banche, borsa, crisi, finanza di Vincenzo Comito
Come e dove scoppierà la prossima? 16/11/2009
Dalle banche? Dagli hedge funds? Dalle valute? O altrove? Mentre ci si interroga sul come e quando del prossimo choc, governo e banche sono presi in trappola
“…i governi, le banche centrali e le authority sembrano impotenti. Avevano promesso di voltare pagina, ma si sono infilati in negoziati inconcludenti…” (M. Mucchetti)
“…la ricetta che trasforma le ricchezze di oggi nei disastri di domani è nota da tempo. Aggiungi un po’ di rischio qua, uno spruzzo di innovazione finanziaria là, nonché un po’ di rapacità per insaporire, lascia decantare il tutto per alcuni anni e, prima che tu te ne accorga, avrai un crisi calda e ben cotta nelle tue mani…” (F. Guerrera)
“…considerando tutto quello che sappiamo, potrebbe non esserci una via d’uscita sicura…” (W. Munchau)
Premessa
Circa un anno fa pubblicavamo su questo stesso sito un articolo che intravedeva le ragioni specifiche per cui si sarebbe potuta innescare in un futuro non troppo lontano una nuova crisi dell’economia (Comito, 2008).
Lo stesso argomento viene, in queste ultime settimane, discusso con un certo interesse sulla stampa economica internazionale, in particolare sulle colonne del Financial Times, sicuramente il giornale che va informando di più e meglio, sin dall’inizio del fenomeno, sul tema della crisi, lasciando spazio ad opinioni anche molto differenziate.
Il punto di partenza dell’analisi che segue è quello che, almeno sino ad oggi, ben poco è stato fatto per riformare i meccanismi economici e finanziari, nazionali ed internazionali, che hanno prodotto le difficoltà in atto. I governi, i parlamenti, le organizzazioni internazionali, fanno finta di agitarsi sul problema, ma si tratta di una commedia a cui non fa sostanzialmente attenzione più nessuno. Va aggiunto che da quando si sono messi a suo tempo in opera i provvedimenti di liberalizzazione delle attività finanziarie e di deregolamentazione dei movimenti di capitale, si è registrata nel mondo una serie di crisi, di dimensioni più o meno rilevanti, ad una distanza media di pochi anni l’una dall’altra.
Le varie ipotesi in campo
Da quale area potrebbe quindi sbucare la prossima? Le opinioni in proposito appaiono varie. Ne elenchiamo alcune:
1) per Guerrera (Guerrera, 2009) la discussione ruota oggi intorno alle grandi banche, ma può darsi che la prossima crisi venga invece da qualche altro settore della finanza, al momento trascurato; dalla bolla dei mari del Sud nel Settecento, al crollo del 1929, sino al caso della Enron, i cattivi nel dramma finanziario sono costantemente cambiati.
Così, mentre le banche stanno riducendo la loro attività in business quali il trading in proprio e la finanza strutturata, temendo l’arrivo di regole più severe, il campo tende ad essere occupato dagli hedge fund e da altri tipi di organizzazioni finanziarie meno regolate, che costituiscono il sistema finanziario ombra. Il punto è che, come sempre, alti rischi significa la speranza di alti profitti. Oggi negli Stati Uniti le entità non bancarie possiedono circa la metà di tutti i prestiti dubbi del paese. In teoria la Fed sta ottenendo i poteri per controllare anche tali istituzioni, ma mettere le mani su dei gruppi che non rivelano pressoché nulla sulle loro attività sarà molto difficile. Così c’è la possibilità che l’epicentro della prossima crisi sia un hedge fund di media grandezza la cui rete di relazioni d’affari lo trasformi in una sorta di Bear Stearns del settore;
2) per Munchau (Munchau, 2009), invece, le difficoltà verranno forse dalla borsa. E’ ormai chiaro da qualche tempo che i mercati azionari globali sono di nuovo entrati un una bolla. Sembra di essere tornati alla situazione del 2003 e del 2004, scrive l’autore, quando le bolle immobiliare, del credito, delle materie prime, avevano cominciato a gonfiarsi, aiutate dal basso livello dei tassi di interesse e dalla assenza di inflazione. Ma la situazione di oggi presenta una grande differenza: il crack arriverà ancora prima.
La ragione forse più importante per la crescita di questo nuovo boom è costituita ancora una volta dal livello molto basso dei tassi di interesse, che induce gli investitori a impiegare il loro denaro in tutti i tipi di attività rischiose. Per tutto quello che ne sappiamo, afferma Munchau, non sembra esserci alcuna via d’uscita da tale situazione;
3) anche per Roubini (Roubini, 2009), l’economista che con maggiore precisione aveva a suo tempo previsto lo scoppio delle difficoltà in atto, all’origine della prossima crisi si trova il livello molto basso dei tassi di interesse, che sta gonfiando i prezzi non solo dei mercati azionari, ma anche quelli di tutte le altre attività rischiose, dal petrolio, alle materie prime, alle valute di alcuni paesi; essi sono anche spinti verso l’alto dalla migliore situazione economica che si riscontra ora in vari paesi. Ma i prezzi delle attività a rischio sono in ogni caso cresciuti troppo, troppo presto e troppo velocemente se li si confronta con i fondamentali dell’economia.
Ma l’autore si sofferma in particolare su di un fenomeno apparentemente laterale. La debolezza del dollaro sui mercati valutari internazionali sta alimentando per Roubini un gigantesco meccanismo di carry trade. Gli investitori, spinti dalla debolezza della valuta e dai bassissimi tassi di interesse, tendono ad indebitarsi nella valuta statunitense e ad impiegare le risorse così ottenute per acquistare sul mercato attività ad alto rendimento ed inevitabilmente ad alto rischio. Consideriamo peraltro il fatto, afferma l’autore, che in realtà tali investitori stanno acquistando denaro addirittura a tassi di interesse negativi, dell’ordine del -10-20% su base annua, dato che la continua caduta del prezzo del dollaro porta loro rilevanti guadagni in conto capitale. Così, i rendimenti di una strategia di questo genere si sono collocati intorno al 50-70% dall’inizio di marzo ad oggi. Essa va avanti in tutto il mondo con un processo cumulativo. Ma un giorno la bolla scoppierà – immaginiamo cosa potrà succedere se il dollaro dovesse rivalutarsi o anche, per alcuni versi, semplicemente stabilizzarsi – portando dovunque ad una corsa ad uscire dal gioco e all’affondamento conseguente e in contemporanea dei mercati delle azioni, delle materie prime, del credito, dei valori dei paesi emergenti;
4) intanto Rogoff e Reinhart (citati in Foroohar, 2009), avanzano l’ipotesi che venga allo scoperto una crisi valutaria, originata dal livello molto elevato del debito pubblico di qualche stato;
5) sin qui le ipotesi fatte dagli studiosi citati. Ma si potrebbe ovviamente pensare anche ad altre ragioni. Una ulteriore potrebbe essere proprio quella trascurata da Guerrera e farebbe riferimento ad una crisi scoppiata per i problemi di qualche grande banca, che trascinerebbe con sé, anche per i suoi legami sistemici, una parte consistente del sistema finanziario e troverebbe i governi in grande difficoltà e in carenza di risorse sufficienti nel far fronte alla questione. L’ipotesi diventerebbe molto concreta nel caso in cui gli governi non arrivassero, come del resto sembra, a governare più strettamente di oggi il sistema finanziario.
Qualche dato empirico sulle bolle in atto; l’origine delle liquidità mondiali
A conferma di quanto segnalato sopra dai vari studiosi, bisogna ricordare che in effetti da sei mesi tutti i prezzi, da quelli dei titoli azionari di borsa, a quelli dei mercati obbligazionari, in specifico per quanto riguarda i titoli pubblici, a quelli delle materie prime, con oro e petrolio in primo piano, tendono ad aumentare. Dal marzo 2009 ad oggi l’indice S&P della borsa di New York è così aumentato del 58%, mentre il Nasdaq è cresciuto del 67%; i mercati emergenti sono saliti del 95%, mentre il prezzo del petrolio è andato su del 132% dal livello di febbraio (Forrooher, 2009). Alla borsa di Taiwan il valore delle azioni è pari ormai a 100 volte gli utili delle imprese e a 90 volte in Australia (P. Artus, citato in Gatinois, 2009). L’indice Hangseeng della borsa di Hong Kong, dopo aver raggiunto un punto di minimo nell’ottobre del 2008, un anno dopo era cresciuto del 72%. Intanto, quest’anno, negli Stati Uniti verranno emessi titoli pubblici per 1300 miliardi di dollari ed in Europa per 900 miliardi. Infine, la liquidità mondiale non è mai cresciuta come in questo momento. Tra il 1990 e il 2007 il livello della moneta in circolazione è aumentato in media del 15% all’anno; oggi il ritmo è superiore a più del 30% (Artus, in Gatinois, 2009).
Ci si può chiedere quale sia l’origine delle liquidità che sembrano ormai inondare di nuovo il pianeta e gonfiare le varie bolle. I punti di partenza del fenomeno sembrano essere diversi: oltre alle liquidità generate dai governi e dalle banche centrali dei paesi sviluppati per far fronte alla crisi, bisogna soprattutto ricordare da una parte i paesi, come la Cina, con un’ eccedenza strutturale della loro bilancia commerciale e che riversano in gran parte tali surplus sui mercati finanziari di tutto il mondo, dall’altra i paesi produttori di petrolio e di materie prime, che trasformano di nuovo quasi tutti gli eccedenti in prodotti finanziari (D. Cohen, in Gatinois, 2009).
Conclusioni
Più passa il tempo, più ci si va convincendo che una nuova crisi finanziaria potrebbe scoppiare presto, anche se le opinioni relative a su quale fronte essa potrebbe ripartire sono relativamente differenziate.
Per altro verso, le banche centrali e le autorità politiche si trovano di fronte ad una specie di trappola. Se esse alzano i tassi di interesse e riducono la disponibilità di credito, bloccano quel poco di ripresa che è in atto ed anzi minacciano appunto di far decollare una nuova crisi; se invece tengono bassi i tassi e mantengono una larga disponibilità di credito, continuano ad alimentare le varie bolle sopra descritte, che prima o poi scoppieranno inesorabilmente.
Il problema è ovviamente aggravato in prospettiva dal fatto che le casse dei principali stati del pianeta –tranne quelle cinesi e di qualche paese del Medio Oriente- sono ormai state svuotate dalla crisi attuale e lo scoppio di un nuovo incidente di percorso a relativamente breve termine porterebbe a grandi difficoltà di intervento.
Una situazione indubbiamente difficile.
Testi citati nell’articolo
– Comito V., La crisi attuale e quella futura, www.sbilanciamoci.info, 29 ottobre 2009
– Foroohar R., Boom and gloom, www.newsweek.com, 30 ottobre 2009
– Gatinois C., Le grand retour de la bulle spéculative, www.lemonde.fr, 2 novembre 2009
– Guerrera, Countdown to next crisis, www.ft.com, 16 ottobre 2009
– Mucchetti M., Quella finanza che non cambia, www.corriere.it, 7 novembre 2009
– Munchau W., Countdown to the next crisis is already under way, www.ft.com, 18 ottobre 2009
– Roubini N., Mother of all carry trades face an inevitabile bust, www.ft.com, 1 novembre 2009
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Come-e-dove-scoppiera-la-prossima
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Se il cervello fa cilecca è colpa (anche) dei denti 16.11.2009
Un nuovo studio sembra suggerire che una buona cura dei denti (usare lo spazzolino dopo ogni pasto, visitare il dentista regolarmente), può aiutare gli adulti a mantenere intatte le loro abilità mentali.
Un gruppo di ricerca americano ha infatti scoperto che gli adulti di più di 60 anni con i livelli più alti del patogeno Porphyromonas gingivalis avevano tre volte più probabilità di non riuscire a tenere a mente una sequenza di tre parole rispetto agli adulti con i livelli più bassi dello stesso patogeno.
Il Porphyromonas gingivalis è un microbo che causa infezioni e parodontiti.
Il dottor James M. Noble del Columbia College of Physicians and Surgeons di New York City e i colleghi hanno anche scoperto che gli adulti con i più alti livelli di questo patogeno avevano il doppio delle probabilità di sbagliare delle sottrazioni complesse.
Questi risultati, pubblicati dalla rivista Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry, si basano su oltre 2.300 uomini e donne sottoposti a test per vedere se soffrivano di periodontite e a cui è stato chiesto di completare una serie di prove che misurano le abilità mentali.
I soggetti prendevano parte al più vasto studio chiamato National Health and Nutrition Examination Survey III, che ha avuto luogo tra il 1991 e il 1994.
Nel complesso, il 5,7% degli adulti aveva problemi a completare alcuni test di memoria e il 6,5% non è riuscito nelle sottrazioni complesse.
I risultati a questi test erano scarsi soprattutto nelle persone con i più alti livelli di patogeni nella bocca. Già altre ricerche hanno stabilito una forte associazione tra la salute orale e le malattie di cuore, l’ictus e il diabete, nonche’ l’Alzheimer.
La malattia gengivale potrebbe influire sulla buona funzionalità del cervello tramite diversi meccanismi, secondo l’equipe del dottor Noble; per esempio, scatenando uno stato di infiammazione in tutto il corpo.
In un commento che accompagna la pubblicazione dello studio, il dottor Robert Stewart, del King’s College London, afferma che “questa ricerca si unisce alle prove sempre più numerose che collegano la salute della bocca e dei denti alla funzionalità cerebrale“.
Per approfondire:
Diagnosi del morbo di Alzheimer
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Dalla rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 19.11.2009
Un “sì al decreto” Ronchi che contiene il provvedimento sull’acqua viene da Marco Ferrante su Il Riformista, dove si ricorda che il tema della gestione dell’acqua era stato posto nel quadro della liberalizzazione dei servizi pubblici locali dall’ex ministro degli Affari regionali nel secondo governo Prodi Linda Lanzillotta. La Lanzillotta viene intervistata dal quotidiano e sottolinea che quel che manca in un provvedimento che introduce l’affidamento a terzi è un “regolatore nazionale”. Sarebbe necessario, secondo Lanzillotta, premiare le aggregazioni tra le piccole realtà municipalizzate italiane, far entrare nel capitale delle reti le fondazioni bancarie legate al territorio. Ferrante sottolinea che è necessario un meccanismo che leghi le tariffe alle prestazioni. E che è altrettanto necessaria una authority forte, non schiava degli interessi delle grandi imprese, per evitare i rischi di un trasferimento di rendita. L’esempio citato è il caso, a Parigi, Eau de Paris: il consiglio comunale ha votato la creazione di una società pubblica. Il quotidiano riferisce anche dei malumori della Lega Nord.
Pubblico in merito un testo di Aprile on line del 2007, allora il provvedimento si era arenato
Il ddl Lanzillotta fa acqua 01.02.2007
Di Carla Ronga
Servizi pubblici Il ministro delle Margherita si era impegnato a garantire la ripubblicizzazione dei servizi idrici. Poi lo stop perché “la decisione deve passare al vaglio degli altri dicasteri”. Probabile che ne discuta venerdì il Consiglio dei Ministri
“Abbiamo dimostrati ai critici che le liberalizzazioni si possono fare anche insieme a Rifondazione comunista e anche in quei settori controllati da forze amiche del centrosinistra”. Così Linda Lanzillotta numero uno del dicastero degli Affari regionali aveva parlato ai suoi collaboratori il 17 gennaio scorso, quando l’accordo nell’Unione sul disegno di legge sulle liberalizzazioni dei servizi pubblici sembrava ormai cosa fatta. Ma oggi il disegno di legge su cui la ministra della Margherita si sta impegnando da tempo anche in risposta all’attivismo sulle liberalizzazioni dei riformisti della Quercia è a un punto morto. E Linda lanzillotta si sfoga in un’intervista a La Repubblica: ” Non sono come la Thatcher, non sono, come vengo dipinta, una liberista selvaggia”. Il riferimento a Rifondazione comunista è implicito.
Le difficoltà sorte su alcuni punti del ddl con il partito di Franco Giordano ha costretto infatti la Lanzillotta alla resa e a passare il dossier al governo che dovrebbe affrontare la questione proprio nel consiglio dei ministri di domani (venerdì).
Per capire cosa succede, facciamo un passo indietro: il disegno di legge di Lanzillotta si propone di liberalizzare i servizi pubblici locali per evitare che autobus, mense, gas, rifiuti non siano più gestiti in maniera “occulta” dagli enti locali. Contro la proposta di far passare il principio assoluto dell’obbligatorietà di gara per l’assegnazione dei servizi pubblici locali sono scesi in piazza l’Anci, i Verdi e Rifondazione comunista. E così, con gli emendamenti presentati dall’Associazione dei comuni e approvati dalla conferenza unificata Stato-Regioni, si è provveduto a contenere l’effetto liberalizzazioni.
Il compromesso era stato trovato su alcuni punti fondamentali, a partire dall’esclusione dell’obbligatorietà della gara per i comuni e dall’impegno far passare la ripubblicizzazione dell’acqua. Sul primo punto gli emendamenti sui quali si è raggiunta l’intesa nell’Unione stabiliscono la possibilità per i comuni di scegliere tra la gara per l’affidamento del servizio a una società e la gestione “in economia”, ovvero la gestione dell’ente locale con proprio personale e propri mezzi. Prevista anche la possibilità, come ha sostenuto l’Anci, di casi di affidamento a Spa miste o ad azienda pubblica con l’in-house.
L’acqua, invece, merita un discorso a parte. Perché è proprio su questo punto che il disegno di legge della Lanzillotta si è impantanato. Il ministro delle Margherita si era impegnato a garantire la ripubblicizzazione dei servizi idrici. La moratoria delle privatizzazioni dell’acqua deve esserci – hanno detto Verdi e Rifondazione – perché questo è stato l’impegno preso dal governo e così è scritto nel programma elettorale. “La moratoria ci sarà”, ha garantito la Lanzillotta pronta a farla passare subito nel suo disegno di legge. Poi lo stop. Il numero uno degli Affari regionali ha verificato che la decisione deve passare al vaglio degli altri ministri. “Il punto è – spiega Lanzillotta a La Repubblica – individuare un modello di gestione per sfruttare al meglio la risorsa acqua, abbassando le tariffe e alzando la qualità del servizio”.
“Modello di gestione”, “risorsa acqua”, a saper leggere tra le righe, le parole usate nell’intervista al quotidiano non preannunciano il rispetto al programma elettorale dell’Unione. Immediata la replica di Rifondazione: se la moratoria non c’è, noi il testo non lo votiamo. Era circolata pure l’ipotesi che la moratoria potesse finire nelle modifiche in corso al codice ambientale. Un’eventualità inconcepibile, come spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato, perché “la moratoria deve essere immediata e se va al codice ambientale potrebbero passare otto o nove mesi”.
Inoltre, spiega Natale Ripamonti, vice presidente al Senato del gruppo dei Verdi-Pdci, la questione della moratorio sull’acqua non è l’unico nodo ancora da sciogliere. “E’ giusto che l’acqua venga ripubblicizzata – dice – ma certo occorre dare una risposta a situazioni particolari. Cosa succede infatti per quelle multiutilities che, direttamente o tramite società controllate, hanno già ora interessi in vari settori: gas rifiuti e anche acqua? Cosa succede se sono anche quotate in Borsa? Si decide di sottrarre loro le azioni? Sono problemi che attualmente il disegno di legge lascia insoluti”. I Verdi poi hanno presentato richieste precise: “Che gli utenti – dice Ripamonti – possano esercitare maggiori garanzie di controllo sui servizi erogati e che vengano stabiliti criteri stringenti sulla sostenibilità ambientale nell’erogazione dei servizi. E poi personalmente non ritengo opportuno che norme generali introducano principi di liberalizzazione indifferenziati per tutti i settori. Si doveva procedere con norme specifiche per i vari settori”.
E così a il ddl Lanzillotta approda sul tavolo di Palazzo Chigi. Al consiglio dei ministri il compito di sbrogliare la matassa.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=1589
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Ci rimane soltanto l’aria 19.11.2009
ANTONIO SCURATI
Nessun uomo è tanto pazzo da vendere la terra su cui cammina. Così, stando alla leggenda, il grande capo indiano avrebbe risposto al negoziatore bianco che gli offriva la scelta tra la guerra di sterminio e l’acquisto delle terre ataviche della sua tribù. Che cosa direbbe oggi quel capo indiano di noi che, dopo aver fatto ovunque commercio della terra su cui camminiamo, ci apprestiamo a venderci anche l’acqua che beviamo?
Niente direbbe, il fiero guerriero, perché, al pari di ogni altro ostacolo locale, fu spazzato via dalla storia che, è bene non dimenticarlo, è stata sempre storia del processo unilaterale attraverso il quale l’Occidente, esplorando, conquistando e colonizzando, ha globalizzato la terra unificandola in un sistema mondo interamente governato dalla legge del capitalismo. Ora che quella grande impresa è compiuta, ora che la fase di espansione è terminata, ora che l’auto-narrazione in cui si racconta di come il pianeta Terra divenne una sfera interna alla logica del capitale è giunta alla fine, ora non rimane che lavorare sulle condizioni di vita all’interno della grande serra planetaria del capitalismo avanzato. Questa nuova frontiera interna che avanza senza soste ha un nome preciso: privatizzazione della vita.
Rientra in questo quadro epocale anche la notizia secondo la quale in Italia, remota provincia dell’impero, il governo sarebbe pronto ad appaltare a privati il servizio di erogazione dell’acqua, che smetterebbe così di fatto di essere un servizio pubblico, trasformando l’approvvigionamento idrico, cioè l’accesso a una fonte basilare della vita, in una qualsiasi merce. In linea concettuale, infatti, anche questo sarebbe un ampio passo verso la privatizzazione della vita: l’acqua smetterebbe di essere qualcosa cui tutti noi abbiamo diritto inalienabile per il semplice fatto di stare al mondo, una dotazione comune d’ingresso, come l’aria che respiriamo, e diverrebbe un bene voluttuario diversamente accessibile in base alla nostra individuale capacità di spesa. Ecco, dunque, un altro esempio della regola della deprivazione che sembra governare i destini degli uomini in questo nuovo scorcio di millennio: a ogni nuovo giro di giostra, man mano che il «pubblico» diventa «privato», ci viene sottratto ciò che è necessario per vivere o, almeno, ciò che fino a una generazione precedente era stato considerato un diritto naturale e inalienabile. La privatizzazione della vita agisce simultaneamente su due versanti, contigui e interconnessi come le due facce di un’unica moneta. Su un versante si procede a privatizzare la proprietà non più solo dei mezzi di produzione ma anche dei mezzi di sussistenza della vita della specie, sull’altro si mette in scena la riduzione della vita sociale a fatto privato.
Sul primo versante accade che, in un quadro globale di progressivo impoverimento delle risorse naturali, di cambiamenti climatici che rischiano di mettere fine al lussureggiare della vita planetaria e di fosche previsioni sull’aumento della popolazione mondiale, il controllo sui beni basali per l’esistenza, sulle condizioni di sopravvivenza, e finanche sulle matrici di riproduzione della vita biologica, viene via via affidato a soggetti d’impresa, cioè a privati mossi dalla logica del profitto e, spesso, da intenti speculativi. È il caso del controllo delle risorse idriche, delle biotecnologie in agricoltura, ma è anche il caso della privatizzazione della guerra subappaltata a contractors privati, della privatizzazione della ricerca medico-scientifica e, sopra ogni altro, è il caso della ricerca sul genoma umano condotto da privati. Il secondo versante, meno serio ma non meno preoccupante, è quello della trasformazione della politica in talk show, un osceno teatrino di faccende un tempo confinate nella vita privata che ha l’effetto di svilire, fino all’annichilimento, la nozione di «pubblico interesse». Il «pubblico», come ci ha insegnato Bauman, è così svuotato dei suoi contenuti, privato di un’agenda propria: è solo un agglomerato di guai, preoccupazioni e problemi privati. È l’eclissi della politica, un tempo intesa come possibilità di fare uso di mezzi collettivi per affrontare i problemi individuali. È anche la fine del sentimento di comunità. E, con esso, la fine del principio di un bene comune.
Da entrambi i lati dello schermo televisivo, la collettività scade ad aggregato di agenti individuali, le esistenze a questioni private. La lezione che si ricava da questa rappresentazione che rimodella la nostra capacità di pensare il mondo in comune è che ciascuno può solo lodare se stesso per i propri successi o, più probabilmente, incolpare se stesso per i propri fallimenti. Tutti gli individui assistono al grande talk show della vita privatizzata soli con i loro problemi e, quando lo spettacolo finisce, si ritrovano sprofondati nella loro solitudine, immersi nel buio di una stanza in subaffitto davanti a un televisore sintonizzato su di un canale morto.
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Obama in Zhongguo 16.11.2009
[di Raffaele Sciortino]
Mentre a Berlino si notava la sua assenza, Obama stava probabilmente preparando con lo staff il suo viaggio in Asia Orientale che ha avuto inizio questa settimana. Nulla di più simbolico. La “centralità” del teatro europeo dominato dal bipolarismo – un dispositivo quasi perfetto di blocco del cambiamento sociale che alla fine è comunque saltato – è finita per sempre. La caduta del Muro ha sancito e aperto alla riunificazione del mercato mondiale, via globalizzazione neoliberista, ma il suo asse si è spostato altrove.
La crisi globale non ha fatto che confermare questo trend. Agli occhi delle élites asiatiche, e non solo delle élites, il prestigio dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare si è in parte volatilizzato. Vedremo inchini e sorrisi diplomatici, nel trip asiatico del nuovo presidente, ma nessun segno della facile Obamamania che ha buon corso – ma per quanto ancora? – qui da noi. Quello che si è aperto infatti, e per ora resta sotto la superficie, è uno scontro o, se vogliamo, una competizione sul “pattern di crescita” che dovrebbe sostituire il corso rivelatosi con la crisi insostenibile.
I consiglieri del Presidente sono stati limpidi nelle dichiarazioni pre-viaggio. James Steinberg, vicesegretario di Hillary Clinton e responsabile per la China Policy di Washington, in un intervento al Center for American Progress (pensatoio obamiano) ha affermato che la crescita globale post-crisi dovrà essere “equilibrata” (balanced), rigettando implicitamente sulla Cina le responsabilità per i global imbalances – il deficit commerciale e l’indebitamento statunitensi – che stanno dietro la crisi. Jeffrey Bader, responsabile del National Security Council per l’Asia Oreintale, è stato più esplicito in un discorso al Brookings Institute (think tank dei “falchi” democratici): “la Cina ha raggiunto la prosperità eceonomica grazie al consumatore americano… non è un modello sostenibile”. I colloqui a Pechino toccheranno allora il tema della moneta cinese, che per Washington è sottovalutata a scapito delle esportazioni Usa, e della necessità di ribilanciare la crescita, cinese e asiatica, sulla domanda interna e su di una maggiore apertura di quelle economie. E qualche avvertimento da parte della nuova amministrazione c’è già stato con l’aumento delle tariffe su pneumatici e tubi di acciaio cinesi. In realtà, agli occhi della classe globale che ha la sua centrale a Wall Street, il problema non è certo il flusso di import-export, reso inestricabile dalla internazionalizzazione delle catene produttive e distributive, bensì la presa sui flussi globali di valore.
Ma anche ai dirigenti di Pechino non mancano motivi di preoccupazione e scontento, principalmente verso il modo in cui Washington sta affrontando la crisi: evitando la pulizia a fondo dei bilanci delle banche e delle istituzioni finanziarie, ampliando enormemente il debito pubblico, sfuggendo al “rigore fiscale” inevitabile, facendo della tanto promessa regolazione dei mercati finanziari – come riconosce il New York Times – una mezza farsa. Insomma, la politica statunitense è capace solo di mettere una toppa al disastro della finanziarizzazione; in più gioca ora sulla caduta del dollaro stampando moneta, segnale inequivoco della tentazione di liberarsi dell’enorme debito accumulato inflazionando l’economia globale con dollari svalutati. Come a fine anni Ottanta, quando a farne le spese fu il Giappone su cui venne scaricata la bolla speculativa di quel decennio. Come, in altre circostanze, nel ’71 con lo sganciamento dollaro-oro che sancì la fine di Bretton Woods I (ma allora Mao, con una delle sue geniali manovre “tattiche”, venne in soccorso dell’amministrazione Nixon, impantanata nella sconfitta in Vietnam e nel caos monetario, con il rapprochement sino-americano).
E ciò nonostante Pechino e Washington sono costrette a cooperare, sul breve e medio periodo. Washington, perché i rapporti di forza sono mutati e non può facilmente e impunemente scaricare su altri gli effetti della crisi, perché ha bisogno del credito cinese e asiatico per finanziare l’enorme debito e indirettamente le misure antirecessive, e perché solo grazie all’enorme pacchetto cinese di stimolo ha evitato per ora il double dip, la doppia caduta dell’economia. Solo a queste condizioni l’élite globale può, forse, prender tempo. Pechino, perché si trova legata a doppio filo con il mercato statunitense, perché è caduta nella “trappola del dollaro” avendone accumulato riserve ingenti (2,2 trilioni) anche per non far decollare il renminbi, e soprattutto perché non dispone a breve né a medio termine di un effettivo modello sostituivo di quello orientato sulle esportazioni e sui surplus delle partite correnti.
E’ vero che nel frattempo la Cina non è restata ferma: ha sollevato il problema di una nuova moneta mondiale di riserva e di una ristrutturazione delle istituzioni internazionali, sta diversificando rispetto al dollaro e acquistando a man bassa oro, va facendo shopping nel mondo di materie prime e altre risorse, investe e intesse nuovi legami economici e politici con America Latina, Africa, Russia, oltre che ovviamente nella regione con l’idea di un fondo monetario asiatico (la Chiang Mai Iniziative lanciata nel 2000). Ma, appunto, la domanda globale è ancora il driver fondamentale della crescita interna e insieme, per la classe dirigente postmaoista, la conditio sine qua non della stabilità sociale (massima preoccupazione della fazione di partito Tuanpai attualmente al governo, di contro alla linea più liberista dei Taizi).
Di qui la necessità di far buon viso a cattivo gioco. Ricontrattare sì con l’amministrazione Obama maggiori spazi di manovra – anche in ambito regionale attraverso l’Asean+3, l’integrazione economica con Taiwan, il possibile nuovo corso col Giappone post elezioni, il che desta comunque preoccupazioni nei circoli statunitensi – ma senza potersi svincolare per ora dall’abbraccio con Washington e dal suo attento controllo. Dalla visuale dell’attuale amministrazione statunitense – ma certo non mancano né mancheranno prese di posizioni più dure – si tratta della linea della strategic reassurance: “un accordo fondamentale anche se tacito… siamo pronti ad accogliere l’arrivo della Cina come potenza, ma la Cina deve rassicurare il resto del mondo che il suo sviluppo e il suo crescente ruolo globale non andranno a spese della sicurezza e della prosperità di altri”, nelle parole ancora di James Steinberg. Rassicurare con i comportamenti, ovviamente. Ecco allora il tentativo attuale di coinvolgimento di Pechino su un’agenda globale il cui significato di fondo, da non fraintendere, è spingere la Cina ad assumersi rischi come “attore responsabile” e partecipare così al salvataggio della controparte. Accantonata da parte nordamericana e già rifiutata da parte cinese per il rischio di eccessiva esposizione globale l’impegnativa formula del G2, e indebolitasi la metafora in qualche modo rassicurante di Chimerica, al momento resta la consapevolezza di non poter fare a meno l’uno dell’altro sapendo però che le “frizioni sui problemi di lungo periodo” sono già oggi inevitabili, come osserva il WSJ. Ecco allora che, alla vigilia dell’arrivo di Obama, la Banca del Popolo si dice pronta a un graduale apprezzamento della moneta cinese, il che comunque non risolverà affatto i problemi di fondo della controparte.
Questo instabile assetto globale – si va verso il multipolarismo o verso una fase tendenzialmente a-polare, incerta e disordinata? – vede dunque all’opera un paradosso assolutamente inedito: l’ascesa della Cina e il suo rafforzamento internazionale sono condizionati dalla prosecuzione della cooperazione economica con gli Stati Uniti, tramite al momento inaggirabile dell’inserimento cinese nel mercato mondiale. Con i vantaggi, fin qui indubbi, ma anche i rischi che ciò comporta, resi evidenti da una crisi globale niente affatto conclusa.
Ne è riprova l’attuale passaggio della congiuntura mondiale. Se, come sembra, la caduta ha subito un rallentamento, con qualche timido indice positivo – ancorché economico e non sociale – ciò è dovuto in gran parte al “traino” cinese, indiretto e diretto. Da un lato, il programma di stimoli di Obama è stato reso possibile dalla continuata erogazione di crediti cinesi, che permettono altresì alla Federal Reserve di tenere bassi i tassi di interesse. Dall’altro, l’ingente pacchetto di aiuti all’economia varato da Pechino ha consentito di ovviare in tempi record alla caduta eccezionale delle esportazioni con offerta di moneta e prestiti pubblici per investimenti infrastrutturali, il che sta richiamando flussi di capitale speculativo da tutto il mondo (un po’ come in Brasile). Una boccata d’ossigeno per l’economia mondiale, dunque, ma per Pechino anche il rischio di un bubble speculativo, con il surriscaldamento dei prezzi degli assets, una caterva di bad loans di difficile solvibilità e, su tutto, il ricordo della crisi asiatica del ’97 scaturita dall’esposizione eccessiva ai flussi di capitale globali e alle decisioni sui tassi rimaste nella mani di Washington. Di qui, a ottobre, una prima stretta sui prestiti operata dalla banca centrale cinese. Il che solleva le questioni: quanto è sostenibile, e a che costo, questo tipo di ripresa legata esclusivamente a politiche monetarie espansive? Quanto è possibile per la Cina, oggi, crescere senza una domanda globale adeguata? E, al fondo, quanto l’incremento cinese di investimenti per infrastrutture non solo accentua il suo orientamento sulle esportazioni ma aggrava anche quello che, a scala globale, si configura come eccesso di capacità produttive (rispetto non ai bisogni sociali ma alla profittabilità)? Un articolo dell’Economist di questa estate, oggi non più rintracciabile sul sito della rivista ma postato anche nei blog cinesi, recitava: “Non c’è miracolo nella miracolosa crescita cinese, e la Cina pagherà un prezzo, è solo questione di quando e in che misura”. Andrebbe forse aggiunto: lo pagherà l’intera economia globale se è vero che gli interventi statali a favore delle banche ammontano a 14 trilioni di dollari facendo quasi urlare a un guru neoliberista come Martin Wolf che qui siamo al “socialismo di stato”. Il rischio di bancarotta di intere compagini statali sarà la prossima grande paura della classe globale.
Certo, la crescita cinese anche oggi non è esclusivamente “congiunturale” sulla base delle precarie condizioni viste ma rimanda a robusti trend degli ultimi venti anni. Ciò non toglie che essa resta legata a doppio filo al mercato mondiale e quindi, oggi, alla necessità di una nuova ripresa dell’economia globale. E questo è stato finora possibile grazie al crearsi via via di bolle “speculative” che sono l’altra faccia della finanziarizzazione del capitalismo nella sussunzione reale. Possibile che i dirigenti cinesi non se ne siano fin qui accorti? Possibile che non sapessero che la condizione di possibilità delle esportazioni cinesi era ed è il comando finanziario e monetario di Washington sulla produzione globale? Un meccanismo economico e militare nel quale Obama, oramai ciò si fa evidente, inserirà modifiche assai parziali e quasi solo di facciata rispetto a quello che è il problema: un nuovo equilibrio globale a guida statunitense che riesca, prima o poi, a determinare quale dei vari soggetti deve bruciare la gran parte di capitale “fittizio” (in senso marxiano) necessaria per un vero rilancio del sistema.
A meno che… l’alternativa di un ampliamento del mercato interno non risulti ancora più indigesta alla borghesia cinese e asiatica, comportando un aumento secco dei salari, e della potenza, della massa di produttori fin qui a basso costo. Il che è in controtendenza con tutte le ricette finora abbozzate e non si può dare, quindi, senza lotta di classe e sconvolgimento di tutti gli assetti politici e sociali interni: sarebbe la fine per le “credenziali” acquisite dalla classe dominante cinese agli occhi delle élites occidentali. Sulla contraddizione reale tra la difficoltà di riconversione del modello di crescita della Cina e l’eventuale spinta in questa direzione dovuta alla crisi globale, alle pretese di un partner statunitense sempre più parassitario nonché alle spinte dal basso, si giocherà una partita decisiva. Ma a giocarla non saranno solo i poteri a Washington e a Pechino.
http://www.infoaut.org/articolo/obama-in-zhongguo
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Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.rekombinant.org il 18.11.2009
Clima: Il sig. Sarkozy e Lula vogliono contrastare Pechino e Washington
I ministri dell’Ambiente sono riuniti da ieri a Copenaghen per un’ultima riunione prima del vertice sul clima che si terrà dal 7 al 18 dicembre nella capitale danese. Da Pechino a Washington, passando per Parigi e Brasilia, le posizioni degli uni e degli altri sembrano ancora parecchio distanti. Tutto, o quasi, è ancora da discutere, in particolare la diminuzione dei gas ad effetto serra e l’ammontare degli aiuti finanziari ai paesi più poveri. In questa atmosfera di pessimismo, la Francia fa circolare un compromesso che permetterebbe di ottenere l’adesione di un gran numero di paesi.
http://www.lemonde.fr/web/imprimer_element/0,40-0@2-3244,50-1267706,0.html
Abbiamo visto che per Pechino e Washington parlare di clima significa pensare e risolvere affari e problemi propri, allora andiamo oltre.
Articolo di Corinne Le Quéré su Liberation
http://www.epa.gov/climatechange/emissions/co2_human.html
Emissioni di CO 2 : l’uso del carbone, del petrolio e del gas è aumentato del 41% tra il 1990 e il 2008. Le concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera hanno raggiunto 385 parti per milione nel 2008, contro i 290 prima della rivoluzione industriale. Queste informazioni sono parte di un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Geoscience.
http://www.nature.com/ngeo/index.html
Firmato da un team internazionale guidato da Corine Le Quéré (University of East Anglia), questo studio dimostra che la crescita delle emissioni è ancora strettamente legato al prodotto interno lordo. È opportuno che, dopo un rallentamento nel 2008 e una diminuzione nel 2009, si sviluppa verso l’alto a partire dal 2010.
http://www.uea.ac.uk/env/people/facstaff/lequerec
Questa importante pubblicazione è basata sugli studi del Global Carbon Project, una collaborazione internazionale di grande rilievo per comprendere il ciclo globale del carbonio, interrotta da emissioni di origine antropica. Essa fornisce i dati sulle emissioni più accurata, ma anche sulle reazioni dei cicli biogeochimici di carbonio.
http://www.globalcarbonproject.org/index.htm
Quest’ultimo, memorizzando una quota di emissioni antropiche di CO2 negli oceani, suoli e della vegetazione ha permesso di rallentare i cambiamenti climatici provocati dal consumo massiccio di combustibili fossili. Ora, dicono i firmatari del presente articolo, tale quota è stata del 60% nel 1959 è sceso al 55%. Se questa tendenza continua, contribuirà ad accelerare la risposta alle emissioni clima.
Il tasso di emissioni è salita notevolmente nel corso del 2000, con una crescita annua del 3,6% tra il 2000 e il 2007, contro solo l’1% nel 1990. Le emissioni totali causate direttamente da combustibili (gas, carbone, petrolio) e dalla produzione di cemento, sono cresciute del 29% tra il 2000 e il 2008 sono stimati in 8,7 miliardi di tonnellate di carbonio nel 2008 (circa 0,5 miliardi di tonnellate). Dai risultati di questo studio si è notato che le emissioni sono legate al carbone superato petrolio dal 2006 e continua a crescere vigorosamente (cons grafico). Si osserva inoltre che le emissioni pro capite è aumentato da una media di 1,15 tonnellate nel 1990 a 1,3 tonnellate nel 2008.
Se dividiamo i paesi in due gruppi, quelli di cui all’allegato B del protocollo di Kyoto (i 39 Paesi più industrializzati) e il resto del mondo, troviamo che le emissioni di questo secondo gruppo hanno superato quelle del primo, nel 2006. Così, la Cina e l’India hanno almeno raddoppiato le proprie emissioni a partire dal 1990. Tuttavia, va notato, per esempio, che il 30% delle emissioni di crescita in Cina tra il 1990 e il 2002, risultanti dalla fabbricazione di merci che sono state esportate principalmente verso i paesi Una quota che è salita al 50% tra il 2002 e il 2007. In altre parole, ogni delocalizzazione della produzione nei paesi ricchi che aumentare la loro emissioni.
Emissioni causate dai cambiamenti di uso del suolo e forestali (agricoltura, incendi, deforestazione), si sono evolute molto più lentamente. Sono stimati a 1,2 miliardi di tonnellate di carbonio nel 2008 (circa 0,7 miliardi di tonnellate). Di conseguenza, la loro quota di emissioni di origine antropica sceso dal 20% al 12%.Gli scienziati hanno studiato l’evoluzione dei “pozzi di carbonio. La quota di CO2 rimane nell’atmosfera tende a crescere dal 40-45% tra il 1959 e il 2008. Ma questo sviluppo è molto difficile da identificare perché la variazione interannuale delle attività di questi pozzi (oceani, suolo, vegetazione) sono molto forti, soprattutto nei continenti Queste variazioni da oscillazioni oceaniche (Niño / La Niña, Atlantico) e la crescita delle piante molto diverse, legate alle variazioni delle precipitazioni, la temperatura e il sole. Gli autori notano che le incertezze dei diversi metodi di osservazione, il calcolo e la modellazione non ridurre l’incertezza finale e sollevare dubbi restano sul ciclo del carbonio futuro.
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Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.rekombinant.org il 18.11.2009
Dai Nobel ai giovani. Ecco la scienza per la pace
Mentre la tecnologia militare continua a segnare passi in avanti, è di oggi la notizia di un test eseguito con successo che vuole dimostrare la complementarietà dei sistemi d’arma ad energia diretta con quelli tradizionali ad energia cinetica e che ha visto un sistema d’arma mobile laser di inseguire e distruggere piccoli veicoli aerei senza equipaggio (UAV), nasce in Italia “Science for peace”, un progetto che ha l’obiettivo di diffondere una cultura di pace e la riduzione delle spese militari.
DAI NOBEL AI GIOVANI, ECCO LA SCIENZA PER LA PACE
Premi Nobel e scienziati presenteranno al mondo le loro proposte contro la guerra. E’ “Science for peace”, progetto nato su iniziativa di Umberto Veronesi e che si pone come obiettivo la nascita di un grande movimento per la pace. L’ex ministro della Sanità sostiene che “la crisi richiede delle risorse aggiuntive per le urgenze sociali e dobbiamo ricavarle dalle spese militari che assorbono fondi molto elevati”
http://www.fondazioneveronesi.it/pagina.php?id=30&nome=Science%20for%20Peace
UMBERTO VERONESI
Con 15 miliardi di euro si possono fare tante cose. Il nostro Parlamento nel 2009 ha scelto di investirli tutti in armi. Non è strano, ben inteso, perché questa è la media degli stanziamenti annuali del nostro Paese per carri armati, portaerei, missili e aerei supersonici, che non usiamo e non useremo mai.
È però sorprendente, se pensiamo che rifare l´intero sistema ospedaliero in Italia, per dare ai malati una cura dignitosa e moderna, costerebbe non più di quattro miliardi di euro. Ed è addirittura sconcertante se poi consideriamo che nella ricerca contro il cancro, malattia che uccide ogni anno 250mila italiani e ne colpisce altri 150mila, investiamo 200 milioni di euro, e sappiamo che con 5 miliardi alla ricerca, potremmo avvicinarci moltissimo alla soluzione definitiva di quella che è la vera epidemia moderna. Per il 2010 le prospettive non appaiono tanto migliori, visto che la finanziaria prevederebbe di ridurre ulteriormente gli stanziamenti in ricerca scientifica, scendendo al di sotto di quell´uno per cento, che già ci relegava in coda alla classifiche dei paesi avanzati, ma per lo meno ci teneva al di qua della linea di
confine con i Paesi cosiddetti emergenti, non ancora civilizzati. Non si tratta di rivendicare un trasferimento, che appare banale: prendiamo alle armi e diamo alla ricerca, ai malati e ai poveri. Il problema che sta a monte di queste scelte è profondo, e riguarda non questa o quella legislatura, ma la cultura della scienza e la cultura della pace.Per questo venerdì daremo il via al movimento “Science for Peace”, con la prima Conferenza Mondiale di Milano. Hanno aderito al movimento 20 premi Nobel e decine di donne e uomini di scienza e di cultura che si riconoscono in due obiettivi: creare una cultura di non violenza e di soluzione pacifica dei conflitti, e trovare strumenti più adatti per ridurre la spesa degli armamenti, a favore delle emergenze sociali, ospedali, povertà, ricerca scientifica. La novità del movimento è che gli scienziati si mobilitano per un obiettivo, la pace, che è sempre stato legato alla cultura umanistica e vessillo degli ex-figli dei fiori, delle associazioni per i diritti umani, della musica rock. Perché ora si muove la scienza e che ha da dire di nuovo?Fra le risposte possibili voglio riportare quella di Moni Ovadia, caro amico e fra i primi ad aderire entusiasticamente al movimento: «Il prestigio degli scienziati nel mondo è molto alto. È chiaro che non basta, ma ‘Science for Peace´ può essere un forum e un´occasione per lanciare processi che poi perdurino e può anche, con l´autorevolezza di grandi premi Nobel, portare al tavolo i grandi della terra. Perché i Nobel per la fisica, o per la chimica o per la medicina sono quelli che poi attivano tutti i processi di trasformazione scientifica del mondo». In realtà gli scienziati non piacciono molto ai potenti , perché sono degli innovatori e delle menti libere, raramente manipolabili. Tuttavia il fatto che sia difficile farsi ascoltare non basta a giustificare il silenzio, e dunque io penso che gli scienziati non possano, ma debbano mobilitarsi per la pace, perché oggi è un bisogno primario della gente e il fine della scienza è risolvere le necessità più importanti, rendendo accessibile al maggior numero di persone il più alto livello possibile di benessere. Come? Primo, creando conoscenza e diffondendo il sapere. Diceva Einstein: «Spezzare l´atomo è stato un gioco da ragazzi, sarei stato più orgoglioso di me se avessi spezzato un pregiudizio». Conoscenza e coscienza sono il miglior antidoto sia contro i pregiudizi, che sbarrano la strada al libero pensiero e la libera opinione, sia contro le paure e le ossessioni, che ci rendono fragili e ricattabili. Secondo, impegnandosi a creare le condizioni per la pace: migliorare l’uso delle risorse, l´acqua, il cibo, la salute. La scienza l´ha già fatto, in particolare negli ultimi 50 anni, che hanno testimoniato un´esplosione scientifica e tecnologica senza precedenti. Ma ora le conquiste devono essere comprese nella metà del mondo che si è ritrovata strumenti e conoscenze che non è pronta ad applicare, e condivise con l´altra metà che è ancora alle prese con la sopravvivenza. “Science for Peace” può creare dei ponti, attivando iniziative di collaborazione scientifica fra Paesi, che aiutino la gente nel quotidiano e soprattutto i giovani, che più di tutti hanno bisogno di pace per costruirsi un futuro.Terzo, diventando un interlocutore riconoscibile per i governi. Riprendendo il suggerimento di Moni Ovadia, bisogna che gli scienziati siano pronti a mettere in campo il loro ruolo sociale, e a giocarlo per la causa della pace. Al di là delle sue paure, la politica ha bisogno della scienza e qualche Grande della terra, il presidente Obama in testa, inizia a prenderne atto. Ne ha bisogno anche per la pace, perché questo è il desiderio più profondo di tutte le popolazioni. La guerra è impopolare, perché è uno strumento irrazionale, obsoleto e doloroso per risolvere i conflitti, e oggi abbiamo strumenti e idee nuove per evitarla, se si agisce per tempo. Per far questo abbiamo una enorme risorsa nelle nostre mani: i giovani. Le nuove generazioni sono molto migliori delle nostre, hanno una gran voglia di fare e una straordinaria facilità di comunicare. Internet ha dato ai nostri ragazzi una cultura senza confini e il Paese globale, dal punto di vista dei giovani, già esiste. Senza frontiere e senza barriere ideologiche, i giovani sono il nostro più potente strumento di pace.
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A Internet il Nobel per la pace 18.11.2009
UMBERTO VERONESI
Lo so: è inusuale e sorprendente proporre il Nobel per la Pace a favore di un mezzo di comunicazione di massa invece che di una o più persone.
Eppure sono convinto che chi dal futuro si volgesse a controllare i nomi dei vincitori del premio di questi anni, e trovasse Internet accanto ad Al Gore e Barack Obama, avrebbe la fotografia fedele della parte migliore della nostra epoca.
Se il Web vincesse il Nobel dimostreremmo agli osservatori futuri due cose: che avevamo capito la portata della rivoluzione globale rappresentata dalla Rete; che eravamo determinati a volgerla al miglior utilizzo nell’interesse dell’umanità intera.
Da molti anni sono convinto, e vado dicendolo e scrivendolo, che esiste una Lingua Universale capace di riuscire dove hanno fallito altri linguaggi e altre logiche nell’assicurare benessere e prosperità ai popoli e ai singoli. Ed è la Lingua Universale della Scienza. Quella che uso da oltre sessant’anni per capirmi con i miei colleghi medici e ricercatori di ogni Paese del mondo; per costruire la necessaria empatia con i miei pazienti; per spiegare i contenuti e le ragioni dei miei atti e delle mie posizioni prima di ministro poi di senatore. Ripensandoci sempre più mi accorgo che non ci sono parole migliori di quelle della scienza umana per raccontare della vita e della morte, per contenere la paura e riaccendere la speranza, per far tesoro del meglio del passato per preparare un futuro migliore per tutti.
In molti Paesi però, Italia compresa purtroppo, la Lingua della Scienza è poco conosciuta, e dunque poco utilizzata. Eppure, come tento di dimostrare da anni, è insostituibile per descrivere il mondo, la natura, il nostro modo di essere. E per poter intervenire se qualche equilibrio si rompe: si tratti del cambiamento del clima, della fame o della malattia. Forse mancava un veicolo comune e a disposizione di tutti per veicolare questa Lingua Universale per definizione.
Ora c’è e si chiama Internet.
Ora abbiamo finalmente messaggio e messaggero per realizzare una promessa mai mantenuta. Perché insieme Scienza e Internet propongono e portano la Pace.
Questo è il testo scritto dal professor Umberto Veronesi per «Wired» in occasione del numero in edicola dal 21 novembre che lancia la candidatura di Internet per il Nobel per la Pace. Un appello firmato anche da Giorgio Armani e dal Nobel Shirin Ebadi. Di pace e scienza Veronesi e alcuni premi Nobel discuteranno a Milano venerdì e sabato in occasione della conferenza mondiale «Science for Peace».
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Wired candida Internet Nobel per la Pace 19.11.2009
Wired Italia lancia il progetto Internet for Peace candidando ufficialmente il Web al Premio Nobel per la Pace 2010.
In occasione della presentazione pubblica del progetto in programma a Milano venerdì 20 novembre al Piccolo Teatro Studio, alle ore 18, all’interno delle manifestazioni di Science For Peace Live, saranno al fianco di Riccardo Luna anche le redazioni di Wired USA e Wired UK. Il Direttore di Wired Italia, infatti, sarà accompagnato dagli interventi del Direttore di Wired Uk David Rowan e dal Direttore di Wired USA Chris Anderson, che per l’occasione sarà in collegamento video da Detroit.
L’idea, a cui sarà dedicato il prossimo numero di Wired, vedrà coinvolti numerosi ambasciatori e supporters, primi fra tutti il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, il Professor Umberto Veronesi, lo stilista Giorgio Armani, insieme alle redazioni di Wired USA e Wired Uk.
Con l’aumento della sua diffusione e della sua accessibilità, Internet ha ampiamente dimostrato di non essere solo una rete di computer collegati fra loro o un contenitore di pagine web navigabili dagli utenti, ma si offre come prezioso e potente strumento di comunicazione globale in grado di oltrepassare anche quelle distanze dettate da restrizioni di tipo politico e militare. Partendo dall’idea che Internet si costituisca soprattutto come strumento di democrazia fruibile da tutti, in grado di veicolare messaggi di solidarietà e civiltà, è nato il progetto di Wired Italia, Internet for Peace, con l’obiettivo di candidare la Rete al prossimo Premio Nobel per la Pace.
Così il Direttore di Wired Italia Riccardo Luna commenta Internet for Peace: “Dobbiamo guardare ad Internet come ad una grande community in cui uomini e donne di tutte le nazionalità e di qualsiasi religione riescono a comunicare, a solidarizzare e a diffondere, contro ogni barriera, una nuova cultura di collaborazione e condivisione della conoscenza. Internet può essere considerato per questo la prima arma di costruzione di massa, in grado di abbattere l’odio e il conflitto per propagare la democrazia e la pace. Quanto accaduto in Iran dopo le ultime elezioni e il ruolo giocato dalla Rete nella diffusione delle informazioni altrimenti prigioniere della censura sono solo l’ultimo esempio di come Internet possa divenire un’arma di speranza globale“.
Il viaggio di Internet for Peace sulle pagine di Wired Italia partirà proprio dall’Iran e dalla rivolta di Teheran dopo le ultime elezioni presidenziali. Ogni mese infatti e fino a settembre 2010, Wired dedicherà un approfondimento alle storie e alle esperienze di chi – con la Rete – ha provato e prova a fare crescere la pace. Inoltre per ogni storia raccolta Current Tv realizzerà un video racconto che verrà trasmesso oltre che in Italia anche negli Stati Uniti e in Inghilterra.
Dall’Iran arriva anche la prima firmataria del manifesto di Internet for Peace a cui Wired Italia ha voluto dedicare la copertina del prossimo numero in edicola dal 21 novembre. Shirin Ebadi, prima iraniana musulmana a vincere il Premio Nobel per la Pace nel 2003, si è schierata a sostegno della candidatura di Internet per il prossimo Premio Nobel per la Pace e ha così dichiarato a Wired Italia: “Internet può essere usata anche per favorire guerre e terrorismo, come dimostra l’opera di proselitismo dei talebani. Ma il passaparola della sollevazione di Teheran – che ha viaggiato anche al ritmo di 220mila tweet all’ora – è stato troppo impetuoso per lasciare anche il minimo dubbio sul fatto che senza la Rete non sarebbe stato possibile. Non è un caso – prosegue la Ebadi – che ai primi processi contro i dimostranti il procuratore generale abbia accusato Google, Facebook e Twitter di complottare contro l’ordine costituito“.
Insieme a Shirin Ebadi, in veste di ambasciatori di Internet for Peace, lo stilista Giorgio Armani e il Professor Umberto Veronesi, che proprio all’interno della Conferenza Mondiale della sua Fondazione, Science for Peace, ospiterà il lancio della candidatura di Internet al Premio Nobel per la Pace 2010.
Il Professor Veronesi ha dichiarato nell’editoriale pubblicato da Wired sul numero di dicembre: “Se il Web vincesse Il Nobel dimostreremmo agli osservatori futuri due cose: che avevamo capito la portata della rivoluzione globale rappresentata dalla Rete; che eravamo determinati a volgerla al miglior utilizzo nell’interesse dell’umanità intera“.
Chris Anderson, Direttore di Wired USA ha dichiarato: “Nel 1993, Rupert Murdoch affermò che la TV satellitare rappresentava una forza inequivocabile di democrazia perché riusciva ad oltrepassare i confini territoriali dando ai popoli una prospettiva globale in qualunque parte del mondo, grazie alla sua capacità di divulgare informazioni e di distruggere i tiranni e la loro propaganda. Murdoch ha pagato a caro prezzo questa dichiarazione, il governo cinese gli ha sbarrato l’ingresso al vasto mercato del paese. Murdoch comunque aveva ragione: la tecnologia può davvero cambiare il mondo.
Internet – prosegue Chris Anderson – ha ora raggiunto un livello superiore; è riuscito ad aver la meglio perfino sui media moguls permettendo a tutti di collegarsi direttamente. Così facendo, ha fatto emergere una riflessione profonda sulla specie umana. La gente vuole la pace e se ne ha la possibilità, lavorerà incessantemente per averla. In poche parole, non c’è partita fra un account su Twitter e un fucile AK-47, ma a lungo termine la tastiera è più potente della spada“.
David Rowan, Direttore di Wired Uk si è così espresso sulla candidatura di Internet al Premio Nobel per la Pace: “Nella redazione inglese di Wired, siamo felici di dare il nostro appoggio alla campagna
Internet for Peace. La Rete è la più grande forza trasformativa che abbiamo nella vita moderna, ha dato a tutti noi la possibilità di riprenderci il potere dei governi e delle multinazionali. Il Web ha reso il mondo totalmente trasparente, ora le varie lobby devono fare i conti con Internet se vogliono manipolare e sfruttare sia i cittadini sia i consumatori. Ecco il motivo per il quale è il momento che il Comitato Nobel riconosca l’impatto positivo di Internet nella vita di tutti i giorni“.
Tante le aziende che hanno già accolto l’invito di Wired Italia a sostenere la candidatura di Internet al Premio Nobel per la Pace: Sony Ericsson, Tiscali, Fineco, Fastweb, Microsoft Italia, Telecom Italia, Unendo Energia, Vodafone Italia, Citroën e H3G hanno realizzato per l’occasione dieci differenti pagine creative a sostegno di Internet for Peace che Wired pubblicherà sul numero di dicembre.
Numerose inoltre le iniziative collaterali ideate da Wired Italia a sostegno dell’iniziativa, tra cui un canale speciale su Youtube.
Il lancio del sito e la raccolta di adesioni è fissata, dunque, per venerdì 20 novembre alle ore 17.30 quando sarà online il sito http://www.internetforpeace.org
http://www.wired.it/news/archivio/2009-11/19/internet-for-peace.aspx
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