L’8 marzo e la violenza senza colpe 08.03.2010
NAVI PILLAY
Una ragazza che ha amici uomini. Cosa potrebbe esserci di più normale? Eppure un’adolescente turca, per essersi comportata così, è stata sepolta viva dal padre e dal nonno. Questa notizia ha destato choc e sdegno in tutto il mondo. Crimini come questo, tuttavia, non costituiscono affatto l’eccezione. Infatti, un tribunale in Arizona sta in questi giorni affrontando il caso di un uomo accusato di aver investito e ucciso la propria figlia, a suo dire troppo «occidentalizzata». L’Onu stima che ogni anno 5 mila donne in tutto il mondo vengono uccise da membri della propria famiglia, nei cosiddetti omicidi d’onore.
Quando le donne sono viste come portatrici dell’onore di famiglia esse diventano vulnerabili alle aggressioni.
Le quali implicano violenza fisica, mutilazione e anche omicidio, di solito per mano di un congiunto offeso, e spesso con il tacito o esplicito assenso delle altre donne della famiglia.
Le «aggressioni d’onore» sono perpetrate come rituale di «riparazione e purificazione» a seguito di una violazione delle norme imposte dalla famiglia o dalla comunità, in particolare quando è coinvolta la condotta sessuale. Ma le cause scatenanti potrebbero anche essere il desiderio di una donna di sposare o vivere con una persona di sua scelta, di divorziare, o di reclamare un’eredità. A volte, chi si autoproclama «vendicatore» è pronto ad agire anche sulla base di puri pettegolezzi o sospetti inconsistenti. La percezione della colpa è anche più importante della sua reale sussistenza. Le donne sono condannate a sentenze violente senza avere il beneficio di raccontare la loro versione dei fatti e senza alcuna possibilità di appello.
Questa logica perversa e la violenza che essa scatena vengono applicate anche quando le donne sono state oggetto dell’attenzione indesiderata di un uomo o vittime di uno stupro, compresa la violenza incestuosa. Di conseguenza, esse sono vittime due volte, mentre l’atteggiamento degli aggressori viene perdonato. Spesso gli autori delle violenze possono contare sulla piena o parziale assoluzione per via di leggi indulgenti o applicate in maniera non uniforme.
A volte, gli aggressori possono anche finire per godere dell’ammirazione della loro comunità per aver fermato il comportamento deviante di una donna disobbediente e averne lavato la colpa nel sangue.
Le «aggressioni d’onore» violente sono però crimini che violano il diritto alla vita, alla libertà, all’integrità del corpo, il divieto di tortura o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il divieto di schiavitù, la libertà dalla discriminazione di genere e dall’abuso o sfruttamento sessuale, il diritto alla privacy, il diniego delle leggi discriminatorie e di pratiche dannose per la salute delle donne.
È semplicistico e fuorviante pensare che queste pratiche appartengano soltanto a culture retrograde che disdegnano una condotta civilizzata. La realtà è che in tutti i Paesi del mondo le donne subiscono violenze nella sfera familiare nella quale esse dovrebbero aspettarsi sicurezza anziché attacchi. Le aggressioni d’onore sono intrise della stessa attitudine e nascono dallo stesso atteggiamento mentale che produce la violenza domestica. Queste aggressioni derivano dal desiderio di controllare le donne e di soffocarne voce e aspirazioni.
Le donne sono intrappolate tra le mura domestiche dall’isolamento e dall’impotenza che la violenza costruisce attorno a loro. Ne deriva che molte aggressioni perpetrate contro le donne nella sfera domestica rimangono avvolte nel silenzio e nella vergogna piuttosto che essere denunciate per ciò che sono, vale a dire, orribili abusi dei diritti umani.
Sebbene la capacità delle donne di mantenersi da sole economicamente possa offrire vie di uscita dalle costrizioni della società, dall’abuso domestico e dalla sottomissione, la violenza contro le donne è andata aumentando perfino nei Paesi dove le donne hanno raggiunto l’indipendenza economica ed uno status sociale alto. Ciò obbliga alcune donne imprenditrici di successo, così come rispettabili parlamentari, brillanti studiose e professioniste, a condurre una doppia vita. In pubblico sono considerate come modelli di riferimento tra i più alti ranghi della società. In privato, sono umiliate e aggredite.
Di solito alla violenza domestica si risponde offrendo alle donne un riparo sicuro, togliendole così dal contesto in cui vivono. Al contrario, i responsabili sono raramente costretti ad andarsene o a fuggire dalle proprie case o dal proprio ambiente sociale per la vergogna e la paura.
Tale approccio deve essere capovolto. Lo Stato ha una chiara responsabilità nella protezione delle donne, e nel punire gli aggressori e far loro carico del costo e delle conseguenze della loro ipocrisia e brutalità. Questo deve essere fatto, senza tener conto dello status sociale dei colpevoli, della loro motivazione e della loro relazione con la vittima.
Al tempo stesso, uomini e donne, ragazzi e ragazze, devono essere educati sui diritti umani delle donne ed edotti circa la responsabilità che tutti hanno di rispettare i diritti altrui. Ciò dovrebbe includere il riconoscimento del diritto delle donne di gestire il proprio corpo e la propria sessualità, nonché l’eguaglianza di accesso all’eredità, alla proprietà, alla sicurezza sociale e abitativa.
Le donne stanno combattendo per assicurarsi che tale cambio di atteggiamento avvenga e che si consolidi. Esse sfidano sempre più di frequente i propri aggressori per avere la possibilità in tribunale di spiegare il valore della loro azione. Le donne sempre più pretendono che anche i loro tormentatori affrontino le conseguenze della violenza. Noi dobbiamo sostenere queste donne coraggiose. Dobbiamo aiutare le altre a farsi avanti e a rompere il silenzio e gli schemi della connivenza sociale che hanno permesso alla cultura della violenza di attecchire.
*Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani
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For Women in Science. Le vincitrici 2010 05.03.2010
Torna anche quest’anno il premio L’Oreal-Unesco dedicato alle cinque migliori ricercatrici nel campo delle Scienze Biologiche
Tossine di batteri e lumache marine, pelle, schistosomiasi, leucemie e tumori epatici. Sono i cinque campi di studio delle vincitrici per il 2010 del concorso L’Oreal-Unesco “For Women in Science“. Il premio è dedicato alle cinque ricercatrici (una per cinque diverse aree geografiche: Africa e Stati Arabi, Asia-Pacifico, Nord America, Europa, America Latina) che più si sono distinte per l’impegno e i risultati raggiunti nel campo delle Scienze Biologiche e consiste in una borsa totale da centomila dollari.
A scegliere le vincitrici di questa dodicesima edizione è stata una giuria di 18 membri della comunità scientifica internazionale, rappresentanti tutte e cinque le aree geografiche, presieduta da Gunter Blobel, premio Nobel per la medicina nel 1999.
Rashika El Ridi (Africa e Stati Arabi), docente presso la facoltà di Scienze dell’Università del Cairo in Egitto, è stata premiata per i suoi sforzi nella ricerca di un vaccino per la shistosomiasi, una malattia infettiva tropicale che colpisce ogni anno duecento milioni di persone. Lourdes J. Cruz, del Marine Science Institute delle Filippine e rappresentante l’area Asia-Pacifico, ha vinto grazie alla scoperta di alcune tossine di una lumaca marina che potrebbe portare a importanti progressi nella ricerca sulle terapie del dolore, sull’epilessia e altri disturbi neurologici. Tra le ricercatrici nordamericane il premio è andato invece a Elaine Fuchs della Rockefeller University, grazie ai suoi studi sulla biologia e sulle cellule staminali della pelle che hanno portato al riconoscimento di oltre venti malattie ereditarie.
Ecco infine le ultime due vincitrici: per quanto riguarda l’America Latina, Alejandra Bravo – docente presso l’Istituto di Biotecnologie della Univesidad Nacional Autonoma de México – è stata premiata per il suo lavoro su una tossina batterica, chiamata “Bt”, adoperabile come bioinsetticida; invece per l’Europa, a vincere è stata Anne Dejaean-Asse’mat dell’Institut Pasteur in Francia, in virtù del contributo portato dalle sue ricerche alla comprensione delle leucemie e dei tumori del fegato. (c.v.)
http://www.galileonet.it/news/12495/for-women-in-science-le-vincitrici-2010
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La prima volta dei geoneutrini 02.03.2010
Nei laboratori del Gran Sasso sono stati osservati per la prima volta al mondo gli antineutrini provenienti dall’interno della Terra
Nei laboratori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) del Gran Sasso sono stati osservati, la prima volta al mondo in modo certo, antineutrini provenienti dall’interno della Terra (geoneutrini). Questo importantissimo risultato, riportato su arXiv.org, è stato raggiunto grazie all’esperimento Boxerino, cui collaborano ricercatori di istituti italiani, tedeschi, polacchi, statunitensi e russi.
I fisici definiscono i neutrini e gli antineutrini come le particelle più “elusive” scoperte finora. Si tratta di particelle piccolissime, la cui massa non è ancora stata misurata, prive di carica elettrica (da cui il nome), che raramente interagiscono con la materia, motivo per cui riescono ad attraversare tranquillamente barriere spesse chilometri. Gli antineutrini possono essere prodotti durante il decadimento radioattivo dei nuclei atomici instabili (quando cioè un elemento trasmuta in un altro perdendo energia). In questo processo gli atomi perdono anche della massa: nel 1930, il fisico austriaco Wolfgang Pauli ipotizzò che venisse prodotta una particella neutra infinitesimale (cui in seguito Enrico Fermi diede il nome di neutrino). In tutto si conoscono sei diversi tipi di neutrini: elettronico, muonico e tau, ciascuno con la propria rispettiva antiparticella (antineutrino, appunto). I primi ad essere osservati, nel 1956, sono stati gli antineutrini generati in un reattore nucleare negli Stati Uniti.
Gli antineutrini osservati ora nell’esperimento Boxerino sono invece quelli generati dai decadimenti radioattivi che avvengono all’interno del nostro pianeta, migliaia di chilometri sotto la crosta terrestre. Per esempio quando gli elementi come l’uranio decadono producendo enormi quantità di calore, sufficiente a sciogliere le rocce in magma e a muovere le placche tettoniche. Secondo Gianpaolo Bellini dell’Infn di Milano, coordinatore dell’esperimento, i geonetruini rappresentano infatti la prova che la radioattività sia una delle fonti primarie di energia del nostro pianeta, sebbene non l’unica. Sembra inoltre smentita la teoria secondo cui a produrre il calore al centro della Terra sarebbe un gigantesco ‘reattore nucleare’. “Questa scoperta apre una nuova era nello studio dei meccanismi che governano l’interno della Terra”, ha commentato Bellini: “Uno studio esteso dei geoneutrini in vari punti della Terra darà la possibilità di avere informazioni più precise sul calore prodotto nel mantello terrestre, e quindi sui moti convettivi che sono alla base dei fenomeni vulcanici e dei movimenti tettonici. Il successo di questo studio è stato reso possibile dalle nuove tecnologie da noi sviluppate al laboratorio del Gran Sasso, che ci hanno permesso di raggiungere in Borexino livelli di purezza da elementi radioattivi mai raggiunti prima da nessuno, in aggiunta alla lontananza del sito del Gran Sasso da reattori nucleari”.
Prima di oggi, infatti, alcuni ricercatori giapponesi avevano captato segnali indiretti dell’esistenza dei geoneutrini, ma i loro rilevamenti erano disturbati dagli antineutrini provenienti dalle vicine centrali nucleari. Boxerino, invece, sembra a prova di “interferenze”. Si tratta infatti di una sorta di matrioska sferica: una sfera di acciaio contenente mille tonnellate di un idrocarburo (lo pseudocumene) è immersa in 2.400 tonnellate di acqua ultrapura. All’interno, una sfera di nylon più piccola contiene 300 tonnellate di liquido scintillatore che reagisce con i neutrini producendo piccoli lampi di luce. Ogni giorno se ne osservano alcune decine. (t.m.)
Riferimento: arXiv:1003.0284
http://www.galileonet.it/news/12476/la-prima-volta-dei-geoneutrini
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Iraq, il voto sconfigge le bombe 08.03.2010
Spari e mortai fanno 36 vittime, ma gli iracheni partecipano in massa
Maurizio Molinari
Milioni di iracheni si sono recati alle urne a dispetto di bombe e agguati che hanno causato almeno 36 vittime. E il presidente americano Barack Obama ha reso loro omaggio parlando di «pietra miliare nella storia di una nazione che sceglie il proprio futuro attraverso un processo politico».
Nel tentativo di sabotare le elezioni per il nuovo Parlamento di Baghdad gruppi della guerriglia, soprattutto sunnita ma anche sciita, hanno attaccato seggi e votanti concentrando le azioni nella capitale, dove una pioggia di centinaia di proiettili di mortaio si è abbattuta sui quartieri del centro, investendo anche la Zona Verde dove si trovano gli edifici del governo. Nel complesso però le operazioni di voto si sono svolte con regolarità in tutte le zone del Paese, al punto che nella tarda serata di ieri le radio locali concentravano i resoconti di cronaca non sulle violenze ma sulla sfida per la guida del futuro governo fra il premier uscente sciita Nuri al-Maliki e lo sfidante Ayad Allawi, anch’egli sciita ma riuscito a siglare un’intesa elettorale con alcuni partiti della minoranza sunnita.
All’uscita dai seggi numerosi elettori hanno mostrato alle telecamere gli indici macchiati con l’inchiostro viola, facendo con le dita la «V» di vittoria in maniera analoga a quanto avvenuto nelle precedenti tornate elettorali. «Questa giornata dimostra la forza del nostro popolo – ha commentato al-Maliki – che non si fa intimidire dagli atti di violenza degli assassini». Le maggiori misure di sicurezza sono state adottate nel Nord-ovest, nelle regioni sunnite dove gruppi di nostalgici dell’ex dittatore Saddam Hussein e cellule di jihadisti avevano preannunciato una «giornata di terrore» che però non si è materializzata. Anche qui guerriglieri hanno usato colpi di mortai per creare scompiglio, in primo luogo a Mosul e Fallujah, ma senza riuscire a ostacolare il voto.
Al Qaeda aveva tentato di allontanare gli elettori dai seggi diffondendo un comunicato in cui minacciava di colpirli «con la rabbia di Allah e delle armi dei mujaheddin» ma a giudicare dall’affluenza l’effetto è stato minimo. La maggioranza delle almeno 36 vittime è stata registrata a Baghdad, dove l’attacco più grave è avvenuto nei quartieri nord-orientali e ha causato il crollo di due edifici e la morte di 19 persone. «Hanno fatto di tutto per intimidire gli elettori ma non ci sono riusciti» ha commentato il generale americano Stephen Lanza, portavoce della coalizione.
A urne oramai chiuse e una volta appurato il successo della consultazione, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha parlato dal Giardino delle Rose plaudendo a un «evento storico» che schiude le porte al previsto ritiro di 50 mila uomini – sui 90 mila ancora presenti – entro il primo settembre: «Ho grande rispetto per quei milioni di iracheni che hanno respinto le minacce e gli atti di violenza. Esercitando il diritto di voto, hanno dimostrato di voler scegliere il futuro attraverso un processo politico». Washington temeva una spirale di violenze inter-etniche e proprio per scongiurare l’infiltrazione di cellule dal vicino Iran il confine orientale è stato sigillato. Ma le forze Usa hanno fatto attenzione a non mostrarsi in pubblico: gli unici segnali della loro presenza sono stati le scorte agli osservatori internazionali e i pattugliamenti aerei.
Resta da vedere quale sarà il risultato ovvero a quali fra i 6200 candidati andranno i 325 seggi in palio. Obama ha assicurato che «l’America non sosterrà nessun candidato o coalizione» nella delicata fase che porterà alla formazione dell’esecutivo, durante la quale «potrebbero aumentare le violenze». E il Segretario di Stato Hillary Clinton già guarda al dopo-ritiro: «Costruiremo una relazione solida e permanente con il nuovo governo».
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Google spinge la ricerca in tempo reale 05.03.2010
A Mountain View si industriano per cercare di rincorrere il World Wide Web fino all’ultimo bit. Il nuovo protocollo è aperto ai concorrenti e adottato anche da WordPress: servirà a scovare le informazioni prima e più facilmente
Roma – Google prosegue nella sua corsa infinita al tempo reale e all’indicizzazione dei contenuti negli istanti successivi alla loro comparsa sul web già annunciata lo scorso anno, e lo fa con il protocollo open source Pubsubhubbub. PuSH è un’estensione del protocollo di “syndication” Atom/RSS, ed è stato pensato espressamente per tradurre la facilità di “registrazione” all’aggiornamento dei contenuti di un sito tipica dei feed RSS in una rete capace di facilitare enormemente il compito di indicizzazione ai provider dei servizi di ricerca online.
Nella rete di PuSH il webmaster dichiara a quale “Hub” il suo sito intende registrarsi e spedire la notifica dopo un aggiornamento ai contenuti disponibili. Diversamente dagli RSS standard, però, Google può usare le informazioni di registrazione dichiarate dal sito per integrare questi update nello stream di dati che finisce dritto nel suo sistema di indicizzazione del web, aggiornando le informazioni disponibili su un sito senza la necessità di spedire in giro per la rete un crawler a fare incetta di keyword.
Attualmente la capacità di aggiornamento dell’enorme indice di contenuti di rete in mano a Google è quantificabile nell’ordine di una decina di secondi, nondimeno l’adozione estesa di PuSH genererebbe una serie notevole di ricadute positive per il business del search in quel di Mountain View. Una eventuale sostituzione dell’attuale sistema di crawling con il nuovo meccanismo non solo ridurrebbe i tempi di sondaggio del “web là fuori”, ma (soprattutto) alleggerirebbe e non poco lo stress computazionale della sofisticata infrastruttura hardware che muove i destini del Googleplex.
Non di semplice “tempo reale” insomma si tratterebbe, ma di un vero e proprio avanzamento tecnologico del search, tanto che gli ingegneri del software di BigG hanno preferito mantenere un approccio open dando la possibilità ai concorrenti (Yahoo! e Bing) di mettere alla prova il sistema. PuSH promette di avere un impatto significativo sulle fondamenta funzionali del World Wide Web e WordPress ne sposa la causa implementandolo negli oltre 10 milioni di blog ospitati dalla piattaforma.
WP è d’altronde da tempo impegnato a migliorare le modalità di accesso ai contenuti, come dimostra la precedente adozione di Rsscloud, un sistema di syndication costruito sui feed RSS che ha lo scopo di trasformare ogni feed in una fonte “attiva” di update, piuttosto che un canale da consultare di quando in quando per individuare la presenza di nuovi contenuti come avviene di norma.
Tornando all’indicizzazione dei siti web in tempo reale, infine, se Google & co spendono notevoli energie per sottolinearne l’importanza, gli utenti sembrano avere altre priorità. Una ricerca condotta da OneUpWeb metterebbe infatti in luce il fatto che la maggioranza dei netizen, dei risultati in tempo reale, non conosce l’esistenza e non sa che farsene.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2827017/PI/News/google-spinge-ricerca-tempo-reale.aspx
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 09.03.2010
Le aperture
Corriere della Sera: “Il Tar non riammette la lista Pdl nel Lazio”, “Il tribunale amministrativo: il decreto non può essere applicato. Il Colle: l esentenze vanno rispettate”. E poi: “Oggi una nuova decisione. L’ipotesi di ribviare le elezioni nel Lazio”. Di spalla, la morte di Alberto Ronchey, ricordato da Pierluigi Battista: “Il rigore e la passione di un uomo libero”. A centro pagina: “Un fondo monetario dell’Unione europea” dopo la crisi che ha investito Atene. A fondo pagina l’inchiesta sulla Protezione civile: “I soldi del G8 per arredarsi la casa”, “Un aditta dei Granci eventi pagò la tappezzeria al figlio di Baducci”.
Libero: “Vaffa dei giudici al Pdl”, “Magistrati anti-Napolitano”. Secondo il quotidiano “Il Tar ignora il Quirinale e il diritto di voto degli italiani: esclusa la lista del centrodestra a Roma. Silvio tentato di non fare ricorso: meglio la piazza e una campagna contro sinistra e tribunali”.
Il Giornale: “Manicomio Italia”, “Il Tar del Lazio snobba il decreto legge firmato da Napolitano e boccia il centrodestra. Oggi tocca all’ufficio elettorale che può capovolgere la decisione. Poi la pratica al Tar: quindi al Consiglio di Stato…Non si capisce più niente”. A centro pagina: “Firme in Lombardia, ecco le prove del lavergogna”. Il titolo illustra la riproduzione di due modili di raccolta firme messi a confronto: secondo il quotidiano a identica irregolarità la commissione elettorale ha risposto annullando le firme del centrodestra ma ammettendo quelle del centrosinistra. E poi una foto di uno dei giudici di Roma che ha bocciato la lista del Pdl e che in ufficio avrebbe la foto del “Che”.
La Repubblica: “Il Tar boccia il decreto salva-liste”, “Lazio, respinto il ricorso Pdl: ‘E’ materia regionale, il governo non può intervenire’”. “La Polverini spera ancora: aspettiamo Corte d’Appello e Consiglio di Stato. Bonino: una boccata di legalità. Berlusconi: visto? Non era un golpe”. A centro pagina la notizia del via libera di Angela Merkel alla creazione di un Fondo monetario europeo per far fronte alla crisi dell’Euro.
Il Sole 24 Ore: “Un Fondo per Eurolandia”, “Bruxelles studia uno strumento per stabilizzare le crisi-Paese”. Sule Regionali: “Bocciatura del Tar, la lista Pdl resta fuori” e, accanto, un sondaggio Ipsos-Il Sole 24 Ore secondo cui in Puglia Nicki Vendola sarebbe avanti di 4 punti sull’avversario Palese.
La Stampa: “Il Pdl fuori gioco a Roma”, “Inutile il decreto interpretativo. Il Pd: ostruzionismo e sabato in piazza”. In prima pagina anche un retroscena che si sofferma sul Pdl e spiega che oggi Berlusconi riunirà capigruppo e coordinatori per mettere a punto una risposta. Questa volta, però, sarebbe d’accordo anche il Presidente della Camera Fini: “Berlusconi e Fini d’accordo: alzare il livello dello scontro”.
Il Riformista: “Il decretino fa flop” e, a centro pagina, “Il Tar riunifica il centrosinistra” e Bersani convince Di Pietro a togliere l’assedio a Napolitano.
Anche Il Foglio evidenzia che “il Tar boccia Polverini e il Pd (un po’) respira”: “Tutti contro il governo, nessuno contro Napolitano. E’ la Maginot di Bersani”. “Bonino tiene tutti sulla corda”.
L’Unità: “Bocciati”, titola raffigurando delle orecchie d’asino.
Tar
Spiega il Corriere che il Tar ha considerato inapplicabile il decreto legge varato dal governo perché “la materia elettorale è disciplinata da legge regionale”. E comunque, secondo il Presidente della sezione che ha così deliberato, “il decreto non sarebbe sufficiente, perché non è dimostrabile che i due rappresentanti del Pdl, alle ore 12.00 di sabato 27 febbraio fossero presenti nel tribunale con tutta la documentazione necessaria”.
Stefano Rodotà, su La Repubblica, analizza la sentenza e scrive che “se il primo rilievo sottolinea l’approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il pasticcio”. L’ex presidente della Consulta Valerio Onida, intervistato dal Corriere, conferma che la competenza in materia elettorale è passata alle Regioni con le modifiche costituzionali introdotte nel 2001 (federalismo, titolo V) e ricorda che l’ordinanza del Tar non è entrata nel merito: “il giudizio di merito avverrà solo dopo le elezioni. In questo modo il risultato elettorale rimarrebbe sub iudice e potrebbe essere annullato successivamente allo svolgimento delle elezioni stesse, come è avvenuto qualche tempo fa per le elezioni in Molise”. Per questo, secondo Onida, sarebbe forse più saggio rinviare le elezioni nel Lazio. Nella stessa pagina si scrive che il Viminale sarebbe pronto a rinviare il voto nel Lazio.
Il Corriere in un “dietro le quinte” racconta il malumore nel Pdl “dopo la norma autogol” e dice che tutte le speranze ora si concentrano sul Consiglio di Stato. E riferisce così il commento di Fini: “che figura”.
“Più politici e meno avvocati” è il titolo dell’editoriale di Marcello Sorgi sulla prima de La Stampa, mentre quello del Corriere è firmato da Massimo Franco (“Pasticcio (parte seconda)”.
Un editoriale de Il Foglio (“Pessimo formalismo giudiziario”) critica aspramente i giudici del Tar che “spingono il loro diritto a interpretare le leggi fino al limite di capovolgerle e non osservarle. I cavilli procedurali ai quali si sono appellati, il gioco di sponda formalistico con la Corte costituzionale, il derisorio rinvio alla decisione definitiva a dopo lo svolgimento delle elezioni, sono lampanti esempi di una arrogante volontà di far prevalere le formaità sulla sostanza”.
Libero si occupa delle conseguenze di quello che definisce “il golpe delle toghe”. E sonda gli umori dell’elettorato Pdl: “Allarme indecisi. Il Pdl rischia in tre Regioni” (Piemonte, Lazio e Puglia). E, ancora, secondo Libero: “Cuori azzurri delusi. Il nemico è l’astensione”. Il direttore Belpietro scrive : “noi abbiamo la sensazione che gli esperti di rilevazioni demoscopiche non stiano calcolando il rischio astensionismo, ovvero la volgia di molti elettori del centrodestra di disertare le urne per mandare ai vertici un segnale di scontento per quel che è successo”.
Iraq.
La Stampa intervista l’ex primo ministro iracheno Iyad Allawi, che ha ottenuto un buon risultato alle legislative irachene (anche se i dati definitivi arriveranno nei prossimi giorni). Allawi dice di essere disposto ad allearsi con la formazione guidata dall’attuale primo ministro sciita Al Maliki se quest’ultimo gli cederà la poltrona.
Su La Repubblica anche oggi il reportage di Bernardo Valli sotto il titolo: “Allawi, l’uomo del dialogo, ‘Le etnie per me non contano, in Iraq siamo tutti cittadini”’.
Anche Il Sole 24 Ore ha un inviato: “Alle urne il 62 per cento. Al-Maliki in vantaggio”.
E poi
Il focus del Corriere è dedicato a “Fede e politica”: “Duecento milioni di cristiani discriminati” (Rastrellamenti in Iraq, conversioni forzate nel Laos, la minoranza religiosa più perseguitata nel mondo”). Intervista a Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, che ricorda come in Nigeria le stragi non siano da attribuirsi a divisioni religiose, bensì a contrasti di tipo economico e sociale.
Di Nigeria si occupa Il Sole 24 Ore, con un articolo sull’uccisione dei 500 cristiani e un’analisi sul Paese in cui si è arrivati ad “uccidere in nome di Dio”.
Il Giornale intervista l’ex primo ministro spagnolo Aznar: “La Spagna di Zapatero è un eterno Carnevale”, distratto sulla crisi.
André Glucksmann critica il presidente Sarkozy per l’accoglienza riservata al suo omologo russo Medvedev nel corso della visita a Parigi (Corriere della Sera).
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Obama si dimentica il Giappone 09.03.2010
BORIS BIANCHERI
Dei Paesi che sono stati i grandi protagonisti della scena mondiale nell’arco di più di mezzo secolo, il Giappone è per molti aspetti quello più singolare: la sua economia ha rivaleggiato per innovazione e ritmo di sviluppo con quella americana, i suoi prodotti tecnologici e le sue auto hanno cambiato il gusto e le abitudini dei consumatori, il sushi domina le mense dei giovani e perfino la letteratura giapponese moderna, da Kawabata a Banana Yoshimoto, ha invaso le vetrine delle librerie di ogni continente. Il Giappone ha avuto il più basso tasso di disoccupazione e il più alto livello di pace sociale del mondo industrializzato e il suo prodotto lordo è ancora, alla fine del 2009, il maggiore in assoluto dopo quello degli Stati Uniti.
Eppure, da qualche tempo in qua, sul Giappone sembrano essersi spenti i riflettori. Nei grandi disegni multipolari che Barack Obama ha proposto al mondo, il Giappone non sembra avere un posto particolare. Nei vertici politici ed economici internazionali, nei vari G8 e G20 che si susseguono, raramente la posizione giapponese si fa sentire e ancor più raramente i grandi mezzi di informazione sembrano interessati a farsene eco.
Quando Obama ha fatto il suo viaggio in Asia nello scorso autunno, ci siamo chiesti tutti se la sua visita in Cina avesse segnato un punto a suo favore o se fosse stata un’occasione perduta. Ma della visita fatta allora in Giappone non si è quasi parlato, se non per i dissensi sulla base americana di Okinawa e perché il Presidente americano, a differenza di suoi predecessori, non ha fatto una tappa di omaggio a Hiroshima. E neppure a Copenaghen, dove le posizioni americane, cinesi, russe ed europee si sono confrontate apertamente, è emersa una chiara posizione giapponese.
Sono passati 40 anni, ma sembrano passati secoli, da quando Kissinger intuì che se non si fosse associato più strettamente il Giappone al binomio America/Europa attuato con la Nato, la partita con l’Unione Sovietica non si sarebbe vinta. Fu creata allora, e Gianni Agnelli fu tra i fondatori, la Commissione Trilaterale, quella singolare istituzione, a lungo e ferocemente odiata dai no global, dove la politica, gli affari e la cultura di tre mondi si incontrano attraverso personalità di fama e di potere. Ma cosa fa sì che oggi, invece, del Giappone si parli poco quando si pensa agli equilibri globali, infinitamente meno che della Cina, non solo, ma meno anche dell’India o del Brasile, ai quali pure il Giappone è finanziariamente e industrialmente tanto superiore?
Forse la risposta è che, mentre in questi ultimi venti anni il mondo è venuto trasformandosi, il Giappone è rimasto simile a sé stesso. La globalizzazione gli ha offerto l’opportunità di moltiplicare la diffusione dei suoi prodotti e delle sue tecnologie, ma non ha cambiato il suo animo. Parve che la nuova maggioranza di governo, che dopo essere stata dei liberali per 40 anni è passata con le elezioni dell’estate 2009 al Partito Democratico, avrebbe segnato un rinnovamento complessivo del Paese. Ebbene, quella maggioranza è già in difficoltà. Vecchie abitudini e anche vecchi mali riappaiono, figure come quelle del premier Hatoyama o del brillante Segretario Generale del partito Ozawa, sino a poco fa estremamente popolari, già sembrano appannate, mentre la burocrazia resta fermamente in sella. Un certo nepotismo, certe connessioni tra affari e politica, antichi difetti del sistema, riemergono anche nel Partito Democratico ora al potere. E perfino l’inamovibilità del posto di lavoro, che è stata sempre la chiave del modello giapponese, rivela i suoi lati deboli perché lo rende impermeabile al ricambio e all’arrivo dall’esterno di forze fresche e innovative. La colossale disavventura della Toyota – un vero nome/simbolo dell’industria giapponese – costretta a richiamare più di due milioni di veicoli dal mercato americano per difetti ai freni e il modo incerto e goffo in cui quella disavventura è stata presentata al pubblico, sono il frutto anche di un apparato industriale che più che guardare a ciò che di nuovo succede in giro preferisce guardare al suo proprio ombelico. E se proprio deve guardar fuori, volge gli occhi verso la Cina.
Sono mali che affliggono anche altri Paesi e altri continenti. Così i vecchi rapporti privilegiati finiscono. Che la distrazione con cui Obama tratta il Giappone, quasi dimenticando di avere in lui un potenziale partner della sua politica asiatica, e la distrazione con cui salta i suoi appuntamenti europei abbiano qualcosa in comune?
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Ronchey il signore dei fatti 09.03.2010
ARRIGO LEVI
Alberto Ronchey ci ha lasciato. Era più giovane di me di tre mesi, ed è ingiusto che tocchi a me ricordare lui, e non il contrario. Non mi riesce di accingermi a scrivere di Alberto con animo distaccato, obiettivo. Eravamo troppo amici.
E’ stato il migliore fra tutti i giornalisti della mia generazione, la prima generazione postbellica, ed è stato il compagno di una vita di giornalismo. Il mio primo pensiero, e il primo pensiero di mia moglie Lina, che per anni considerò Alberto il suo miglior amico, e il più intelligente, va a Vittoria, che è stata sempre al suo fianco, anch’essa rivelatasi inaspettatamente scrittrice.
Scrivere di Alberto è scrivere di noi. Non posso farne a meno, ricordo la sua vita, e ricordo anche la mia. Accade, a volte, che fra due giornalisti quasi coetanei ci si insegua, o ci si accompagni, negli stessi incarichi di lavoro. Accade anche che si finisca per condividere molte idee, molti interessi, molte simpatie o antipatie. Ed era il caso nostro, anche se lui era fra i due il pessimista, e io l’ottimista. Io ho sempre pensato che stesse un gradino più avanti e più in alto di me, inventore di un modello di giornalismo che tutti avevamo inseguito e cercato di fare nostro.
Siamo stati ambedue allievi di Gaetano Afeltra, un grande giornalista, estroso, pieno di invenzioni, che forse aveva visto in noi una certa «seriosità», utile nel brillante giornale della sera che aveva creato, il Corriere d’Informazione. Erano gli anni 50, avevamo la guerra, e la triste Italia fascista, alle spalle. Negli anni della clandestinità (io ero in Argentina e scrivevo i miei primi articoletti su Italia Libera), Alberto era stato giovanissimo direttore della Voce Repubblicana: il suo maestro di idee politiche e di vita era e rimase per sempre Ugo La Malfa. Ma quanti grandi politici, uomini di idee e di fede, avevamo per modelli e per maestri, da esaltare o da combattere: De Gasperi e Nenni, Togliatti e Saragat, e la leva dei più giovani, da Moro ad Amendola, da Altiero Spinelli a Pannunzio. Che Italia era quella! Aveva, per sua e nostra fortuna, perso la guerra, e tutto ci sembrava possibile. Quanta voglia di vivere, quante speranze, quanti sogni che d’un tratto diventavano realizzabili, nell’Italia della Repubblica, nell’Europa che si andava unificando.
Di quanti indimenticabili orrori eravamo stati testimoni. Ma avevamo di fronte a noi il mondo da scoprire, in un certo senso un mondo nuovo da costruire. Se alzavamo lo sguardo oltre confine, vedevamo dei giganti: da Winston Churchill a De Gaulle, da Adenauer a Roosevelt. Incominciava una nuova storia, ancora ricca di conflitti, ma anche di grandi disegni politici.
Nel giornalismo italiano, ci aveva preceduto una generazione straordinaria ricca di grandi personalità: Indro Montanelli, Luigi Barzini jr, Domenico Bartoli, Virgilio Lilli, Vittorio G. Rossi. Li giudicavamo giornalisti-scrittori, ci sembravano inimitabili ma ci sembrava anche di portare nel giornalismo nuovi interessi, e un nuovo stile, più cronistico, più analitico, più attento ai fatti dell’economia e allo scontro delle ideologie. A me toccò prima di succedere ad Alberto, come notista politico da Roma tra il ’59 e il ’60, per il Corriere d’Informazione, e poi di inseguirlo a Mosca, lui corrispondente della Stampa e io del Corriere della Sera. Fummo, con Alfonso Sterpellone, e poi con Enzo Bettiza, Frane Barbieri e Raffaello Uboldi, testimoni e cronisti della Russia di Krusciov, che si apriva a nuove speranze, con i giovani poeti che declamavano versi incandescenti nella piazza Majakovskyi, con Ilià Erenburg (lo si incontrava nel suo piccolo appartamento della via Gorkij, tappezzato di quadri di Chagall) che ricostruiva, finalmente, la vera storia degli uomini, degli anni e della vita sotto Stalin.
Alberto fece il lungo viaggio nei treni della Transiberiana fino al Pacifico, e discese la Volga da Mosca fino a Stalingrado. Io lo seguii qualche anno dopo, alla ricerca della periferia sovietica, fino alla Georgia. Avevamo, come amici e compagni di avventura e di scoperte, grandi giornalisti comunisti come Beppe Boffa e Maurizio Ferrara. Eravamo compagni, e amici per la vita, di grandi giornalisti occidentali come Michel Tatu di Le Monde o Marvin Kalb della Cbs.
Dopo Mosca, scrivemmo ambedue un libro sulla Russia di quegli anni (Alberto intitolò il suo La Russia del disgelo, una testimonianza rivelatrice), e poi volgemmo lo sguardo all’America di Kennedy, cronisti della crisi di Cuba ciascuno per il suo giornale. E poi fummo coautori per la Rai di una lunga inchiesta sull’«America del boom». I titoli dei libri di Alberto che seguirono sono rivelatori: Russi e cinesi, L’ultima America, il grande Atlante ideologico del 1973, Accadde in Italia: 1968-1977; e tanti altri, tappe di una vasta ricerca panoramica sull’Italia e sul mondo. Quando divenne direttore della Stampa lo seguii come inviato e notista politico ed economico, e quando lui lasciò la direzione di quello che era definito «un giornale d’autore», Gianni Agnelli chiese a me di succedergli, nel segno della continuità. Agnelli era più vecchio di noi di pochi anni, in qualche modo fu, oltre che uno straordinario, insuperato proprietario di giornale, un compagno di interessi, di curiosità, di vita.
Non posso allungare troppo questo mio ricordo, rischio di non finire più. Alberto fece in tempo a diventare ministro dei Beni culturali nei governi Amato e Ciampi, inventore, come elemento interpretativo della vita politica italiana, del «fattore K». Ma era un giornalista a tutto campo. Ancora oggi penso che il più bell’articolo di tutta la sua vita fu la cronaca della tragedia degli aviatori italiani massacrati a Kindu. Una curiosità giornalistica insaziata. Una scrittura concreta, intensa, inarrivabile. Un orrore del sensazionalismo. Un severo rispetto dei fatti. Un’intelligenza penetrante, una memoria invidiabile, una solidità di principi, di valori, di idee, di interessi che serviva un approccio concreto alle cose del mondo. Una volta mi disse che aveva sempre pensato alla morte. Non so se fu questo a fargli vivere con tanta intensità, con tanta vibrante intelligenza, con tanta passione tutta la sua vita.
Addio a Ronchey, giornalista europeo ALBERTO SINIGAGLIA
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“Serve un Fondo monetario europeo” 08.03.2010
Prende quota l’ipotesi di un maxi-ente per assistere i Paesi della zona euro in difficoltà. Berlino e Parigi d’accordo
BRUXELLES
Prende quota l’ipotesi di creare un Fondo monetario europeo (Fme) per assistere i Paesi della zona euro in difficoltà. Con aiuti che potranno essere concessi solamente in base a condizioni draconiane di risanamento. Bruxelles ci sta lavorando con Berlino e Parigi e domani il commissario Ue agli affari economici e finanziari, Olli Rehn, informerà i colleghi dell’esecutivo europeo – riuniti a Strasburgo – sulle discussioni in corso.
La Commissione Ue «è pronta ad avanzare la proposta», hanno assicurato sia il vicepresidente Antonio Tajani sia il portavoce del commissario Rehn. Proprio Rehn, in un’intervista al Financial Times Deutschland, ha lanciato l’idea dell’Fme, nell’ambito di un pacchetto di misure volte a rafforzare sia il coordinamento delle politiche economiche di Eurolandia sia la sorveglianza sui singoli Stati membri. Obiettivo: garantire la stabilità dell’unione monetaria ed evitare che si verifichino di nuovo emergenze come quella della Grecia, che finiscono per mettere a rischio l’intera zona euro. L’auspicio di Bruxelles è di presentare tale pacchetto entro l’estate, prima della fine della presidenza spagnola della Ue.
«Siamo ancora in una fase di discussione preliminare», ha sottolineato il portavoce di Rehn, ma è chiaro che non c’è molto tempo da perdere. Tutto dipende dal consenso che l’ipotesi di creare un Fondo europeo avrà tra gli Stati membri. Solo questo frena la Commissione Ue dal presentare una proposta già oggi. E se Francia e Germania trainano il progetto, c’è da sondare ancora l’accoglienza che la proposta avrebbe in altri Paesi. Un’occasione potrebbe essere il duplice appuntamento di lunedì e martedì prossimi con le riunioni di Eurogruppo ed Ecofin. È soprattutto Berlino – che a suo tempo bocciò la creazione di un fondo non volendo pagare per altri – a spingere ora con Bruxelles per la creazione dell’Fme. Il ministro delle finanze, Wolfgang Schauble – alla luce dell’emergenza Grecia e del rischio contagio ad altri Paesi – ha parlato chiaramente della «necessità di un’istituzione che disponga dell’esperienza dell’Fmi e di poteri di intervento analoghi».
Secondo alcune fonti ci sarebbe già un piano tedesco ben dettagliato, che prevede anche la possibilità per l’Fme di comminare «sanzioni severe» per i Paesi della zona euro troppo lassisti sul piano dei conti pubblici. Come, ad esempio, la soppressione delle sovvenzioni europee, il ritiro temporaneo del diritto di voto nel corso delle riunioni ministeriali dell’Ue, e persino l’esclusione provvisoria dalla zona euro. La Germania, insieme alla Francia, sarebbe favorevole anche ad una limitazione del ricorso ai credit default swap, gli strumenti finanziari attraverso cui alcuni Paesi – vedi la Grecia – hanno potuto “assicurare” i propri titoli pubblici, mascherando di fatto l’entità del proprio debito. Questa misura potrebbe quindi andare a finire nell’altro pacchetto di interventi in fase di elaborazione a Bruxelles. Pacchetto a cui sta lavorando in particolare il commissario Ue ai servizi finanziari, Michel Barnier, con misure che vanno dall’attuazione della riforma della vigilanza finanziaria alla stretta sugli hedge fund e sui prodotti finanziari più a rischio. Intanto, mentre anche il Portogallo, dopo la Grecia, adotta nuove misure correttive del deficit congelando i salari dei dipendenti pubblici, Tajani assicura come «l’Italia non è un Paese a rischio, (!) anche perchè – spiega – ha un buon sistema bancario e imprenditoriale». La valutazione del Programma di stabilità italiano da parte di Bruxelles è attesa per il 17 marzo.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201003articoli/52950girata.asp
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Draghi: “Regole contro gli speculatori” 08.03.2010
Il governatore di Bankitalia da Basilea: «No a regole uniche ma evitare rischi»
Trichet: «Continua la crescita globale (!)»
BASILEA
Non esiste una regola unica valida in tutto il mondo che possa evitare i rischi all’intero sistema causati da fallimenti di banche troppo grandi. Mentre il mercato dei Cds, che in queste settimane ha soffiato sulla speculazione causata dalla crisi della Grecia, crea una «forte insicurezza», può portare rischi all’intero sistema e va quindi regolato. Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi fa il punto dei lavori dell’Fsb, l’organismo da lui presieduto incaricato di scrivere le nuove regole della finanza mondiale e che a Basilea riunisce lo steering comitee in contemporanea con la riunione della Bri.
Draghi tiene una conferenza stampa dopo quella del presidente della Bce Jean Claude Trichet che, nella sua veste di presidente del Global Economy Meeeting ha ascoltato il polso della situazione mondiale dai rappresentanti delle banche centrali di mezzo mondo. «La crescita – afferma Trichet sulla base di queste indicazioni – continua a restare positiva (!)» e induce le autorità di vigilanza un poco ovunque, compresa la ’suà Bce, a ritirare con gradualità le misure straordinarie prese nell’apice della crisi per sostenere i mercati fornendo innanzitutto liquidità a pioggia. Una decisione che però, ammonisce Trichet, non deve essere male interpretata nel senso di un prossimo rialzo dei tassi. Dopo Trichet è la volta di Draghi che aggiorna sullo stato dell’arte dei lavori Fsb sui punti cardine: la riforma di Basilea 2 in tema di liquidità e capitale, il problema delle banche troppo grandi per fallire, le retribuzioni dei manager, il mercato Otc e la convergenza delle diverse regole di contabilità in Europa e Usa.
Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno un poco sparigliato le carte con la decisione di introdurre la regola Volcker, ovvero la separazione nelle grandi banche delle attività di investimento più rischiose a quelle tradizionali coperte dalla garanzia dello Stato. Per Draghi «l’agenda dell’Fsb va avanti» e le misure venute fuori in questi ultimi tempi come la regola Volcker ma anche le proposte per una tassazione aggiuntiva (che verrà discussa con l’Fmi) attengono più alle scelte dei governi e autorità nazionali che devono fare i conti con la loro situazione locale. Bisogna perciò contare su un terreno comune solido di regole e principi e un mix di misure che a volte sono uguali e obbligatori per tutti, come le norme di Basilea sul capitale, a volte no «come per la separazione delle attività o l’imposizione di una struttura legale» per le quali «l’armonizzazione è minima» . Proprio i timori di effetti negativi dall’introduzione di requisiti di capitale più alti e limiti per l’indebitamento hanno provocato critiche da parte di molte associazioni bancarie europee e americane.
Il ragionamento che circola nell’Fsb, spiegano diverse fonti interpellate, è che i problemi delle banche in Europa sono molto diversi fra loro, con Francia, Italia e Germania che hanno nessuna o poche banche coinvolte mentre la Gran Bretagna deve fare i conti con una diversa realtà. Per questo il settore bancario europeo dovrebbe attendere il varo delle misure. Per incentivare le banche a pensare a una visione più a lungo termine, anche tenendo conto che l’epoca dei bassi tassi non può durare all’infinito e che bisognerà rifinanziare una cospicua massa di debito privato, Draghi ritiene opportuno riaprire il canale delle cartolarizzazioni, «finito a secco» a seguito della crisi rendendo diverso rispetto a prima con più trasparenza e semplicità. Dove occorre mettere mano alla regolamentazione, anche se non è ancora chiaro come, è il mercato dei Cds: «quando qualcosa ha implicazioni sistemiche si può scommettere che si avrà una regolamentazione sistemica».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201003articoli/52951girata.asp
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La nuova Via della Seta dalla Cina all’Europa con i treni superveloci 09.03.2010
“Il cammino fantastico di Marco Polo tra Venezia e Pechino, durato anni, diventerà un trasferimento casa-ufficio da pendolari. La corsa della Cina a bruciare ogni primato del secolo scrive un capitolo nuovo”. E’ quanto scrive sulle colonne del quotidiano “La Repubblica” il giornalista Giampaolo Visetti.
di Giampaolo Visetti
Il cammino fantastico di Marco Polo tra Venezia e Pechino, durato anni, diventerà un trasferimento casa-ufficio da pendolari. La corsa della Cina a bruciare ogni primato del secolo scrive un capitolo nuovo. Entro il 2025 una rete di treni ad alta velocità collegherà l´Estremo Oriente all´Asia centrale e all´Europa. Per coprire l´antica Via della seta, aperta dalle carovane che lungo le stagioni scambiavano merci, persone e civiltà, basteranno tre o quattro giorni. E i container, per arrivare via terra da Amburgo a Shanghai, potrebbero impiegare meno di 48 ore. Il miliardario piano cinese non si limita a polverizzare i record della Transiberiana, ridisegnando anche il percorso del novecentesco viaggio-scoperta di Barzini tra Parigi e Pechino. Punta a realizzare la più vasta rete di supertreni del mondo, per congiungere in tempi sbalorditivi tutte le capitali euroasiatiche.
L´Orient Express, simbolo di lenta e romantica eleganza avventuriera, entro quindici anni sarà inesorabilmente consegnato al mito. Una trama di quasi quarantamila chilometri di nuovi binari di ultima generazione attraverserà 17 Paesi. Il “treno più lungo del mondo” sfreccerà a 350 chilometri all´ora, con la possibilità di tenere una media di 200 all´ora per i convogli privati “low cost”. «La Cina – dice Wang Mengshu, presidente dell´Accademia cinese di ingegneria – fornirà tecnologia, attrezzatura, motrici e carrozze. I costi di costruzione, per i Paesi che lo riterranno più conveniente, saranno compensati con energia e materie prime». Tre i progetti già in fase esecutiva. Una linea collegherà il Sud-Est asiatico, unendo Kunming, nella regione cinese dello Yunnan, a Singapore. Attraverserà Cina, Vietnam, Thailandia, Myanmar e Malesia. La seconda linea attraverserà l´Asia centrale. Da Urumqi, nello Xinjiang, si spingerà in Kirghizistan per raggiungere Ashgabat in Turkmenistan e Astana in Kazakhstan. Da qui, attraversando un lembo di Russia e l´Ucraina, arriverà fino a Budapest e a Bratislava. La terza linea, dalle zone minerarie della Manciuria, penetrerà nella Russia siberiana ed europea, in Bielorussia e Polonia, per terminare in Germania. Secondo il governo cinese entro vent´anni si potrà viaggiare in treni ad alta velocità da Singapore a Lisbona, spostandosi su carrozze-ufficio wireless tra il Pacifico e l´Atlantico. Presentando il piano, Pechino ha dichiarato che gli accordi economici sono già chiusi con la maggioranza delle nazioni coinvolte. Problemi tecnici, in via di soluzione, restano con Vietnam e Kirghizistan. «Anche India, Pakistan e Iran – ha detto il ministro dei trasporti – sono in trattative per entrare nel network ferroviario del secolo». L´alta velocità euroasiatica, con il prezzo dei voli in picchiata, non soddisfa prioritariamente la domanda dei passeggeri. Punta in realtà al traffico merci e alla nascita di nuovi poli industriali, ma soprattutto allo scambio di risorse naturali e delle cosiddette “terre rare”.
La Cina prevede che i supertreni renderanno conveniente lo sfruttamento di immense zone minerarie sotto il Baltico, nell´Europa orientale e in Asia centrale. La semicancellata Via cammelliera della seta cederà il passo alla nuova Via ferroviaria del gas, del petrolio e dei metalli essenziali per le nuove tecnologie. Myanmar, ad esempio, pagherà l´alta velocità cinese con i suoi giacimenti di litio, metallo essenziale all´industria elettronica. Pechino adotterà il suo noto “metodo africano”. In cambio di materie prime, indispensabili alla sua crescita, doterà di ferrovie all´avanguardia le potenze energetiche dell´Asia, un tempo dipendenti da Mosca. Obiettivo: inclinare verso l´Estremo Oriente il pendio politico che fino a oggi ha fatto scorrere l´energia verso l´Occidente europeo. La nuova diplomazia ferroviaria ad alta velocità non restituirà a Pechino solo la perduta centralità geografica. I supertreni, secondo il ministro delle Ferrovie, Liu Zhijun, spingeranno anche «centinaia di milioni di persone a trasferirsi a Ovest, in aree del continente oggi spopolate e ricchissime di risorse».
L´antico Impero di Mezzo vedrà sorgere nuove metropoli e consoliderà la leadership mondiale dei treni. Oggi vanta 33 mila chilometri di linee superveloci e 70 progetti in via di realizzazione. Entro il 2012 si troverà in Cina la metà dei binari ad alta velocità del pianeta, percorsa da oltre 800 convogli-missile che puntano verso Occidente. Non sono le orde di Gengis Khan: è la nuova frontiera dell´Asia, l´ultimo treno per l´Europa.
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Un referendum per il default. 07.03.2010
Le ridicole vicende greche hanno fatto distogliere l’attenzione su quanto accaduto in un altro paese, che e’ l’Islanda. Come ricorderete, l’ Islanda aveva scommesso molto sulla finanza di carta e al botto del credit crunch si era trovata sovraesposta e i cittadini pieni di debiti. Ma non solo: una delle loro banche , che di fatto pesa sul governo, era esposta finanziariamente in maniera enorme.
Quello che e’ successo e’ che inglesi e olandesi , ovvero i loro finanzieri, si sono presentati a battere cassa, pretendendo che dopo aver causato i disastri che ben conosciamo gli islandesi li finanziassero anche , come se il disastro fosse stato un’operazione in attivo.
Il primo ministro del luogo a quanto pare si e’ rifiutato di sbattere sul lastrico la popolazione islandese, e ha convocato un referendum, che ha vinto con percentuali bulgare.
In pratica, l’Islanda ha dichiarato default, e lo ha fatto con uno strumento democratico, che e’ il referendum. Questo atto probabilmente li portera’ fuori dall’ FMI (beati loro) e potrebbe , come dice l’articolo, creare dei problemi al loro accesso nella UE.
Ma non e’ qui il punto: il punto e’ che a loro e’ accaduto quanto accadde al Dubai. Non appena il governo dichiara default, i finanzieri si precipitano a trattare, e si accordano per una restituzione molto limitata dei soldi.
Cosa significa?
Se lo facessimo in italia, cosa che auspico da sempre, e annunciassimo che il governo NON paghera’ il debito pubblico, non succederebbe quanto accaduto in Argentina (ove la crisi che e’ seguita e’ stata dovuta ad ALTRI fattori e il default e’ stato semmai una conseguenza) , succederebbe esattamente la stessa cosa: i contraenti del debito si presenterebbero a roma a cercare un accordo , e probabilmente ci troveremmo a restituire si e no il 20% dei soldi, solo avendo un governo che faccia la voce dura, o che non abbia scelta.
Lo strumento del referendum, in effetti, e’ micidiale. Il debito pubblico in se’, non essendo materia fiscale, non e’ compreso nella norma costituzionale che vieta referendum sulla politica fiscale. Cosi’, e’ possibile anche in Italia organizzare un referendum che proponga al governo di NON pagare il debito pubblico. Una volta fatto il referendum, comunque lo gestisca il governo, il debito pubblico e’ esaurito.
Faccio presente che una volta fatto il referendum, non ci sarebbe bisogno di aspettare le sue conseguenze, perche’ il rischio sara’ cosi’ alto che gli investitori abbandonerebbero in massa i titoli di stato, o comprerebbero quantita’ enormi di CDS, ammesso che qualcuno glieli venda ad un prezzo decente , cosa che non e’.
Cosi’, e’ possibile portare il paese al default in maniera democratica.
Occorre che qualcuno, lavorando con un basso profilo, costituisca un comitato per il referendum contro il debito. Diciamo un referendum che, di punto in bianco, ridimensioni il deficit al 20% del suo valore attuale.
Questo deve essere fatto in sordina, quasi per passaparola, senza troppa pubblicita’ sui giornali, solo coi banchetti per le strade. In caso arrivi un giornalista, si fugge o si risponde “no comment”.
Poi si presenta il referendum alla consulta, e si aspetta che venga dichiarato attuabile. Una volta che la notizia finisca sui giornali, DI FATTO il referendum avrebbe aumentato il rischio cosi’ tanto che tutti molleranno l’osso e si precipiteranno a trattare.
Cioe’, il default e’ dichiarato nel momento stesso nel quale e’ ufficiale che potresti anche farlo; l’esito referendario e’ quasi irrilevante.
La cosa sulla quale vorrei essere chiaro e’ che non-succede-nulla. Come nel caso greco, come nel caso di Dubai, come nel caso islandese, a quel punto iniziano trattative su come gestire la cosa. Sapete perche’?
Perche’ di fatto la finanza e’ considerata molto piu’ potente di quanto non sia in effetti. Sinora il finanziere ti ha detto “se il governo non fa come dico io, allora ritiro gli investimenti e il tuo paese fara’ la fame”. Davvero? Dimentichiamo pero’ che se il tuo “investimento” consiste nella costruzione di una ferrovia, per dire, tu non ritiri proprio nulla. E anche se non fosse un investimento materiale, non e’ che hai investito nel mio paese per farmi un favore: hai investito perche’ ci guadagnavi, e se adesso non ci guadagnerai piu’, ai tuoi azionisti non piacera’.
Morale della storia: persino stati relativamente piccoli quali il Dubai o l’ Islanda possono sfidare la finanza, che quando lo stato alza la voce si presenta a coda bassa per trattare. Faccio presente che la somma dei debiti islandesi e’ circa 11 volte il PIL, cioe’ hanno un debito pubblico del 1100% del PIL.
In passato, l’ FMI ha prestato un sacco di soldi all’Islanda, quasi 6 miliardi di euro, tramite le banche socie di Giappone e di alcuni stati scandinavi. Il problema e’ che questo referendum forse mettera’ l’islanda fuori dall’ FMI, con il risultato che giapponesi e scandinavi rimarranno senza garanzie.(1)
Morale della storia: la finanza e’ debole, e si piega molto piu’ facilmente di quanto si creda, perche’ in fondo lavora su convenzioni e leggi, che i governi sono chiamati a far rispettare. Se non vengono rispettati, semplicemente i finanzieri si presentano col cappello in mano a trattare.
Per cui, direi che se qualcuno vuole formare un comitato che raccolga firme per il default, puo’ iniziare a rimboccarsi le maniche.
E no, non aspettatevi roba del genere da gente come Grillo, sanno solo fare ammuina.
Uriel
(1) Cosi’ imparano. Il prestito nacque perche’ i russi avanzarono l’offerta di un prestito da 4 miliardi di euro, potendo cosi’ espanedere l’area di influenza. L’ FMI si mosse facendo una controferta da 6 miliardi di euro, provenienti dalla banca centrale giapponese e da quelle scandinave.
http://www.wolfstep.cc/2010/03/un-referendum-per-il-default.html
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La verità sui voli della morte 04.03.2010
di Gigi Riva. Foto di Giancarlo Ceraudo
Un lungo lavoro investigativo. A cui ha partecipato anche un fotografo italiano. Ecco come sono stati ritrovati gli aerei e i piani di volo usati dalla giunta militare argentina per eliminare gli oppositori
Gli aerei della morte | Memoria, Verdad y Justicia | Archeologia del terrore | Reaparecidos
Otto nomi di piloti che tornano, con cadenza regolare, sulla ‘planilla para historial de aeronave’, il brogliaccio dove viene riportata tutta l’attività di un velivolo. Solo che lo Skyvan PA-51 non è un aereo normale perché quando era di proprietà della Prefectura Naval Argentina tra il 1976 e il 1983 è stato utilizzato per i ‘vuelos de la muerte’ con cui almeno 5 mila oppositori della dittatura militare sono stati gettati, tramortiti ma vivi, nell’Oceano Atlantico. Tornata la democrazia nel paese sudamericano, gli alti ufficiali della ‘junta’ hanno sempre sostenuto che quelle carte erano state distrutte. Trent’anni di bugie per coprire le responsabilità, a diversi livelli, di uno dei crimini più odiosi della storia recente. Invece i documenti, preziosissimi, sono riapparsi, in seguito a un lungo lavoro investigativo, durato tre anni in vari continenti, condotto da un fotografo italiano, una ex desaparecida e un ricco signore col gusto della verità.
Modello dell’aereo, numero di serie, giorno, itinerario, nome del comandante, durata della missione: tutto è stato registrato. E adesso è un formidabile atto d’accusa. I giuristi già le hanno definite “le carte più importanti sulla dittatura ritrovate negli ultimi dieci anni”. Un premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, e il ricco signore, Enrique Piñeyro, rampollo della famiglia Rocca, li hanno consegnati al giudice istruttore di Buenos Aires Sergio Torres, lo stesso che ha condotto le indagini che hanno portato al processo, in corso, sulla Scuola di Meccanica della Marina (Esma), luogo di tortura e detenzione dei ‘desaparecidos’ (un processo è in corso in Italia in contumacia). Torres ha già chiesto, per rogatoria, gli originali dei piani di volo che si trovano negli Stati Uniti (e vedremo come ci sono arrivati).
‘L’espresso’ ha avuto modo di visionarli e conosce i nomi degli otto piloti. Erano, all’epoca, giovani tra i 25 e i 35 anni, hanno poi lasciato la Marina e fatto carriera nelle compagnie civili. Alcuni sono andati in pensione, altri sono ancora in attività e due, dipendenti dell’Aerolineas Argentinas, sono comandanti su rotte intercontinentali.
Toccherà alla magistratura stabilire chi di loro era davvero al posto di comando dei voli della morte. Per questo tacciamo i nomi. Il sospetto, comunque, è che tutti fossero coinvolti. Perché una delle prerogative del regime era la condivisione dei misfatti: in modo da essere uniti, in futuro, nel patto scellerato dell’omertà. I protagonisti dell’inchiesta sul filo della memoria hanno rintracciato cinque ‘aerei della morte’. Buonsenso, intuito, pazienza e molta passione gli ingredienti che hanno prodotto il risultato.
La storia inizia tre anni fa quando il fotografo romano Giancarlo Ceraudo si stabilisce in Argentina e decide di iniziare un lavoro sulla dittatura. Trascorre mesi nei centri di detenzione illegale, Olimpo, Club Atletico, Esma, Virrey Ceballo, dove sono passati i trentamila desaparecidos, luoghi adesso gestiti da comitati e associazioni per i diritti umani. Ritrae i sopravvissuti, le stanze dove furono torturati. All’Olimpo, garage per la revisione delle automobili della polizia, in via Ramon Falcon, nella zona di Floresta, grazie alla sua curiosità vengono recuperati, in uno scaffale nascosto, dei fogli con le spiegazioni tecniche dei lavori sulle Ford Falcon, le famigerate auto usate dalle squadre della morte per i sequestri di persona. Un piccolo frammento del tempo che fu. Oltre che dai racconti, è influenzato dalla visione del film ‘Garage Olimpo’ di Marco Bechis, con quell’ultima scena in cui i carcerati vengono trascinati dentro un aereo che decolla. Un riferimento esplicito ai voli della morte. Di cui, quattro anni fa, si sapeva solo quanto riferito da quello che in Italia definiremmo un pentito,Adolfo Scilingo, trentenne capitano all’epoca dei fatti. Nel 1995 aveva raccontato al giornalista Horacio Verbitsky di aver partecipato a due voli della morte in cui furono ammazzati rispettivamente13 e 17 prigionieri. E aveva aggiunto: “La decisione dei voli fu comunicata ufficialmente dal viceammiraglio dell’Armada Mendìa pochi giorni dopo il golpe del 1976. Ci è stato spiegato che le procedure per lo smistamento dei sovversivi nell’Armada si sarebbero svolte senza uniformi, indossando solo scarpe da ginnastica, jeans e magliette. I sovversivi non sarebbero stati fucilati per non aver gli stessi problemi avuti da Franco in Spagna e Pinochet in Cile”. E circa il modo: “Erano incoscienti. Li spogliavamo e, quando il comandante del volo ci dava l’ordine, aprivamo le porte e li gettavamo, nudi, uno alla volta. Questa è la storia vera, nessuno può negarla”.
Scilingo aveva acceso una luce sulla pagina forse più buia della dittatura. Aveva fornito delle tracce per chi volesse andare a fondo, compresi i tipi di velivoli usati, gli Skyvan e gli Electra della Lockheed. Curiosamente, nessuno le aveva volute seguire. Giancarlo Ceraudo parte da lì, il suo progetto fotografico, chiamato ‘Destino final‘ (dalla formula usata dalle compagnie aeree di lingua spagnola per indicare il punto di arrivo di un viaggio), è quello, adesso, di ritrovare gli aerei e i piloti. Viene affiancato da una giornalista, Miriam Lewin, origini ebraiche, 53 anni, sequestrata quando ne aveva 19 perché simpatizzante peronista, tenuta prigioniera per un anno a Virrey Ceballo dalla polizia federale e poi venduta alla Marina dell’ammiraglio Emilio Massera, nome in codice ‘Zero’, e, grazie alla conoscenza delle lingue, usata come traduttrice di giornali stranieri. In quella posizione conobbe alcuni tra gli ufficiali più feroci comeJorge Acosta detto ‘El Tigre’, il tenente Alfredo Astiz, ‘Angel’, assassino infiltrato nei gruppi delle madri di plaza de Mayo. Miriam adesso fa la giornalista, conduce il programma ‘Telenoche investiga’ per la rete Canal 13. Una giornalista, un fotografo. Che hanno però bisogno delle conoscenze, anche tecniche, di un personaggio assai noto in Argentina e dai multiformi interessi: Enrique Piñeyro. Nato a Genova 53 anni fa, Piñeyro è contemporaneamente medico, pilota, attore, regista e produttore. Fu lui a denunciare la compagnia per cui lavorava, la Lapa (Lineas aereas privadas argentinas) per la cattiva manutenzione dei velivoli e una serie di irregolarità. E quando, poco dopo, un aereo Lapa cadde, fu incaricato di fare l’inchiesta.
Il terzetto è ben assortito ma il suo lavoro andrebbe assai più a rilento se non esistesse, nel mondo, un gruppo di persone che dedicano gran parte delle loro energie nel seguire, dalla culla alla tomba, il destino di qualunque oggetto abbia le ali. Salvo poi pubblicare su Internet una biografia completa di ciascun aereo. Grazie alla Rete non è così complicato sapere cosa ne è stato degli cinque Electra della Marina. Uno è caduto durante la guerra delle Falkland-Malvinas, un altro è precipitato nel sud del Paese. Di un terzo si sono perse le tracce. Ne restano due. Uno, nome Ushuaia, ha trovato ricovero nel museo dell’Armada nella base ‘comandante Espora’ di Bahia Blanca, come se fosse un cimelio di cui menare vanto. L’ultimo, Rio Grande, ha avuto un curioso itinerario. È rimasto fermo all’aeroporto Ezeiza di Buenos Aires finché un privato ha deciso di acquistarlo per farne un ristorante, senza peraltro conoscere quale fu il suo impiego. Per trasportarlo sino al Camino de cintura, Buenos Aires, dove attualmente si trova, ha dovuto spendere un patrimonio. I costi di ristrutturazione per modificarlo si sono rivelati così alti che la strada di periferia dove è parcheggiato, sotto la vista dei cittadini della capitale, è anche diventato il suo cimitero.
Con gli Electra i militari si liberavano degli oppositori, gettandoli dal capace portellone posteriore. Gli Skyvan, invece, avevano il vantaggio di avere un portellone ventrale, comodo da aprire. Di questi la Prefectura Naval ne aveva cinque. Uno pure abbattuto alle Falkland, un altro scomparso mentre tre vengono acquistati, nel 1995, dalla lussemburghese Cae Aviation, una compagnia che li noleggia anche alle Nazioni Unite. Quello con la sigla PA-53 è rimasto in Lussemburgo. Il PA-52 è stato venduto a una società inglese che lavora anche per il ministero della Difesa e ha finito di volare nel 2006. Sinora ha dato le soddisfazioni maggiori il terzo, Skyvan PA-51, girato nel 2002 alla Gb Airlink di Fort Lauderdale, Florida, Stati Uniti, che, sino ad alcuni mesi fa, lo impiegava per un servizio postale con le Bahamas. Un collega di Miriam Lewin di Canal 13, di base a Miami, è andato a vederlo. Senza altro intento se non fotografarlo. Forte è stato il suo stupore quando un addetto della Gb Airlink gli ha segnalato i numerosi documenti che, come vuole del resto la legge, lo accompagnano. I militari dicevano di averli distrutti. Invece no, eccoli. Parlano di quegli anni dal 1976 al 1983. I voli sospetti sono presto individuati. Ci vuole poco per un esperto del ramo come Piñeyro: “Ci sono dei tragitti da Aeroparque Jorge Newbery a Punta Indio (poco più di cento chilometri) che ci mettono 4.7 ore, cioè quattro ore e 35 minuti nel codice aeronautico. Lo stesso tempo che impiega un Bariloche-Buenos Aires, distanti 1.700 chilometri. Altri ancora Punta Indio-Punta Indio di 4.6 ore cioè 4 ore e mezza. Insostenibili. Senza contare che tutto coincide con le confessioni di Scilingo. Aeroporti usati, giorni, aerei. E oggi sappiamo anche dove i desaparecidos venivano scaricati in mare. A 500 chilometri dalla costa, seguendo la rotta sud-sud-est. E il tempo che ci vuole per quel tragitto corrisponde esattamente con quello indicato sui piani di volo”.
La scoperta è choccante. No, i militari non hanno distrutto i piani di volo. Perché avevano un senso profondo dell’impunità, perché credevano che quei brogliacci emigrati all’estero non sarebbero più stati ritrovati. C’è da mettere in moto la giustizia, adesso. Non sarebbe stato possibile sino al 2005 quando le leggi ‘de obediencia debida’ e ‘de punto final’, che avevano di fatto sancito l’impunità per torturatori e killer, sono state dichiarate incostituzionali e si sono potuti riaprire i processi. Ceraudo, la Lewin e Piñeyro scelgono un Premio Nobel come Adolfo Pérez Esquivel, torturato per 14 mesi durante la ‘junta’, come il personaggio di prestigio assieme al quale presentare la denuncia al giudice istruttore Sergio Torres. Gli consegnano un esposto con le fotocopie della ‘planilla para historial de aeronave’. Gli chiedono di acquisire gli originali attraverso una rogatoria internazionale da presentare immediatamente agli Stati Uniti (già fatto). Non c’è tempo da perdere, sono ancora in molti che temono quelle carte. E sono ancora potenti. La dittatura è finita 27 anni fa, ma per dirla con Piñeyro “solo nel 2015 quando se ne sarà andato in pensione anche l’ultimo generale, che all’epoca era magari un soldatino, le forze armate si saranno davvero ripulite”. Ancora, a suo giudizio, possono compiere nefandezze nell’ombra e “controllano una parte dell’informazione”. Di certo sono attive squadre della morte che agiscono con le stesse metodologie degli anni Settanta. Proprio legato a un processo riaperto contro Miguel Osvaldo Etchecolatz, ex direttore investigativo della polizia di Buenos Aires, coinvolto nella ‘Notte delle matite spezzate’ in cui scomparvero molti studenti di scuola superiore, c’è stato, nel 2006, il primo caso di un desaparecido durante la democrazia. Si chiama Julio Lopez, teste chiave dell’accusa. Anche il giudice di primo gradoCarlos Rosanzki ha ricevuto pesanti minacce anonime. Tutto questo non ha impedito di condannare il gerarca all’ergastolo. Stessa pena comminata, in primo grado, al cappellano della polizia federale Christian Von Wernich, ritenuto responsabile di sette omicidi. In corso, riprenderà a giorni, l’importante giudizio sulla Esma.
Le nuove carte aprono la possibilità di portare alla sbarra i piloti dei voli della morte. Nelle pance dei due aerei che stanno in Lussemburgo e in Gran Bretagna potrebbero nascondersi altri fogli preziosi. Per questo l’inchiesta continua. I parenti dei desaparecidos non hanno avuto nemmeno i corpi dei loro cari da piangere. Almeno vogliono guardare in faccia chi diede l’ordine di aprire il portellone: per buttarli in pasto ai pescecani.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-verita-sui-voli-della-morte/2122243//0
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Cure palliative e terapia del dolore, c’è la legge
Frida Roy, 09.03.2010
Il provvedimento che passa con 476 voti favorevoli e due astenuti, interessa più di 250 mila famiglie di malati cronici e 11 mila bambini e ragazzi (dei quali oltre il 50% è colpito da malattie tumorali). La legge mette a disposizione 150 milioni di euro per il triennio 2010-2012 che serviranno a creare su tutto il territorio una rete con centri specifici, reparti ospedalieri, hospice e centri pediatrici specializzati con operatori qualificati per le cure palliative e la terapia del dolore. Le Regioni inadempienti perdono i fondi
Programmi di cura individualizzati per malati e famiglie, risposte ad hoc per i più piccoli in ambito pediatrico, formazione del personale sanitario, obbligo per le Regioni di fornire standard omogenei in tutto il paese, pena la perdita dei fondi. Sono i punti cardine della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore approvata oggi alla Camera.
Via, dunque, alle novità, con un obiettivo principale: abbattere le differenze di accesso a queste cure che si registrano sul territorio. Ma tra le innovazioni della legge c’è anche un’attenzione specifica alle esigenze dei più piccoli, i pazienti pediatrici, e la semplificazione dell’accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore. In Italia sono oltre 250 mila i malati che erano in attesa di questo provvedimento, a cui si sommano 11 mila bambini. Il 70% di questi pazienti, è stato specificato oggi a Montecitorio, attualmente non gode delle cure adeguate.
ASSISTENZA IN RETE: La legge tutela “il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Le strutture che erogano questi servizi dovranno assicurare un “programma di cura individuale per il malato e la sua famiglia” tutelando la dignità del paziente “senza alcuna discriminazione”. Sul territorio saranno attivate due reti, una per le cure palliative e una per la terapia del dolore, monitorate dal ministero della Salute per garantire pari accesso a questi servizi a tutti i pazienti e su tutto il territorio.
Nei prossimi mesi saranno indicati i requisiti necessari alle strutture per fare parte delle due reti (requisiti che dovranno essere approvati in Conferenza Stato-Regioni) e sarà definito un tariffario nazionale per queste cure. Il ministero predisporrà apposite linee guida per promuovere e coordinare gli interventi regionali in materia. Chi non rispetterà legge e linee guida rischia di perdere fondi: in ballo c’è l’accesso al finanziamento integrativo del Servizio sanitario nazionale.
LA CAMPAGNA INFORMATIVA: Il ministero guidato da Ferruccio Fazio per il triennio 2010/2012 dovrà promuovere la “realizzazione di campagne istituzionali di comunicazione” per informare i cittadini sull’accesso ai programmi di assistenza. Lo stanziamento previsto per questo capitolo è di 50.000 euro per il 2010, 150.000 per il 2011, 150.000 per il 2010.
LA FORMAZIONE DEL PERSONALE: Ministero dell’Istruzione e della Salute dovranno indicare “specifici percorsi formativi” e istituire un master per preparare il personale.
IL MONITORAGGIO: Il ministero della Salute dovrà monitorare l’applicazione della legge, tenendo d’occhio, in particolare, lo sviluppo delle due reti, lo stato di avanzamento e le prestazioni erogate. Ogni anno sarà presentato un rapporto in Parlamento. Per il monitoraggio ci sono 150.000 euro stanziati per il 2010.
LE RISORSE: La copertura finanziaria della legge è di 1 milione di euro per il 2010, 1,3 milioni per il 2011, 300 mila euro per il 2012. Fin qui il denaro fresco. Ma per la “realizzazione delle finalità” del provvedimento viene anche vincolata per un importo “non inferiore a 100 milioni di euro annui, una quota del fondo sanitario nazionale”.
Dopo giorni di polemiche, oggi si registra la soddisfazione bipartisan per l’approvazione di una legge che avvicina il Paese a quegli standard di civiltà già presenti in gran parte d’Europa. Il sottosegretario alla Salute, Francesca Marini esprime la sua soddisfazione definendo la legge “innovativa ed importantissima” perché pone il tema del dolore quale “parte integrante e irrinunciabile del percorso terapeutico del paziente e che tiene conto del valore, della dignità e dell’integrità della persona”.
Dario Franceschini rivendica il lavoro di pungolo e di correzione portato avanti dai democrat: “Un grande vuoto è stato colmato grazie alla tenacia e alla determinazione del gruppo del Pd che questa legge l’ha voluta e sostenuta sin dall’inizio della legislatura”.
“Abbiamo preteso questa approvazione in ogni modo – prosegue il capogruppo Pd alla Camera – sfidando la maggioranza che ancora questa mattina si è rifiutata di accelerare l’iter del provvedimento. Ha persino tentato una volgare quanto inutile strumentalizzazione, peraltro subito smascherata. Ora questa proposta è finalmente legge i suoi benefici saranno a disposizione di migliaia di malati e di famiglie che da troppi anni vivono in condizioni di sofferenza”.
E, in effetti, quando ieri le opposizioni hanno annunciato la linea dura in Parlamento per protestare contro il vulnus arrecato dall’esecutivo con il decreto “salvaliste”, la maggioranza ha tentato di addossare a Pd e IdV la responsabilità di un rallentamento sine die della legge sulle cure palliative.
Di “demagogia della destra che non ha esitato ad usare cinicamente il dolore a fini di propaganda ideologica ” ha parlato oggi l’ex ministro della salute Livia Turco, oggi capogruppo Pd in commissione affari sociali della Camera.
“Grazie al lavoro che abbiamo fatto in commissione prima e in aula dopo – prosegue Turco – siamo riusciti a migliorare il testo rispetto alla prima versione. L’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore viene finalmente riconosciuto come un diritto per assicurare la dignità della persona umana, il bisogno di salute, l’equità d’accesso, l’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, la qualità delle cure e la loro appropriatezza”.
Questa legge, conclude Livia Turco, “si propone sostanzialmente di realizzare due diritti fondamentali: la libertà di scegliere il luogo in cui concludere la propria vita, sia esso la casa, l’hospice, l’ospedale o la casa di riposo e la continuità di cura, per assicurare in tutto il percorso di avvicinamento alla morte una presenza qualificata in grado di dare risposte tempestive ed adeguate. E’ una legge che merita certamente di più in termini sia di risorse economiche, che di formazione degli operatori e del necessario riconoscimento delle loro professionalità”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14363
Leggi anche:
Sorpresa: l’Italia apre alla produzione di Canapa Terapeutica
alla pagina https://adrianaemaurizio.wordpress.com/mediattivismo/mediattivismo-043/
e Il governo italiano mina l’unità europea sulle droghe
alla pagina https://adrianaemaurizio.wordpress.com/mediattivismo/mediattivismo-046/
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economisti, Giancarlo de Vivo, Il Sole-24 Ore, Keynes, Perotti
Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi
Giancarlo de Vivo* – 09.03.2010
Paul Samuelson alla morte di Keynes scrisse: “la Teoria Generale … è un libro scritto male, e male organizzato; qualunque non addetto ai lavori che l’abbia comperato ha sprecato i cinque scellini che ha speso … è arrogante, … abbonda in confusioni”, ma “quando alla fine uno lo capisce a fondo, la sua analisi risulta ovvia ed allo stesso tempo nuova. In breve, è un’opera di genio”. Come tale, possiamo aggiungere, rimane largamente misteriosa a molti economisti.
La pesante crisi in cui siamo immersi ha riportato alla ribalta il pensiero di Keynes, che fino all’altro ieri era trattato come un cane morto dagli economisti benpensanti. Perfino un membro del board della Banca Centrale Europea, organismo anti-keynesiano per costituzione, ha scritto che in certi casi non aver ascoltato Keynes ha dato “risultati disastrosi” (L. Bini-Smaghi, Il Sole-24 Ore, 25 febbraio). Qualche giorno dopo R. Perotti ha sostenuto (Il Sole-24 Ore, 28 febbraio) che Keynes era “uno dei grandi geni del XX secolo”. Secondo lui il grande contributo di Keynes sarebbe stato quello di “evidenziare il ruolo della spesa pubblica come strumento anticiclico”. Ma se questo fosse vero il contributo non sarebbe molto sostanzioso, e comunque nient’affatto originale: quasi 25 anni prima di Keynes, Pigou (oggetto degli strali di Keynes nella Teoria Generale) in un libro sulla disoccupazione aveva sostenuto che la spesa pubblica poteva essere efficacemente usata in funzione anti-ciclica. Perotti potrà liquidare questa osservazione come mera manifestazione di quelle preoccupazioni filologiche dei “keynesiani tradizionali” cui irride nel suo articolo, ma resta il fatto che c’è qualcosa che non quadra nelle sue idee su Keynes. Sarà poi per la mia difettosa conoscenza degli “sviluppi della ricerca economica”, ma mi sembrava che Perotti avesse costruito una parte della sua carriera accademica sostenendo la tesi che riduzioni della spesa pubblica fanno aumentare la domanda e quindi l’occupazione – il contrario del “geniale” contributo di Keynes.
Comunque, anche se Keynes era un genio, ci si dice, i suoi “nipotini” sarebbero degli sprovveduti (se non anche disonesti), che appunto ignorano “gli sviluppi della ricerca economica”, “hanno un’interpretazione selettiva della storia” (immagino voglia dire che fanno un uso selettivo della storia), e “non si confrontano con i dati”.
Per quanto riguarda gli “sviluppi” della ricerca economica, il problema è serio, ma forse non nel senso che sostiene Perotti. Ad esempio una parte non piccola degli “sviluppi” in macroeconomia negli ultimi decenni è consistita nella elaborazione e rielaborazione e sofisticazione di “modelli” basati sull’ipotesi di “agente rappresentativo”, escludendo quindi che mutamenti della distribuzione del reddito potessero essere rilevanti nell’equilibrio macroeconomico. Lo studio e l’uso di modelli di questo genere è stato per molto tempo considerato parte importante del mestiere di un economista “serio”, e con essi si sono vinte fior di cattedre di economia. Ci sono però economisti che non si sono mai dedicati a queste robinsonate, e le hanno ignorate. Finora essi erano a loro volta tranquillamente ignorati da una larga fetta della professione, che invece oggi sembra tradire qualche turbamento.
Sull’uso selettivo della storia da parte dei “keynesiani tradizionali”, Perotti sostiene che essi, nel loro “livore” anti-liberista, colpevolmente dimenticherebbero ad esempio il caso del Cile del ventennio dopo Pinochet, in cui “politiche neoliberiste” avrebbero fatto passare il paese “dal sottosviluppo a un’economia moderna, facendo allo stesso tempo enormi progressi contro la povertà”. E’ curioso però che egli non menzioni che il sottosviluppo, l’enorme povertà, l’enorme aumento delle diseguaglianze, e l’altissimo tasso di disoccupazione del Cile nel periodo precedente dovevano molto alle “politiche neoliberiste” di cui il Cile di Pinochet è stato un laboratorio. Forse l’uso selettivo della storia è più diffuso di quanto Perotti non si sia accorto.
I “keynesiani tradizionali” quasi mai, ci si dice, si “confrontano con i dati”, quello che saprebbero opporre ad analisi dei dati sarebbero solo “complicate digressioni filosofico-moraleggianti sulle supposte motivazioni ideologiche e mancanze etiche dei presunti oppositori”. Non è chiaro cosa esattamente Perotti intenda. Se per esempio si è appena richiamata l’esperienza del Cile di Pinochet non è per moraleggiare (anche se certo fa orrore il commercio avuto da Friedman e i Chicago Boys con Pinochet), ma appunto per ricordare i dati di quell’esperienza (che in fondo non sono che la rappresentazione economica di quell’orrore). Quanto all’uso (o mancato uso) dei dati: gli economisti keynesiani non hanno aspettato la crisi del 2008 per richiamare l’attenzione sui problemi posti dall’indebitamento privato, e sulla sua insostenibilità, una questione di cui i giovani leoni dell’economia erano spensieratamente inconsapevoli fino a ieri, nella loro ossessiva insistenza sui pericoli dell’indebitamento pubblico. La differenza tra gli economisti non passa tra quelli che si sporcano le mani sui dati e quelli che li ignorano, ma tra quelli che vedono i dati rilevanti e quelli che guardano allo svolazzare delle farfalle.
*L’autore è professore ordinario di economia politica nell’Università di Napoli “Federico II”.
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Pubblicità online, il sorpasso 09.03.2010
Nel corso del 2010, la raccolta dei media tradizionali sarà sensibilmente più magra. Le aziende statunitensi preferiscono ambienti più diretti e coinvolgenti come quelli online
Roma – Il 2010 sarà probabilmente un anno difficile per quelli che oggi vengono chiamati media tradizionali. Per la prima volta, gli investimenti pubblicitari online prenderanno il sopravvento su quelli dedicati alla carta stampata. Non si tratta certo di un sorpasso bruciante, ma di uno scavalcamento significativo, considerata una crisi da tempo in corso all’interno dei meccanismi economici dei media old school.
Questo leggero sorpasso è stato annunciato da una recente ricerca della società d’analisi californiana, Outsell. Per il suo studio, Outsell ha preso in considerazione circa un migliaio di inserzionisti a stelle e strisce, chiedendo loro quelle che saranno le concrete strategie di marketing sia per l’ambiente online che per quello tradizionale, offline.
Ne è emerso un quadro poco incoraggiante per riviste, emittenti televisive e radiofoniche. La previsione di spesa per la comunicazione in Rete mostra un sensibile aumento del 9,6 per cento, per giungere ad una cifra complessiva pari a quasi 120 miliardi di dollari (circa 90 miliardi di euro). Gli investimenti totali nell’advertising cartaceo diminuiranno invece del 3 per cento, per una cifra globale di circa 112 miliardi di dollari (quasi 83 miliardi di euro).
In termini percentuali – e sull’intera fetta del budget aziendale dedicato alla pubblicità e al marketing – le società statunitensi sfrutteranno il 32 per cento della spesa a disposizione per l’ambiente online, contro un 30,3 per cento per riviste e quotidiani. Un declino che coinvolgerà anche televisioni e radio, che scenderanno di 4 punti percentuali, ad un totale di 84,6 miliardi di dollari (circa 61 miliardi di euro) di raccolta pubblicitaria.
Sorpasso, dunque. Ma perché? “Gli inserzionisti stanno indirizzando i propri soldi verso quei canali che generano brand più efficaci – ha spiegato Chuck Richard, vicepresidente di Outsell – Mentre cercano di riemergere dalla recessione economica, gli inserzionisti hanno una maggiore responsabilità. Quindi sono alla ricerca di un numero più vasto di opzioni per distribuire i propri dollari”.
Secondo i dati di Outsell, la spesa complessiva nel settore dell’advertising aumenterà sensibilmente nel corso del 2010, dell’1,2 per cento per arrivare a 368 miliardi di dollari (270 miliardi di euro circa). Ma una sostanziosa percentuale di questi soldi si dirigerà verso gli ambienti online, preferiti sempre di più dalle aziende perché più diretti e coinvolgenti.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2829413/PI/News/pubblicita-online-sorpasso.aspx
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Geraldina Colotti: La guardia è stanca 06.03.2010
di Valerio Cuccaroni
Geraldina Colotti, La guardia è stanca, Ed. Cattedrale, Ancona, 2010, pp. 109, € 13,50
A cinque anni di distanza dal suo ultimo libro, Certificato di esistenza in vita, raccolta di racconti pubblicata da Bompiani, con La guardia è stanca Geraldina Colotti torna a interrogare, in versi stavolta («versi ciechi / di rabbia che consuma»), le coscienze dei lettori, sempre più incupite da «questo grigio tempo bastardo / che teme la vita».
Giornalista de «il manifesto», responsabile dell’edizione italiana del mensile «Le Monde diplomatique», reduce da 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse, Colotti è una di quelle scrittrici italiane di cui è impossibile trascurare la biografia, sebbene questa non oscuri mai l’opera, grazie a quel raro dono della leggerezza che permette all’autrice di evitare accuratamente le paludi dell’autobiografismo.
Così come in Certificato di esistenza in vita distanziava la materia della narrazione attraverso la finzione, nelle sue poesie, a partire da Versi cancellati (1996) e Sparge rosas (2000), Colotti dosa sapientemente la componente engagée con una vivissima e destabilizzante carica ironica.
Assolutamente non domestica, eventualmente si potrebbe definire carceristica (per decenni essendo stato il carcere la sua dimora), verrebbe da dire che Colotti è un poeta incivile, perché richiama continuamente, sottotraccia, la necessità di rovesciare il sistema. A partire dal sistema linguistico.
Le armi usate sono quelle dell’ironia, dunque, e della polisemia. L’ironia è la cifra dell’intera raccolta, ma esplode in tutta la sua perturbante carica soprattutto in una poesia che sembra parlare dell’igiene orale e, allo stesso tempo, alludere alla lotta armata: «Kit / Odontovax / Ricarica doppia / Azione totale / Ma attenzione / a non ledere / papille interdentali / […] / Semtex / Ricarica doppia / Pasta gengivale / Saltano corone / tremano poltrone / sotto il trapano» (Ricarica doppia). Gli oggetti di consumo si rovesciano in strumenti di contestazione, il linguaggio del supermercato diventa la lingua della poesia, secondo un procedimento teorizzato nel poemetto dada Le teste di Modì: «Luogo mio da cui / Non si vede luogo, / batti le mani e canta, / mia lingua rovesciata / afferra l’anima per la vita / portala con te al supermercato».
La polisemia, caratteristica intrinseca della lingua che si oppone all’univocità, diventa strumento per opporsi al pensiero unico: dal calembour, che toglie la parola all’avversario disarmandolo – «Contro il liberismo, / versoliberismo» (Poeticanti) – all’antanaclasi, che ha portata argomentativa – «Guerra santa in Terra santa» -, e alla paronomasia – «fai buon viso / al cattivo giogo» (Recinti).
In Sparge rosas il discorso era frammentario, formato da testi isolati, reperti di anarchia linguistica, gli unici possibili, del resto, quando ancora l’orizzonte era quello chiuso della Vita galera («Vita non vita / esercizi di stile / esercizi di bile»). Ne La guardia è stanca i giochi di parole, gli agguati al linguaggio sono inseriti in un piano di sviluppo: le sezioni Ai soli distanti, Le teste di Modì, Genova 2001, Palestina, Neve funzionano come altrettanti capitoli di un romanzo breve in versi, un romanzo di controinformazione, che, in forma ellittica, com’è proprio della poesia, dà conto non solo della sorte degli sconfitti (i soli distanti, i guerriglieri, i terroristi sconfitti, rifugiati a Parigi: «il sole inutilmente chiede asilo», in Rive gauche) ma anche, e soprattutto, delle nuove forme di ribellione e resistenza (le «rondini inquiete» di Genova 2001, i Palestinesi, i migranti dei Cimiteri marini, per i quali «La morte arriva puntuale / il mare a forza nove / entra nella stiva / porta alla deriva»).
La figura dominante non appartiene più a quelle di parola o di suono, come accadeva nelle raccolte precedenti, ma è una figura di pensiero: l’allegoria. I ragni, le rondini, la luna, le rose, i soli, il fiume, il deserto, i topi, che affollano La guardia è stanca sono altrettante figure allegoriche che simboleggiano strategie (i ragni), stagioni calde (le rondini), utopie (la luna), conquiste (le rose), rivoluzionari (i soli) e rivoluzione (il fiume), sconfitte (il deserto), tradimenti (i topi).
La guardia è stanca, sin dal titolo che richiama la celebre esclamazione con cui il marinaio anarchico bolscevico Zeleznjakov sciolse l’Assemblea costituente nella Russia liberata dell’ottobre 1917, si presenta come un appello ai nuovi figli di una delle tante ribelli del secolo scorso, «dee delle due di notte / dotte / o bollite a metà disperate / però simpatiche mi hai detto» (Amiche).
La situazione storica sfavorevole, del resto, non è ignorata («Dov’è il sacro / Se il dio degli assassini / Dentro il tubo catodico / Ha l’alito di vino? // Sotto i guanti il sangue / della democrazia imperante», Le teste di Modì), anzi è assunta come dato di fatto da cui ripartire: come recitano i versi conclusivi, è «Ancora inverno / nessun palazzo preso / ma abbiamo ancora inverno / per impastare neve» (Neve).
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/03/003379.html
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Italia: ‘Cinque domande all’Eni’ sulle attività in Congo Brazzaville 08.03.2010
Quattro testate giornalistiche indipendenti (Valori, Radio Popolare, Africa e Altreconomia) hanno lanciato nei giorni scorsi la campagna “Cinque domande per Eni” per chiedere risposte chiare ed esaurienti alla multinazionale petrolifera italiana sulle sue attività in Congo Brazzaville che minacciano gravi danni ambientali.
Si tratta di attività, in parte già in corso e in parte in programma, di esplorazione delle sabbie bituminose (terreno impregnato da quantità, anche ridotte, di petrolio, la cui estrazione è molto costosa e necessita tecniche ad alto impatto ambientale), produzione di biocombustibili e realizzazione di una centrale a gas da 350-400 Megawatt di capacità. Un intervento che vale 3 miliardi di dollari per il periodo 2008-2012, frutto di un accordo siglato tra Eni e il governo congolese nel 2008, i cui dettagli non sono mai stati resi noti al pubblico, né alle comunità locali nonostante Eni si fosse impegnata a coinvolgere la popolazione nelle proprie decisioni.
A rivelarne parte dei contenuti e a denunciare gli enormi danni che provocherà all’ambiente, in una foresta tropicale protetta, è stato un rapporto realizzato dalla tedesca Heinrich Boell Foundation e dall’italiana Campagna per la Rifroma della Banca Mondiale (Crbm), intitolato “Energy futures. Gli investimenti di Eni in sabbie bituminose e olio di palma in Congo Brazzaville” (la versione integrale in .pdf), presentato lo scorso novembre, prima a Berlino e poi a Milano.
Le due organizzazioni che hanno realizzato il Rapporto, insieme a rappresentanti della società civile congolese, hanno rivolto ad Eni le domande oggetto della campagna, ma non hanno ricevuto risposte. Dopo molta insistenza lo scorso dicembre Eni ha concesso loro un incontro, durante il quale però non sono state fornite le informazioni richieste.
Ecco le Cinque domande per Eni
Eni ha effettuato valutazioni dell’impatto ambientale del suo intervento nel Congo Brazzaville (in particolare dello sfruttamento delle sabbie bituminose)? Perché non sono state rese pubbliche?
Qual è la composizione e la quantità dei gas bruciati con il gas flaring (combustione dei gas che fuoriescono durante l’estrazione del petrolio) nel giacimento di M’boundi? È certo che non siano nocivi per le persone e per l’ambiente?
Eni ha dichiarato che l’accordo con il governo congolese permetterà di produrre di 2,5 miliardi di barili di greggio, mentre le autorità locali sostengono che verrà prodotto bitume per realizzare strade. Qual è la verità?
Eni aveva dichiarato che avrebbe promosso “una consultazione libera, informata e continua” con le comunità locali. Invece i dettagli degli accordi, firmati con il governo congolese (nel 2008) per i nuovi investimenti (3 miliardi di dollari), non sono pubblici né disponibili per le popolazioni locali. Perché?
Amnesty International ha pubblicato recentemente un rapporto molto critico sulle compagnie petrolifere che operano in Nigeria, che evidenzia “la povertà, il conflitto, le violazioni dei diritti umani e la disperazione” che hanno portato alla popolazione del Delta del Niger. Quali iniziative state portando avanti per implementare le raccomandazioni di Amnesty sulla Nigeria e per evitare che il Congo diventi come il Delta del Niger?
http://www.unimondo.org/Notizie/Italia-Cinque-domande-all-Eni-sulle-attivita-in-Congo-Brazzaville
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Il sole 24 ore in crisi nera 11.03.2010
A poco piu’ di due anni dal collocamento in borsa che frutto’ alla casa editrice 215 mln euro, il quotidiano confindustriale si prepara a chiudere il peggior bilancio della storia. Chi avrebbe immaginato che il Sole 24 Ore Spa sarebbe stato costretto a dichiarare lo stato di crisi e ad avviare un programma di prepensionamenti con cassa integrazione incorporata? Probabilmente nessuno.
A 27 mesi dalla quotazione, come riportato in MF, le azioni hanno infatti perso il 68% del valore. L’altro ieri e’ stato annunciato lo stato di crisi aziendale propedeutico ai prepensionamenti di una parte dei giornalisti. Per il quotidiano e’ cosi’ previsto il taglio di 31 redattori ai quali si aggiungono i 3 che in questi mesi hanno accettato lo scivolo proposto dall’azienda. L’accordo complessivo prevede il ricorso alla cassa integrazione straordinaria per i prossimi due mesi: i 34 professionisti prepensionati saranno quindi collocati in cig progressiva. A meta’ aprile l’assemblea che approvera’ i conti del Sole 24 Ore Spa dovra’ fare i conti con numeri devastanti (si parla di almeno 40 mln di perdite effettive con un crollo delle vendite superiore al 20%).
http://lamiaeconomia.blogspot.com/2010/03/il-sole-24-ore-in-crisi-nera.html
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I bambini vengono prima 12.03.2010
Massimo Gramellini
La Corte di Cassazione ha stabilito che un clandestino non può restare in Italia solo perché suo figlio frequenta la scuola. La tutela delle frontiere deve prevalere sul diritto del minore allo studio. Che dire? Comprendiamo tutto. L’applicazione rigorosa della legge e anche le reazioni di giubilo che si leggono sui blog: l’augurio è che i giubilanti siano altrettanto implacabili quando si discute di reati contro il patrimonio o di evasione fiscale. Però la comprensione si arresta davanti alla realtà della vita che, a differenza della legge, è fatta di carne. In questo caso della carne di un bambino. Il quale uscirà devastato da un’esperienza del genere, si sentirà assaggiato e sputato come una caramella guasta, quando in fondo la sua iscrizione a scuola era la prova migliore della volontà di integrarlo nella nostra comunità.
Anche ammesso che la maggioranza dei clandestini siano così spietati da venire in Italia con un bimbo in età scolare solo per turlupinarci (ma ne avete parlato con la badante di vostra madre?), rimane il fatto incontrovertibile che quel bambino è un bambino. E che i diritti dell’infanzia, in una società che voglia distinguersi da un agglomerato di selvaggi, dovrebbero ancora significare qualcosa. E’ un pensiero buonista? No, è un pensiero umano. E mi rifiuto di credere che questi tempi spaventati ci abbiamo reso così insensibili da non cogliere la differenza. Da non capire più la semplice verità inculcata da generazioni di educatori: i bambini vengono prima.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41
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Google e il Rinascimento digitale 11.03.2010
Stretta di mano tra il MiBAC e la Grande G: saranno circa un milione i volumi portati in formato digitale. Provenienti dalle biblioteche di Firenze e Roma, che avranno così la possibilità di sbarcare anche su Europeana
Roma – Un Rinascimento. Non solo inteso come periodo di rigogliosa fioritura delle lettere, ma anche come risveglio nella diffusione del sapere in formato elettronico. È la visione di Google, che ha recentemente annunciato sul suo blog ufficiale un accordo da molti definito storico. La ricchissima tradizione letteraria del Belpaese verrà digitalizzata e resa accessibile ad un più vasto pubblico di lettori.
I lettori italiani e stranieri potranno non solo rileggere classici da banchi di scuola come Dante e Petrarca, ma anche scoprire le opere più oscure di Guglielmo il Giuggiola o di Coluccio Salutati. Perché saranno circa un milione i volumi della più antica letteratura italiana a sbarcare negli archivi del progetto Google Books. Opere più e meno note, non coperte dal diritto d’autore, che verranno messe a disposizione della Grande G da parte delle principali biblioteche italiane.
“Si tratta della prima intesa a livello governativo che permette a un protagonista del web di accedere a un patrimonio librario nazionale”. È il primo commento rilasciato da Sandro Bondi, ministro per i Beni e le Attività Culturali, su un accordo di collaborazione per un massiccio progetto di digitalizzazione dei tesori (anche quelli più nascosti) delle biblioteche nazionali di Roma e Firenze.
Quella di Firenze, ad esempio, metterà a disposizione di Mountain View alcune rare opere scientifiche risalenti al periodo dell’Illuminismo, oltre ad una serie di opere letterarie del XIX secolo. Poi Roma, che fornirà i suoi gioielli cartacei, frutto del pensiero di Giambattista Vico, Keplero e Galileo Galilei.
Stando ad un comunicato stampa, l’accordo tra il MiBAC e Google prevederà dunque la digitalizzazione di circa un milione di volumi, 285mila dei quali sono stati già metadatati e catalogati dal Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN). Nei due anni successivi verrà poi completata la catalogazione dei volumi scelti, che saranno digitalizzati da BigG e quindi messi online. E sarà la stessa Grande G a farsi carico dell’intero costo di digitalizzazione, prevedendo inoltre l’allestimento di uno scanning center nel Belpaese.
“Questo accordo con Google, che definirei storico, si prefigge tre obiettivi – ha dichiarato Mario Resca, direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale – In primo luogo, digitalizzare e diffondere nel mondo parte dell’enorme tesoro librario italiano. In secondo luogo, conservarlo e preservarlo in eterno dagli agenti atmosferici e dall’usura del tempo. In ultimo, con la messa online gratuita di questo patrimonio, promuoviamo la conoscenza in tutto il mondo della nostra cultura, rendendola accessibile a tutti”.
Si tratta dunque di una stretta di mano che – almeno nella visione dei due attori in gioco – fornirà al Belpaese una nuova maniera per valorizzare i propri beni. E a Google una più che ghiotta occasione di accaparrarsi un patrimonio letterario come pochi al mondo. Ma c’è un’altra opportunità a disposizione del MiBAC: quella di approdare in maniera più consistente tra i meandri digitali del progetto Europeana.
Sempre secondo i dettagli principali dell’accordo, Google fornirà alle due biblioteche di Roma e Firenze le copie digitali di ciascun libro, così che possano a loro volta renderli disponibili anche su piattaforme diverse da quella di Mountain View, come appunto quella legata a Europeana.
Un’occasione da non perdere per BigG, in modo tale da espandere il suo parco di biblioteche, attualmente una quarantina, con quelle di Harvard e Oxford a fare da apripista. E anche un modo per esorcizzare le ostiche difficoltà incontrate lungo il cammino del progetto Book Search, a partire dal contenzioso attualmente in atto in terra statunitense sulle cosiddette opere orfane. Che non saranno incluse nel nuovo Rinascimento digitale nel paese tricolore.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2830888/PI/News/google-rinascimento-digitale.aspx
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Il sole “scalda” il nostro sistema immunitario 11.03.2010
La vitamina D fondamentale per attivare il sistema di difesa immunitario
C’è bisogno di più sole nella nostra vita. È quanto emerge da una ricerca dell’Università di Copenaghen che ha scoperto il ruolo di estrema importanza che la vitamina D, la cui fonte principale è appunto costituita dai raggi solari, svolge all’interno del sistema immunitario, attivando le cellule T (timo) del nostro organismo.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Immunology e riportato sul notiziario europeo Cordis, rivela che per mettere in atto il proprio compito protettivo le cellule T hanno bisogno di una certa percentuale di vitamina D nel sangue. Le cellule T sono un tipo di leucociti che reagiscono alle infezioni che si producono nell’organismo, ma per poterlo fare, per potersi trasformare da dormienti in attive, necessitano del fondamentale apporto della vitamina D, in assenza del quale rimangono “spente”. Ne spiega il funzionamento Carsten Geisler, professore presso l’Università di Copenaghen: “quando una cellula T è esposta a un agente patogeno esterno, essa attiva un dispositivo di segnalazione o ‘antenna’, noto come recettore della vitamina D, con cui cerca di individuare la vitamina D. Ciò significa che le cellule T hanno bisogno della vitamina D, altrimenti la loro attivazione cesserà. Se le cellule T non riescono a trovare abbastanza vitamina D nel sangue, neanche inizieranno a mobilitarsi”.
Come detto, la vitamina D viene “assunta” soprattutto attraverso l’esposizione ai raggi del sole, ma se ne trova traccia anche in alcuni alimenti, come il salmone, il tonno e lo sgombro, e, in dosi minori, nei formaggi, nel latte e nelle uova.
“Gli scienziati sanno da tempo che la vitamina D è importante per l’assorbimento del calcio e che essa sembra anche coinvolta in malattie come il cancro e la sclerosi multipla. Ma ciò che ancora non si sapeva è quanto sia fondamentale per l’attivazione del sistema immunitario”, ha dichiarato il prof. Geisler.
La ricerca potrebbe rivelarsi importante per capire meglio i meccanismi di funzionamento della risposta immunitaria dell’organismo: “i risultati saranno particolarmente utili nello sviluppo di nuovi vaccini, che funzionano proprio sulla base sia di abituare il nostro sistema immunitario a reagire che di sopprimere le difese naturali dell’organismo in situazioni in cui questo è importante, come ad esempio nel caso di trapianti di organi e malattie autoimmunitarie”.
Andrea Sperelli
http://italiasalute.leonardo.it/copertina.asp?Articolo_ID=10341
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Sorpasso socialista, schiaffo a Sarkò Ma un elettore su due non ha votato 15.03.2010
Crollo dell’Ump, sorpresa Le Pen. E l’astensionismo cresce al 53,5%
PARIGI
Dura sconfitta per il presidente Nicolas Sarkozy e il suo partito Ump al primo turno delle elezioni regionali in Francia, che si sono svolte ieri. Il partito socialista è diventato infatti la prima forza politica nel paese, al termine di uno scrutinio che ha segnato una ripresa del Fronte nazionale ed è stato caratterizzato da un forte astensionismo.
«I francesi hanno inviato un messaggio chiaro e forte, hanno espresso oggi il loro rifiuto di una Francia divisa e afflitta», ha dichiarato Martine Aubry (Ps). Il Partito Socialista precede l’Ump e i suoi alleati di circa due punti percentuali secondo Opinionway (29,1% contro il 27,3%) e di oltre tre punti secondo TNS-Sofres (30% contro il 26,7%). I socialisti non ottenevano un risultato così positivo dalle europee del 2004. Il blocco di sinistra (53,8%) distanzierebbe di quattordici punti l’insieme dei partiti di destra (40,4%) secondo TNS-Sofres.
Importante risultato per il Fronte Nazionale di estrema destra di Jean Marie Le Pen, che si è imposto come quarta forza politica del paese, con una percentuale di preferenze tra l’11,2% e il 12%: si tratta di un risultato superiore a quello ottenuto alle scorse elezioni legislative ed europee. Il partito centrista di Francois Bayrou, il MoDem, è uscito invece ridimensionato dal primo turno elettorale, con meno del 5% dei voti. In calo di quasi 5 punti anche gli ambientalisti di Europe Ecologie, guidati da Daniel Cohn-Bendit, che hanno ottenuto circa l’11,4% dei suffragi. Uno dei dati più rilevanti del voto è stato il forte astensionismo.
Il 53,5% degli elettori francesi ha scelto di non andare a votare, il 14% in più rispetto al primo turno delle regionali del 2004 quando era stato del 39,16%. Secondo gli analisti, questo dato avrebbe sfavorito soprattutto l’Ump di Sarkozy. L’astensionismo di oggi è comunque ben lontano dal quello registrato in Francia nelle elezioni europee del giugno scorso, quando il 59,37% degli elettori non si è recato alle urne.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201003articoli/53138girata.asp
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La fantasia è un bene ma non basta 15.03.2010
IRENE TINAGLI
Le tante storie di giovani che sfruttano la rete per realizzare delle idee imprenditoriali e per trovare un po’ di gratificazione personale ed economica non possono che mettere di buonumore.
Uno spiraglio di ottimismo contro tutti quelli che dicono che alla crisi non c’è scampo, e contro tutti quelli che dicono che i giovani di oggi sono pigri e incapaci di arrangiarsi. Ma al di là dell’istintiva simpatia questo fenomeno lascia trasparire una serie di elementi che dovrebbero stimolare una riflessione più approfondita soprattutto da parte dei nostri policy makers.
Il fenomeno dei wwworkers ci dice che tra i giovani c’è voglia di imprenditorialità, voglia di mettersi in gioco, e che questi ragazzi hanno idee, curiosità, che sanno usare le tecnologie non solo per chattare ma anche per tirarci fuori qualcosa di utile. Però ci dice anche che l’orizzonte di queste iniziative è molto limitato e che l’impatto che esse possono avere sulla struttura o il futuro dell’economia italiana sarà probabilmente di scarsa rilevanza. Si tratta per lo più di minibusiness che usano tecnologia e innovazioni, ma che non ne producono. In altre parole: non siamo di fronte alle famose storie di ragazzi che nel garage di casa sviluppavano nuovi software, sistemi operativi o motori di ricerca. Siamo di fronte a persone che usano una piattaforma Internet per vendere forme di pecorino o fissare appuntamenti per portare a spasso i cani dei vicini. Sono due cose molto diverse. Nel primo caso, c’è il potenziale per creare imperi economici che generano migliaia di posti di lavoro e che spostano di qualche metro le frontiere tecnologiche mondiali. Nel secondo caso, se va tutto bene, si creano le basi di un buon business familiare, che certo non è poco, ma che non darà all’economia e alla società del Paese quel contributo che hanno dato i giovani fondatori di Google, Facebook, Skype e simili.
Questo non significa che in Italia non ci siano giovani in grado di inventare una nuova tecnologia che possa cambiare il mondo, o di mettere in piedi un business innovativo o di creare un prodotto di respiro internazionale. Significa solo che i giovani che potrebbero o vorrebbero cimentarsi con queste imprese non vedono davanti a loro la possibilità di farlo. Non vedono interlocutori, non vedono intermediari, o forse semplicemente non hanno le informazioni e la formazione necessaria e non sanno come fare. Vedono solo muri, burocrazia e costi altissimi anche per muovere i primi passi. Meglio allora ridimensionare le ambizioni, saltare intermediari, banche e finanziatori e affidarsi alla rete. Meno promettente, ma più veloce, economica, senza bisogno di troppi permessi e carte bollate: se va va, se non va si cambia rotta subito. Questa è in molti casi la realtà italiana: ogni volta che un progetto importante richiederebbe il coinvolgimento di banche, pubblica amministrazione e di determinate «condizioni di sistema» si preferisce ridimensionare le ambizioni e ci si arrangia da soli. Ed è un vero peccato. Perché si potrebbe convogliare tutta questa energia, curiosità e voglia di fare in attività imprenditoriali più strutturate, con maggiori potenziali di crescita. Si potrebbero aiutare i giovani che abbiano questo desiderio di mettersi in gioco ad imparare come davvero si mette in piedi un’impresa a 360 gradi, così come ha fatto quella generazione di imprenditori che ha reso grande l’Italia. Una generazione che oggi, forse scoraggiata dalla crisi e da un sistema politico inerme, appare un po’ chiusa in se stessa e incapace di rigenerarsi per aprire una nuova stagione di prosperità, innovazione e ottimismo. E d’altronde è difficile pensare che il nuovo made in Italy sia rappresentato da un sito che vende prosciutti o cappellini fatti in casa. Questi ragazzi sono bravi, coraggiosi e ingegnosi, ma i loro piccoli o grandi successi personali, che ci auspichiamo sempre più gratificanti, non fanno che mettere a nudo un fallimento collettivo.
Web e partita Iva, così i giovani s’inventano il lavoro GIUSEPPE BOTTERO
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Ha inventato la macchina che vede i tumori: lo accusano di stregoneria 14.03.2010
di Stefano Lorenzetto stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
Clarbruno Vedruccio costruisce una sonda contro le mine antiuomo e scopre che interagisce col suo corpo. “Merito di un panino ingurgitato in treno e della gastrite”
Un tubo lungo 30 centimetri che permette di scoprire i tumori non appena cominciano a formarsi. Una sonda elettromagnetica che vede qualsiasi infiammazione dei tessuti. Un esame che dura appena 2-3 minuti, non è invasivo, non provoca dolore o disagi al paziente, e fornisce immediatamente la risposta. Un test innocuo, ripetibile all’infinito e senza togliersi i vestiti, che ha una precisione diagnostica come minimo del 70% ma, se eseguito da mani esperte, può arrivare anche al 100% di attendibilità. Uno strumento rivoluzionario, poco ingombrante, portatile, che si può usare ovunque e che non necessita di mezzi di contrasto radioattivi, lastre fotografiche o altro materiale di consumo. Un’apparecchiatura che si compra, anzi si comprava, con 43.000 euro più Iva, contro i 3-4 milioni di euro di una macchina per la risonanza magnetica, i 2 milioni di una Pet e il milione e mezzo di una Tac, tutt’e tre con costi di gestione elevatissimi.
Allora chi e perché ha paura del bioscanner, nome commerciale Trimprob? Non certo i potenziali pazienti, che potrebbero individuare per tempo la malattia. Non certo il ministero della Salute, che lo ha inserito nel repertorio dei dispositivi medici del Servizio sanitario nazionale. Non certo il professor Umberto Veronesi, che lo ha sperimentato nel suo Istituto europeo di oncologia di Milano e ne ha decantato la validità. Eppure la Galileo Avionica, società del colosso Finmeccanica, ha annunciato la chiusura della Trim Probe Spa, l’azienda che lo produceva e lo commercializzava, messa in liquidazione in quanto ritenuta non più strategica nell’ambito di un gruppo internazionale specializzato nei mezzi di difesa militare.
Questa è l’infelice historia di un cavaliere d’altri tempi, il professor Clarbruno Vedruccio, 54 anni, l’inventore del bioscanner, laureato in fisica e in ingegneria elettronica negli Stati Uniti, già collaboratore dell’Istituto di fisica dell’atmosfera del Cnr a Bologna e docente di metodologia della ricerca all’Università di Urbino, che nei tempi presenti avrebbe meritato i premi Nobel per la fisica e la medicina fusi insieme, se solo il mondo girasse per il verso giusto, e invece è costretto a prosciugare il conto in banca per tutelare la sua creatura.
Vedruccio è arrivato al bioscanner per puro caso, mentre stava fornendo tecnologia militare avanzata ad alcuni reparti d’élite delle nostre forze armate. Pur di non lasciarsi sfuggire un simile cervello, nel 2004 i vertici della Marina hanno rispolverato la legge Marconi del 1932, così detta perché fu creata su misura per Guglielmo Marconi, l’inventore della radio, che minacciava di passare armi e bagagli agli inglesi. Arruolato «per meriti speciali» nella riserva selezionata, con decreto del presidente della Repubblica, l’Archimede Pitagorico è diventato capitano di fregata ed è stato assegnato all’ufficio studi del Comando subacquei e incursori alla Spezia. Ha anche partecipato con l’Onu alla missione di pace Leonte in Libano, dove s’è guadagnato un encomio.
Quando nel 2004 una serie di fenomeni impressionanti – elettrodomestici che prendevano fuoco, vetri delle auto che esplodevano, bussole che impazzivano, cancelli automatici che si aprivano da soli – sconvolse la vita di Caronia, nel Messinese, la Protezione civile chiamò Vedruccio per trovare il bandolo della matassa. Lo studioso accertò che il paesino dei Nebrodi veniva colpito da fasci di radiazioni elettromagnetiche con particolari caratteristiche. Se oggi gli chiedi chi fosse a emetterle, si limita a tre parole: «Non posso rispondere». L’inventore abita con la moglie Carla Ricci, sua assistente, a pochi chilometri dal radiotelescopio Croce del Nord di Medicina (Bologna). Quando si dice il caso.
Nome insolito, Clarbruno.
«Viene dalla fusione di Clara e Brunello, i miei genitori».
Lei è un fisico. Perché ha accettato di diventare ufficiale di Marina?
«Non sono né guerrafondaio, né pacifista. Ma se la guerra si deve fare, si fa. Diciamo che la vita militare è la normalità, nella nostra famiglia. Sono nato a Ruffano, provincia di Lecce. Mio nonno materno, Ettore Giaccari, disperso in mare nel 1941, era il capo motorista dell’incrociatore Fiume, affondato dagli inglesi nella battaglia di Capo Matapan. Mio padre comandava la brigata costiera della Guardia di finanza. Sono cresciuto tra la caserma e il faro di Torre Canne. Nel gennaio 1958 precipitò in Adriatico un aereo F86 e papà si gettò a nuoto nelle acque gelide per salvare il pilota. Lo riportò a riva: purtroppo era già morto. Io passai l’infanzia fra i rottami di quel caccia militare. Ricordo ancora la carlinga, i comandi, la sala radio. Il mio amore per l’elettronica è nato lì».
E il bioscanner com’è nato?
«Nel 1985 collaboravo col battaglione San Marco. Mi fu chiesto se ero in grado di mettere a punto una tecnologia per intercettare i pescatori di frodo che di notte approdavano sull’isola di Pedagna, zona militare al largo di Brindisi. Le telecamere non potevano essere installate per la troppa salsedine e le frequenti mareggiate. Stavo lavorando a una specie di radar antiuomo, come quelli che gli americani usavano in Vietnam, quando mi accorsi che alcune bande di frequenza in Uhf, fra i 350 e i 500 megahertz, quindi al di sotto dei canali televisivi, interagivano bene con i tessuti biologici delle persone».
In che modo se ne accorse?
«Volevo sperimentare la possibilità di usare l’elettromagnetismo anche per rintracciare le mine antiuomo sepolte nel terreno: il rilevatore registrava qualsiasi discontinuità nella compattezza della sabbia fino a 20 centimetri di profondità. Mentre ero nel mio laboratorio, notai che sugli analizzatori di spettro una delle tre righe spettrali spariva completamente ogniqualvolta mi avvicinavo al banco di prova. Strano. Quel giorno avevo ingurgitato un panino col salame in treno ed ero in preda a una gastrite terribile. Mi si accese una lampadina in testa. Chiamai Enrico Castagnoli, ex radarista della Marina, mio vicino di casa, e gli chiesi come si sentisse in salute. “Benone”, mi rispose. Ripetei la prova su di lui: nessuna variazione di spettro. La conferma che cercavo».
Cioè?
«Allora non potevo saperlo. Ma avevo appena provato in vivo ciò che gli scienziati Hugo Fricke e Sterne Morse intuirono e descrissero nel 1926 su Cancer Research e cioè che i tessuti sani hanno una capacità elettrica più bassa, quelli infiammati più elevata, quelli oncologici ancora maggiore. In pratica il mio bioscanner consente di fare una specie di biopsia elettromagnetica, quindi incruenta, dei tessuti biologici, grazie a tre frequenze in banda Uhf, intorno ai 460, ai 920 e ai 1350 megahertz. In particolare, il segnale sulla prima frequenza interagisce con le formazioni tumorali maligne, evidenziando un abbassamento della riga spettrale».
E individua qualsiasi tipo di cancro?
«A eccezione delle leucemie. Ma i tumori solidi su cui abbiamo indagato li ha letti tutti. Ho visto alcuni carcinomi del seno con due anni d’anticipo sull’ecografia e sulla mammografia».
Chi è stato il primo paziente a sottoporsi all’esame?
«Un fisico britannico che era venuto all’Università di Urbino per un congresso. Gli ho scoperto un tumore alla prostata. Nei giorni successivi gli studenti di medicina, farmacia e veterinaria facevano la fila per sottoporsi all’esame e lo stesso i miei colleghi docenti. Io insegnavo a loro e loro a me. Nel 2006 ho portato la macchina in Libano durante la missione Leonte. È stato un altro screening di massa».
Ma chi garantisce che il test non faccia male e sia affidabile?
«Il bioscanner ha l’omologazione dell’Istituto superiore di sanità, che ne ha attestato la non nocività. Per ogni organo occorre poi una procedura di validazione presso enti accreditati dal ministero della Salute. Per le ovaie la sperimentazione avviata dall’Istituto nazionale dei tumori di Milano ha dimostrato un indice di sensibilità del 91%, il che è particolarmente confortante, trattandosi di una neoplasia che non dà sintomi e in genere viene scoperta quando vi sono già le metastasi. Nello stesso istituto sono stati testati i tumori del retto: siamo sull’89% di attendibilità. Le prove per la tiroide e lo stomaco-duodeno, eseguite nelle Università di Catanzaro e Genova e nell’ospedale maggiore della Marina militare a Taranto, si sono rivelate esatte al 90% e in due casi al 100%. I tumori della vescica, testati all’ospedale Vito Fazi di Lecce, hanno restituito un dato sicuro nell’89,5% dei casi. Per la prostata e il seno siamo al 72%».
Il margine d’errore a che cos’è dovuto?
«All’imperizia di chi esegue l’esame e alla fallibilità di tutti i sistemi diagnostici. Non dimentichiamo che anche un ecografo può sbagliare nel 45% dei casi: tanto varrebbe buttare in aria una monetina e fare a testa o croce. Da uno studio pubblicato sulla rivista Urology nel 2008, e relativo alla diagnostica della prostata, risulta che il bioscanner ha offerto un’accuratezza del 72% contro il 55% di un’ecografia transrettale, tanto invasiva quanto fastidiosa».
Gli amici si rivolgeranno a lei al minimo acciacco.
«Li dirotto verso gli ospedali. È troppo pesante scoprire che una persona ha un tumore e doverglielo dire all’istante. Se il Trimprob fosse dato in dotazione ai medici di base, si risparmierebbero miliardi di euro spesi per accertamenti diagnostici spesso inutili. Purtroppo è presente solo in 50 ospedali sui circa 2.000 esistenti in Italia».
E all’estero?
«Si trova in Giappone, Brasile, Malesia, Turchia, Iran, Regno Unito, Francia, Belgio. Ma da due anni la Galileo Avionica ha smesso di produrlo e io mi ritrovo a pagare le spese per il mantenimento del brevetto internazionale dalla Cina al Sudafrica, dall’India al Canada. Si tratta di costi largamente superiori al mio stipendio».
E dire che la Galileo Avionica era andata ad analizzare col bioscanner persino la prostata di Beppe Grillo…
«Credo che il Trimprob sia stato testato anche su Umberto Bossi, che ne ha parlato benissimo a Silvio Berlusconi».
Attrezzo bipartisan. «A questo punto come si fa a dire che l’esposizione ai campi elettromagnetici non ha effetti sulle persone?», s’è chiesto Grillo nel suo blog.
«Il Trimprob utilizza una potenza 100 volte inferiore a quella dei cellulari: 10 milliwatt contro 2 watt. Però bisogna essere onesti: l’industria non ha alcun interesse a divulgare le indagini che invitano ad applicare il principio di precauzione all’elettromagnetismo».
Non mi aveva detto che la non nocività del bioscanner è certificata?
«È così. L’esame dura poco o niente, non vi è un’esposizione cronica, e la frequenza ha uno spettro di assorbimento selettivo sui tessuti infiammati, non su quelli sani».
E i collegamenti wireless sono sicuri?
«Da elettromagnetista ho sviluppato una particolare sensibilizzazione ai campi elettromagnetici anche deboli. Mi sono accorto che il mio vicino di casa aveva cambiato il modem per collegarsi a Internet perché ho cominciato a dormire male. Ho acceso l’analizzatore di spettro e ho visto che aveva installato una rete wi-fi. Gli ho chiesto di spegnerla almeno di notte e sono tornato a dormire bene».
Il Trimprob rischia di rendere superfluo il lavoro dei radiologi?
«No. La diagnostica per immagini resta lo standard. Il bioscanner aiuta, dà il primo allarme. Per esempio, gli urologi che lo impiegano hanno ridotto di molto la prescrizione di biopsie».
Però manda in pensione le mammografie per prevenire il tumore al seno.
«Se vuole condannarmi a morte, scriva così».
Insomma, a quali specialisti dà fastidio?
«A tutti quello che non lo usano».
Qualcuno l’ha ostacolata?
«Durante un vertice all’Istituto superiore di sanità, al quale ero stato accreditato dall’Ieo del professor Veronesi, uno dei presenti mi ha detto: “Cos’è? Stregoneria?”. Gli ho obiettato che un’industria che produce cacciabombardieri difficilmente spreca tempo in riti vudù. Il bioscanner è la macchina del futuro. Ma capisco che sarebbe stato come parlare dei telefonini nel 1700».
Com’è possibile che l’Italia non riesca a sfruttare l’invenzione di un italiano?
«Vuol sapere una cosa? Sono un capitano di fregata precario. In Marina ho lavorato solo sei mesi l’anno, agli inizi senza stipendio. E dal 2 luglio sarò congedato perché compio 55 anni, che è l’età limite per far parte come ufficiale delle forze di completamento. Eppure questo è il periodo più fertile della mia vita di inventore: due brevetti depositati, fra cui un’antenna tattica omnidirezionale per collegamenti satellitari utilizzata dal contingente italiano in Afghanistan, e altri quattro già pronti».
Si sarà pentito di non essere rimasto negli Stati Uniti.
«A fuggire si fa presto. Rimanere a combattere in Italia, quello sì è da soldati».
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Dalla newsletter di Jacopo Fo, olio extra vergine d’oliva come ibuprofene del 13.03.2010
Gary Beauchamp, ricercatore del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia, stava partecipando a un meeting sulla cucina molecolare in Sicilia quando, assaggiando un cucchiaino di olio novello extravergine di oliva ha percepito al palato la stessa sensazione di pizzicore che si prova assumendo una dose di ibuprofene, uno degli antidolorifici non steroidei piu’ usati al mondo nel trattamento delle malattie reumatiche, con effetti anche antinfiammatori e antipiretici.
Tornato nel suo laboratorio, in collaborazione con il collega Paul Breslin, ha studiato, analizzato, messo nelle provette, sintetizzato, finche’ e’ arrivato alla scoperta: 50 grammi di olio di oliva, circa 4 cucchiai, corrispondono al 10% di una dose per adulti di ibuprofene da 800 mg, ma senza i suoi effetti collaterali: nausea, vomito, epigastralgie, sanguinamenti gastrici, vertigini, sonnolenza, cefalea… li elenchiamo tutti?
Avete mai sentito qualcuno star male cosi’ dopo una bruschetta all’olio?
Il segreto, pubblicato su Nature Reviews Rheumatology del dicembre 2005, e’ l’oleocanthal (oleocantale), componente finora sconosciuto, capace di inibire gli enzimi COX-1 e COX-2, gli stessi bersagli presi di mira dall’ibuprofene.
La sua struttura molecolare e’ uguale a quella dell’ibuprofene, dell’aspirina e di altri farmaci antinfiammatori detti FANS.
“La dieta mediterranea, della quale l’olio d’oliva e’ una componente centrale – ha dichiarato Breslin – e’ da tempo associata a molteplici effetti benefici per la salute, riducendo rischio di infarto e ictus, alcuni tipi di tumore e di demenza. Effetti benefici simili sono associati all’uso prolungato di alcuni NSAIDs come aspirina e ibuprofene”.
Considerate che l’assunzione regolare di aspirina a basse dosi e’ utilizzata anche nella cura e prevenzione di malattie cardiovascolari.
Tessute le lodi dell’oro verde, chiariamo un concetto: le cifre sopra riportate danno un’impressione sbagliata. Sembra che per assumere una dose di ibuprofene serva bere mezzo chilo di olio d’oliva ma non e’ cosi’.
Il consumo quotidiano di oleocanthal crea una condizione di “cambiamento della soglia del dolore” persistente, per cui e’ sufficiente utilizzare l’olio d’oliva come unico condimento per avere ben poco bisogno di ibuprofene.
In caso di dolori durevoli, mal di testa, fratture, distorsioni, basta aumentare un po’ il dosaggio.
Esistono diverse ricerche scientifiche che dimostrano come la dieta mediterranea alzi la soglia del dolore e non di poco!
Inoltre l’olio di oliva e’ un vasodilatatore naturale: favorisce la circolazione sanguigna attraverso vene e arterie e allo stesso tempo “alimenta” la massa muscolare.
Bibliografia: Beauchamp G et al. Ibuprofen-like activity in extra-virgin olive oil enzymes in an inflammation pathway are inhibited by oleocanthal, a component of olive oil. Nature 2005
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Lessig, la Rete, il bene e il male 12.03.2010
Il professore di Stanford parla alla Camera dei Deputati. E presenta la sua idea su come andrebbe accolta Internet nelle vite di tutti. Peccato solo che il suo messaggio non venga recepito, non da tutti almeno
Roma – C’era il pienone nella Sala della Regina a Montecitorio: i commessi della Camera dei Deputati erano perplessi, colpiti dalla fila formatasi all’ingresso del palazzo romano, erano colpiti dall’affluenza di un convegno come se ne sono visti tanti nei saloni del Parlamento romano. Potere della Rete: è finita che una manifestazione probabilmente pensata per un centinaio di persone al massimo ha prodotto il più classico degli overbooking, con gente rimasta in piedi, gente rimasta fuori, gente innervosita dalla fila e dai soliti furbi. Ma anche un piccolo buco organizzativo la dice lunga sul significato che Internet ha per molti cittadini italiani.
Lawrence Lessig, ospite d’onore chiamato a parlare della candidatura al Nobel per la Pace di Internet e introdotto da niente di meno che il presidente della Camera Gianfranco Fini, non ha deluso: il suo intervento, come sempre molto originale e molto curato (le diapositive che contenevano schermate raccolte dal Web erano aggiornate a poche ore prima), ha dipinto un quadro estremamente lucido e uno scenario estremamente preciso della situazione della Rete nel mondo, del problema regolamentare che coinvolge molte nazioni, dei fattori critici che fanno oggi di Internet un campo di battaglia per ridefinire molte delle questioni critiche che riguardano società e affari, del fatto che oggi Internet ancora non sia un’entità totalmente definita e compiuta.
Video: http://lessig.blip.tv/
L’ipotesi di Lessig, che risulta davvero difficile riassumere e liquidare in poche parole, riguarda la distanza tra le posizioni dei contendenti: secondo il professore, su Internet si ripropone il sempre attuale confronto generazionale tra chi il Web lo vede come uno strumento e chi invece lo percepisce come una minaccia. Da perfetto liberista, Lessig ricorda che non è lo strumento a fare la differenza, ma come lo si utilizza: e se è vero che per molti individui la Rete ha costituito uno strumento insostituibile per avviare una comunicazione altrimenti impossibile, per raccogliere e distribuire informazioni altrimenti imprigionate negli schedari di qualche ministero, per informarsi e informare su fatti più o meno noti, è altrettanto vero che lo stesso strumento ha posto dei problemi sul piano economico, sociale, legislativo.
E, da perfetto liberista, Lessig non propone soluzioni: si limita a indicare a noi tutti quale siano le reali problematiche sul tappeto, invitando a non inscenare crociate opportunistiche, a non permettere agli estremisti di controllare il dibattito. Occorre smetterla di “legiferare per noi”, dove per “noi” si intende coloro che tendono a voler conservare lo status quo della società e dell’industria, e cominciare considerare il fatto che tra 10 anni il panorama sarà dominato (numericamente e socialmente) da coloro che oggi sono considerati le pecore nere, i dissidenti, gli estremisti che ripongono troppe speranze nel futuro. Internet è, secondo Lessig, “uno strumento in grado di generare innovazioni impreviste e sconosciute”: non “libertà”, “innovazioni”, e sarà bene tener conto di questa differenza.
Internet, proprio come l’energia atomica, la polvere da sparo, la stampa e qualunque altra tecnologia sviluppata dall’uomo, è vincolata nel suo utilizzo alla natura del suo creatore/utilizzatore: se chi usa Internet lo fa per il bene, Internet produrrà il bene; e, viceversa, se lo fa per il male, il risultato sarà senz’altro negativo. Tornando alla pratica, gli esempi portati da Lessig sono tre: l’influenza della Rete su diritto d’autore, giornalismo e trasparenza. E, correttamente, il professore fa presente che non sarà semplicemente Internet a fornire le risposte alle problematiche sorte in questi tre settori, ma saranno le scelte che compiranno i cittadini e i loro rappresentanti a condizionare il destino futuro di questi tre capitoli.
In sostanza, l’approccio di Lessig è il seguente: se è vero che Internet promuove la creatività e la circolazione della cultura, promuove il fluire delle notizie e delle informazioni, promuove all’attenzione comune informazioni utili a giudicare l’operato dei governi, è altrettanto vero che il rovescio della medaglia si porta appresso problemi come la perdita economica dell’industria dell’intrattenimento, l’indebolimento dell’autorevolezza e della capacità investigativa dei giornali, il cinismo pregiudizievole nei confronti della politica.
Il professor Lessig butta sul campo queste considerazioni: non si può considerare Internet l’alternativa a qualsiasi altro argomento, Internet non può cancellare in un colpo solo la nostra storia e tradizione. Ma non si può neppure pensare di ignorare i cambiamenti che Internet ha apportato alla società, al mondo degli affari, a quello della cultura: la soluzione non arriverà (solo) dalle regolamentazioni governative, argomenta Lessig, e bisognerà tenerne conto. Tanto più che, lo ribadisce, Internet è qui per restarci: non si può cancellare questa tecnologia, come non si è potuta cancellare la stampa a caratteri mobili; si può solo criminalizzarla, finendo per acuire uno scontro generazionale che è destinato a “corrodere e corrompere” le regole della democrazia.
Internet va abbracciata, governo e cittadini devono impegnarsi a promuoverne gli aspetti positivi senza tentare di “combattere una guerra senza speranza” contro il cambiamento. “C’è bisogno di una governance matura e sana” conclude Lessig: peccato che, a seguire il suo intervento, si colga nella politica italiana molto poco di questa sanità e maturità auspicata. Non è questione di schieramento, è questione di comprensione: manca, da parte della classe dirigente italiana, una comprensione effettiva del fenomeno Rete come invece auspicato dal professor Lessig, e quanto ascoltato nelle due ore successive nel salone di Montecitorio ne è la prova.
Paolo Gentiloni, ex ministro delle Telecomunicazioni nella passata legislatura, attacca la criminalizzazione di Internet come ricettacolo della pedofilia e stigmatizza il filtraggio di interi domini: Massimo Mantellini ci ricorda che fu proprio lui, quando era in carica, a promuovere leggi ad hoc per entrambe le pratiche. Paolo Romani, attuale viceministro con delega alle Telecomunicazioni, fallisce nel comprendere appieno persino i meccanismi di filtraggio a posteriori di YouTube: interrogato sulla questione Vividown e sull’interpretazione del recente decreto che porta il suo nome, ribadisce l’intenzione di attribuire a Google la responsabilità per quanto transita sul suo portale di videosharing (in barba alla direttiva sul commercio elettronico).
Non c’è luce sui promessi 800 milioni di euro per la banda larga, pare solo di capire che lo scorporo della rete di Telecom Italia sia un’ipotesi ormai tramontata definitivamente, ma al momento non ci sono proposte alternative. WiMAX non pervenuto, ora il viceministro “ha sentito parlare da alcuni operatori di un’altra tecnologia chiamata LTE”, che a suo dire potrebbe essere interessante. In ogni caso, nonostante all’inizio della giornata Lawrence Lessig avesse ribadito che l’equazione Internet uguale Economia fosse sbagliata e dannosa, si torna a parlare proprio di quello: ci sono interessi economici in gioco (anche sulla banda larga), e sembra che questo possa prevalere su ogni tipo di considerazione riguardante un bene superiore, i vantaggi che la Rete può portare all’umanità.
L’invito contenuto nelle parole di Lessig a pensare e legiferare e regolamentare riflettendo su come verremo giudicati dalle future generazioni, a tentare di guardare ai problemi con la sensibilità di chi pensa al futuro e non al presente (o peggio, al passato), si scontra con le considerazioni di chi ritiene che oggi vista la crisi non convenga investire nella banda larga: meglio tenere i promessi 800 milioni, nel frattempo lievitati a 864, in cassaforte, ci sarà tempo in futuro per investirli in quelle tecnologie che invece potrebbero svolgere un ruolo importante per accelerare e semplificare l’uscita dalla crisi.
La battuta finale spetta ancora a Lessig, che in quattro parole liquida in un sol colpo la staticità del sistema italiano: “Grazie per non avermi chiesto nome e cognome per collegarmi a Internet” ironizza il professore, che aveva colto nel corso del dibattito alcuni riferimenti all’unicum italiano che prevede l’identificazione anagrafica per navigare con una rete WiFi. Ma questo, secondo il viceministro Romani, è un problema del ministero dell’Interno (e quindi di sicurezza) e non suo: come se lo sviluppo economico del paese non dipendesse dall’apertura e dall’approccio che governo, leggi e regolamenti hanno nei confronti della tecnologia. Ovvero del progresso stesso.
Luca Annunziata
http://punto-informatico.it/2832044/PI/News/lessig-rete-bene-male.aspx
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