro, una richiesta di più finanziamenti per la cultura, io credo che questa sarebbe una cosa molto concreta.
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