Obama: io sto con ACTA 15.03.2010
Dichiarazioni decise del Presidente statunitense: bisogna combattere il furto della proprietà intellettuale con tutti gli strumenti a disposizione. Compreso il trattato segreto anticontraffazione
Roma – Si tratta molto probabilmente delle prime dichiarazioni pubbliche di Barack Obama sul famigerato Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA). Parole piuttosto ferme, con cui il Presidente degli Stati Uniti ha reso nota la propria posizione all’interno del vasto dibattito internazionale sul trattato segreto che dovrebbe estendere a livello globale la tutela del diritto d’autore.
Ma non si tratta di parole che piaceranno in modo particolare a tutti coloro che hanno visto in Barack Obama una sorta di paladino della trasparenza sul web, oltre che delle attuali libertà garantite dalle nuove tecnologie. Intervenuto nel corso di una conferenza a Washington D.C. – la Export/Import Bank’s annual conference – Barack Obama ha confessato un profondo impegno nella tutela delle opere dell’ingegno.
“Abbiamo intenzione di proteggere in maniera aggressiva la nostra proprietà intellettuale – ha spiegato Obama – perché il nostro più grande valore sta nell’innovazione e la creatività dei cittadini statunitensi. Questo è essenziale per la prosperità del nostro paese. E rappresenta un vantaggio competitivo solo se le nostre aziende sono consapevoli del fatto che nessun altro può rubare loro le idee, replicandole con risorse più economiche”.
Obama non si è fermato qui, sottolineando innanzitutto come non ci sia nulla di sbagliato nell’utilizzo altrui delle tecnologie made in USA. Un pagamento appropriato alle aziende a stelle e strisce sarebbe tuttavia più che fondamentale, attraverso un sistema incisivo di licensing. “È proprio per questo – ha continuato Obama – che i rappresentanti del commercio statunitense stanno sfruttando un intero arsenale di strumenti a loro disposizione”.
Strumenti per cosa? Secondo la visione di Obama, per combattere attività che danneggiano seriamente l’economia statunitense. “Tra questi strumenti – ha spiegato il Presidente – ci sono alcune negoziazioni atte a rinforzare gli attuali accordi, per crearne quindi di nuovi”. Incluso l’Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA).
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2832700/PI/News/obama-io-sto-acta.aspx
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Quando il cuore va “fuori tempo” 16.03.2010
Grazie all’aumentato ricorso all’ECG sempre più spesso si scopre la presenza di una “pre-eccitazione ventricolare” nei bambini: ecco di cosa si tratta e quali sono le conseguenze.
La pre-eccitazione ventricolare viene provocata da un’anomalia del tessuto di conduzione cardiaco, cioè una trama di “fili elettrici” che diffondono lo stimolo che consente al cuore di contrarsi ritmicamente. Questa disfunzione consiste nella presenza di una doppia connessione fra gli atri, la porzione superiore del cuore che riceve il sangue, ed i ventricoli, le camere che pompano il sangue nella circolazione. A causa di questa doppia connessione, uno stimolo elettrico che dagli atri si diffonde ai ventricoli, può tornare indietro, verso gli atri, rieccitandoli prima del tempo e causando un’irregolarità del battito cardiaco, che diviene così molto più frequente della norma. Sempre per la presenza di questa anomalia, l’eccessiva accelerazione della frequenza del battito che si origina negli atri (come in corso di un’aritmia che si chiama fibrillazione atriale), può non venire bloccata a livello della giunzione fra atri e ventricoli, come avverrebbe se passasse per la via normale, e causare un ritmo così veloce da rendere praticamente inefficiente la contrazione del cuore.
La tachicardia come primo segnale
La persona che presenta questa anomalia può non esserne a conoscenza fino a quando non esegue un elettrocardiogramma, o fino a che non accusa improvvisamente un’accelerazione molto forte della frequenza cardiaca, detta tachicardia, molto spesso associata a sensazione di dolore al petto, o mancanza di respiro. Questa tachicardia può essere molto mal tollerata se si manifesta durante lo svolgimento di un’intensa attività fisica, ovvero quando si sta già richiedendo al proprio organismo un impegno massimale, e può causare disturbi più o meno gravi, dalla semplice sensazione di malessere fino allo svenimento con perdita di conoscenza. Nei portatori di quest’anomalia il teorico rischio di una tachicardia in corso di attività sportiva è così importante che i medici sconsigliano una pratica sportiva intensa.
Un elettrocardiogramma di controllo
I medici sportivi, a loro volta, non rilasciano la certificazione necessaria per poter praticare l’agonismo, se non dopo una serie di esami molto approfonditi che rassicurino sull’eventuale insorgenza di aritmie a frequenza troppo alta. Questi esami consistono in una registrazione elettrocardiografica continua per 24 ore, in un cosiddetto test da sforzo (cioè la registrazione dell’elettrocardiogramma effettuata mentre si esegue uno sforzo massimale) e, soprattutto nella registrazione di un elettrocardiogramma ottenuto ingoiando in sottile strumento di registrazione (elettrodo) che, all’interno dello stomaco si trova vicinissimo agli atri cardiaci. Questo “elettrodo” può non solo mostrare con precisione come si diffonde nel cuore lo stimolo elettrico, ma può a sua volta inviare stimoli elettrici al cuore, simulando la situazione in cui si verifichi una fibrillazione atriale e permettendo di valutare quale potrebbe esserne la conseguenza: si verifica così quale sarebbe la reale frequenza cardiaca che questa aritmia comporterebbe e quindi quale sarebbe il rischio se avvenisse in corso di attività sportiva.
Gravità diversa, soluzioni diverse
Da quando la pratica sportiva, agonistica o solo amatoriale, è divenuta comuni nei bambini e negli adolescenti, vengono più frequentemente effettuati elettrocardiogrammi di controllo anche in età pediatrica, e ci si è così accorti che la presenza di una preeccitazione ventricolare non è un evento così raro. In alcuni casi, poi, alla diagnosi si arriva invece perché il bambino accusa improvvisamente una tachicardia. E cosa si può fare se si scopre che il proprio figlio è affetto da questa anomalia? In realtà, se è vero che vi è un problema, è anche vero che vi è più di una soluzione, e che si può fare in modo che questo problema disturbi il meno possibile la vita del bambino. Qualora non si siano mai verificate aritmie, può essere sufficiente eseguire alcuni degli approfondimenti diagnostici citati, e non prendere nessun altro provvedimento, in caso si dimostri che il rischio aritmico è molto basso. In altre situazioni, invece, è opportuno ricorrere all’assunzione di un farmaco, che permetta di prevenire l’insorgenza di crisi tachicardiche. Da ultimo, soprattutto per chi voglia guarire completamente e quindi poter svolgere qualsiasi attività fisica senza dover ricorrere a precauzioni o accertamenti, è possibile sottoporsi ad un piccolo “intervento” di cateterismo cardiaco. Questo consiste nell’introdurre in una vena della coscia un piccolo tubicino (catetere) che eroga radiofrequenze, avanzarlo fino all’interno del cuore, individuare dove si trova questa via anomale e quindi “bruciarla” erogando appunto radiofrequenze attraverso il catetere. In questa maniera si può abolire per sempre la via anomala ed il rischio aritmico ad essa connesso.
Prof.ssa Ornella Milanesi
Responsabile servizio di Cardiologia Pediatrica Dipartimento di Pediatria Università di Padova
(altri articoli dello stesso autore)
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Google sfida la censura cinese 17.03.2010
Alcuni siti vietati dalle autorità accessibili per diverse ore
PECHINO
Alcuni siti web vietati dalle autorità cinesi, come quelli che mostrano le foto del massacro di piazza Tiananmen del 1989 e quelli di alcuni gruppi indipendentisti delle minoranze etniche della Cina sono stati accessibili oggi per alcune ore attraverso il sito in cinese di Google. È quanto hanno raccontato alcuni giornalisti stranieri, mentre un portavoce del quartier generale di Google in California, Scott Rubin, ha dichiarato ai media americani che la compagnia «non ha cambiato nulla» nelle sue operazioni in Cina, gettando un’ ombra di mistero sulla vicenda. Google, che gestisce un popolare «motore di riceca» su Internet, ha denunciato attacchi informatici contro i suoi siti in provenienza dalla Cina e minacciato di togliere i filtri imposti dalla censura cinese che impediscono l’ accesso ai siti ritenuti pericolosi dalle autorità.
Giornalisti della rete televisiva americana Nbc hanno affermato di aver aperto alcuni siti abitualmente proibiti sul massacro di piazza Tianamen, sui movimenti indipendentisti della regione cinese del Xinjiang e quello del Tibet Information Network gestito da esuli tibetani vicini al Dalai Lama, il leader tibetano in esilio considerato un nemico da Pechino. I giornalisti hanno anche potuto vedere il video che mostra un uomo disarmato che ferma i carri armati diretti su piazza Tiananmen occupata dagli studenti, girato clandestinamente la notte del massacro. Altri utenti di Internet hanno avuto risultati contraddittori: alcuni affermano di aver aperto siti proibiti, altri di non esserci riusciti. «Sembra che i filtri non funzionino perfettamente – ha commentato Jeremy Goldkorn, fondatore del sito Danei.com che segue l’ evoluzione di Internet in Cina. Un responsabile di Google citato dalla Nbc ha sollevato l’ipotesi che il parziale sblocco dei filtri potrebbe essere stato fatto di proposito dal governo cinese. Google è impegnata da gennaio, subito dopo la sua denuncia, in trattative col governo cinese per cercare una soluzione di compromesso.
I colloqui, ha scritto due giorni fa il quotidiano The Financial Times, sono arrivati ad un punto morto e la compagnia californiana si starebbe preparando a chiudere il suo sito in cinese. Non è chiaro cosa accadrebbe in quel caso alle altre operazioni di Google in Cina, come la fornitura di un software per i telefoni cellulari e se lo stesso sito in inglese Google.com e il suo popolare servizio di posta elettronica, la Gmail. Google China ha circa 700 dipendenti la cui sorte è legata all’ esito della vicenda.
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Corea, connessioni a fior di pelle 16.03.2010
Scienziati asiatici hanno fatto viaggiare dati servendosi di un essere umano come mezzo. Raggiungendo velocità superiori ai 10mbps
Roma – Fibre ottiche? Cavi di rame? No, la banda larga corre su un materiale molto meno esotico: la pelle umana. Alcuni ricercatori della Korea University sono riusciti a far fluire dati attraverso la pelle di un volontario collegando, a distanza di trenta centimentri l’uno dall’altro, due semplici elettrodi.
Gli addetti ai lavori tendono però a smorzare gli entusiasmi di chi già si prefigurava un futuro di epidermidi interconnesse: i prossimi step di questa sperimentazione serviranno per valutare l’applicazione di questa tecnologia in ambito medico.
Secondo Sang-Hoon Lee, uno degli autori della ricerca, grazie a questo sistema sarà possibile monitorare a distanza le condizioni fisiche dei pazienti, che non dovranno più recarsi in apposite strutture per sottoporsi a esami più o meno approfonditi.
Già nel 2005 un grupppo di scienziati giapponesi aveva ottenuto risultati simili, ma nel corso di quest’ultimo esperimento si sono raggiunte velocità da banda larga sull’ordine dei 10mbps. Sono stati usati inoltre degli elettrodi diversi che, contrariamente a quelli precedentemente utilizzati, non contengono cloruro d’argento, sostanza che può irritare la pelle: con uno spessore di solo 300 micrometri, inoltre, possono essere indossati senza troppe difficoltà anche per periodi prolungati.
Giorgio Pontico
http://punto-informatico.it/2833763/PI/News/corea-connessioni-fior-pelle.aspx
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17/3/2010 – NEUROSCIENZE. I TEST SULLE ESPERIENZE ESTETICHE RIVELANO UNA TEMPESTA DI ECHI SENSORIALI ED EMOZIONALI
Con un clic scateni l’inconscio
L’istinto a scattare foto svela la nostra profonda natura psico-motoria
VITTORIO GALLESE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA
Forse mai come oggi l’umanità si è trovata a vivere in un mondo così pieno di immagini. Quando visitiamo un museo o un’esposizione artistica, molti di noi non resistono alla tentazione di impossessarsi le immagini che ci stanno di fronte, facendole proprie attraverso la duplicazione resa possibile dall’ormai inseparabile fotocamera-telefonino. La caleidoscopica messe di filmati, video, foto, cartelloni e manifesti in cui siamo immersi rende più che mai attuali gli interrogativi da cui partono Andrea Pinotti e Antonio Somaini nell’Introduzione all’interessante volume «Teorie dell’immagine» (Cortina 2009) da loro curato. Che cos’è un’immagine? Cosa facciamo quando usiamo le immagini? In quale misura le immagini «artistiche» differiscono dalle immagini tout-court?
Le scienze umane e le neuroscienze sono oggi impegnate a rispondere a questi quesiti, impegnandonsi in un dialogo che, anche se difficile, è in grado di fare nuova luce su questo aspetto così importante della natura umana. Il rapporto tra arte e scienza, quando applicato allo studio delle immagini, si può configurare come ricerca dei meccanismi che presiedono alla loro comprensione.
La scoperta dei neuroni specchio e dei meccanismi di rispecchiamento nel cervello umano e, più in generale, la scoperta del cruciale ruolo attivo svolto dal sistema motorio nella percezione delle immagini hanno inferto un duro colpo alle concezioni rappresentazionaliste – e totalitaristiche – della mente umana, tipiche del cognitivismo classico. Guardare un’immagine non si risolve esclusivamente nella registrazione delle sue proprietà sensoriali, successivamente tradotte in rappresentazioni in formato linguistico. Oggi sappiamo che la potenza espressiva delle immagini risiede anche – se non soprattutto – nella capacità che queste hanno di risvegliare implicitamente e direttamente un’eco, una risonanza nel corpo di chi le guarda.
Questa risonanza assume un aspetto insieme motorio, emozionale e sensoriale. Guardare la raffigurazione di un oggetto implica simulare l’azione che quell’oggetto evoca, così come osservare un gesto, un’emozione o una sensazione – o una loro raffigurazione – determina l’attivazione di parte dei meccanismi che normalmente presiedono all’esecuzione o all’esperienza soggettiva degli stessi gesti, emozioni o sensazioni. Secondo questa prospettiva, in ogni esperienza estetica c’è sempre una componente empatica, che, anche se modulata da fattori storico-culturali, mantiene una dimensione universale. Si configura così un rapporto di reciprocità tra immagine e fruitore, secondo cui non solo ci rispecchiamo nelle immagini, ma ne siamo anche rispecchiati.
Questi recenti risultati della ricerca neuroscientifica mostrano una straordinaria affinità con aspetti cruciali della riflessione estetica manifestatisi tra il XIX ed il XX secolo. Sebbene già dal Settecento scrittori come DuBos (e altri, tra cui Hume, Burke, Adam Smith e Herder) abbiano parlato del ruolo dell’imitazione interiore delle emozioni e delle azioni altrui, l’importanza cruciale dell’empatia per l’estetica è stata sottolineata per la prima volta da Robert Vischer nel 1873. Con il termine Einfühlung («sentire dentro») designava le reazioni fisiche prodotte dall’osservazione dei dipinti, notando come forme particolari suscitassero particolari reazioni emotive, a seconda della conformità al disegno e alla funzione dei muscoli.
Aby Warburg scrisse delle Pathosformeln, per mezzo delle quali le forme esteriori del movimento in un’opera rivelavano le emozioni interiori del personaggio interessato. Quasi nello stesso periodo, Bernard Berenson suggeriva che l’osservazione del movimento rappresentato nelle opere d’arte rinascimentali potenziasse la consapevolezza di analoghe potenzialità muscolari nel proprio corpo. Inoltre, il suo concetto di «valori tattili» delle immagini prefigurava riflessioni contemporanee, come quelle del pittore Mark Rothko. Si può ipotizzare che anche nella contemporanea arte astratta le tracce visibili del gesto della mano dell’artista si traducano in una simulazione motoria nel cervello di chi guarda. Nel nostro laboratorio stiamo conducendo esperimenti per indagare questo aspetto dell’esperienza estetica.
Arte e scienza condividono un aspetto fondamentale: entrambe sono impegnate a rendere visibile ciò che è invisibile. Dalla collaborazione tra arte scienza, in Italia meritoriamente sollecitata e sostenuta, tra gli altri, dalla Fondazione Golinelli, può nascere non solo un nuovo affascinante capitolo della ricerca su che cosa significhi essere umani, ma anche uno stimolo a nuove forme di espressione artistica. In fondo, arte e scienza non sono che diverse declinazioni di quella straordinaria creatività che ci rende umani.
Chi è Vittorio Gallese Neurologo
RUOLO: E’ PROFESSORE DI FISIOLOGIA UMANA ALL’UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA
IL SITO: http://www.unipr.it/arpa/mirror/english/staff/gallese.htm RICERCHE: PERCEZIONI COGNITIVE
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Quanto giorno di proteste a Bangkok
Protesta choc in Thailandia, litri di sangue scagliati contro la casa del primo ministro
Bangkok – (Adnkronos/Aki/Ign) – I manifestanti antigovernativi delle Camicie rosse hanno lanciato alcune sacche contenenti il sangue raccolto tra i volontari all’ingresso e sulla porta dell’abitazione del primo ministro
Bangkok, 17 mar. (Adnkronos/Aki/Ign) – Quarto giorno di proteste antigovernative a Bangkok. Le Camicie rosse di United Front for Democracy Against Dictatorship sono riuscite a forzare il cordone della sicurezza intorno alla casa del primo ministro thailandese e hanno lanciato alcune buste di plastica, contenenti il sangue raccolto tra i volontari, all’ingresso e sulla porta dell’abitazione di Abhisit Vejjaviva.
Dopo circa mezz’ora i manifestanti si sono allontanati e il traffico ha ripreso a scorrere sulla Sukhumvit, l’arteria principale della capitale thailandese nei pressi della casa del primo ministro.
Con la protesta di piazza, le Camicie rosse, che sostengono l’ex premier Thaksin Shinawatra, chiedono elezioni anticipate che il primo ministro non intende indire.
Ieri il sangue raccolto tra i volontari era stato gettato contro la sede del Parlamento.
Fonti affermano che il governo thailandese è sostenuto dal governo britannico.
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Mosca, serve una nuova perestrojka 18.03.2010
MIKHAIL GORBACIOV
La perestrojka, lanciata in Unione Sovietica 25 anni fa, è da allora oggetto di acceso dibattito. Che ora riprende quota, non solo per via dell’anniversario ma anche perché la Russia si trova di nuovo a fronteggiare la sfida del cambiamento. In momenti come questi è appropriato e necessario guardare indietro.
Abbiamo introdotto la perestrojka perché sia i nostri cittadini sia i nostri amministratori capivano che continuare così non era più possibile. Il sistema sovietico, creato nell’Urss con lo slogan del socialismo e a prezzo di enormi sforzi, perdite e sacrifici ha reso il nostro Paese una superpotenza con una forte base industriale. In condizioni estreme funzionava; in circostanze più normali ha condannato la nostra patria all’inferiorità. Questo era chiaro a me e agli altri dirigenti della nuova generazione, così come ai membri della vecchia guardia che tenevano al futuro del Paese. Mi ricordo la conversazione con Andrei Gromyko poche ore prima che il Comitato Centrale riunito in assemblea plenaria eleggesse il nuovo segretario generale nel marzo 1985. L’ex ministro degli Esteri conveniva sulla necessità di un cambio epocale e sul fatto che, per quanto i rischi fossero alti, era di vitale importanza procedere.
Chiedono spesso a me e ad altri leader della perestrojka se fossimo consapevoli del tipo di cambiamento a cui saremmo andati incontro. La risposta è sì e no: non del tutto e non immediatamente.
Era chiarissimo cosa dovessimo abbandonare: il rigido ed ideologico sistema politico ed economico; il confronto frontale con la maggior parte degli altri Stati del mondo; la corsa senza regole al riarmo. Rifiutando tutto questo ottenemmo il pieno consenso popolare mentre i funzionari che si rivelarono stalinisti duri a morire dovettero tacere e adeguarsi. Ben più difficile trovare una risposta alla domanda successiva: Quali erano i nostri obiettivi, cosa volevamo ottenere? Noi avevamo percorso un lungo cammino in tempi brevi: eravamo partiti dal tentativo di emendare il sistema esistente ed eravamo arrivati alla conclusione di doverlo cambiare. E tuttavia, sono sempre rimasto fedele alla scelta fatta in favore di un’evoluzione: un cambiamento che non avrebbe distrutto il popolo e il Paese e avrebbe evitato spargimenti di sangue.
Era una bella sfida attenersi a questo programma mentre affioravano conflitti vecchi e nuovi. Da un lato i radicali spingevano sull’acceleratore, dall’altro i conservatori ci mettevano i bastoni tra le ruote. Entrambi i gruppi hanno la maggior colpa per quanto è accaduto in seguito. Ma accetto la mia parte di responsabilità. Noi, i riformatori commettemmo errori che sono costati cari, a noi e al Paese. Il nostro più grave errore è stato intraprendere con troppo ritardo la riforma del Partito comunista. Era stato il partito a dare inizio alla perestrojka, ma presto divenne un ostacolo al suo progresso. I burocrati che ne erano a capo organizzarono il tentato colpo di stato dell’agosto 1991, che tagliò le gambe alla perestrojka. Agimmo con troppo ritardo anche nel riformare l’unione delle repubbliche che avevano fatto già molta strada nel corso della loro esistenza comunitaria. Erano diventati degli Stati a tutti gli effetti, con le loro economie e le loro élite. Dovevamo trovare un modo per garantire la loro sovranità nazionale all’interno di una unione democratica decentrata. Al referendum del marzo 1991 oltre il 70% della popolazione era a favore di una nuova unione di repubbliche sovrane. Ma il colpo di stato, che mi indebolì come Presidente, segnò il loro destino. Abbiamo commesso anche altri sbagli: presi nel vortice delle battaglie politiche perdemmo di vista l’economia e il popolo non ci ha mai perdonato la scarsità dei beni di prima necessità e dei minimi comfort di quei tempi.
Ma detto tutto questo e qualsiasi cosa ne pensi chi mi critica, quello che è stato ottenuto dalla perestrojka è innegabile. Da lì è passata la via per la libertà e la democrazia. I sondaggi confermano che anche i più critici verso la perestrojka e i suoi fautori – e in particolare verso di me – apprezzano le sue conquiste: l’abbattimento del sistema totalitario, la libertà di parola, riunione e fede; la libertà di movimento e il pluralismo economico e politico.
Dopo la fine della perestrojka e lo smantellamento dell’Unione Sovietica, i leader russi hanno optato per una versione «radicale» delle riforme. La loro terapia «shock» si è rivelata peggio della malattia che voleva curare. Molta gente è precipitata nella miseria; il divario nei redditi è fra i più ampi al mondo. Sanità, educazione e cultura subirono enormi decurtazioni. La Russia cominciò a perdere la sua base industriale diventando completamente dipendente dall’esportazione di petrolio e gas naturali. All’inizio del nuovo secolo il Paese si trovava in uno stato di collasso, a un passo dal caos. I processi democratici hanno sofferto di questo degrado nazionale. Le elezioni del 1996 e il trasferimento del potere a un «erede» designato nel 2000 sono stati atti democratici nella forma ma non nella sostanza. Da allora ho iniziato a preoccuparmi per il futuro della democrazia in Russia. Capimmo che in una situazione che metteva in forse la stessa esistenza dello Stato russo non era sempre possibile rispettare in modo formale le leggi: in alcuni casi un certo autoritarismo è necessario.
Ecco perché ho appoggiato Vladimir Putin durante il suo primo mandato presidenziale. E non ero il solo: era con lui dal 70 all’80% della popolazione e credo avessero ragione. Nondimeno, stabilizzare il Paese non può essere l’unico fine. La Russia ha bisogno di sviluppo e di riforme per diventare leader nel mondo globalizzato e interconnesso. Il nostro Paese non ha fatto un passo avanti in questa direzione negli ultimi anni, malgrado per un decennio abbiamo beneficiato degli alti prezzi delle nostre principali esportazioni, petrolio e gas. La crisi globale ha colpito la Russia più duramente di molti altri Paesi e la colpa è solo nostra. La Russia potrà progredire senza problemi solo seguendo un percorso democratico. E recentemente ci sono stati da questo punto di vista diversi passi indietro.
Il processo democratico ha perso mordente. In molti casi ha subito una involuzione. Tutte le decisioni di rilievo sono prese dall’esecutivo, il Parlamento si limita a un’approvazione formale. L’indipendenza dei giudici è stata messa in discussione. Non abbiamo un sistema partitico che dia la possibilità alla maggioranza di vincere lasciando alla minoranza la possibilità di esercitare un ruolo attivo e far valere la propria opinione. C’è la crescente sensazione che il governo sia spaventato dalla società civile e voglia controllare tutto.
Sono cose che conosciamo bene, le abbiamo già passate. Vogliamo tornare indietro? Credo che nessuno, compresi i nostri leader, lo desideri. L’insoddisfazione per questo stato di cose è diffuso a tutti i livelli. Percepisco allarme nelle parole del presidente Dmitry Medvedev quando si chiede, come ha fatto in alcune recenti dichiarazioni pubbliche: «Come può una economia primitiva basata sulle materie prime e su una corruzione endemica portarci verso il futuro?». Possiamo stare tranquilli se «l’apparato di governo nel nostro Paese è il più grande datore di lavoro, il maggior editore, il miglior produttore, giudice di se stesso, e, di per se stesso un partito e persino una nazione?».
Non si potrebbe dirlo meglio. Sono d’accordo con il Presidente e con il suo obiettivo, la modernizzazione. Ma non funzionerà se il popolo è tagliato fuori, se è considerato solo una pedina. Per avere persone che si sentono e agiscono da cittadini c’è una sola ricetta: democrazia, legalità e dialogo aperto tra il popolo e il governo. Quello che ci frena è la paura. Tra la gente come fra chi governa serpeggia il timore che la modernizzazione potrebbe portare all’instabilità e persino al caos. In politica la paura è una cattiva consigliera, dobbiamo superarla. Oggi la Russia ha molti cittadini liberi e indipendenti pronti ad assumersi responsabilità e a sostenere la democrazia. Ma molto dipende dai comportamenti del governo.
Copyright 2010 Mikhail Gorbaciov
Distribuito dal The New York Times Syndicate
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Banche armate: BNL s’invola, UniCredit s’imbosca, l’AIAD s’inalbera 15.03.2010
Nel corso dell’incontro su “Finanza e armi” che si è tenuto sabato scorso a Milano durante la fiera “Fa’ la cosa giusta!”, il caporedattore di Unimondo, Giorgio Beretta, ha presentato un’anticipazione della sua ricerca sulle operazioni d’appoggio all’export di armamenti italiani svolte dalle banche nell’ultimo decennio. La ricerca è parte di un più ampio studio-pilota dal titolo provvisorio “Finanza e amarmenti: le connessioni di un mercato globale” realizzato dall’Osservatorio sul Commercio di Armi (Os.C.Ar.) di IRES Toscana – Istituto di ricerche Economiche e Sociali – vincitore del bando di finanziamento della Fondazione Culturale Responsabilità Etica onlus per il 2009 che mostra le ampie connessioni tra mondo finanziario – e in particolar modo di banche e assicurazioni – che è stato presentato dai ricercatori nel corso della medesima manifestazione.
Giorgio, cosa emerge dalla tua ricerca?
Tre sono i dati più significativi. Il primo è che le esportazioni di armamenti dell’Unione Europea – e in particolare quelle italiani – non sono affatto marginali ma hanno ormai assunto un ruolo di primissimo piano nel contesto internazionale. I dati del SIPRI – l’autorevole istituto di ricerca svedese – mostrano che nell’ultimo quinquennio il volume di esportazioni di sistemi militari dei paesi dell’Unione europea ha ormai superato quella di Stati Uniti e Russia. Per quanto riguarda l’Italia, il recentissimo rapporto dell’UE sui trasferimenti internazionali di armamenti dei paesi membri mostra che, dopo la Francia, l’Italia ormai affianca la Germania e supera di gran lunga la Gran Bretagna in questo particolare commercio (si veda in proposito il dossier di “Missione Oggi” – in .pdf).
Il secondo rilievo?
E’ il fatto – poco conosciuto o meglio sarebbe dire spesso volutamente sottaciuto da governi e informazione ufficiale – che nell’ultimo decennio le esportazioni di armi italiane sono state prevalentemente dirette a Paesi del Sud del mondo. E questo nonostante una legge, giudicata “restrittiva” dall’industria militare nazionale, come la 185/90 imponga il divieto di vendita di armi a paesi sotto embargo, responsabili di gravi violazioni di diritti umani e in conflitto interno o esterno. Prendiamo ad esempio i due principali destinatari di armi italiane degli ultimi anni: si tratta del Pakistan a cui è stato autorizzato tre anni fa l’acquisto dalla MBDA italiana di missili terra-aria, un affare da 415 milioni di euro, proprio nel bel mezzo di uno stato d’emergenza. E nel 2008 è stato dato il via libera alla maxi-commessa del ministero della Difesa turco di elicotteri militari dell’Agusta per oltre un miliardo di euro anche in questo caso proprio nel bel mezzo dell’intervento militare turco nel Kurdistan iracheno e nonostante le proteste delle associazioni pacifiste preoccupate anche per le reiterate violazioni dei diritti umani dei governo di Ankara.
E in tutto questo qual è stato il ruolo delle banche?
Direi che si sono trovate strette in una duplice morsa. La prima – che ha fatto leva anche su una maggior attenzione dei consumatori – è rappresentata dalle campagne sociali per una maggior responsabilità sociale delle banche: mi riferisco in particolar modo alla Campagna di pressione alle “banche armate” che dal 2000 ha posto all’attenzione dei cittadini e degli istituti di credito proprio il tema specifico dei servizi forniti dalle banche all’industria militare per l’esportazione di armamenti. La seconda, molto meno trasparente e per diversi aspetti di tipico stampo lobbistico, è quella delle industrie militari – e in particolare dalle aziende che fanno capo a Finmeccanica – che non hanno mancato di esercitare le loro pressioni sugli Istituti di credito.
A cosa ti riferisci in particolare?
A quanto scritto – nero su bianco – nell’ultima Relazione d’Esercizio (in .pdf) dell’AIAD, la potente Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza che non ha avuto remore a stigmatizzare come “atteggiamento demagogico” la decisione delle banche di autoregolamentare la propria attività nel settore. Il testo va letto per intero perché mostra con chiarezza come agisce una lobby. Riporta infatti la Relazione dell’AIAD che nel 2008 “A tenere viva l’attenzione dell’Associazione è stato anche il problema delle Banche etiche che, professandosi “non armate”, hanno sospeso ogni transazione di esportazione, se pur già disciplinata nel rispetto della Legge 185/90. In maniera ricorrente l’AIAD ha rappresentato la propria preoccupazione per l’amplificarsi delle conseguenze derivanti alle imprese ed al riguardo sono state inoltrate sia a Confindustria che all’ABI diverse comunicazioni alle quali hanno fatto seguito molteplici incontri sia con i vertici dell’ABI che dei diversi Gruppi Bancari nonché con il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi; numerosi anche gli interventi nell’ambito di Seminari e Convegni per porre in evidenza l’atteggiamento fondamentalmente demagogico proprio degli Istituti Bancari”.
Le banche non avranno mancato di rispondere a queste, come chiamarle, “provocazioni”?
Purtroppo no e questo mi stupisce. A fronte di una dichiarazione evidentemente provocatoria come quella dei vertici dell’AIAD ci si sarebbe aspettati che l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) in testa e le singole banche che in questi anni si sono dotate di codici di responsabilità per quanto riguarda il finanziamento e i servizi all’esportazione militare rivendicassero formalmente e con forza la propria indipendenza e l’autonomia delle proprie posizioni. Invece – ed è questo che mi preoccupa – non si è alzata alcuna voce, segno che le pressioni dell’industria militare sugli istituti di credito sono riuscite a mettere a tacere anche quei settori all’interno delle banche che hanno come compito quello di definire e promuovere la “responsabilità sociale d’impresa” della banca.
Tornando alla tua ricerca, quali sono i dati salienti?
La mia analisi mostra tre elementi rilevanti. Il primo è un dato quantitativo: nel periodo dal 2001 al 2008 più del 60% delle operazioni di incassi per esportazioni di armamenti italiani sono state ripartite in maniera abbastanza uniforme da tre gruppi bancari: il gruppo BNL-BNP Paribas che ha assunto operazioni per oltre 2,3 miliardi di euro (cioè il 21,2% del totale), il gruppo IntesaSanpaolo – che considerando anche le operazioni dell’acquisita Carispe – ne ha svolte per quasi 2,2 miliardi di euro (20,1%) e il gruppo Capitalia-Unicredito (oggi UniCredit) che – soprattutto per le operazioni autorizzate alla Banca di Roma – ne ha assunte per oltre 2 miliardi di euro, cioè il 18,7%. Va però rilevato che mentre la BNL e il BNP Paribas – che ormai sono uno stesso gruppo – mostrano negli ultimi anni valori in forte crescita, i gruppi IntesaSanpaolo e Unicredit presentano invece un chiaro ridimensionamento della loro operatività del settore.
Merito quindi delle nuove e recenti direttive delle due banche?
Non proprio. E questo è il secondo elemento e mi spiego. Mentre il gruppo IntesaSanPaolo già dal 2007 ha definito una policy che decreta “la sospensione della partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma, pur consentite dalla legge 185/90” e puntualmente ha pubblicato nel proprio Bilancio Sociale i dati aggregati delle operazioni assunte riguardanti l’esportazione di armamenti, non altrettanto si può dire per il gruppo Unicredit.
Dopo l’annuncio già nel dicembre del 2000 da parte di Unicredit di aver emanato direttive interne che disponevano – cito testualmente dal loro Bilancio sociale 2001 (pg. 78) – “la sospensione, con decorrenza immediata, di ogni facoltà delegata per interventi creditizi in favore di aziende che si occupano di produzione e commercializzazione di armi e prodotti connessi” – un annuncio che ci aveva positivamente sorpreso e a cui avevano dato ampio rilievo anche importanti trasmissioni televisive come Report della Gabanelli – la banca Unicredit pur continuando a ribadire pubblicamente la propria posizione non ha mai riportato nel proprio bilancio sociale alcuna operazione relativa all’export di armi anche se ha continuato a svolgerle. E questo nonostante la loro “Carta di Integrità” li impegni a “mantenere la trasparenza nei confronti dei clienti garantendo sempre la tempestiva informazione sui prodotti e sui servizi offerti”.
Rilievi non proprio confortanti per il principale istituto di credito italiano…
A cui ne va aggiunto un altro ancor più preoccupante. Senza darne troppa pubblicità già dal 2007 il gruppo Unicredit ha modificato la propria policy reintroducendo la possibilità di finanziare determinati settori dell’industria militare e non escludendo la fornitura di servizi bancari alle esportazioni di armamenti. Di fatto – come annuncia l’ultimo bilancio sociale – UniCredit sta rivedendo per la terza volta la propria politica in tema di difesa e armamenti e lo avrebbe fatto in dialogo con “un gruppo internazionale di ONG” di cui però non menziona il nome, forse per non lederne la riservatezza.
E la BNL?
La BNL ha emanato ormai dal 2003 un “Codice Etico” (in .pdf) che sostanzialmente limita le operazioni d’appoggio all’esportazione di materiali militari ai soli paesi della NATO e dell’Unione europea. Ma proprio la controversa autorizzazione all’incasso dei 55 elicotteri militari venduti dalla Agusta alla Turchia per un valore di oltre 1 miliardo di euro fa capire che anche la limitazione dell’operatività a paesi considerati alleati espone le banche a non poche critiche soprattutto quando certe forniture militari si prestano ad un chiaro impiego di tipo repressivo. E come UniCredit, la BNL non brilla certo per trasparenza. Nonostante l’ampia operatività nel settore nei suoi bilanci sociali non ha mai fornito una sola cifra, ma solo percetuali e talvolta con giochi di parole poco edificanti.
A cosa ti riferisci?
Prendi ad esempio l’ultimo Bilancio Sociale. La BNL a pg. 31 afferma che “Avendo come riferimento il market share del 18,2% registrato nel 2002 (anno precedente alla emissione del Codice Etico BNL in materia), mentre nel 2007 si era registrato un significativo ridimensionamento della presenza della Banca in tale mercato con una diminuzione al 5,21%, nel 2008 – esclusivamente a seguito di un operazione di ampia portata con un primario Gruppo nazionale verso un Paese NATO, rientrante dunque nei canoni del Codice Etico BNL – la quota percentuale e salita al 33,87%”. E segue questa affermazione che è di una logica disarmante: “Senza questa operazione la quota BNL sarebbe pari al 6,21%, sostanzialmente in linea con i valori espressi negli anni passati”. Che è come dire: “Se non peccassi, sarei un santo”….
Insomma uno scenario non proprio incoraggiante…
Direi di più. Reso ancor più fosco e preoccupante dal fatto che da due anni la Presidenza del Consiglio ha deciso di non pubblicare la sezione della Relazione annuale (richiesta dalla Legge 185/90) che riportava le singole operazioni autorizzate e svolte dagli Istituti di credito, sottraendo cosi la possibilità di verifica dell’attività delle banche. Un fatto ripetutamente denunciato dalla Campagna di pressione alle “banche armate” anche con lettere ufficiali indirizzate alla Presidenza del Consiglio e ai Ministeri competenti, che però non hanno mai avuto risposta. E, nonostante l’informazione ufficiale della Relazione sia vitale anche per gli istituti di credito per certificare l’effettiva attuazione delle loro direttive, non mi risulta che le banche abbiano inoltrato alcuna protesta per denunciare questa manipolazione. Insomma c’è davvero ancora molto da fare se le banche vogliono impegnarsi con coerenza e piena trasparenza in questo settore.
A quando la pubblicazione del volume di Os.C.Ar.?
Sarà pronto e fresco di stampa per la prossima fiera sociale “Terra Futura” che si terrà a Firenze dal 28 al 30 maggio.
Intervista a cura di Andrea Dalla Palma
http://www.unimondo.org/Notizie/Banche-armate-BNL-s-invola-UniCredit-s-imbosca-l-AIAD-s-inalbera
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Gaza: trovati metalli contaminanti nei capelli dei bambini delle aree colpite dai bombardamenti 17.03.2010
GAZA – Tracce di metalli tossici nei capelli sono state rilevate in molti dei bambini palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza in precarie condizioni abitative nelle aree colpite dai bombardamenti israeliani.
E’ il risultato di uno studio pilota condotto dal New Weapons Research Group (Nwrg), una commissione indipendente di scienziati ed esperti basata in Italia che studia l’impiego delle armi non convenzionali e i loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate.
La ricerca fa seguito a quella pubblicata dal Nwrg il 17 dicembre scorso, con la quale il gruppo aveva individuato la presenza di metalli tossici nelle aree circostanti ai crateri lasciati dai bombardamenti. Quelle analisi avevano scoperto anomale concentrazioni di metalli tossici nei crateri, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose per via cutanea, respiratoria e attraverso gli alimenti. Con il nuovo studio, ora, il gruppo si è posto l’obiettivo di verificare se le persone siano state effettivamente contaminate.
Il Nwrg ha esaminato campioni di capelli appartenenti a 95 persone, in larga maggioranza bambini. Tra loro anche sette donne in gravidanza e 4 feriti. I risultati dello studio hanno stabilito che la distribuzione media dei contaminanti metallici nei capelli degli abitanti delle tre località in cui sono stati effettuati i test, Beit Hanun, Gaza-Zeitun e Beith Lalya, è più elevata rispetto alla media, in circa 60 casi di oltre il doppio. L’indagine ha rilevato insolite concentrazioni di metalli nei capelli che indicano la loro elevata presenza nell’ambiente, un fatto che può provocare nel tempo danni alla crescita ed alla salute come conseguenza della esposizione cronica. In diversi campioni sono stati individuati metalli carcinogenici o tossici, come cromo, cadmio, cobalto, tungsteno e uranio, mentre in uno dei feriti è stato misurato un livello inusualmente elevato di piombo. Per 39 delle persone esaminate la compresenza di più metalli e/o la presenza di metalli carcinogenici hanno spinto i ricercatori a raccomandare per loro ulteriori controlli.
Lo studio, che è durato diversi mesi, ha misurato la concentrazione nei capelli di 33 metalli, con analisi ICP/MS (una tipologia di spettrometria di massa altamente sensibile). Le tracce di metalli nei capelli indicano la presenza delle stesse sostanze nell’organismo, che potrebbero essere entrate in circolazione nel sangue ed essere entrate negli organi. L’analisi del capello rappresenta una tecnica non invasiva, che permette di stimare il problema evitando prelievi del sangue o biopsie. Per questo motivo le indagini di contaminazione ambientale basate sulla analisi dei capelli sono raccomandate dalla Environmental Protection Agency (Epa) e la International Atomic Energy Agency (Iaea).
I risultati delle indagini sono preoccupanti: anche se le quantità di metalli in eccesso, infatti, non sono superiori di 2-3 volte a quelle presenti nei capelli di persone non contaminate, questi livelli possono essere comunque patogenici in situazioni di esposizione cronica.
Il problema, infatti, spiega la professoressa Paola Manduca, diventa quello di eliminare ora le cause della contaminazione: “L’identificazione dei soggetti con confermato e persistente carico elevato di metalli – sottolinea – richiederebbe la rimozione del soggetto dall’esposizione, l’approccio terapeutico più favorito in vista della mancanza di prove sull’efficacia e la sicurezza del trattamento chelante, sopratutto nei bambini. Questo presenta gravi problemi nella situazione attuale di Gaza, dove la costruzione e la rimozione delle strutture danneggiate è resa difficile o impossibile, e certamente rappresenta la grave responsabilità di coloro che dovrebbero porre rimedio i danni alla popolazione civile, secondo le leggi internazionali”.
Allo studio hanno lavorato Mario Barbieri, del Cnr, e Maurizio Barbieri, docente di geochimica ambientale all’università La Sapienza di Roma, e responsabile del laboratorio di spettrometria di massa Icp, dove sono state realizzate le analisi, e Paola Manduca, genetista. Lo studio è stato possibile grazie alla collaborazione sul campo dell’associazione Gazzella onlus.
di Fabio De Ponte
Sito: www.newweapons.org
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Radiazione di fondo e cluster galattici
Un “flusso oscuro” scorre nel cosmo 15.03.2010
Se fosse confermato, dato che la distribuzione della materia nell’universo osservabile non può darne conto, si dovrebbe ipotizzare l’influenza di strutture cosmiche al di fuori del nostro “orizzonte”
Un’immane corrente di cluster di galassie scorre a 2,5 miliardi di anni luce da noi seguendo un percorso inspiegabile, lungo la linea di vista che unisce il nostro sistema solare al superammasso dell’Idra-Centauro.
Alcuni dati indicano che questa corrente di cluster – nota come “flusso oscuro” – si sposterebbe allontanandosi dalla Terra, ma i ricercatori non possono escludere che in realtà si stia spostando in direzione opposta. “Abbiamo rilevato il movimento lungo questo asse, ma i nostri dati non sono così accurati da poterci dire se i cluster stanno venendo o andando”, ha detto Alexander Kashlinsky del Goddard Space Flight Center della NASA, che firma con i collaboratori un articolo pubblicato sulle Astrophysical Journal Letters.
Il flusso oscuro è controverso, dato che la distribuzione della materia nell’universo osservabile non può dar conto della sua esistenza, suggerendo che dovrebbero esistere strutture cosmiche che, al di là dell’universo visibile, stanno esercitando una spinta sulla materia che ci circonda.
I cosmologi considerano il fondo a microonde come una sorta di sistema di riferimento generale e rispetto a esso qualsiasi moto su larga scala non dovrebbe esibire alcuna direzione preferenziale. I gas che emettono raggi X energetici all’interno di un cluster di galassie diffondono questi fotoni del fondo cosmico. Dato che i cluster di galassie non seguono esattamente l’espansione dello spazio, le lunghezze d’onda dei fotoni diffusi varia in un modo che riflette il movimento individuale di ciascun cluster.
Questo cambiamento, noto come effetto Sunyaev-Zel’dovich cinematico, è così piccolo che non è mai stato rilevato per alcun singolo cluster di galassie. Ma nel 2000 Kashlinsky e Fernando Atrio-Barandela dell’Università di Salamanca, in Spagna, hanno dimostrato come sia possibile estrarre quel segnale dal rumore di fondo studiando un elevato numero di cluster. Nel 2008, in collaborazione con ricercatori dell’Università della California a Santa Cruz e delle Hawaii, gli astronomi hanno così applicato questa tecnica ai dati ottenuti nel corso di tre anni di rilevazioni dalla sonda WMAP, evidenziando per la prima volta questo anomalo movimento.
Il nuovo studio, condotto ora su cinque anni di rilevazioni di WMAP, fornisce ulteriori dati a sostegno del fatto che il moto osservato sia reale, concentrandosi su un analisi che dovrebbe escludere possibili errori commessi nello studio precedente: “Una volta elaborati, questi stessi cluster mostrano ancora un forte segnale, una cosa decisamente improbabile se il flusso oscuro fosse un semplice abbaglio statistico”, osserva Atrio-Barandela.
In prospettiva i ricercatori intendono testare ulteriormente l’ipotesi del flusso oscuro ampliando l’analisi sulla base di ulteriori dati raccolti dalla sonda WMAP e confrontandoli con quelli ottenuti dalla missione Planck dell’ESA, che entro giugno completerà la prima mappatura del fondo a microonde con una precisione ancora superiore grazie alle sue sofisticate apparecchiature.
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Un__flusso_oscuro__scorre_nel_cosmo/1342476
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Animali: mistero sotto ai ghiacci, cos’è quella creatura? 17.03.2010
Anche la Nasa si è stupita per questa nuova scoperta: una creatura minuscola ma sorprendente è apparsa a 180 metri di profondità sotto ai ghiacci antartici. Non si aspettavano di trovare vita in un ambiente tanto ostile.
Per una volta la Nasa non ci porta nello spazio ma sotto al mare. Siamo sotto il ghiaccio antartico, a 180 metri di profondità sotto la piattaforma ghiacciata del Mare di Ross. Gli scienziati stavano studiando la zona con l’aiuto di una videocamera speciale, immersa in acqua e sotto ai ghiacci per osservare dal basso la crosta ghiacciata. Non avrebebro mai pensato di trovare una forma di vita tanto evoluta in un ambiente così ostile.
“Stavamo lavorando nella convinzione che non avremmo trovato niente” – ha detto il glaciologo della Nasa Robert Bindschadler. “Invece abbiamo trovato un gambero”. Sempre che quella creaturina classificata come un ‘lyssianasid’, un crostaceo lontano parente dei gamberi, non nasconda qualche sopresa.
Per ora dell’inaspettato abitante dei mari glaciali si sa quanto si vede in questo video. È comparso all’improvviso nel campo visivo della videocamera come un lampo rosato, illuminando quello che sarebbe stato solo un buio buco nel ghiaccio. Lungo circa sette centimetri, è stato ‘disturbato’ dagli scienziati nella sua tranquilla nicchia ghiacciata.
Il video ufficiale della Nasa
http://www.youtube.com/watch?v=awi-RrKjaeA&feature=player_embedded
http://it.notizie.yahoo.com/53/20100317/tod-mistero-sotto-ai-ghiacci-cos-e-quell-045b8e8.html
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L’erba produce energia verde 01.03.2010
Un team di ricercatori finanziato dall’UE ha scoperto che l’erba può essere usata per produrre energia ecocompatibile. Il progetto BIOREGEN (“Biomass, remediation, re-generation: reusing brownfield sites for renewable energy crops”) ha ricevuto 1,2 milioni di euro attraverso il programma di ricerca dell’Unione europea LIFE-Environment.
Guidati dal Contaminated Land and Water Centre presso la Teesside University nel Regno Unito, i ricercatori intendono scorprire se è possibile il riutilizzo dei siti dismessi per la coltivazione di raccolti destinati all’energia rinnovabile. Occorre considerare questi terreni industriali o commerciali abbandonati come siti di un potenziale nuovo sviluppo.
Il progetto è partito nel 2004 e ha scoperto che la Phalaris arundinacea, comunemente conosciuta come erba nastro, sarebbe indicata per la coltivazione sui siti dismessi, e può essere trasormata in carburante per le centrali elettriche a biomassa, e persino per le caldaie d’acqua calda negli edifici scolastici.
L’erba nastro è un’erba perenne largamente diffusa in Europa, Nord America, Africa settentrionale e Asia. Nel Regno Unito viene convertita in mattoni e pellet. Gli esperti dicono che non crea danni all’ambiente, in quanto non aumenta le emissioni di gas serra e neanche il riscaldamento globale.
Oltre all’erba nastro, i ricercatori hanno studiato anche il Miscanthus e il panico verga, nonché quattro tipi di piante e salici, che vengono comunemente usati nelle centrali elettriche a biomassa, in varie parti della regione.
“Abbiamo concentrato la ricerca sull’erba nastro perché cresce così bene sui suoli poveri e sui siti industriali contaminati”, ha spiegato il dottor Richard Lord, lettore di geochimica e sostenibilità ambientale presso la Teesside University. “Questo è importante, perché nelle aree come il Teesside – come anche in altre zone simili in tutto il paese – ci sono molti siti marginali o dismessi sui quali può essere coltivata l’erba nastro”, ha aggiunto.
“Scegliendo tali siti si potrebbe coltivare l’erba senza occupare i terreni che vengono altrimenti usati per la produzione di alimenti, una delle maggiori preoccupazioni per i responsabili dei settori della biomassa e dei biocarburanti”.
Quando l’erba raggiunge la maturazione – un processo che dura due anni – viene raccolta e imballata prima della sua conversione in mattoni e pellet.
“Le prove di combustione hanno mostrato che l’erba nastro produce un buon carburante pulito, senza assorbire i contaminanti presenti nel suolo”, ha fatto notare il dottor Lord. “L’erba nastro ha grandi potenzialità perché offre una valida alternativa per i campi abbandonati, producendo al contempo un carburante eccellente in un periodo in cui il mondo è costantemente alla ricerca di nuovi modi di produzione di energia verde”, ha continuato.
“La nostra ricerca suggerisce inoltre che il prodotto finale è un suolo di qualità migliore e una maggiore biodiversità nei siti rinverditi. Stiamo ora esaminando nuovi modi di commercializzazione per questa idea e stiamo già dialogando con vari operatori delle più importanti centrali elettriche di biomassa”.
Gli esperti dicono che i raccolti bruciati per la produzione di carburanti appartengono alla categoria “energia rinnovabile”. Durante la combustione della biomassa viene rilasciata anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera, ma con la coltivazione di nuovi raccolti la stessa quantità di CO2 viene rimossa dall’atmosfera. I biocarburanti sono quindi considerati neutri per quanto riguarda le emissioni di carbonio, perché non influiscono sui livelli di CO2 nell’atmosfera.
Per maggiori informazioni, visitare:
Teesside University:
http://www.tees.ac.uk/
Programma di ricerca LIFE-Environment dell’Unione europea:
http://ec.europa.eu/environment/life/
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La leggenda dell’ascensore sociale. 18.03.2010
Discutere di occupazione in questi tempi di crisi e’ abbastanza complesso, anche perche’ le statistiche sull’occupazione sono sempre troppo poco accurate perche’ si possano fare delle deduzioni a riguardo. In particolare, nel caso italiano, ci sono alcuni dati che non si vogliono capire. E non si vogliono capire perche’ essi impatterebbero troppo con il nostro modo di vivere, di pensare, di agire.
Innanzitutto, la disoccupazione non e’ quel che si pensa. Le statistiche sui non occupati non distinguono, per dire, chi ha piu’ prospettive da chi non ha piu’ prospettive. Un 10% di disoccupati giovani e’ molto diverso, per dire, da un 10% di disoccupati cinquantenni. Se il disoccupato giovane e’ semplice da reinserire (relativamente, almeno) quello cinquantenne non e’ affatto una questione cosi’ semplice.
Cosi’, comprendere quanto sia devastante il dato “10%” e’ difficile: potremmo avere una grande difficolta’ di ingresso sul mercato o una difficolta’ a rimanerci.
Il secondo grosso problema che non vediamo e’ la storia del disoccupato. Se c’e’ una crisi economica e vieni dal mondo delle partite IVA, non sei realmente un “disoccupato”, a seconda degli strumenti di misura: sei solo un professionista che non ha piu’ clienti. Per passare alla fase ufficiale , cioe’ per passare alla fase di disoccupato, occorre dichiararsi tali. Siccome queste partite IVA si mantengono tali perche’ sperano di trovare clienti o di recuperare i vecchi, spesso questo non avviene.
Al contrario, il lavoratore dipendente che diventa disoccupato lo vedo subito, perche’ alla fine dei conti finisce subito in una lista ufficiale.
Fatto questo, appare chiaro come una stima di disoccupazione cosi’ come e’ fatta (9% in UE, 10% in USA) non sia cosi’ efficace. In USA non vedo la disoccupazione di chi e’ freelance e di chi e’ self-smployee, dal momento che sino a quando non si iscrivono a qualche sussidio per il rilevatore sono solo professionisti senza clienti.
Ci sono poi altri fenomeni, come la sottoccupazione o il calo di reddito. Se prima guadagnavo 1000 e adesso ho trovato un altro lavoro che mi da’ 600, per lo stato risulta che io sia occupato come prima. In realta’, cambiando lavoro cosi’ dovrei dire di essere occupato al 60% rispetto a prima.
Eliminate le considerazioni sul passato, posso iniziare quelle sul futuro. A seconda della mia eta’, il lavoro mi offrira’ prospettive future o meno. Se prima un dipendente era dentro una multinazionale, potra’ pensare di aver fatto due-tre passi di carriera negli anni successivi. Se per via della crisi e’ stato licenziato ed e’ andato a fare lo stesso lavoro in un piccolo negozio, il risultato e’ che anche a livello di reddito non crescera’ come prima nei prossimi anni.
Siamo cioe’ nella situazione in cui moltissime statistiche non ci dicono quasi nulla, perche’ (anche omettendo il lavoro nero) ci dicono solo quanta gente dichiara di essere senza lavoro, ma non ci dicono nulla sui cambiamenti del mercato del lavoro.
E qui andiamo alla disoccupazione italiana. La disoccupazione in Italia ha diverse cause, tra cui alcune culturali e sociali.
La prima causa culturale e’ che si e’ dato per scontato che l’ascensore sociale potesse crescere all’infinito. C’e’ gente che si lamenta del fatto che l’ascensore sociale si sia fermato, ma proviamo a rifletterci.
Se nel 1910 avevamo 100 operai per ogni dirigente, l’idea de “ascensore sociale” e’ che tutti e 100 i figli degli operai debbano (almeno in potenza) diventare dirigenti. A parte la domanda che viene spontanea (e chi lavora?) il problema e’ che si tratta evidentemente di una cosa impossibile. La storia dell’ascensore sociale sarebbe possibile solo se da qualche parte ci fossero 100 operai che prendono il posto dei figli degli operai, diventati tutti dirigenti.
La nostra scuola, figlia del mito dell’ “ascensore sociale”, non ha capito pero’ che questa cosa non sia possibile, e si e’ comportata come se l’ascensore sociale sia una realta’ ineluttabile, o addirittura un principio della fisica. C’e’ gente che ha enunciato come l’ “ascensore sociale” sia una realta’ tipica delle economie sane, cosa che non e’: e’ tipica delle economie che vanno al disastro.
La nostra nazione che oggi ha 100 operai e un dirigente, pretende tra una generazione di avere 100 dirigenti e non chiarisce chi fara’ il lavoro degli operai. Struttura la scuola per mandare tutti (in potenza) a studiare management , dichiara che “lo studio e’ un diritto” e forma generazioni di giovani che non faranno mai nulla per cui hanno studiato.
Subito dopo il fallimento dei nostri 100 ragazzi che vogliono l’ascensore sociale, si scopre che non solo non possono andare piu’ in alto, ma non riescono neanche a tornare al livello dei padri, perche’ non sono operai. Bisogna stare molto attenti a questa cosa, perche’ di fatto ci troviamo con una nazione che non solo ha inflazionato i ruoli dei dirigenti (cosa che ne ha abbassato il reddito) , ma importa lavoro dall’estero.
Ora, torniamo al punto di partenza: una nazione di 60 milioni di persone decide che i giovani usufruiranno dell’ascensore sociale. Forti di questo mito, si sono create scuole senza sforzarsi non dico di pianificare, ma di porre dei limiti ragionevoli.
La nostra nazione ha prodotto, per decenni, giovani convinti di usufruire dell’ascensore sociale. All’inizio ha funzionato: avendo alte marginalita’, le aziende hanno assunto middle management e comprato servizi , spostando all’estero la produzione, visto che i figli degli operai non vogliono piu’ fare gli operai perche’ devono avere l’ascensore sociale.
Ovviamente, questo processo e’ stato molto piu’ forte altrove che in Italia, ma oggi arriva il conto anche da noi. Questo mito dell’ascensore sociale ha prodotto delocalizzazione e cattiva immigrazione, fino a quando non ci si sta rendendo conto che l’ascensore sociale non funzioni.
E no, non e’ questione della crisi: e’ NORMALE che non possa esistere niente come un ascensore sociale. Quando chiude una fabbrica con 100 operai, si dice che in Italia resteranno solo servizi e management, cosi’ si invitano i figli dei 100 operai ad andare a scuola di management e a darsi ai servizi. Ma poi si scopre che i servizi ed il management non rendono i 100 posti di lavoro.
Che cosa ne e’ risultato? Ne e’ risultato non solo che ci sia stata una delocalizzazione, ma dopo anni ed anni di una scuola che guarda solo in alto, se anche le aziende tornassero indietro non troverebbero il personale per riportare indietro il manufatturiero perduto. Provate ad appendere un annuncio di fronte ad un liceo, dicendo di cercare operai. Fatelo poco prima degli esami di maturita’. Cosa succedera’? Niente.
Tutti gli studenti preferiranno laurearsi. Bene. La media di delocalizzazione attuale in Italia e’ del 7.5%. Il che significa di base che rilocalizzando si potrebbe assumere quasi tutta la disoccupazione, che e’ attorno al 10%. Se pero’ andiamo a vedere che cosa si sia delocalizzato, osserviamo che si e’ delocalizzata la catena produttiva, non la ricerca o il management.
Non dico che sia falso che moltissimi giovani andrebbero a fare gli operai oggi. Il problema e’ che se non hai fatto un buon istituto tecnico o una buona scuola professionale, non sei un operaio, sei solo “due braccia”. Cosi’, se rilocalizzassimo le aziende italiane il risultato sarebbe di produrre una migrazione di qualche milione di stranieri, che avendo studiato come si tiene una lima in mano lo sanno fare.
Il concetto che non si e’ mai capito e’ che l’ascensore sociale funziona solo se, quando i figli fanno un lavoro migliore rispetto ai padri, c’e’ qualcuno (spesso all’estero) che prende il posto dei padri. Cosi’, negli scorsi decenni l’illusione si e’ alimentata al punto che l’accademia considera “sano” un paese con l’ascensore sociale: in realta’ quello che sta succedendo a quel paese e’ che i figli aspirano ad un lavoro “migliore” rispetto ai padri, e quando i padri vanno in pensione il loro posto di lavoro viene delocalizzato. Questo dara’ l’illusione dell’ascensore sociale, ma in realta’ e’ semplicemente la prima fase della trasformazione della nazione da nazione manufatturiera a nazione inutile.
Dopo qualche anno, il risultato e’ che il lavoro dei padri e’ tutto delocalizzato e I PRIMI figli hanno effettivamente avuto l’ascensore sociale. Figo.
Ma i bambini continuano a nascere, e ad ogni generazione di figli c’e’ una generazione di adulti che va in pensione. Poiche’ esiste l’ascensore sociale, (wow) i figli NON prenderanno il posto dei padri, ma ambiranno di fare qualcosa di piu’: del resto, ai giovani di dieci anni fa riusciva, perche’ a noi no?
Con l’andare del tempo, sempre piu’ bambini si immettono in percorsi scolastici che presumono un ascensore sociale, e sempre piu’ anziani vanno in pensione senza venire sostituiti, il loro lavoro fatto all’estero. La menzogna dell’ascensore sociale ha distrutto la nazione, che si trova con giovani incapaci ,o capaci solo di telefonare, inviare email e indossare una cravatta, aziende che delocalizzano cercando qualcuno che sappia piantare un chiodo, e non ci sara’ MAI modo di rilocalizzare perche’, per via del mito dell’ascensore sociale, nessuno ha piu’ frequentato scuole adeguate.
Certo , c’e’ uyna grande litania riguardo alla scuola che prepara per il mondo del lavoro. Quando si dice questo si intende sempre il lavoro “alto”, cioe’ l’informatica, i servizi avanzati, eccetera. Raramente si prendono in considerazione le scuole comunali, gli istituti tecnici, le scuole provinciali, che non formavano tecnologi ma soltanto operai specializzati.
Ed e’ proprio la morte dell’operaio specializzato quella che stiamo pagando carissima: oggi i casi sono due. O riesci a scuola, e allora arrivi ad una laurea e poi ti lamenti che manca l’ascensore sociale, oppure abbandoni la scuola. La via di mezzo, ovvero frequentare una scuola che in breve ti porti ad una mansione pratica e specializzata, e’ sempre piu’ abbandonata. Chi studia vuole diventare dottore, chi non studia si getta sul mercato a mani nude.
Manca la fascia intermedia, quelli che studiavano per diventare operai specializzati. Figure che potevano anche crescere di reddito (anche se non quanto un manager) a seconda delle lotte sindacali e della bravura, ma che non avrebbero usufruito di alcun “ascensore sociale”, uscendo da scuola come operai , proprio come i padri.
Per lottare contro questo fenomeno, e’ necessario innanzitutto ribaltare il concetto di ascensore sociale. Ovvero, dire una buona volta che non e’ pensabile che tutti facciano un lavoro migliore rispetto ai propri padri. Certo, mentre la nazione esce da un periodo di dopoguerra o si industrializza e’ possibile, ma una volta raggiunta una certa stabilita (con crescite del PIL attorno all’ 1-2%) parlare di ascensore sociale e’ assurdo.
E’ necessario iniziare a fare uno screening del mondo del lavoro attuale, e capire quanti oggi facciano effettivamente i dirigenti, quanti gli operai, e quanti gli specialisti, eccetera. Bisogna considerare che con un aumento medio del PIL annuo dell’ 1% , e iniziare a dire che no, FORSE un 1% dei giovani ogni anno potra’ usufruire dell’ascensore sociale, e fare un lavoro migliore del padre. Tutti gli altri dovranno PRENDERE IL POSTO del padre.
Nessun ascensore locale.
Stampato in testa a chiare lettere che l’ascensore sociale funzionera’ per un minimo di fortunati, allora sara’ possibile ricostruire il tessuto lavorativo del paese, ed avra’ senso per le aziende rilocalizzare. Ma se oggi quel 7% di delocalizzazione tornasse a casa, in fabbrica ci andrebbero solo stranieri, cioe’ persone che non hanno master, non hanno lauree, ma sanno usare un tornio.
Il prezioso laureato italiano, che ha pianificato gli studi credendo nell’ascensore sociale, non ne usufruirebbe comunque, perche’ non qualificato per un posto come operaio specializzato.
La mia opinione e’ che moltissimo del disastro occupazionale italiano sia dovuto dall’aver diffuso la leggenda dell’ascensore sociale. Milioni di giovani hanno pianificato i loro studi non pensando di prendere il posto del padre (se non i figli di papa’ importanti) ma nel caso dei figli di persone di classe modesta hanno pensato di poter andare ttuti avanti.
I loro padri sono andati in pensione e nessuno ha preso il loro posto, cosi’ il manufatturiero si e’ spostato all’estero. I loro figli , inseguendo il mito dell’ascensore sociale, avevano studiato scienze dell’informazione.
Oggi le aziende potrebbero rilocalizzare?
Nella misura in cui il ragazzo italiano e’ disposto a fare una scuola tecnica, andare a lavorare a 18 anni in una fabbrica, si’. Nella misura in cui i suoi genitori lo lascierebbero fare, si’.
Ma la misura , appunto, e’ molto piccola.
E cosi’, un 60% di terziario non riesce piu’ a vivere su un 30% di industria che non offre lavoro.
Fine della leggenda dell’ascensore sociale.
E no, nei “paesi sani” dove c’e’ l’ascensore sociale che funziona il conto sara’ (o meglio, e’ gia’) ancora piu’ salato.
Uriel
http://www.wolfstep.cc/2010/03/la-leggenda-dellascensore-sociale.html
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Colpo di scena: la Spagna dichiara legale il P2P 17.03.2010
Di Riccardo Meggiato
In buona parte delle favole, il cattivo di turno se ne sta isolato dal resto del mondo nella sua torre inaccessibile. E un po’, diciamocelo, fregandosene di ciò che fanno i buoni. Questa, più o meno, era anche la situazione del web fino a qualche tempo fa, dove grazie a strumenti di facile utilizzo (come posta elettronica, social network e blog) gli individui più deboli avevano trovato il modo di esprimere la loro protesta. Nel nome di diritti inviolabili, come la libertà.
Il documento, Ennemis d’Internet, rilasciato qualche giorno fa da Reporters without borders, mostra però che alcuni cattiv… ehm, governi si sono svegliati, scendendo in campo e cercando, spesso riuscendoci, di annientare la libertà in salsa 2.0. Il punto è che, accanto ai soliti nomi noti, se ne aggiungono alcuni di insospettabili, occidentali, che mostrano un preoccupante aumento della censura sul web. E a quel punto, se inizi a guardarti un po’ attorno, scopri che oltre ai paesi citati dallo scottante documento, ce ne sono altri che stanno limitando la libertà di comunicare sul web con scuse a volte plausibili, altre molto meno.
Il risultato? È che in appena un anno i paesi che adottano restrizioni web per gli utenti sono passati da 30 a 60. Un momento, ripetiamo: da 30 a 60. Il doppio. Così, chi è affamato di libertà cerca nuove forme di protesta, stimolando i censori a puntare su tecnologie più invisibili e subdole. Insomma, se i paladini della giustizia sono troppo svegli per essere tenuti sotto controllo, meglio isolarli agendo sul resto della popolazione. Come? La fantasia della censura non conosce limiti e i ragazzi Reporters without Borders, come d’abitudine, sono prodighi d’informazioni al riguardo.
In Birmania, per esempio, appena scoppiano delle tensioni politiche, la velocità di connessione a Internet viene diminuita, fino a portare a due ore il tempo necessario per l’invio di una semplice e-mail. E i gestori degli Internet Café sono tenuti a effettuare uno screenshot (in pratica, una foto dei contenuti che compaiono sullo schermo) dei computer usati dalla clientela, ogni cinque minuti. Scandaloso? Sì, ma in Cina si vede anche di peggio, visto che questo paese usa la più avanzata ed estesa tecnologia di filtraggio del mondo, tanto che c’è chi la chiama La Grande Muraglia Elettronica. Pensa che, sfruttando una (lunga) lista di parole e siti sgraditi, arriva a bloccare qualunque contenuto web che abbia a che fare con Dalai lama, Democrazia e via dicendo. A Cuba, invece, puntano sui prezzi della connessione, tenendoli talmente elevati che buona parte della popolazione, al massimo, usa la posta elettronica. E questa è facilmente controllabile… E poi ci sono Corea del Nord (dove è possibile accedere solo ai siti che decantano il leader Kim Jong-II e suo padre), Egitto, Iran, Siria, Tunisia e moltissimi altri paesi. Ma se tra questi non ci stupiamo, purtroppo, di trovare anche Turchia e Russia, c’è da rimanere sgomenti nel vedere l’Australia. Sì, la Terra dei Canguri.
Il progetto di censura dei siti pornografici, o che abbiano a che fare con temi quali la violenza, in realtà gironzola da tempo tra i corridoi del governo australiano, ma questo sembra essere l’anno giusto, a detta sua, di mettere in piedi un colossale filtro-web. L’idea è quella di dare mandato, unico e univoco, all’Australian Comunications & Media Authority, di stabilire i siti da filtrare. Il problema sta nel fatto che i criteri di censura non sarebbero resi pubblici, quindi non è detto che sarebbero applicati solo ai siti che meritano effettivamente di essere filtrati. La popolazione, ben il 96%, si è detta contraria a una legge di questo tipo, ma il governo sembra fare orecchie da mercante. E, anzi, rincara, con una legge, già approvata, che vieta l’anonimato in Rete durante il periodo elettorale. L’Australia, non so se ci siamo capiti. E se non ci siamo capiti, purtroppo, c’è dell’altro. Come la vicina Nuova Zelanda, che da un mese ha attivato un filtro governativo senza dire niente. Peccato che poi qualcuno se ne sia accorto.
Insomma, siamo partiti dalla lontana, anche culturalmente, Cina, passando poi ad altre realtà che ne condividono il pensiero censorio, e arrivando infine all’Australia, che si pensava una terra di libertà per definizione. Così viene naturale chiedersi se corriamo qualche rischio pure in Europa. E la risposta – glom – è affermativa. Nel Regno Unito, è notizia di questi giorni, dopo che è stata scongiurata una legge pronta a dare al governo ampi poteri sulla lotta alla pirateria (col rischio concreto che andassero ben oltre la lotta alla pirateria…), ora si punta per lo meno a bloccare tutti quei siti che violano il diritto d’autore. Il problema non sta tanto nell’idea di base, condivisibile o meno, ma sul criterio: i siti verrebbero bloccati in base anche a una semplice accusa, non come esito di un equo processo. Senza contare che molte associazioni di consumatori e utenti ritengono più giusta una multa. Quindi, ancora una volta, il potere censorio è ben lontano dalla trasparenza e mette le cesoie in mano a entità difficilmente individuabili. E contrastabili. In Francia un meccanismo simile è già in atto e, anzi, la Legge HADOPI, che porta al blocco della connessione agli utenti che scaricano illegalmente, è ben nota in tutto il mondo. Eppure, dopo qualche mese, sembra addirittura controproducente: l’Università di Rennes ha da poco concluso uno studio nel quale emerge che, dall’entrata in vigore di HADOPI, gli utenti che scaricano sono cresciuti del 3%.
Insomma, paese che vai censura che trovi? Per fortuna c’è qualche eccezione, come la Spagna. È freschissima la decisione di considerare LEGALE il file-sharing svolto senza scopi di lucro, nella causa tra la Società degli Autori spagnola (la SGAE) e il sito El Rincon de Jesus, ritenuto responsabile di pirateria. Il giudice ha sentenziato non solo che la SGAE non può bloccare l’accesso al sito incriminato, affermando che i sistemi P2P consentono solo la trasmissione di dati tra utenti e dunque non violano il diritto d’autore, ma anche che c’è una bella distinzione tra distribuzione vera e propria e pubblicazione di link che riportano a materiale protetto. È forse l’inizio di una rivoluzione destinata a estendersi nei paesi europei?
In Italia, al momento, non è che ce la passiamo bene, visto che non molto tempo addietro il Tribunale di Bergamo ha stabilito che gli Internet Service Provider (ISP), cioè le aziende che offrono le connessioni alla Rete, devono rendere inaccessibile il sito The Pirate Bay. Con un risvolto che valica i confini nazionali, puntando a Sud, nella soleggiata Malta. Qui, i clienti di Melita Cable, il principale ISP dell’isola, non possono accedere a The Pirate Bay in conseguenza della censura italiana, benché il governo dell’isola non abbia affatto bloccato il sito. E la colpa sarebbe proprio degli ISP italiani e delle tecnologie utilizzate per bloccare la Baia dei Pirati. Insomma, censura no (no no no!) grazie, e se censura vogliono che sia, almeno farla bene…
http://www.wired.it/news/archivio/2010-03/17/paletti-sul-web-parliamo-pure-di-muraglia.aspx
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Sanità Usa, le insidie non sono ancora finite 22.03.2010
LUCIA ANNUNZIATA
L’happy ending non è stato ancora apposto in calce ma, mentre scriviamo, l’approvazione della riforma dell’assistenza medica, la più ostica e intensamente ideologica legge del dopoguerra americano, sembra essere molto vicina. Se questa speranza dei democratici si materializzasse nel corso della nostra notte, da questa mattina anche in Usa – il Paese della libera concorrenza, del capitalismo senza pentimenti, dell’individualismo senza mitigazioni – i poveri potranno (più o meno) avere cure mediche. E Obama avrà firmato il primo vero passo del promesso «cambio», e rovesciato il corso declinante in cui era entrato.
La eventuale vittoria conseguita non porta tuttavia necessariamente al consolidamento della sua Presidenza. Anzi.
La battaglia per far passare questa riforma ha infatti profondamente inciso nel tessuto politico americano, cambiando il sistema degli alleati e quello dei nemici. Davanti al Presidente, nel momento stesso in cui prenderà atto di aver vinto, si presenteranno dunque nuovi terreni di conflitto persino più insidiosi di quelli finora affrontati. Fra gli amici persi nei mesi scorsi ci sono sicuramente i democratici pro aborto.
La vittoria della legge ieri è apparsa vicina quando il decisivo gruppo di antiabortisti, repubblicani e democratici, guidati dal democratico Bart Stupak ha deciso di votare a favore. La Casa Bianca ha subito annunciato una nuova misura per rassicurare la sua base a favore dell’aborto. Ma, come si dice, nessuno è scemo: e tutti a Washington hanno ben valutato il significato del gruppo di Stupak.
Ci sarà dunque da aspettarsi molta delusione nel fronte pro-choice ma, per dirla con Shakespeare, si tratterà alla fine di «molto rumore per nulla». Il sostegno pro-aborto all’interno del Partito democratico è da anni ormai più una battaglia di identità, legata a un certo periodo, gli anni Sessanta, che una reale battaglia di libertà. Negli ultimi 30 anni la questione femminile in America si è completamente ridisegnata, e non a caso nessuna delle grandi donne al potere oggi, che pure negli anni Sessanta sono state protagoniste della battaglia pro aborto, ha fatto sentire la sua voce. Né è un caso che il sacrificio di questo fronte sia stato portato a termine con sveltezza e senza pentimenti da una abortista convinta quale è Nancy Pelosi. Taglio saggio, dunque, taglio di un mito, a favore di una più concreta assistenza sociale: ma ugualmente, dello scontento di pezzi del partito democratico sentiremo molto nei prossimi mesi.
Il fronte più pericoloso per la Casa Bianca oggi è quello dei nemici che, nella opposizione alla riforma, si è approfondito nei toni, negli umori, e si è allargato, includendo il potenziale risentimento di forti settori economici che non sono solo le grandi industrie della sanità.
Con quali umori si debba confrontare Obama lo abbiamo visto – tanto per fare un solo esempio – dalla manifestazione inscenata dai militanti del movimento Tea Party alla vigilia del voto. Hanno aspettato rappresentanti democratici, chiamandoli «Nigger», o «Faggot», dispregiativi per nero e omosessuale, e innalzando cartelli oltraggiosi, quale il disegno di Obama defecato da un asino a illustrare lo «sterco d’asino». Ma anche di questi il Bardo di Avon direbbe probabilmente «tanto rumore per nulla».
Obama ha nel prossimo futuro da temere molto di più da nemici che per ora non sfilano. Come si sa, il colpo che davvero uccide è quello che cala svelto, silenzioso, inatteso, e nel segreto del buio. E di colpi come questi se ne stanno preparando molti, nei segretissimi santuari del potere economico americano. Si sa dello scontento delle Farmaceutiche. Ma nella equazione di Washington è entrata ora anche Wall Street. La Wall Street che dalla crisi del 2007 è uscita indebolita ma non vinta e che, dopo essere stata salvata da un presidente democratico, guarda oggi con favore ai repubblicani. Dei democratici le banche temono infatti la legge di riforma delle regole per le istituzioni finanziarie.
Sulla natura e l’impatto di questa sfida val la pena di leggere direttamente Frank Rich, che sul New York Times scriveva tre giorni fa: «La battaglia intorno alla riforma delle regole è cominciata la scorsa settimana con la presentazione al Senato del progetto di legge di Chris Dodd… e la guerra che sta per iniziare ha a che fare non solo con chi controllerà Wall Street, ma su quali saranno le regole. La domanda ora per i politici è: con chi si schiereranno? La leadership repubblicana si è già dichiarata inequivocabilmente la settimana scorsa. Parlando alla American Bankers Association il leader repubblicano della Camera, John Boehner, ha promesso una netta opposizione alla legge di riforma». Il feeling fra banche e i repubblicani, d’altra parte, è stato già confermato dalle donazioni di sostegno. Perfetto esempio del cambio di clima: la JP Morgan Chase e i suoi dipendenti, che nel 2008 avevano garantito corpose sottoscrizioni ai democratici, l’anno scorso hanno dato il 73 per cento delle loro donazioni ai repubblicani.
È dunque un percorso in salita quello che aspetta Obama. Ma la vittoria di queste ore gli fornisce una sorta di orientamento, una bussola per navigare dentro la frammentazione degli interessi della società americana. Se è riuscito oggi a far prevalere sugli interessi elettorali ed economici di forti settori sociali quelli di una parte di società senza grande potere, forse ha trovato una chiave di volta per riallineare in maniera diversa l’interesse privato e quello pubblico del sistema di cui è a capo.
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Rinnovabili, Enel entra in Desertec project sull’energia solare 22.03.2010
FRANCOFORTE, 22 marzo (Reuters) – Enel (ENEI.MI: Quotazione) e la società di costruzioni francese Saint Gobain (SGOB.PA: Quotazione) si sono unite al progetto Desertec solar power, che punta a fornire il 15% del fabbisogno elettrico europeo da fonti rinnovabili entro il 2050.
Aderiscono al progetto anche il gestore della rete elettrica spagnola Red Electrica (REE.MC: Quotazione), Morrocan group Nareva e la società americana First Solar (FSLR.O: Quotazione).
http://it.reuters.com/article/itEuroRpt/idITLDE62L0JX20100322
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Hiv, dalle banane una nuova arma 16.03.2010
La lectina BanLec, una proteina contenuta in questi frutti, sembra avere la stessa efficacia di due microbicidi anti-hiv al momento in commercio, ma un costo di molto inferiore
Una banana è costituita da potassio, vitamine, fibre, carboidrati, ma anche da una particolare proteina, la lectina BanLec. Questa sostanza è un inibitore della trasmissione sessuale dell’Hiv e potrebbe diventare un ingrediente economico per i microbicidi vaginali. A rivelarlo è uno studio della University of Michigan Medical School, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, secondo il quale la lectina BanLec sarebbe altrettanto efficace quanto due farmaci – T-20 e maraviroc – al momento utilizzati clinicamente.
Le lectine sono proteine che legano gli zuccheri, possono identificare agenti estranei a un organismo, come i virus, e attaccarli. I ricercatori statunitensi hanno scoperto che la proteina BanLec può legarsi alla struttura proteica (capside gp120) ricca di carboidrati che circonda il virus Hiv-1 e bloccarne l’ingresso nella cellula.
Secondo lo studio, usare le lectina al posto dei farmaci con T-20 e maraviroc non solo sarebbe più economico ma fornirebbe una protezione maggiore. “Uno dei maggiori problemi che si presentano con i farmaci contro l’Hiv è la mutabilità del virus e la sua capacità di sviluppare una resistenza. Fare questo è più difficile per il virus in presenza della lectina”, ha spiegato Michael D. Swanson, autore dello studio e dottorando in immunologia: “BanLec può legare diversi zuccheri che si trovano in differenti punti del capside. Quindi, prima di sviluppare una resistenza definitiva, al virus occorrerebbero numerose mutazioni”.
Swanson sta cercando di sviluppare un processo per alterare la proteina e migliorare la sua efficacia. L’uso clinico di questa lectina infatti è ancora lontano, ma il ricercatore è convinto che potrebbe presto essere usata da sola o in combinazioni con altri farmaci come microbicida vaginale per prevenire l’infezione. “Anche un modesto successo potrebbe salvare milioni di vite”, ha concluso Swanson. (c.v.)
Riferimenti: The Journal of Biolgical Chemistry doi: 10.1074/jbc.M109.034926
http://www.galileonet.it/news/12537/hiv-dalle-banane-una-nuova-arma
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Il gene per sopravvivere agli allagamenti 15.03.2010
I ricercatori italiani del PlantLab di Pisa hanno individuato un gene che permette alle piante di resistere per un breve periodo in assenza di ossigeno
di Laura Caciagli
Si chiama HsfA2 il gene che ha il compito di proteggere la pianta quando viene completamente sommersa dall’acqua come capita, per esempio, durante un’esondazione. Il gene è stato scoperto da Pierdomenico Perata, professore di Fisiologia vegetale della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, e il suo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Plant Physiology.
“In tutto il pianeta – ha spiegato Perata, che lavora al PlantLab del Sant’Anna – stiamo assistendo a un aumento degli eventi drammatici di sommersione. Il generale aumento delle temperature, legato al cambiamento climatico, ha avuto due effetti principali: una tendenza alla desertificazione in alcune zone del pianeta, e un aumento degli eventi estremi e un eccesso di acqua, in altre; se il primo fenomeno preoccupa l’opinione pubblica ed è ben percepito, il secondo è meno evidente, ma fa danni anche maggiori”.
Le piante hanno diverse strategie di adattamento alla sommersione: alcune si accrescono rapidamente, in modo da raggiungere il pelo dell’acqua e trasferire l’ossigeno alle parti sommerse della pianta, altre, come certe varietà di riso, rallentano il proprio metabolismo ed entrano in una sorta di letargo, che consente alla pianta di sopravvivere completamente sommersa, in attesa di tempi migliori.
“Il nostro studio – ha continuato Perata – ha messo in luce l’esistenza di un meccanismo di protezione dell’omeostasi cellulare, che fa sì che una situazione di carenza di ossigeno non porti a una disaggregazione della cellula”. Con una serie di esperimenti, i ricercatori del PlantLab sono riusciti a identificare un gene, HsfA2 appunto, responsabile della tolleranza alla sommersione. Il gene è già presente nelle piante, ma i suoi livelli di espressione sono troppo bassi per garantirne la sopravvivenza. Piante transgeniche di Arabidopsis thaliana, in cui l’espressione del gene HsfA2 è aumentata di centinaia di volte, riescono invece a sopravvivere fino a due giorni in totale assenza di ossigeno.
“Siamo convinti – ha affermato Perata – che HsfA2 provochi la produzione e l’attivazione di tutta una serie di proteine indispensabili per proteggere la cellula in una situazione di crisi energetica, capaci cioè di mantenere l’ambiente cellulare il più possibile intatto, in attesa che torni l’ossigeno. Stiamo verificando quanto sia diffusa la capacità di tollerare la sommersione basata su questo gene. Il passo successivo sarà quello di individuare le specie vegetali che presentano livelli molto alti di espressione del gene, e verificare la possibilità di selezionare, sulla base di questo carattere, le varietà più tolleranti”. La scoperta del gene HsfA2 potrebbe avere numerose applicazioni in campo agricolo, dove sarebbe importante poter disporre di piante in grado di tollerare terreni argillosi e asfittici.
http://www.galileonet.it/primo-piano/12509/il-gene-per-sopravvivere-agli-allagamenti
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Telepatia, lavoro da neuroscienziati 15.03.2010
Gli scienziati inglesi dell’Ucl sono riusciti a “leggere” la mente di alcuni volontari e capire quale di tre film appena visti stessero ricordando
“Ti leggo nel pensiero”. A dirlo potrebbero presto non essere più esclusivamente sedicenti maghi ma anche seri neuroscienziati. Uno studio pubblicato su Current Biology mostra infatti che un gruppo di ricercatori dello University College di Londra è riuscito a capire quale di tre film appena visti i volontari stessero ricordando, studiando le risonanze magnetiche del loro cervello.
Esattamente un anno fa lo stesso team di ricercatori aveva condotto un altro studio nel quale, esaminando l’attività cerebrale di una persona, ne hanno potuto individuare l’esatta posizione in uno spazio virtuale. La ricerca di oggi, secondo la coordinatrice dello studio Eleanor Maguire, compie un passo avanti. In questo caso, infatti, i ricercatori sono riusciti a “leggere” nel cervello dei partecipanti un pezzo di memoria episodica: quella raccolta di eventi quotidiani che costituisce la biografia di una persona. Questo tipo di memoria è molto più complessa di quella spaziale e quindi più difficile da “crackare”.
Per riuscirci, i ricercatori hanno mostrato a dieci persone tre diversi e brevissimi cortometraggi. Ciascun filmato rappresentava una diversa attrice impegnata in una scena simile (per esempio imbucare una lettera o buttare un bicchiere di plastica nel cestino). Dopo ogni visione gli scienziati hanno sottoposto ogni volontario a una scansione dell’attività cerebrale mentre questi richiamavano alla memoria le immagini appena osservate. Successivamente i ricercatori hanno chiesto a ognuno di ricordare uno dei tre filmati, a piacere e contemporaneamente hanno effettuato una risonanza magnetica funzionale del loro cervello. Le immagini così ottenute sono state inserite in un computer e analizzate con un programma messo a punto proprio per confrontare scansione e risonanza e individuare lo schema dell’attività celebrale associato al ricordo di ogni film. I ricercatori in questo modo sono riusciti a capire quale film stava ricordando ogni partecipante e a localizzare l’area del cervello coinvolta nel processo.
“Siamo riusciti a osservare l’attività cerebrale di una specifica memoria episodica, a individuarne le tracce”, ha raccontato entusiasta Maguire. “Inoltre abbiamo confermato che questi ricordi ‘risiedono’ nella zona dell’ippocampo. Ora che sappiamo dove si trovano, abbiamo la possibilità di capire come sono immagazzinati e come possono cambiare nel tempo”. Lo studio ha anche mostrato che le tracce neuronali delle memorie (ovvero dell’attività delle cellule coinvolte nel ricordo di un episodio) sono stabili e quindi prevedibili. (c.v.)
Riferimenti: Current Biology doi 10.1016/j.cub.2010.01.053
http://www.galileonet.it/news/12508/telepatia-lavoro-da-neuroscienziati
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Firma la petizione sul No al nucleare e sulle scelte energetiche
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La lettera – L’esponente del Pd: «Pelosi non agì da solo. Le prove ci sono»
«Il sangue, i vestiti, il plantare
Riapriamo il caso Pasolini»
Veltroni scrive ad Alfano: «Oggi la scienza può dirci la verità su quel delitto» 22.03.2010
Gentile Ministro Alfano, vorrei cominciare questa lettera aperta con parole che vengono da lontano nel tempo: «Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo». È così che il presidente del Tribunale dei minorenni Alfredo Carlo Moro fissò il suo giudizio e il senso della sentenza con la quale il Pelosi fu condannato a quasi dieci anni di reclusione per l’uccisione di Pier Paolo Pasolini, intellettuale italiano. Le sentenze successive hanno confermato la responsabilità del ragazzo ma hanno sostenuto che lui fosse solo, quella notte. La verità processuale è fissata in quel giudizio della sentenza di secondo grado: «È estremamente improbabile che Pelosi abbia potuto avere uno o più complici». «Estremamente improbabile» non significa «assolutamente impossibile». D’altra parte quel ragazzo, uno che sembrava sociologicamente e fisicamente l’incarnazione di un personaggio pasoliniano, aveva fornito una confessione piena che escludeva il concorso di altri. Dunque perché cercare ancora?
Ma l’inchiesta, come hanno documentato in modo inappuntabile su «Micromega» Gianni Borgna e Carlo Lucarelli, fece acqua da tutte le parti. Come molte indagini di quegli anni. Ho rivisto in tv, in questi giorni, le immagini girate da quel grande giornalista che si chiamava Paolo Frajese a via Fani il sedici marzo del 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, presidente della Dc e fratello del giudice Alfredo Carlo. Frajese faceva il suo dovere indugiando con il suo cameraman in mezzo ai corpi riversi a terra, ai berretti delle false divise, ai bossoli dei colpi sparati da terroristi e dai poveri agenti della scorta. C’erano decine di persone che passeggiavano sulla scena del più clamoroso attacco alla Repubblica. Qualcuno calpestava i proiettili, qualcun altro armeggiava con le portiere delle auto. Una follia. E non credo che ci appaia così solo perché ora tutti hanno imparato dall’America che la prima cosa da fare è isolare la scena del delitto. Era una follia, e peggio, anche allora. Era successa la stessa cosa nelle ore immediatamente successive all’omicidio di Pasolini nel buio desolato dell’Idroscalo di Ostia. Quando la polizia si era portata lì, nelle prime ore del mattino, c’erano dei curiosi attorno al corpo e di lì a poco, nel campetto attiguo, si sarebbe giocata una partita di calcio con tanto di pallone che cadeva nella zona del delitto e veniva rinviata da poliziotti gentili. Spariscono tracce, specie quelle degli pneumatici e dei passi. Indizi che credo sarebbero stati utili per accertare quante persone si fossero trovate lì e la dinamica dei fatti. L’automobile, la «stanza» fondamentale delle prove, viene consegnata alla scientifica solo quattro giorni dopo il delitto. In quella Alfa 2000 ci sono un maglione e un plantare per scarpe che non appartengono né a Pasolini né a Pelosi. C’è sulla portiera del passeggero, non quella del guidatore nella quale il ragazzo dice di essersi infilato di corsa per fuggire, una macchia di sangue, come l’impronta di una mano appoggiata. Ma l’auto, nel deposito della polizia, era rimasta aperta e sotto la pioggia.
Poi c’è un altro particolare. Pelosi ha solo un graffio sulla testa e una macchia di sangue sul polsino. È assai strano che sia così se le cose sono andate come lui ha raccontato, se c’è stata la feroce colluttazione che il ragazzo descrive nel suo volume «Io, angelo nero»: «Lui si trasformò in una belva. I suoi occhi erano rossi rossi e i tratti del viso si erano contratti fino ad assumere una smorfia disumana… Lo stesso bastone me lo tirò in testa, io mi sentii spaccare in due, il cuore mi batteva fortissimo. Lui si fermava poi ribatteva ancora… Fatto qualche metro mi afferrò e mi tirò un cazzotto sul naso…», poi il racconto di una rissa selvaggia. Pasolini verrà ritrovato pressoché irriconoscibile, un «grumo di sangue». Ma a Pelosi basta, come raccontò, fermarsi ad una fontanella. Potrei continuare. Ma vorrei tornare alle parole del giudice Moro. Non credo che fosse un «complottista». Credo avesse osservato dati di fatto e incongruenze. Chi poteva avere interesse ad uccidere Pasolini? Sulle colonne di questo giornale aveva scritto meno di un anno prima il famoso articolo «Il romanzo delle stragi », quello in cui diceva di sapere «i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer o sicari… Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che… coordina anche fatti lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
Non so se queste parole abbiano preoccupato qualcuno, se abbia preoccupato il lavoro che conduceva per la scrittura di «Petrolio». Ma erano anni bastardi, non dimentichiamoli. Anni in cui da destra e da sinistra venivano compiuti, come fossero normali, atti inauditi. Ai quali spesso seguivano appelli ben firmati per la libertà dei responsabili. Come accade per gli assassini dei fratelli Mattei che ora sono liberi in Sudamerica. Anni bastardi, nei quali poteva bastare essere una donna e civilmente impegnata per essere sequestrata e violata, come accadde a Franca Rame. Anni nei quali si facevano stragi e si ordivano trame. Non bisogna essere «complottisti» per domandarsi cosa diavolo c’entrasse la banda della Magliana con la scomparsa di una giovane cittadina vaticana o con l’intricata vicenda del Banco Ambrosiano o con il rapimento di Moro. Ma al di là delle convinzioni personali e persino al di là della ricerca di una matrice politica del delitto Pasolini esistono una serie di evidenze sulle quali oggi forse si può fare chiarezza. E non solo perché nel 2005 Pelosi ha ritrattato tutto dichiarando che ad uccidere Pasolini erano stati tre uomini che lui non conosceva. Ha detto molte verità il ragazzo e, dunque, forse nessuna verità. Mi domando che interesse avesse, in quel momento, a riaprire una vicenda per la quale aveva già scontato la pena. Mi domando se forse il tempo passato non avesse rimosso ciò che, negli anni del delitto, gli faceva paura.
Ma non conta. Stiamo ai dati di fatto: il paletto insanguinato, i vestiti, il plantare. Oggi le nuove tecnologie investigative consentono, come è avvenuto per via Poma, di riaprire casi del passato. Anche qui voglio usare parole non mie ma quelle che nascono dall’esperienza di Luciano Garofano, che ha diretto il Reparto Investigazioni scientifiche di Parma. Garofano è coautore con il biologo Gruppioni e lo scrittore Vinceti di un libro che si è occupato del caso Pasolini. «Oltre alle analisi del Dna che si potrebbero effettuare su molti reperti (alcuni dei quali mai sufficientemente presi in considerazione: il plantare, il bastone, la tavoletta…), attraverso lo studio delle tracce di sangue e di sudore, le scienze forensi vantano oggi un nuovo, importante alleato… La disponibilità degli abiti di Pasolini ma soprattutto quelli di Pelosi, ci consentirebbe di ottenere importanti informazioni sulla modalità dell’aggressione. Dallo studio delle macchie di sangue ancora presenti, si potrebbe infatti stabilire (e magari confermare) la tipologia di armi usate per colpire, le posizioni reciproche dell’omicida e della vittima e riscontrare quindi l’attendibilità della versione fornita allora da Pelosi… Un caso che, come tanti altri enigmi del passato, non possiamo considerare chiuso».
Ecco, signor Ministro, è questo che voglio chiederle. Per questo, come per altri fatti della orribile stagione del terrore (come il caso di Valerio Verbano o gli altri che con il sindaco Alemanno abbiamo proposto alla sua attenzione) ora si può, si deve continuare a cercare la verità. Forse saranno smentite le convinzioni del giudice Moro, forse ci sarà una nuova ricostruzione. I magistrati a Roma hanno lavorato con dedizione e scrupolo alla soluzione del delitto di uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo. Ora la scienza e le tecnologie possono aiutarci a dire una parola definitiva. E lei, fornendo un impulso all’iniziativa della giustizia potrà assolvere ad una funzione assai rilevante. Conviviamo da anni con un numero di ombre insopportabile. Più ne dissiperemo e meglio sarà per tutti noi, per il nostro meraviglioso Paese. E più ancora della verità giudiziaria credo ci debba oggi interessare la verità storica. Grazie, Signor Ministro, della sua attenzione.
Walter Veltroni
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L’America che odia Wall Street 24.03.2010
LUCIA ANNUNZIATA
Sembrava quasi dimenticata. Lo tsunami di licenziamenti e difficoltà seguito alla crisi del 2007 sembrava aver dato a Wall Street il beneficio di almeno un attimo di riposo dalla rabbia della pubblica opinione. Guerre, disoccupazione, riforma dell’assistenza medica sembravano aver spinto il Quartier Generale del Denaro in fondo alla lista degli interessi dei cittadini.
Ma sotto sotto la rabbia contro la grande finanza ha continuato a scavare nella percezione degli americani, costituendo una fertile base per un clima antisistema, in un Paese che è da sempre incline al rifiuto di grandi ingerenze. Grazie a una serie di rivelazioni, libri, iniziative, e passaggi politici – fra i quali innanzitutto la presentazione al Senato della nuova legge sulle regole – Wall Street sta ritornando alla grande sotto attacco.
Di come la grande crisi abbia scavato un fossato nella psiche americana si è occupato la scorsa settimana il Los Angeles Times. Nulla di psicologico: in realtà l’articolo era dedicato ai mutui. Ma, essendo la bolla edilizia la miccia che ha acceso la crisi, c’è molto da capire dai comportamenti di coloro che hanno un prestito sul collo in Usa.
La storia è questa – ed è una storia tutta nuova -: circa 11 milioni di mutui, cioè un quarto del totale, è «under water», sott’acqua; vale a dire che sono stati utilizzati per comprare case il cui valore è oggi sotto il prezzo che avevano al momento dell’acquisto. Con buona probabilità di non tornare più a quel livello. Dalla crisi del 2007 il prezzo medio delle case in America è in parte risalito, ma è rimasto ampiamente al di sotto del picco che aveva toccato prima.
Nulla di nuovo, dunque nella sofferenza del settore. Molto di nuovo invece da segnalare sul comportamento di coloro che hanno contratto questi mutui. Invece di continuare a nuotare «under water», molti cittadini che pure sono in grado di pagare, preferiscono oggi semplicemente lasciare la casa e liberarsi del pagamento. Preferendo nuovi acquisti o nuovi affitti, che la crisi ha reso disponibili a minor costo. In gergo, queste decisioni sono state battezzate «strategic defaults», per distinguerli dai fallimenti obbligati. E le perdite? Le perdite tornano alle banche, e in parte alla comunità dal momento che lo Stato con i soldi delle tasse ha salvato le banche.
Il fenomeno ha già raggiunto una consistenza tale da essere rilevato dal sistema. Per inciso, è un professore italiano, Luigi Zingales, della Booth School of Business dell’Università di Chicago, a seguirne lo sviluppo, che a dicembre costituiva il 35 per cento del totale dei fallimenti, rispetto al 23 per cento del marzo 2009. Il timore è che questo atteggiamento cresca al punto da avere un impatto sulla ripresina del settore.
Ma al di là degli effetti economici, è l’indicatore morale che lampeggia rosso in questa tendenza. Questo comportamento è del tutto nuovo in un Paese dove la capacità di mantenere il proprio livello di vita e i propri impegni economici ha sempre costituito parte essenziale dell’onorabilità pubblica e privata della persona. «È il segno di una crescente rabbia, una crescente consapevolezza che esiste un doppio standard in base al quale le banche sono state salvate e i cittadini invece devono rispettare i loro impegni», secondo Brent T. White, professore di Giurisprudenza alla University of Arizona che ha scritto un saggio sul fenomeno.
Dal default economico, al default etico? È questa una possibile conseguenza di questi anni di crisi? Sono un po’ le domande che si pongono oggi sul tavolo della politica. D’altra parte, non farsi prendere dal menefreghismo, se non addirittura dal cinismo, è un po’ difficile di fronte al permanente malcostume degli ambienti finanziari. Alle notizie sui dividendi che continuano ad essere distribuiti a dispetto della crisi, si è aggiunta la settimana scorsa la conclusione dell’indagine sulla «madre» di tutti i fallimenti, quello di Lehman Brothers Holding Inc., il cui collasso il 15 settembre costituì l’inizio della fine per molti.
L’inchiesta, ordinata dalla Corte Federale di Manhattan, sulla bancarotta di Lehman Brothers Holding Inc., e istruita da Anton Valukas, spiega in 2200 pagine una verità che si traduce in una riga: i top manager di Lehman sapevano della bancarotta e, invece di avvertire, si impegnarono in una manovra illegale per muovere 50 milioni di dollari, al fine di continuare a truccare i bilanci, dimostrando una liquidità che non avevano. Secondo Anton Valukas, i capi della Lehman «sapevano già il 2 settembre», cioè due settimane prima della crisi, della loro insolvenza. In almeno un caso la consapevolezza arriva ben prima: «In una occasione – scrive Valukas – nel maggio del 2008, un vicepresidente della Lehman avvertì i dirigenti di potenziali irregolarità, ma il rapporto fu ignorato dalla società di revisori Ernst & Young». Interessante è anche capire la manovra illegale messa in atto: la Lehman vendette 50 milioni di pacchetti azionari in cambio di denaro liquido, con impegno a ricomprare più tardi gli asset. Un regolare e legale accordo, che però venne registrato come vendita (era in uso non solo alle banche ma anche in altre settori, distruggendo aziende e mettendo gente sul lastrico, nota personale), in modo da poter contabilizzare la liquidità. Partners in questa manovra furono due grandi banche, JP Morgan Chase & Co. e Citigroup Inc. Sapevano, dunque, tutto a Wall Street. E hanno continuato fino all’ultimo a fiancheggiarsi a vicenda.
All’oltraggio generale causato da questo rapporto – ampiamente riportato nei media – si sono aggiunti altri fuochisti. È uscito ad esempio l’ultimo libro di Michael Lewis, «The Big Short: Inside the Doomsday Machine» (Ed. Norton), in cui l’autore, scrittore già molto popolare di temi economici, esplora proprio il tema del «saper tutto prima». Peraltro facendo una serie di casi specifici di investitori e manager che avevano capito la caduta e che, proprio mentre il mercato si liquefaceva, hanno fatto fortuna per sé e per i propri clienti. L’accumulazione di questo malumore contro il Big Business è destinata, ovviamente, a riversarsi tutta su Washington.
La legge per approvare un sistema di nuove regole per il mercato è stata approvata dalla commissione Finanza e passata al Senato proprio il giorno dopo l’approvazione della riforma sanitaria. Ma il modo come la proposta, firmata dal senatore democratico Chris Dodd, è passata in commissione è indicativo dell’umore con cui è stata accolta: le 1300 pagine di testo sono state votate in 21 minuti perché i repubblicani hanno deciso di non presentare nessuno dei 200 emendamenti che pure avevano preparato. Tanto per mettere bene in chiaro il loro assoluto rifiuto anche solo a discuterne. Del resto la leadership repubblicana si è già dichiarata per bocca del loro leader alla Camera, John Boehner, che, parlando all’American Bankers Association, ha promesso ai banchieri una netta opposizione alla legge sulle regole.
Si profila dunque per Obama uno scontro epocale con Wall Street? Sì e no. La risposta non è del tutto chiara. Visto l’umore che c’è in America e che abbiamo tentato di descrivere, è possibile che una forte presa di posizione da parte dello Stato contro la speculazione finanziaria e i grandi interessi economici non trasparenti abbia un ampio riscontro anche fra i repubblicani. Non è un caso che un idolo di questo tipo di opposizione, Glenn Beck, il Santoro americano, si sia sempre dichiarato nemico proprio di Wall Street.
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Google chiude in Cina per non censurare le ricerche 23.03.2010
di Claudio Pomhey
Penso sia importante capire quello che sta succedendo in Cina riguardo la censura internet che sta portando Google, il principale sito del mondo, a scomparire dai computer cinesi.
Gli eventi nudi e crudi riguardano una eterna insofferenza da parte di Google nell’essere costretta a censurare i risultati delle ricerche non consentendo ai cinesi di navigare su siti e blog scomodi (compresi i vari YouTube, facebook e Twitter) e di ribellione verso le politiche del governo.
Dopo un attacco hacker proveniente dalla Cina che ha colpito i server di Google e una temporanea apertura ai risultati da censura, c’è stato un decisivo rovinamento dei rapporti che ha portato Google a minacciare la chiusura del sito Google.cn, l’equivalente di Google.it, in Cina.
Dopo una difficile trattativa ed un tira e molla molto teso, è di ieri la notizia che Google ha smesso di censurare i suoi risultati di ricerca in Cina, ha chiuso Google.cn ed ha cominciato a re-indirizzare gli utenti cinesi sul Google.com.hk di Hong Kong.
Questa strategia che di per se non viola i precedenti accordi, sta provocando l’ira del governo cinese che, nelle ultime ore, ha cominciato a resettare la connessione ogni volta che dal Google.com.hk si tenta di accedere ad una pagina web censurata.
La grande muraglia cinese, costituita oggi da un potente Firewall, blocca e censura le ricerche sensibili in Cina, senza eccezioni.
Google ha spiegato la mossa fatta, in dettaglio, sul suo blog.
La Cina non è chiaramente soddisfatta delle ultime mosse di Google, accusando la società americana di aver violato gli accordi presi in sede di entrata nel mercato cinese, arrestando il filtro nelle ricerche e accusando la Cina per gli attacchi hacker.
La novità, dal punto di vista politico ed economico, è molto importante: una delle principali società del mondo rifiuta la politica restrittiva di un governo e sacrifica una fetta importante di profitti reali e potenziali.
Cosi, per difendere la libertà di parola, Google rinuncia all’immenso mercato cinese.
In Cina, a fare la parte del leone come sito più visitato e motore di ricerca, c’è Baidu che lascia una piccola quota alla Microsoft con il suo Bing, completamente allineato alle censure.
Il governo cinese ha affermato apertamente che Google in Cina non è fondamentale quindi la chiusura di tutti i servizi, compreso Gmail, sembra adesso molto probabile.
Dal report Google del 21 Marzo, ho potuto anche constatare che questo blog non è visualizzabile dalla Cina perchè il servizio blogger.com su cui risiede, è bloccato inesorabilmente.
http://www.navigaweb.net/2010/03/google-chiude-in-cina-per-non-censurare.html
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24/03/2010 – UN DRAMMA AFRICANO. IL DNA SI STA IMPOVERENDO E LE LEGGI DELLA SELEZIONE NATURALE APPAIONO SCONVOLTE
L’involuzione degli elefanti
Decimati dal bracconaggio, i sopravvissuti non hanno più zanne
ANNALISA LOSACCO
Davanti a un branco di elefanti così numeroso, intento nelle abluzioni quotidiane in una delle pozze del parco, stiamo attanti a non fare il minimo rumore. Non dobbiamo disturbarli. Soltanto dopo alcuni minuti, però, ci rendiamo conto che tutti gli individui del branco, giovani e adulti, hanno la stessa e inattesa caratteristica: nessuno esibisce le zanne.
È un’immagine strana, decisamente innaturale, considerando che nell’immaginario collettivo sono proprio le zanne a rappresentare l’elefante. Eppure, sempre più spesso, nei parchi africani accade di incontrare pachidermi privi dei mitici denti. Nell’Addo Elephant National Park, in Sud Africa, poi, la percentuale si avvicina al 100%.
Per capire questo puzzle biologico è fondamentale conoscere la storia del parco. Agli inizi del 1900 la regione dell’Eastern Cape era una roccaforte per gli elefanti, ma in breve tempo il diffondersi dell’agricoltura estensiva alterò l’habitat in modo irrimediabile. Un solo cacciatore professionista nell’arco di un anno sterminò 120 esemplari, soprattutto i più belli e i più forti. Fortunatamente, prima che il massacro fosse totale, il governo decise di preservare gli ultimi 11 superstiti, istituendo nel 1931 l’area protetta Addo. E da allora la popolazione degli elefanti è lentamente cresciuta, fino a 450 individui su un’area protetta di 164 mila ettari, che sarà presto estesa a 360 mila.
Effetto collo di bottiglia
Intanto una ricerca dell’Università di Port Elizabeth ha scoperto che, quando una popolazione subisce una drastica riduzione, va incontro all’«effetto a collo di bottiglia». Questo comporta a sua volta una deriva genetica, vale a dire un cambiamento evolutivo indipendente dalla selezione naturale. Così si assiste al prevalere di un carattere che in passato era geneticamente recessivo. In questo caso, appunto, la mancanza delle zanne.
L’altro interrogativo, però, riguardava le femmine: perché quasi tutte sono interessate dal «fenomeno»? E’ noto che le zanne crescono costantemente nell’arco della vita dell’elefante e la loro dimensione determina la posizione gerarchica degli individui all’interno del branco. La femmina con il paio di zanne più grandi, di solito, diventa la matriarca e gioca un ruolo determinante nella scelta delle altre femmine. Sono proprio le sue grandi zanne ad attirare i cacciatori di trofei e, ogni volta che una «leader» viene uccisa, un altro individuo – ma di rango inferiore – deve prenderne il posto. Questa nuova matriarca avrà zanne sicuramente meno sviluppate o potrebbe addirittura esserne priva. Una volta che l’equilibrio genetico viene alterato, il processo continua e sconvolge il vecchio equilibrio.
Ecco perché, di recente, il South Africa National Parks – l’ente sudafricano per i parchi – ha deciso di introdurre nell’Addo un gruppo di individui provenienti dal Parco Kruger nel tentativo di rinnovare il «pool» di Dna. Ma non si tratta di un compito semplice. L’assenza di zanne, infatti, è un fenomeno sempre più diffuso in tutta l’Africa: nel Parco del Nord Luangwa, in Zambia, la percentuale tocca il 38%, mentre nel Queen Elizabeth National Park, in Uganda, la percentuale è già del 15%. Tassi notevoli, se si considera che, di norma, la «cifra» naturale si attesta intorno al 2%.
Aree di confine
Non è un caso trovare questi esemplari soprattutto nelle aree di confine dei Paesi più segnati da disordini politici e guerriglia, in cui è più forte il bracconaggio delle popolazioni locali, quasi sempre scatenato per pure ragioni di sopravvivenza. Ma c’è anche la caccia al trofeo, mai veramente passata di moda tra i ricchi occidentali: sono disposti a spendere anche decine di migliaia di euro per poter tirare una fucilata a qualche animale. E a fare il resto ha provveduto la recente riapertura della commercializzazione legale dell’avorio decisa dalla «Cites», la convenzione internazionale che regolamenta il commercio di fauna e flora in pericolo di estinzione.
A raccontarmelo è Kerri Rademeyer, direttrice dell’organizzazione «Conservation Lower Zambesi» (www.conservationlowerzambezi.org): solo nel 2008 sono state ritrovate 45 carcasse di elefanti, uccisi dai bracconieri all’interno del Parco Nazionale Lower Zambesi, in Zambia. La facilità di accesso e l’impossibilità da parte dei rangers di monitorare l’area per mancanza di automezzi permette a piccoli «commandos» di scegliere in tutta tranquillità gli esemplari con le zanne più grandi e di abbatterli.
La strage, quindi, è in pieno svolgimento. Un esempio è il caso di Nairobi. Il Kenya wildlife service ha bloccato all’aeroporto un maxi-carico di 61 zanne del peso di 532 chili, che stavano per prendere il volo per Bangkok. Il tempo sembra essere tornato indietro. Ricomincia una battaglia che sembrava essere stata vinta già negli ormai lontani Anni 80.
http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/166262/
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Alla Asl il profitto è privato 09.03.2010
di Daniela Minerva
Sono arrivati i dati ufficiali: la legge che permette ai medici di lavorare in proprio negli ospedali pubblici fa guadagnare tutti tranne la collettività. Un flop clamoroso, figlio di una legge ingiusta
Questa è la storia di un’intollerabile ingiustizia che è diventata anche un pessimo affare per la collettività. Una storia di cattiva sanità nel senso più ampio del termine: non un ospedale mal attrezzato o un intervento chirurgico non riuscito, ma molto peggio.
Tutto inizia una decina d’anni fa, quando Rosy Bindi era ministro della Sanità. Bindi volle a tutti i costi una legge che, attraverso dinamiche macchinose, sanciva l’esistenza di due diverse liste d’attesa per le prestazioni sanitarie (cioè le visite specialistiche, gli interventi chirurgici o diagnostici e i ricoveri).
Una lista era per chi richiedeva prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale e l’altra lista era per chi pagava di tasca propria. Purtroppo, in questo modo, il Servizio sanitario nazionale sanciva quelle differenze sociali che l’articolo 32 della Costituzione aveva voluto eliminare almeno davanti alla malattia.
Ma i pasdaran della presunta “modernità” sostenevano che quello era l’unico modo per convincere i camici bianchi a svolgere tutta la loro attività (inclusa quella privata) dentro le mura dell’ospedale (e infatti la chiamarono “intramoenia”). E aggiungevano che così il Servizio sanitario nazionale ci avrebbe guadagnato, sottraendo pazienti e interventi alle case di cura private dove i professori normalmente operavano.
Molti di noi si chiesero perché i camici bianchi dovessero fare attività privata nell’orario di lavoro pubblico. E ancora continuano a chiederselo: come mai a questa categoria è dovuta, per grazia ricevuta, la facoltà di farsi così tanto i fatti suoi? Adesso arrivano i dati ufficiali resi noti dall’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali. E lasciano tutti a bocca aperta. Perché l’Agenas ha messo insieme i numeri relativi agli incassi e alle spese delle Asl per l’attività privata dei medici dal 2001 al 2009, e ha scoperto che le prestazioni sono cresciute tantissimo (con ricavi totali aumentati del del 79,67 per cento su tutto il territorio nazionale), ma che enormemente sono cresciuti anche i costi (del 83,51 per cento).
Cosa significa? Significa che la rivoluzione ha costretto le Asl a togliere energie e impegno al dovere costituzionale di curarci tutti e bene per dedicare i propri sforzi alla soddisfazione di chi vuole essere curato privatamente. E che questo super lavoro delle Asl porta poco o niente alle casse pubbliche: con regioni, come la Campania, che hanno addirittura un saldo negativo.
Come mai? Che fine fanno tutti quei soldi che un aumento dell’80 per cento dell’attività implicherebbe?
Facile: finiscono in tasca ai medici e al “personale”: per l’88 per cento. Vale a dire: 1.064.520.000 euro nel 2009. Con un’aggravante: l’Agenas riferisce che alle Asl resta, nel 2008, il 13 per cento del ricavo complessivo. Ma «detto importo si discosta da quello rilevato negli anni precedenti. Infatti, a livello nazionale, nel 2001 era del 14 per cento mentre la media nel triennio 2005-2007 era del 15 per cento». Insomma, ogni anno che passa di tutto quel giro di denaro creato dalle liste private, alla sanità pubblica resta sempre meno.
Quindi, dopo aver sancito (con la legalizzazione di due liste d’attesa) che poveri e ricchi non sono uguali davanti alla malattia, oggi il Servizio sanitario nazionale produce un gran giro di denaro che però finisce altrove. E la sanità pubblica non solo si trova con un pugno di mosche in mano, ma quelle mosche calano anche di anno in anno.
Resta da capire perché il flop è stato così clamoroso.
L’inghippo ha un nome: «intramoenia extramuraria». E’ un orrendo e oscuro neologismo per dire che i dottori accettano di fare la loro munifica attività privata dentro i confini della Asl, ma giacché i locali delle Asl fanno schifo, fisicamente si spostano altrove. Dove? Esattamente dove la facevano prima della legge, cioè in clinica. E la Asl deve pure pagare ai dottori e alle cliniche i costi relativi al mantenimento delle necessità di “decoro” dei dottori. Milioni e milioni euro che i cittadini pagano di tasca propria per saltare le liste d’attesa e che, con un giro di valzer, passano dalla Asl ai privati: siano essi i dottori, le loro segretarie o le società legate alle case di cura che li ospitano (del tutto legittimamente, s’intende).
Naturalmente ci sono i distinguo: s’è detto più volte che l’Italia è un puzzle sanitario. Ci sono regioni virtuose e regioni pasticcione. E la stessa Agenas invita a non generalizzare. Ma, anche senza generalizzare, il pugno di mosche è ridicolo ovunque: la virtuosissima Emilia-Romagna mette in moto 142.040.000 euro di ricavi per trattenerne meno di 30 mila; la ricca Lombardia fa spendere ai suoi cittadini 262.699.000 per guadagnarne 18.333.000. Il rapporto non è tanto diverso dallo zoppicante Lazio (137.404.000 spesi contro i 13.327.000 guadagnati). Peggio, poi, fanno le regioni del Sud.
Ma la lezione che resta da questo mix di sprechi e d’inutili fatiche è assai semplice e risponde a una ratio che Ippocrate già conosceva tremila anni fa: se la cura è più dolorosa della malattia, meglio farne a meno. La follia della legge sulla libera professione dei medici voleva mettere insieme i bisogni delle esangui casse delle Asl con i presunti diritti dei medici a non lavorare a tempo pieno per l’azienda pubblica che li paga a tempo pieno. Palesemente impossibile. E oggi i dati lo dimostrano.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/alla-asl-il-profitto-e-privato/2122458//0
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Salute: l’uomo dalle braccia d’oro, con sangue raro salvati due milioni di bimbi
Roma, 22 mar. (Adnkronos Salute) – Lo chiamano l’uomo dalle braccia d’oro, perché donando il suo sangue ha salvato la vita di oltre 2 milioni di bambini. Nel suo plasma, infatti, c’è un anticorpo preziosissimo, stanato dai medici ben 56 anni fa e capace di bloccare la malattia di Rhesus, una terribile forma di anemia che colpisce i piccoli che hanno un gruppo sanguigno diverso da quello della propria madre. James Harrison, 74enne australiano, ha assicurato il patrimonio che scorre nelle sue vene per un milione di dollari.
Ed è proprio grazie al suo sangue che i ricercatori sono riusciti, negli anni scorsi, a mettere a punto il vaccino salvavita anti-D, in grado di ristabilire l’equilibro tra cellule immunitarie e plasmatiche per i piccoli alle prese con questa malattia. Un sangue raro e preziosissimo, quello di James, che lui ha donato ben 984 volte, con un appuntamento fisso ogni due settimane e 2,2 mln di vite salvate all’attivo.
“Non ho mai pensato di smettere, mai – racconta lui stesso sulle pagine del britannico ‘Daily Mail’ – Ho iniziato a donare all’età di 18 anni, ma ho deciso di farlo a 14 anni, quando, dopo un intervento chirurgico, ebbi bisogno di ben 13 litri di sangue. Stetti in ospedale tre mesi e decisi allora di diventare un donatore”. Da record, non c’è che dire, visto che il prossimo settembre James raggiungerà il tetto di 1.000 donazioni.
http://it.notizie.yahoo.com/7/20100322/thl-salute-l-uomo-dalle-braccia-d-oro-co-6a24347.html
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A mio padre è stato diagnosticato un cancro alla prostata nel marzo 2017 e da allora abbiamo avuto la chemioterapia tre volte, ma il cancro continua a tornare. Alcuni mesi fa, ho sentito parlare dell’olio di cannabis e del suo effetto curativo e ho comprato l’olio di cannabis australiano da RicksimpsoncannabishemOil@gmail.com e mio padre ha iniziato immediatamente il trattamento con l’olio di cannabis, dopo aver usato l’olio di cannabis per il trattamento prescritto da Rick Simpson, c’era una cura totale e mentre scrivo ora, mio padre può camminare da solo in casa senza il supporto di nessuno ed uscire quando vuole.
I migliori saluti,
Alicia Murray
Grazie, buone cose
Maurizio
Scusa Alicia,
Mi pare di aver capito che i tuoi genitori non ci siano piú.
Maurizio