Che cosa direbbe oggi Bobbio? 26.02.2010
Corruzione, scandali, disprezzo delle regole: alla vigilia delle «Lezioni» torinesi, troviamo nel pensiero del filosofo illuminanti coordinate per leggere la crisi della nostra società
MARCO REVELLI
«Solo il tiranno platonico può compiere pubblicamente anche quegli atti immondi che il privato cittadino o compie di nascosto o avendoli repressi si abbandona a compierli soltanto in sogno». E ciò perché solo sotto la tirannide il titolare del potere può sottrarsi al «criterio della pubblicità per distinguere il giusto dall’ingiusto, il lecito dall’illecito»; solo per il tiranno «pubblico e privato coincidono in quanto gli affari dello Stato sono i suoi affari e viceversa». In democrazia, invece, l’uomo di potere che inclinasse a simili comportamenti, si esporrebbe inevitabilmente allo «scandalo», che è, appunto, quel «profondo turbamento dell’opinione pubblica» che si genera nel momento in cui viene reso pubblico ciò che egli ha commesso sotto la copertura del segreto perché sarebbe stato del tutto inaccettabile se compiuto alla luce del sole.
Così scriveva nel 1980 – in tempi «non sospetti» – Norberto Bobbio, in un saggio sul «potere invisibile» destinato a entrare a far parte di uno dei suoi testi più celebri: Il futuro della democrazia. Il «potere invisibile» aveva colpito duro in Italia nel quindicennio precedente, con stragi, minacce golpiste, strategie della tensione, ricatti e frodi. Né si può dire che la corruzione «di potere» fosse fenomeno sconosciuto o pratica d’eccezione, nella cosiddetta Prima Repubblica. E tuttavia ancora gli scandali facevano tremare i governi. I politici colti in fallo si dimettevano. L’esigenza della trasparenza e il carattere pubblico dell’esercizio del potere erano valori, almeno formalmente, condivisi. Come la distinzione tra sfera pubblica e interessi privati. E come il contenuto universalistico del «principio di legalità». Nessuno, neppure coloro cui stavano stretti, avrebbe osato metterli in discussione nel pubblico dibattito o dall’alto di una carica istituzionale. Quelle osservazioni di Bobbio, pur calate in una incandescente attualità, mantenevano ancora, allora, il carattere in qualche misura «teorico» della riflessione intellettuale.
Ciononostante è a quegli scritti, disseminati lungo l’intero quarto di secolo seguente, che ci si può riferire ogni volta che, di fronte a una nuova «caduta» pubblica, viene quasi spontaneo domandarsi quale sarebbe stata la sua reazione. Essi ci hanno accompagnati nella turbolenta transizione al nuovo secolo, spesso nella forma dei folgoranti editoriali su questo giornale, chiarendo di volta in volta gli avvenimenti alla luce dei concetti e dei valori. Aiutandoci a orientarci nel labirinto della crisi italiana. Si pensi, per fare un esempio, al celebre articolo su La democrazia dell’applauso (pubblicato su La Stampa del 16 maggio del 1984) in cui lui, socialista convinto, si permetteva di attaccare frontalmente il «Capo» del suo partito: quel Bettino Craxi che si era fatto eleggere «per acclamazione» alla guida del Psi alla fine di un Congresso dominato con logica plebiscitaria. Vedeva, in quel gesto protervo, il signum prognosticum di un’incipiente deriva personalistica nella politica italiana; il riemergere della antica e mai spenta tentazione carismatica, che finiva per coniugarsi con il disprezzo delle regole e che tanti guasti aveva prodotto al Paese. «L’elezione per acclamazione – scrisse allora – non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica. E’ la maniera, che dopo Max Weber non dovrebbe avere più segreti, con cui i seguaci legittimano il capo carismatico; un capo che proprio per essere eletto per acclamazione non è responsabile davanti ai suoi elettori». E precisava: «L’acclamazione non è una elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua missione».
Difficile dimenticare, poi, pochi anni più tardi, nel giugno del 1992, quando a Capaci fu assassinato il giudice Falcone e divenne chiaro a tutti quanto la mafia fosse diventata potente, e in grado di sfidare le istituzioni, quella dichiarazione che fece scandalo, come uno schiaffo in pieno viso: «Mi vergogno di essere italiano». A cui fece seguire una dotta citazione del Leopardi dello Zibaldone: «Se noi vogliamo risvegliarci una volta e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere non la superbia né la stima delle cose presenti, ma la vergogna». E tuttavia, quando nel settembre del ’96 la Lega nord di Umberto Bossi aveva rilanciato la propria idea di «secessione» con la grottesca cerimonia alle sorgenti del Po, egli aveva avuto un moto, opposto, di ribellione e di orgoglio scrivendo (ancora su La Stampa) un articolo dal titolo Perché voglio restare italiano: «Sono atterrito dalla povertà degli argomenti di questi personaggi e dalla volgarità del loro linguaggio – vi affermava -. Se l’Italia diventerà uno Stato federale, io, abitante della Padania, continuerò a essere anche cittadino italiano».
Poi arriverà Tangentopoli. Il punto archimedico in cui lo «scandalo», nel suo impetuoso emergere alla luce del sole, giungerà a scardinare la fragile democrazia italiana. E Bobbio non nascose la testa sotto la sabbia. Da lucido «realista» formulò la propria impietosa diagnosi: «La repubblica, la “nostra repubblica” – scriverà nel 1994 – è finita male, anche se non nella violenza delle opposte fazioni, come spesso ci era accaduto di temere. E’ finita nel disonore, non di fronte al Tribunale della Storia, come finiscono le grandi epoche nel bene e nel male, ma, caso senza precedenti, credo, di fronte a un tribunale di uomini in carne ed ossa…». Era la Repubblica in cui lui, e i suoi compagni del Partito d’azione, fautori di una vera «rivoluzione democratica», avevano creduto nel 1945. Ora la vedeva in rovina, devastata da un «potere invisibile» divenuto tanto visibile da fare, appunto, vergogna; né – aggiungeva – la seconda repubblica che sembra nascere dalle rovine della prima «promette di essere migliore».
In realtà quello che lo sconcertava e sconfortava (Sconcertato e sconfortato è il titolo di una sua lunga intervista dell’aprile del 2000 su La Stampa) era la sensazione, per molti versi la certezza, del ritorno prepotente, aggressivo, travolgente di un’Italia incivile, antica e sempre rinnovantesi – la «sempiterna Italia dei furbi e dei servi», la definirà -, che la sua generazione aveva dovuto, con sacrificio, combattere, dopo averla sconfitta dentro di sé. Di quell’Italia – non è un segreto – Silvio Berlusconi era l’emblema. E Bobbio lo combatté fin dalla sua prima «discesa in campo». Non per ragioni «politiche». O «ideologiche». Ma per ragioni «di stile». Per un istintivo rifiuto «esistenziale». Lo indignava, nell’uomo, l’uso pubblicitario del «carisma», la vocazione «cesaristica» – «lui è l’Unto del Signore (e i vescovi italiano lo hanno lasciato dire), il suo principale avversario è un Giuda…; lui in pubblico, davanti a milioni di spettatori, per asseverare una sua verità, giura sulla testa dei suoi figli; lui è uno che “ha sempre ragione…”» – che aveva segnato a lungo, e avvelenato, la nostra «autobiografia della nazione». Contro quel «modello umano», così radicato nel «costume nazionale» – temeva -, non c’è politica capace di resistere.
Giunse, in un momento di particolare indignazione, ad associarlo all’antica figura del tiranno. Non perché perseguitasse gli avversari, o eliminasse i critici, ma perché, allo stesso modo dell’antico despota, questo «nuovo Cesare» si permette di mostrare in pubblico ciò che andrebbe pudicamente celato. Perché con lui (ma il fenomeno tende a contagiare ampie parti delle nuove «oligarchie») l’«invisibile» giunge a ostentare la propria visibilità, e per questa via si afferma come potere «assoluto». Perché, insomma, nel crepuscolo della Repubblica, lo «scandalo» cessa – se consumato in alto – di essere tale e diviene «normalità»: «Berlusconi in fondo, come il tiranno dei classici – scrisse -, ritiene che per lui sia lecito quello che i comuni mortali sognano. La caratteristica dell’uomo tirannico è credere di potere tutto». Certo il contesto, rispetto ad allora, è ulteriormente mutato, ma quelle parole vibrano ancora nell’aria. E chi si pone l’impossibile domanda – «come reagirebbe Bobbio?», «che cosa direbbe, oggi?» -, può trovare significative suggestioni tra ciò che scrisse ieri.
Lunedì prossimo, al Carignano di Torino, ha inizio il ciclo «Lezioni Bobbio 2010», tra le iniziative per il centenario della nascita del filosofo. Terrà la lectio magistralis Jean-Paul Fitoussi: «Diseguaglianze e diritti» (h. 17,30). Seguiranno, ogni lunedì, fino al 1° aprile, incontri su «Rivoluzione femminile», «Potere politico e popolo», «Stato e antistato», «Informazione e formazione dell’opinione pubblica». Abbiamo chiesto a Marco Revelli, curatore del Meridiano Mondadori «Etica e politica», di cercare nei suoi scritti «che cosa direbbe oggi Bobbio».
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 27 febbraio)
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La zampata del leone ferito
Stefano Rizzo, 26.02.2010
Obama non è un intellettuale idealista i cui sogni sono svaniti all’alba. E’ un politico accorto, circondato da professionisti della politica, ben deciso ad utilizzare tutti gli strumenti che il sistema politico e istituzionale gli mette a disposizione per portare avanti il suo mandato. E’ troppo presto per confinarlo al ruolo di anatra zoppa
Dopo lo shock della sconfitta in Massachusetts e la conseguente perdita di un cruciale seggio senatoriale, sembrò a molti che l’amministrazione Obama fosse precocemente spacciata. I commentatori scrissero che il primo mandato del nuovo presidente era praticamente finito e che d’ora in poi avrebbe dovuto mettere da parte i suoi ambiziosi programmi per non mettere a repentaglio la propria rielezione nel 2012. Insomma, anche Obama si apprestava a diventare un’anatra zoppa, così come era successo a Bill Clinton dopo la sconfitta elettorale del 1994.
Ma la storia non si ripete e Obama non è Clinton. Del resto, sarebbe stato ingenuo pensare che l’uomo che nel giro di poco più di un anno era riuscito a costruire una straordinaria macchina elettorale conquistando la presidenza contro tutte le previsioni, si sarebbe piegato di fronte ai primi insuccessi. Lui stesso e gli uomini che lo circondano sono non solo fortemente motivati, ma anche profondi conoscitori delle dinamiche politiche e istituzionali. E così, dopo alcuni giorni di riflessione, hanno messo a punto una nuova strategia, che ridimensiona sì gli obbiettivi della precedente, ma che non costituisce assolutamente una resa al nemico.
La prima componente di questa strategia è di affrontare la realtà per quello che è e non per quello che si vorrebbe che fosse. I repubblicani hanno respinto l’offerta di accordi bipartisan e conducono un’opposizione pregiudiziale e demagogica? Prenderne atto, ma allo stesso tempo continuare a tallonarli per dimostrare l’inconcludenza e l’irresponsabilità delle loro posizioni. I democratici, divisi tra “blue-dogs” moderati e “liberal” di sinistra, litigano e sono nervosi perché a novembre ci sono le elezioni e temono di perdere Il seggio? Prenderne atto e cercare la mediazione fino ad estenuarli, ma senza azioni di forza perché la loro sconfitta sarebbe anche la sconfitta dell’amministrazione. Il senato è regolato da norme assurde che impediscono che si arrivi ad una decisione se la minoranza si mette di traverso? Prenderne atto senza gridare allo scandalo e, semmai, cercare nelle procedure la via di uscita dall’impasse.
Nell’insieme si tratta di una buona dose di pragmatismo e di realismo politico. Il congresso è uno specchio, ancorché uno specchio distorto dalle pressioni delle lobby, degli umori popolari. E, stando ai sondaggi, oggi la gente è più preoccupata per il posto di lavoro e meno attratta dai grandi progetti ideali di quanto fosse 15 mesi fa quando elesse Barack Obama e la crisi economica ancora non si era manifestata con tutta la sua forza.
Quindi la seconda componente della nuova strategia è di concentrarsi sulla politica interna, soprattutto economica, mettendo in secondo piano la politica estera. Obama ha dichiarato chiusa e finita la guerra in Iraq (non lo è veramente). Dopo un lungo travaglio ha preso decisioni difficili sull’Afghanistan, ma adesso non ne parla più (appena una riga nel discorso sullo stato dell’Unione) e aspetta che — incrociando le dita — anche da là arrivi qualche segnale positivo per dichiarare vittoria e incominciare a ritirare le truppe. (Per il momento questi segnali non arrivano: solo una serie terrificante di uccisioni di civili).
La terza fondamentale componente della nuova strategia è la comunicazione. I repubblicani sono stati molto bravi con i loro “tea party”, hanno mobilitato il proprio elettorato, hanno conquistato l’etere televisivo e radiofonico. Sono in continuo movimento, anche se non vanno sopravvalutati (si calcola che al momento raccolgano il consenso di circa il 20 per cento dell’elettorato). E’ necessario però contrattaccare e contrastarli con la stessa efficacia comunicativa già mostrata in campagna elettorale. Nel prossimi mesi vedremo un presidente in giro per gli Stati Uniti per pubblicizzare le proprie iniziative e convincere la gente della bontà della sua leadership, della sua capacità di guida – che è in definitiva l’univa vera risorsa politica a disposizione di un presidente americano. Le premesse del resto ci sono, visto che la fiducia nel presidente (non l’approvazione) continua ad essere molto alta, ben superiore a quella verso il congresso.
La parola d’ordine (quarta componente) non sarà più “cambiamento”, troppo vago e “idealistico” per i tempi duri della recessione, ma “riforme”. L’idea è di lasciare da parte per il momento quelle grandi (immigrazione, riscaldamento globale) e concentrarsi su piccole riforme incrementali, che producano risultati tangibili e posti di lavoro: interventi di sostegno alla scolarità, finanziamento di progetti ambientalisti (il risanamento dei Grandi laghi), sviluppo di nuove fonti energetiche, ma anche messa in cantiere di nuove centrali nucleari bloccate da più di trent’anni, un piano per il lavoro con sgravi fiscali a chi assume e altri incentivi a chi non licenzia. E poi interventi “populisti” sulle banche, sul credito, sui mutui, sulla sicurezza sociale. Tutte cose da fare con i pochi soldi che il bilancio in rosso dello stato mette a disposizione, ma intanto incominciare a farle sperando che, una volta usciti dal tunnel della crisi, la ripresa economica dia in futuro più risorse.
Rimane la riforma sanitaria, fin qui la più grave battuta d’arresto della nuova amministrazione. All’inizio Obama ha lasciato lavorare il congresso indicando soltanto alcuni principi guida; strada facendo ha anche rinunciato ad alcune delle sue priorità (la famosa “public option”) e ha accettato di escludere gli immigrati clandestini dai benefici. Ma, nonostante tutte le mediazioni possibili e immaginabili, la riforma si è arenata.
Metterla da parte in attesa di tempi migliori, che potrebbero non venire mai, sarebbe stata una sconfitta sostanziale e simbolica che avrebbe pesato su tutta la sua presidenza. E così il colpo d’ala: ha presentato un proprio progetto di legge che recepisce in gran parte il lavoro già fatto sconcertando tutti coloro che già davano per morta e sepolta la riforma. Del resto, anche così nessuno può garantire che alla fine il progetto sarà approvato, semplicemente perché il presidente americano non ha i poteri che hanno i capi di governo dei parlamenti europei (ad esempio, non può porre la questione di fiducia).
Allora, un gesto disperato? suicida? Non proprio. Mentre stringe a un di presso i repubblicani perché escano dalle fumisterie e dicano esattamente cos’è che non va nella sua riforma, Obama ha fatto capire che ha in serbo un’arma segreta: quest’arma si chiama “reconciliation” ed è una procedura in base alla quale il senato può approvare a maggioranza semplice un progetto di legge che abbia implicazioni sul bilancio dello stato. Con la riconciliazione è possibile superare lo sbarramento dei due terzi e approvare la legge, purché anche i recalcitranti democratici si convincano a votarlo. L’unica incognita è che al momento nessuno sa quanta parte della riforma possa essere approvata in questo modo e quanta ne verrebbe esclusa.
Una strada difficile e incerta come tutto il resto della nuova strategia obamiana. Ma intanto chi pensava che il presidente si sarebbe rassegnato a vivacchiare per il resto del suo mandato dovrà ricredersi. Obama non è un intellettuale idealista i cui sogni sono svaniti all’alba. E’ un politico accorto, circondato da professionisti della politica, ben deciso ad utilizzare tutti gli strumenti che il sistema politico e istituzionale gli mette a disposizione per portare avanti il suo mandato. E’ troppo presto per confinarlo al ruolo di anatra zoppa: è semmai un leone ferito ancora capace di mordere (e disposto a farlo).
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14270
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Quel diritto di morire a casa 26.02.2010
Uno studio dell’Ospedale universitario La Paz di Madrid mette in evidenza i benefici della sedazione palliativa a domicilio. Intanto, in Italia, prevale un atteggiamento di diffidenza, mentre la legge sulle terapie a base di oppioidi è ancora in corso di approvazione
di Elisa Manacorda
Se in Italia si ricorre poco alle terapie a base di oppioidi, il problema è soprattutto, anche se non solo, socio-culturale. E non basterà una legge (quella sulle cure palliative e la terapia del dolore in lettura alla Camera e che dovrebbe ricevere l’approvazione nelle prossime settimane, vedi Galileo) a modificare un atteggiamento di diffidenza di medici e pazienti: i primi perché associano questi farmaci al rischio di dipendenza, i secondi perché intravedono l’idea della morte imminente. Così il nostro paese sconta una totale assenza di cultura sull’uso di oppiacei da almeno 150 anni. E tuttavia – come spera Furio Zucco, direttore del Dipartimento gestionale di Anestesia e Rianimazione Terapia del dolore e cure palliative dell’Azienda ospedaliera G. Salvini di Garbagnate Milanese – una legge che assicuri in ogni Regione, con criteri uniformi, il diritto a non soffrire negli ultimi istanti della propria vita, creando una omogeneità di comportamenti in un paese in cui la sanità federalizzata provoca ancora troppe disparità, è un primo passo avanti. Anche perché – continua Zucco – la normativa prevede, tra le altre cose, un’attività formativa e di sensibilizzazione per i medici, fondamentale per imparare a riconoscere e distinguere i diversi modi in cui può essere condotta la battaglia contro il dolore. Per esempio, aggiunge Zucco, quello oncologico, che ancora non è trattato al meglio, se è vero che molti specialisti ancora non riconoscono e non combattono adeguatamente il dolore episodico intenso (il Breakthrough cancer Pain) che affligge il 60-70 per cento dei malati con dolore da cancro.
Un altro punto critico delle cure palliative, che la legge dovrebbe almeno in parte contribuire a sanare, è quella che riguarda le cure palliative pediatriche. “Per molti anni le cure palliative non sono state prestate ai pazienti più piccoli”, spiegano i rappresentanti della Taskforce EACP per le cure palliative pediatriche, che con il sostegno della Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus ha organizzato a Roma un convegno sul tema. Colpa, anche in questo caso, di carenze organizzative, culturali ed economiche: i numeri sono comunque esigui rispetto alla popolazione adulta, visto che il tasso stimato di prevalenza per bambini e i giovani che possono richiedere servizi di cure palliative è di 10-16 per 10.000 abitanti di età 0-19 anni. Bambini e ragazzi malati di cancro (30 per cento dei casi), ma anche colpiti da malattie neurodegenerative, metaboliche e genetiche che minacciano la loro vita o che sono comunque causa di dolore grave. La nuova normativa dovrebbe invece riconoscere la specificità dei pazienti pediatrici, permettendo agli operatori di lavorare con strumenti legislativi più adeguati. “Una notevole porzione di bambini con malattie terminali muore in ospedale e/o in reparti per acuti, soprattutto in unità di terapia intensiva”, spiegano ancora dalla Fondazione. E questo ha un impatto grave sulla qualità della vita e della morte dei bambini e la qualità della vita delle famiglie. Eppure, uno studio canadese del 2006 (pubblicato dalla Canadian Hospice Palliative Care Association) indica che nelle regioni in cui le reti di cure palliative pediatriche sono operative, il numero di ricoveri ospedalieri e l’incidenza di morte in ospedale per i bambini e gli adolescenti sono notevolmente inferiori.
D’altra parte, anche per i pazienti adulti le cure palliative a domicilio sono un miraggio lontano, e non solo in Italia: anche in questo caso ci si scontra, oltre che con questioni culturali e organizzative, anche con la mancanza di uno standard procedurale. Tanto che un gruppo di ricercatori spagnoli, in uno studio retrospettivo appena pubblicato su Palliative Medicine, ha provato a definire delle linee guida in grado di sostenere i medici (e i pazienti, insieme ai loro familiari) nella scelta più opportuna nel singolo caso. Alberto Alonso-Babarro, dell’Ospedale universitario La Paz di Madrid ha esaminato i dati medici di 370 pazienti oncologici in fase terminale, tutti seguiti a domicilio da un team di palliativisti, verificando per ciascun caso la frequenza del trattamento, i farmaci utilizzati, e la loro efficacia. Tra i risultati del team spagnolo, due in particolare vanno sottolineati: la sedazione palliativa a domicilio, contrariamente ad un’opinione piuttosto diffusa, non accelera la morte del paziente, che avviene in media a 2,6 giorni dall’inizio del trattamento. E nei pazienti a casa, i farmaci per la terapia del dolore sono usati con una frequenza minore di quanto accada in ospedale, dove li riceve il 20-50 per cento dei malati terminali. Conclusione dei ricercatori spagnoli: la sedazione palliativa può essere usata con efficacia anche tra le mura domestiche, per assicurare al paziente una morte più serena.
http://www.galileonet.it/primo-piano/12471/quel-diritto-di-morire-a-casa
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Jet a spazzatura 26.02.2010
Uno studio su Science apre la strada alla conversione efficiente ed economica della cellulosa in idrocarburi per alimentare gli aerei. Intanto la British Airways prevede una flotta “bio”
I jet andranno a bio-carburanti. È la promessa che si legge tra le righe di uno studio pubblicato su Science: i ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison, hanno infatti sviluppato un processo economico per convertire gli scarti agricoli negli stessi idrocarburi liquidi che si usano oggi per alimentare gli aerei.
Le piante sono una immensa riserva di combustibile potenziale perché composte per la maggior parte di cellulosa, molecola che può essere “spezzata” in zuccheri e altri composti che, a loro volta, possono essere convertiti in carburanti. La prima parte di questo processo è stata già realizzata dai ricercatori del Laboratorio Nazionale Pacific Northwest del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che sono riusciti a convertire la cellulosa in Hmf (nome chimico: 5-idrossimetilfurfurale), un composto intermediario della produzione di surrogati “naturali” del petrolio (vedi Galileo).
James Dumesic, chimico dell’ateneo statunitense, aveva invece trovato un modo di realizzare la seconda fase. Dumesic aveva infatti trasformato l’HMF in alcheni, alcuni degli idrocarburi che si trovano nella benzina. Ma la trasformazione richiedeva intermediari costosi. Altro inconveniente: il processo non si arrestava da solo una volta ottenuto l’HMF, ma il composto continua a reagire per trasformarsi in due più stabili, l’acido levulinico e formico.
L’intuizione dei ricercatori è stata ora quella di non tentare di fermare la reazione all’HMF, ma di sfruttare i due acidi finali per trasformarli ancora in altri piccoli composti a forma di anello, chiamati gamma-valerolattoni (GVL, molecole oggi prodotte in piccole quantità che ritroviamo come additivo alimentare o nei profumi), che a loro volta possono essere trasformate facilmente e a basso costo nel gas butene. Più molecole di butene, poi, sono unite per ottenere proprio gli alcheni liquidi voluti.
Al contrario di come può sembrare, il processo completo è in realtà molto semplice e, soprattutto, riesce a trattenere il 95 per cento dell’energia di partenza (questione affatto secondaria dal momento che l’etanolo ha solo i due terzi dell’energia della benzina).
Questo processo produce anche anidride carbonica che però – sottolineano i ricercatori – ha delle caratteristiche tali per cui può essere trasformata, per esempio, in metanolo o ‘sequestrata’ all’ambiente più facilmente rispetto a quella che si libera in seguito alla combustione del carbone, mitigando così l’effetto delle emissioni di gas nell’atmosfera.
“La più grande barriera è il costo del GVL, perché fino ad oggi – spiega Dumesic – non c’è stato alcun incentivo a produrre in massa questa molecola. Ora che abbiamo invece dimostrato che è possibile convertire il GVL in carburante dovremo migliorare i metodi di produzione per poterlo ricavare direttamente da fonti rinnovabili come legno, scarti agricoli, e rifiuti alimentari”.
Intanto è di questi giorni la notizia che la British Airways (BA) sta preparando per il 2014 una flotta che andrà proprio a spazzatura. La compagnia aerea britannica ha già firmato infatti un contratto con la società americana Solena, per l’istallazione (a partire del 2011) ad est di Londra di quattro impianti in grado di trasformare rifiuti industriali e domestici organici in kerosene sintetico, sfruttando un processo chiamato Fisher Tropsch che consiste nel convertire monossido di carbonio e idrogeno (ricavati dalla ‘gassificazione’ dei rifiuti) in carburanti liquidi. La Solena prevede infatti di convertire 500.000 tonnellate di rifiuti l’anno in oltre 60 milioni di litri di bio-carburante, risparmiando all’atmosfera il 95 per cento dei gas serra che sarebbero emessi utilizzando il normale carburante (qui l’intervista video). (f.p.)
Riferimento: Science
http://www.galileonet.it/news/12463/jet-a-spazzatura
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Mambro & Fioravanti: stiamo con la Bonino. 27.02.2010
«Veniamo usati per fare colore»
Di quel milione e duecentomila euro con cui Gennaro Mokbel l’avrebbe tirata fuori dal carcere Francesca Mambro non parla. Ne parla invece suo marito Valerio Fioravanti, il fondatore dei Nar.
Tra le mille e seicento pagine d’ordinanza su Mokbel due nomi «eccellenti»: Mambro e Fioravanti.
Veniamo usati sì e no per far colore perché nella vicenda non abbiamo nessun ruolo se non un’amicizia – anche se amicizia è forse un termine un po’ eccessivo – risalente ai tempi dell’adolescenza tra Francesca e il suo vicino di casa, Gennaro Mokbel, che all’epoca era un ragazzino coi capelli lunghi sempre in mezzo ai guai.
Da allora non l’avete più rivisto?
L’abbiamo rincontrato per caso oltre trenta anni dopo, ormai ricco e sposato. Ricordo che mi disse: «devo molto a tua moglie perché da ragazzino ero molto sbandato e lei era l’unica che quando mi incontrava per strada mi sgridava e mi rimandava a casa».
Al telefono sostiene di aver pagato un milione e duecentomila euro per far scarcerare Francesca.
Noi di soldi non sappiamo niente. A tirarci fuori sono stati la nostra storia, magistrati sereni e i nostri avvocati che – purtroppo per loro – hanno lavorato gratis. Inoltre, se le carte sono vere, io e Francesca siamo «usciti» almeno quattro o cinque anni prima dell’improvviso arricchimento di Mokbel.
Ma perché Mokbel l’avrebbe detto?
Non lo so. Era una conversazione privata con un amico suo, non a fini politici. Bisognerà leggere meglio le carte e poi ce lo dirà lui. E comunque non ci vedo nessun complotto. Di certo non ai nostri danni.
Forse un accreditamento a destra?
Noi siamo le ultime persone al mondo utili per un qualsiasi suo accreditamento. Questo è un problema di politica alta e che riguarda politici importanti.
Non certo me e Francesca che siamo semplici impiegati del partito radicale che fanno un lavoro di terza fila nella campagna elettorale per la Bonino. E che siamo contenti di stare in terza fila. E di stare con la Bonino.
Pensi a una manipolazione?
Non da parte dei magistrati, forse da parte di alcuni giornalisti «sensibili» al clima elettorale. E’ una storia che ci dà molta tristezza ma che dal punto di vista giudiziario non ci riguarda assolutamente per niente
Le reazioni di Oliviero Diliberto
Bonino sì o no? Pillole di storia impresentabile, Mambro e Fioravanti
E’ indecente che pluriomicidi, condannati con sentenza passata in giudicato, collaborino, seppur in terza fila, alla campagna elettorale del candidato del centrosinistra del Lazio Emma Bonino.
Lo ha detto Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani dopo aver appreso che Francesca Mambro e Valerio Fioravanti collaborano alla campagna elettorale di Emma Bonino.
Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono per lo Stato italiano i responsabili del più grave eccidio di uomini, donne, anziani e bambini inermi che sia mai avvenuto nella storia repubblicana.
Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono stati condannati complessivamente a 17 ergastoli e la sentenza sulla strage di Bologna è passata in giudicato.
Lasciando da parte la strage di Bologna, strage fascista, ecco alcune delle altre imprese dei due collaboratori di Emma Bonino.
28 febbraio 1978.
Giusva Fioravanti ed altri notano due ragazzi seduti su una panchina che dall’aspetto (capelli lunghi e giornali) identificano come appartenenti alla sinistra. Fioravanti scende dall’auto, si dirige verso il gruppetto e fa fuoco: Roberto Scialabba, 24 anni, cade a terra ferito e Fioravanti lo finisce con un colpo alla testa. Poi, si gira verso una ragazza che sta fuggendo urlando e le spara senza colpirla.
9 gennaio 1979.
Fioravanti ed altre tre persone assaltano la sede romana di Radio città futura dove è in corso una trasmissione gestita da un gruppo femminista. I terroristi fanno stendere le donne presenti sul pavimento e danno fuoco ai locali.
L’incendio divampa e le impiegate tentano di fuggire. Sono raggiunte da colpi di mitra e pistola. Quattro rimangono ferite, di cui due gravemente.
16 giugno 1979.
Fioravanti guida l’assalto alla sezione comunista dell’Esquilino, a Roma. All’interno si stanno svolgendo due assemblee congiunte. Sono presenti più di 50 persone. La squadra terrorista lancia due bombe a mano, poi scarica alla cieca un caricatore di revolver. Si contano 25 feriti. Dario Pedretti, componente del commando, verrà redarguito da Fioravanti perché, nonostante il ricco armamentario “non c’era scappato il morto”. Che Fioravanti fosse colui che ha guidato il commando è accertato dalle testimonianze dei feriti e degli altri partecipanti all’azione, e da una sentenza passata in giudicato.
Ciononostante, Fioravanti ha sempre negato questo suo pesante precedente stragista.
17 dicembre 1979.
Fioravanti assieme ad altri vuole uccidere l’avvocato Giorgio Arcangeli, ritenuto responsabile della cattura di Pierluigi Concutelli, leader carismatico dell’eversione neofascista. Fioravanti non ha mai visto la vittima designata, ne conosce solo una sommaria descrizione. L’agguato viene teso sotto lo studio dell’avvocato, ma a perdere la vita è un inconsapevole geometra di 24 anni, Antonio Leandri, vittima di uno scambio di persona e colpevole di essersi voltato al grido “avvocato!” lanciato da Fioravanti.
6 febbraio 1980.
Fioravanti uccide il poliziotto Maurizio Arnesano che ha solo 19 anni. Scopo dell’omicidio, impadronirsi del suo mitra M.12. Al sostituto procuratore di Roma, il 13 aprile 1981, Cristiano Fioravanti – fratello di Valerio – dichiarerà: “La mattina dell’omicidio Arnesano, Valerio mi disse che un poliziotto gli avrebbe dato un mitra; io, incredulo, chiesi a che prezzo ed egli mi rispose: “gratuitamente”; fece un sorriso ed io capii”.
23 giugno 1980.
Fioravanti e Francesca Mambro uccidono a Roma il sostituto procuratore Mario Amato. Il magistrato, 36 anni, è appena uscito di casa; da due anni conduce le principali inchiesta sui movimenti eversivi di destra. Amato aveva annunciato che le sue indagini lo stavano portando “alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi”.
9 settembre 1980.
Mambro e Fioravanti con Soderini e Cristiano Fioravanti, uccidono Francesco Mangiameli, dirigente di Terza Posizione in Sicilia e testimone scomodo in merito alla strage di Bologna.
5 febbraio 1981.
Mambro e Fioravanti tendono un agguato a due carabinieri: Enea Codotto, 25 anni e Luigi Maronese, 23 anni. Dagli atti del processo è emerso che durante l’imboscata Fioravanti ha fatto finta di arrendersi. Poi ha gridato alla Mambro, nascosta dietro un’auto, “Spara, spara!”.
30 settembre 1981.
Viene ucciso il ventitreenne Marco Pizzari, estremista di destra e intimo amico di Luigi Ciavardini, poiché ritenuto un “infame delatore”. Del commando omicida fa parte Mambro.
21 ottobre 1981.
Alcuni Nar, tra cui Mambro, tendono un agguato, a Roma, al capitano della Digos Francesco Straullu e all’agente Ciriaco Di Roma. I due vengono massacrati. L’efferatezza del crimine è racchiusa nelle parole del medico legale: “La morte di Straullu è stata causata dallo sfracellamento del capo e del massiccio facciale con spappolamento dell’encefalo; quello di Di Roma per la ferita a carico del capo con frattura del cranio e lesioni al cervello”. Il capitano Straullu, 26 anni, aveva lavorato con grande impegno per smascherare i soldati dell’eversione nera.
Nel 1981 ne aveva fatti arrestare 56. La mattina dell’agguato non aveva la solita auto blindata, in riparazione da due giorni.
5 marzo 1982.
Durante una rapina a Roma, Mambro uccide Alessandro Caravillani, 17 anni. Il ragazzo stava recandosi a scuola e passava di lì per caso. La sua morte suscita scalpore anche perché il giovane viene colpito alla testa con un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo.
http://roma.indymedia.org/node/17494
Un commento anonimo:
Cosa ovvia …
Non credo che Fioravanti e Mambro, coi loro plurimi ergastoli, abbiano ancora il diritto di voto.
Ma che lavorino, sia pure in modo defilato, per la campagna della Bonino mi sembra cosa ovvia …. lavorare per il Partito Radicale è semplicemente il loro lavoro, di quel partito sono dipendenti regolarmente stipendiati …
Ed in particolare Fioravanti ( la Mambro è formalmente fuori per accudire il proprio figlioletto) deve proprio al suo lavoro per il Partito Radicale, ai cui “servizi sociali” è stato “affidato” dai magistrati, la sua situazione di libertà vigilata …
Dov’è la “rivelazione” ? Dov’è lo “scandalo” ?
http://roma.indymedia.org/node/17494#comment-21435
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3/3/2010 – INTERVISTA. LE RICERCHE DI GENEVIEVE VON PETZINGER: “UN INTRECCIO ANCESTRALE DI SIGNIFICATI SIA PRATICI SIA MAGICI”
“Il codice dell’Era Glaciale”
Ecco la prima scrittura dell’umanità, dall’Europa fino all’Australia
GABRIELE BECCARIA
E’ immensamente più eccitante del codice da Vinci. E’ il codice dell’Era Glaciale. Ventisei simboli depositati tra 30 mila e 10 mila anni fa dai nostri progenitori nelle caverne europee e africane e anche in quelle delle Americhe e dell’Estremo Oriente, fino in Australia. Mani spalancate e chiuse, cerchi e spirali, linee, punti e serpentine, triangoli, croci e scale, in un crescendo simbolico che fa baluginare la manifestazione di un pensiero globale: è questa la prima scrittura dell’umanità?
Genevieve von Petzinger, lei è PhD alla University of Victoria in Canada e la sua scoperta di 26 segni antichissimi è clamorosa: 26 come le lettere dell’alfabeto inglese.
«Quando ci ho pensato, mi sono detta: “No! Speriamo di trovare subito il 27° segno”. Ma, scherzi a parte, non si tratta di un alfabeto: sono segni pittografici».
Che indicano o alludono a che cosa?
«Sono segni astratti, che raffigurano qualcosa che non è immediatamente identificabile con una realtà concreta, come avviene con i cavalli o gli orsi dipinti sulle stesse pareti. Come si illustrano, per esempio, i concetti dell’amore o della morte, che i nostri progenitori possedevano, dato che seppellivano i morti in modi elaborati? In quegli angoli e in quelle linee a zigzag ci dev’essere stato un significato: rappresentano il primo tentativo di trattare delle idee e di comunicarle».
Le sue ricerche – che hanno fatto sensazione al meeting di paleoantropologia di Chicago – fanno pensare a un linguaggio universale.
«Credo che si tratti del tentativo di esprimere su un supporto un linguaggio parlato già esistente. I sapiens hanno compiuto viaggi straordinari, una volta usciti dall’Africa, anche per mare. Non possono averli compiuti senza aver intrecciato tante conversazioni. E non dimentichiamo che il loro cervello era identico al nostro».
Quei segni dove nacquero? In Africa o durante le migrazioni in Europa e in Asia?
«E’ uno dei problemi controversi e la scuola tradizionale ipotizza un’evoluzione. Ma una risposta, diversa, l’ho ottenuta quando ho messo insieme il primo database: è allora che mi sono resa conto che 19 segni su 26 erano già in uso 30 mila anni fa. E’ un fatto incredibile! E quindi probabile che si tratti di un’eredità che questi gruppi hanno portato con sé dall’Africa, ma è una questione da approfondire, per esempio indagando alcuni siti nell’Italia del Sud risalenti a epoche anteriori e poi estendendo l’analisi al resto dell’Europa. Si dovranno seguire le tante rotte migratorie e le testimonianze via via lasciate, senza dimenticare i percorsi commerciali, se si pensa che si sono trovati monili di conchiglie a centinaia di km dalle coste. Insieme con gli oggetti devono essere state scambiate anche tante informazioni. Le mie ricerche sono all’inizio: stanno toccando la punta dell’iceberg».
Lei sostiene, per esempio, che il cerchio fa parte dei segni ancestrali, mentre il simbolo «aviforme» è tra i «recenti».
«Sì. Quello a forma di uccello è raro e compare in Spagna non prima di 22 mila anni fa. Al contrario circoli e segni ad angolo sono tra i più universali».
In attesa di una «Stele di Rosetta» per la decifrazione, quali significati possono racchiudere? Vicini alla magia o alla realtà quotidiana?
«La mia sensazione è che ci sia un alto tasso di “dualismo”, con aspetti pratici intrecciati ad altri immateriali. E, comunque, il fatto di disegnare un’idea su una parete è di per se stesso straordinario. E’ un’espressione creativa, al di là delle preoccupazioni di mettere insieme il pranzo con la cena. Quanto ai significati specifici, non penso che riusciremo mai a scoprirli, a meno di avere una macchina del tempo. Ma c’è un ulteriore punto».
Di quale si tratta?
«Se per 20 mila anni sono state compiute scelte consapevoli allo scopo di replicare le stesse forme, il significato passa in secondo piano. Un fatto è certo: era una pratica importante ed ecco perché escludo che fossero segni casuali. E non solo. In ogni sito venivano usati alcuni gruppi di simboli e non altri».
Qual è il rapporto tra i segni e le tante pitture di animali? Sono contemporanei o no?
«In genere sembrano contemporanei, anche se in tanti siti si trovano strati multipli di occupazione e quindi le realizzazioni sulle pareti devono avere conosciuto fasi diverse. Segni e immagini, però, appaiono spesso abilmente integrati. Lo si vede con i punti e le mani aperte che circondano i cavalli nella grotta francese di Pech Merle, mentre un altro esempio è Lascaux: è impressionante il lavoro collettivo per l’organizzazione di immagini e simboli, per non parlare della quantità dei pigmenti, tanto che ci sono perfino gli indizi dell’uso di impalcature. La varietà delle soluzioni visive di ogni luogo è tale da suggerire la varietà degli scopi comunicativi».
Altro segno ricorrente è la «mano negativa»: perché lei lo ritiene tanto importante?
«Si trova ovunque, dall’America all’Australia: il fatto che ci siano alcune dita ripiegate fa ipotizzare che sia la rappresentazione di un linguaggio gestuale, forse inventato durante le battute di caccia, quando era fondamentale non spaventare le prede».
Può raccontare il momento in cui si è accorta che stava portando alla luce la «madre di tutte le lingue»?
«La prima volta? Nel 2005, quando ero studentessa: analizzando alcune immagini rupestri, ho notato piccole righe e punti e ho chiesto alla professoressa: “Di cosa si tratta?”. Lei scosse la testa: “Non ne ho idea!”. Ecco com’è cominciata la mia avventura».
Chi è Genevieve von Petzinger Archeologa
RUOLO: E’ PHD ALLA UNIVERSITY OF VICTORIA (CANADA). CON LA SUPERVISIONE DELL’ANTROPOLOGA APRIL NOWELL HA REALIZZATO LO SCREENING DI 150 SITI PREISTORICI IN FRANCIA
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Shinir Neshat: “Jafar è un artista eroico, non si farà imbavagliare” 03.03.2010
L’icona dell’intellighenzia iraniana: un Paese governato da barbari
FIAMMA ARDITI
NEW YORK
«È stato eroico. Niente e nessuno gli ha impedito di dire la verità». Shirin Neshat commenta l’arresto del suo amico regista Jafar Panahi: «Non si è mai lasciato intimidire dal governo anche quando gli hanno tolto il passaporto e lo hanno costretto ad essere prigioniero nel proprio Paese», osserva mentre si prepara a partire per Madrid dove il suo film «Women Without Men» sarà presentato domani al Museo Reina Sofia. Subito dopo arriverà in Italia per una gimcana di proiezioni in musei e cinema di Bologna, Napoli, Roma, Firenze, Torino prima di approdare nelle sale di 25 Paesi nel mondo.
La prepotenza del governo iraniano cresce, non crede?
«Non mi sorprende, stanno facendo tutto quello che possono per intimidire la nostra gente, gli artisti, per metterli a tacere. Molti, però, come Jafar Panahi, che è una persona meravigliosa, si rifiutano. Lo avevano già arrestato in luglio perché sosteneva la rivoluzione verde e partecipava ai funerali delle vittime del governo per le strade di Teheran, poi gli hanno negato il visto per andare al festival di Berlino, così, infastiditi dal suo coraggio, lo hanno arrestato di nuovo».
È sorpresa di quanto sta accadendo?
«Niente affatto. È la conferma di quanto sia barbarico il governo iraniano. Irrompere in una casa, arrestare non solo la vittima predestinata, ma anche la famiglia e gli ospiti è la prova di un paese senza leggi, senza regole. Perché mai gente innocente, che si trova per caso a una cena, dovrebbe finire in prigione?».
Il suo ultimo film «Women Without Men», leone d’argento a Venezia in settembre, sta risuonando in tutto il mondo. Come si sente?
«Non sapevo cosa volesse dire avere un premio nel cinema. Certo questo ha aiutato a diffondere il film, oltretutto era la prima volta che veniva premiata un’opera prima. Anche il tempismo ha aiutato questa specie di esplosione. Non l’avevo pianificato ma il mio film è stato presentato al pubblico di Venezia subito dopo la frode elettorale in Iran, come quella successa nel 1953, quando il governo democratico di Mossadeq fu spodestato dallo Shah Reza Pahlavi, sostenuto dalla Cia. “Women Without Men”, dal romanzo di Shamush Parsipur, racconta come in realtà il movimento per la democrazia in Iran non si sia mai assopito. E lo fa in maniera nuova, autentica. Per me è stato un esperimento in cui ho cercato di fondere arte concettuale, cinema e storia del mio paese».
Al centro del film c’è il giardino. Che cosa significa per la cultura iraniana?
«Nel nostro misticismo e nella nostra letteratura ha un significato di trascendenza spirituale. È il luogo dove puoi sfuggire alla banalità o alla violenza di tutti i giorni e sentirti libero, ma è anche il grembo della madre, la vita dopo la morte. Per renderlo cinematograficamente misterioso abbiamo fatto attenzione all’uso del colore, al movimento della macchina da presa, che nel giardino rallenta. Quando sei nel giardino sei nel mondo interno della donna, contrapposto alla città».
Qual è il ruolo di un’artista iraniana all’estero nei confronti del suo Paese?
«Noi siamo controllati dal nostro governo, ma la gente sa quello che facciamo e ci sostiene. Grazie all’onda verde mi sento molto più vicina al mio popolo ed ho migliaia di amici che prima non avevo».
Si è trasformata in attivista?
«Non lo sono e non mi piace questa parte. Presto però la mia voce e il mio lavoro per fare capire alla mia gente che sono con loro».
Lo faceva già con i suoi video, Turbulent, Rapture, Soliloquy, Fervor, Passage…
«Sì, ma l’arte e la cultura non arrivano al grande pubblico, il cinema invece sì».
Come influiscono Internet e i social network alla diffusione dell’informazione in Iran?
«Quando a febbraio c’è stato l’anniversario della rivoluzione iraniana, e c’erano migliaia di dimostranti a favore, su Google Map si è visto che era tutto falso e combinato del governo che ha speso milioni per assoldare dimostranti e organizzare a pagamento carovane di autobus da ogni parte del Paese per sostenerla. Facebook, Twitter e Internet contribuiscono a mantenere viva l’onda della democrazia».
E i media tradizionali?
«In generale non hanno voce, spostano l’attenzione dai diritti umani al programma nucleare. Non denunciano come la gente continui ad essere imprigionata, torturata, giustiziata senza processo. Gli attivisti iraniani in ogni parte del mondo, invece, non smettono mai di aiutare i giovani in prigione e nei campi dei rifugiati in Turchia. Per i mezzi di comunicazione di massa siamo una curiosità come un’altra. Quando non interessiamo più si cambia canale. Il ruolo di noi artisti iraniani all’estero, dunque, è di mantenere viva l’attenzione su quanto succede nel nostro Paese».
Progetti?
«Tornerò a fare fotografie in studio, sugli oppressi e gli oppressori. Racconterò il gioco dinamico col potere e comincerò un nuovo film dal romanzo “The Palace of Dreams” di Ismail Kadare».
Il sodalizio con il regista Shoja Azari continua?
«Da “Turbulent” in poi non si è mai interrotto. Shoja comincerà presto il suo film “Paradise” ed io parteciperò come creative producer».
Come definisce il suo modo di raccontare col cinema?
«Enigmatico. È allo stesso tempo magico e realistico, storico e filosofico, parla dell’Iran di ieri, ma anche di oggi e non solo dell’Iran».
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201003articoli/52762girata.asp
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La politica cancella la scienza 03.03.2010
GIORGIO CALABRESE
L’Unione europea, con un diktat politico e non scientifico, disattendendo il desiderio di approfondimento del presidente Barroso, ha liberalizzato una patata Ogm.
Dal tubero geneticamente modificato si ricava amilopectina pura, uno dei componenti dell’amido, che viene utilizzata per carta, calcestruzzo e adesivi. Questo stesso amido è utilizzato come mangime animale e il gruppo Basf che lo produce ha dichiarato che non è previsto alcun utilizzo alimentare. Inoltre, sono stati liberalizzati altri tre tipi di mais per l’alimentazione umana e animale.
Si tratta della prima autorizzazione Ue ai prodotti Ogm, dopo anni di dibattiti pieni di dubbi sulla natura di questo tipo di coltivazioni. La nuova Commissione, insediatasi qualche settimana fa, ha iniziato male il suo lavoro. In particolare, mi riferisco al commissario Ue all’Ambiente, il maltese John Dalli.
Considerando il lungo dibattito in corso sulle colture transgeniche, i lettori potrebbero pensare che le ricerche sugli Ogm siano sempre super partes e che i loro risultati derivino da un’approfondita ricerca sul campo e sul prodotto. Non è così. Quando gli scienziati del panel degli Ogm dell’Efsa (l’Autorità Europea della Sicurezza Alimentare che si trova a Parma) danno un giudizio, questo non deriva da uno studio incrociato, ma il panel valuta solamente la letteratura scientifica (quando c’è ed è sufficiente) e inoltre valuta i lavori presentati dalle singole aziende produttrici (in questo caso la Basf). Questo modo di procedere non porta quasi mai a un voto unanime, perché si basa più che sulla reale verità scientifica, esclusivamente su giudizi votati a maggioranza, dove pesano soprattutto scienziati anglo-sassoni.
Questa scelta impone soluzioni politiche a problemi scientifici e questo non è giusto. Mi sembra di essere tornato all’epoca della cura «Di Bella» quando il dibattito si ridusse a definire il cancro di sinistra o di destra, senza valutare la reale efficacia terapeutica di quei farmaci. Come abbiamo visto, nel campo degli Organismi geneticamente modificati (Ogm) la ricerca è assolutamente di parte, sia a favore (multinazionali) sia contraria (Verdi e Ambientalisti), per cui chi è a favore presenta lavori che li esaltano, omettendo i dati negativi che debbono necessariamente esserci come in tutti i veri papers pubblicati; chi è contro sottolinea solo i lati negativi, senza tener conto di qualche spunto positivo che potrebbe esserci. Quale soluzione? Propongo che l’Unione europea finanzi con giusti fondi una ricerca super partes che entri nel merito degli effetti sulla salute umana, prima su cavia e poi sull’uomo, affidandola a centinaia di scienziati, pro e contro gli Ogm. Alla fine, un «board» molto qualificato, come alcuni Nobel della Scienza, valutino i lavori e diano un giudizio definitivo di eventuali danni o no alla salute umana. Sembra semplice e ovvio ma, proprio perché lo è, contrasta con il monopolio di cinque multinazionali che trovano nei Paesi anglosassoni dei fedeli difensori di prodotti che mortificano i nostri alimenti del Sud Europa, eccellenti per il loro gusto e che soprattutto garantiscono effetti salutisti al consumatore.
Spero che l’Europa non faccia questi passi avventati in avanti senza i giusti presupposti, perché nel tempo potrebbe pentirsene e trovarsi costretta a fare marcia indietro. Ciò non è mai politicamente e scientificamente corretto, perché nel frattempo qualcuno potrebbe essersi ammalato.
Così potrebbe arrivare sulla nostra tavola M. ZAT.
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Allarme inceneritori: diossine nel latte materno Febbraio 2010
Neonati avvelenati dalle diossine presenti nel latte materno: latte di donne che vivono nei pressi di un inceneritore. L’allarme è scattato dopo le analisi cui si sono sottoposte due giovani madri, di 30 e 32 anni, che vivono a due passi dall’impianto di incenerimento di Montale in provincia di Pistoia, un forno che brucia 150 tonnellate di rifiuti al giorno, già chiuso in via temporanea nel 2007. L’accusa: l’impianto produce 50 milioni di nano-grammi di diossine al giorno. Secondo l’Arpa della Toscana, contamina suolo, vegetali, uova, carne di manzo, pollame e persino i pesci. Anche il latte materno?
«Parlare della contaminazione del latte materno da parte di sostanze inquinanti, tossiche e pericolose – scrive Patrizia Gentilini su “Terranauta” – vuol dire affrontare un argomento che fa venire i brividi al solo pensiero, tanto è lo sgomento che suscita. Prendere coscienza del fatto che l’alimento più prezioso al mondo contenga ormai quantità elevate di sostanze pericolose e cancerogene, specie se proveniente da mamme residenti in territori industrializzati, è un argomento tabù. Forse, proprio per questo è rimasto finora confinato nell’interesse di pochi specialisti del settore e non è mai emerso, con l’attenzione che merita, al grande pubblico».
Le analisi delle due mamme di Montale, finanziate dal comitato ecologista che lotta contro l’inceneritore ed effettuate dal Consorzio interuniversitario nazionale di chimica per l’ambiente di Marghera (Venezia), dimostrano la presenza nel latte materno delle stesse sostanze tossiche, diossine e Pcb, riscontrate nella carne dei polli allevati nei pressi dell’inceneritore. Le diossine, sottoprodotti involontari dei processi di combustione industriale, derivano anche dall’incenerimento dei rifiuti.
Vent’anni dopo la nube tossica di Seveso del 1976, i cui effetti continuano a manifestarsi sotto forma di disturbi nei neonati, le diossine sono state classificate come le sostanze maggiormente tossiche più conosciute, altamente cancerogene. Sono “distruttori endocrini” che minano il sistema immunitario, alterano il funzionamento delle ghiandole, insidiano il metabolismo e procuranno danni anche a livello neurologico. Devastante l’impatto sull’organismo: linfomi, sarcomi, tumori a fegato, mammella, polmone e colon, ma anche disturbi riproduttivi, endometriosi, anomalie dello sviluppo cerebrale, diabete, disturbi alla tiroide, complicazioni polmonari, cardiovascolari, epatiche e cutanee, con grave deficit del sistema immunitario.
«L’esposizione a diossine – spiega Patrizia Gentilini – è particolarmente pericolosa durante le prime fasi della vita, ovvero specifici momenti dello sviluppo embrionale e fetale». Per la loro capacità di “infiltrarsi” negli alimenti proteici (carne, uova, latte) le diossine si accumulano nel nostro organismo e vengono trasmesse ai figli prima ancora del parto, durante la vita fetale, e poi attraverso l’allattamento.
L’avvelenamento è variabile: cresce nelle aree industrializzate e inquinate, come dimostrano recenti studi tedeschi, giapponesi e cinesi. In mancanza di dati analoghi, in Italia sono i comitati a realizzare analisi: nell’area industriale di Taranto, come a Montale, 3 campioni di latte materno sono risultati contaminati da diossine in percentuali molto maggiori di quelle della media riscontrata dagli studi giapponesi e tedeschi.
Casi isolati? Troppo poco per trarre conclusioni allarmanti? In Italia, denuncia “Terranauta”, non conosciamo la situazione perché non vengono effettuate rilevazioni a tappeto. Ma chi può escludere che ci sia relazione tra la combustione dei rifiuti e la presenza di diossine nel latte materno? Come ci si può ragionevolmente “fidare” di impianti come quello di Montale o del tanto decantato inceneritore di Brescia? L’Emilia, aggiunge Patrizia Gentilini, ha speso 3 milioni di euro per monitorare le ricadute sulla salute della popolazione che vive a ridosso di 8 inceneritori, ma senza campionare il latte materno.
«Come si possono dare consigli scientificamente motivati in merito se non si impostano studi su larga scala e protratti nel tempo?», insiste “Terranauta”. «Chi può assicurarci che il triste primato che l’Italia detiene riguardo il cancro nell’infanzia, ovvero un incremento del 2% all’anno, pressoché doppio di quello riscontrato in Europa (1.1% annuo) non abbia relazione con l’esposizione già in utero e poi attraverso il latte a questa pletora di sostanze tossiche e pericolose?».
E perché devono essere direttamente i cittadini a commissionare analisi, mentre le istituzioni sembrano preoccupate di “tranquillizzare” l’opinione pubblica? «Perché non ammettere – onestamente – che la questione è talmente scabrosa che di fatto si è preferito fino ad ora ignorarla? Non sarebbe il caso di cominciare chiudendo definitivamente inceneritori come quello di Montale, per il quale esistono ormai le prove del suo coinvolgimento nella contaminazione riscontrata negli alimenti e perfino nel latte materno?».
«Per nessuna donna al mondo può esser accettabile anche solo l’idea di trasmettere pericolosi veleni, attraverso il proprio latte, al bimbo a cui ha dato la vita», conclude Patrizia Gentilini. «Riconoscere l’esistenza di una pesante contaminazione del latte materno nelle aree industrializzate non può non comportare, di conseguenza, il riconoscere il fallimento di un modello di “sviluppo” di una società come l’attuale, che non si è mai curata delle conseguenze delle proprie scelte e soprattutto delle ricadute su quella che dovrebbe essere al primo posto nei pensieri di una comunità civile, cioè l’infanzia»
Fonte: www.terranauta.it
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centrali, energia, smantellamento di Tommaso Sinibaldi
Quanto ci costa (davvero) il nucleare 03.03.2010
Il nucleare arriva alla Corte Costituzionale, con lo scontro tra Stato e Regioni: chi decide sul territorio? Ma al dibattito manca un pezzo decisivo: i costi nascosti del nucleare, messi a carico delle future generazioni senza che nessuno lo sappia. Vi spieghiamo come, in cinque domande e risposte
1. Il problema della “morte” delle centrali nucleari si porrà nei prossimi anni in termini sempre più pressanti?
Invece di parlare di “morte” usiamo un termine più appropriato. Gli anglosassoni parlano di “decommissioning” : la migliore traduzione in italiano mi sembra “smantellamento”. Ciò premesso, certamente è così: il problema si porrà già nei prossimi anni e con un “crescendo” pressante per due ragioni. La prima è che la grandissima maggioranza delle centrali nucleari oggi operanti nel mondo sono state ordinate negli anni sessanta e settanta (quelle ordinate dopo il 1979 sono pochissime) e sono entrate in servizio negli anni settanta ed ottanta. All’inizio si assegnava ad una centrale nucleare una vita produttiva di trent’anni : poi si è quasi universalmente convenuto che tale vita poteva essere estesa a quarant’anni. Oggi quindi un assai consistente stock di centrali nucleari sta giungendo a questo traguardo. Entro il 2020 tutte o quasi le centrali nucleari oggi attive nel mondo (sono 450) compiranno quarant’anni e dovrebbero quindi essere smantellate.
2. Quindi arrivano a “morte” o, diciamo meglio, allo smantellamento in tante e tutte insieme. Questa la prima ragione. E la seconda?
La seconda è che il processo di smantellamento (decommissioning) è un processo lungo, costoso e poco conosciuto : poco conosciuto semplicemente perché non esiste ancora in materia una esperienza consolidata. Vale la pena di parlarne perché ho l’impressione che la grande opinione pubblica ne sia assai poco informata, ma il problema inevitabilmente verrà alla ribalta.
Dopo la fine della attività, cioè della produzione di energia elettrica, le centrali nucleari debbono subire un lungo processo di decontaminazione : lungo, veramente lungo perché si tratta di cinquant’anni. E’ il tempo necessario affinché la radioattività dei componenti la centrale (non stiamo parlando delle scorie di combustibile, attenzione, ma dei componenti strutturali dell’impianto) decada fino a livelli ritenuti accettabili per la demolizione vera e propria. Durante questi cinquant’anni la centrale rimane in piedi così com’è: per capirci, vista dall’esterno non cambia nulla. Ma non si tratta di un normale impianto industriale dismesso e abbandonato; durante questi cinquant’anni la centrale deve essere strettamente sorvegliata e monitorata. Naturalmente tutto questo costa e costa molto.
Paradossalmente in Italia siamo all’avanguardia in materia. Come noto dal 1987 le nostre (poche) centrali sono state fermate: quindi da oltre vent’anni sono in fase di decontaminazione. Il processo è gestito da una società pubblica, la Sogin. Nel 2007 la Sogin ha presentato un “conto” di 174,9 milioni di euro: questo “conto” viene approvato dalla Autorità per l’energia Elettrica ed il Gas e “ribaltato” sulle nostre bollette. Quindi lo stiamo già pagando noi.
Il peso di questa voce sulla nostra bolletta elettrica è modesto: l’1% circa. Ciò perché la consistenza del parco nucleare italiano era, come noto, modesta (4 centrali per circa 1000 MW complessivi).
Ma credo sia più appropriato valutare questo costo in altro modo: se le 4 centrali dismesse funzionassero a pieno ritmo (ipotesi assai ottimistica, non è mai successo) produrrebbero circa 6 mlrd di kWh /anno per un valore di circa 400 milioni di euro. In altri termini i costi annui del decommissioning rappresentano quasi la metà del valore dell’energia che questi impianti producevano (o, meglio, avrebbero potuto produrre): e questo già da 25 anni e per altri 25. Restano poi, beninteso, i costi dello smantellamento finale e del ripristino del sito.
Possiamo infine fare un altro raffronto: oggi costruire i 1000 MW del parco nucleare italiano dimesso, ex novo e secondo le tecnologie più moderne, costerebbe circa 3 miliardi di euro : i costi di decommissioning (non scontati) rappresenterebbero circa tre volte i costi di costruzione.
Sono numeri impressionanti, e altrettanto impressionante è la incertezza che c’è intorno a questi numeri. Io qui mi sono riferito (e grossolanamente) al caso italiano. Ci sono parecchie e valide ragioni (economie di scala, esperienza tecnologica maturata , etc.) per ritenere che in altri paesi con settori nucleari più “robusti” i costi unitari potrebbero essere più bassi. Ma la incertezza delle valutazioni appare sempre alta.
Prendiamo il caso della Francia che, come noto, è il paese più “nucleare” del mondo.
Nel 2005 il Ministero dell’Industria, in base ad un criterio stabilito nel 1991, valutava in 13,5 miliardi di euro il costo di decommissioning del parco nucleare francese: ma già nel 2003 la Corte dei Conti aveva valutato tale costo in una forchetta di 20-39 miliardi di euro. Esperti e ong però dicono che si deve parlare non di decine ma di centinaia di miliardi di Euro : se si guarda a ciò che sta accadendo in Inghilterra queste valutazioni non appaiono affatto campate in aria.
In tutto questo la Electricitè de France ha accantonato a questo scopo solo 2,5 miliardi di Euro.
3. Qualcuno quindi dovrà pagare…
Esattamente. Sere fa a “Porta a Porta” c’era l’ennesimo dibattito sul nucleare e Bruno Vespa, con la baldanza di chi ha un argomento chiaro ed incontrovertibile, diceva “…ma in Francia l’energia elettrica costa un 30% di meno che in Italia…”. Vorrei che qualcuno gli dicesse che quello che i francesi pagano oggi è un acconto: il saldo verrà e sarà salato. Lo potranno pagare sulla bolletta della EdF o come contribuenti, se lo stato si accollerà i costi dello smantellamento: ma alla fin fine i francesi dovranno pagare e molto.
4. Ma che cosa accade in Inghilterra?
L’Inghilterra è il paese al mondo che ha affrontato il problema del “decommissioning” del settore nucleare nel modo più completo ed organico. Ciò anche per ragioni storiche : l’Inghilterra è stata il primo paese a privatizzare il settore elettrico. Lo ha fatto dividendolo in alcune società regionali e settoriali che sono state poi messe sul mercato e vendute con successo ad azionisti privati. Le centrali nucleari sono state inglobate in una società, la British Energy, che – ed era chiaro sin dall’inizio – non ha trovato compratori. A questo punto il governo inglese, pur mantenendo, almeno teoricamente, aperta l’opzione del “che fare” del settore nucleare (rilanciare, mantenere, o chiudere) ha affrontato organicamente questa ultima opzione. Con lo “Energy Act” del 2004 ha costituito la NDA (Nuclear Decommissioning Agency), un’Agenzia pubblica che ha appunto il compito di approntare gli strumenti e valutare i costi dell’uscita dal nucleare. Nel 2005 la NDA ha prodotto la sua prima stima del costo della “uscita “ del paese dal nucleare (55,8 miliardi di sterline): nel 2007 questa valutazione è stata aggiornata in 73,6 miliardi di sterline (al cambio attuale circa 80 miliardi di euro). Conviene soffermarsi un momento su questa cifra per capire che è una cifra gigantesca. Corrisponde ad esempio a oltre il doppio del costo di costruzione ex-novo dell’intero parco nucleare inglese: ovvero è superiore al costo di costruzione ex-novo dell’intero parco termoelettrico tradizionale inglese (e quindi a maggior ragione ad esempio di quello italiano). Di fonte a questa cifra le valutazioni di cui si è detto sopra per il decommissioning del parco nucleare francese (che è circa 5 volte quello inglese) per centinaia, e non decine, di miliardi di euro appaiano fondate.
A questo punto però entra in scena il “cavaliere bianco”: la EdF (Electricitè de France) si offre di comprare la British Energy per 13 miliardi di sterline. Ma attenzione! Questo non significa affatto che i costi di decommissioning di cui sopra (73,6 miliardi di sterline) vengano cancellati: la gran parte rimane (quanto con precisione ancora non si sa), ma è possibile rinviarli di molti anni. Inoltre gli azionisti di British Energy (in pratica lo stato) incassano 13 miliardi di sterline. E’ evidente che la soluzione toglie al governo britannico molte castagne dal fuoco e quindi viene ovviamente accettata.
La gran parte degli analisti e degli esperti hanno giudicato la mossa della EdF al limite della temerarietà . Per finanziare questa operazione (ma in realtà anche per dare un po’ di ossigeno alla sua situazione finanziaria assai precaria) la EdF ha chiesto al Governo francese un aumento del prezzo dell’energia elettrica di 2 cent al kWh (circa il 25% dei prezzi attuali). Con ciò il vantaggio di prezzo dell’energia elettrica in Francia (quello sbandierato da Bruno Vespa, per intenderci) si ridurrebbe quasi a nulla. Ma è, io credo, soltanto un primo passo: i costi “nascosti” e “rinviati” del nucleare sono ancora ben lontani dall’essersi manifestati interamente.
5. Quindi in buona sostanza il nucleare è un pessimo affare?
Si, è un pessimo affare. Ma è un affare che, rispetto a qualsiasi altro investimento industriale, ha una caratteristica tutta particolare: i suoi effetti, in termini di ricavi ma soprattutto di costi, si dispiegano in tempi estremamente lunghi. Ci vogliono 8-10 anni per costruire una centrale nucleare, poi ci sono 40 anni di attività, poi 50 anni di decommissioning : arriviamo dunque al secolo. Questi tempi estremamente lunghi ed il fatto che vi siano costi ingentissimi dopo la fine della vita produttiva (caratteristica anche questa pressoché unica nel campo degli investimenti industriali) consente appunto di “nascondere” e “rinviare” i costi falsando per decenni i conti economici.
Ma oggi questi nodi vengono al pettine. La chiusura degli impianti che compiono i 40 anni di attività (e sono tanti, come si è detto) è una necessità, forse rinviabile di qualche anno, ma in sostanza ineludibile. Quindi i costi (ed i problemi) del decommissioning vengono a galla e i costi “veri” del nucleare inevitabilmente emergono.
Oggi in Europa, per i paesi che hanno una consistente presenza nel nucleare il problema vero è se continuare o no. Continuare vuol dire sostituire gli impianti esistenti e “in fin di vita” con altri impianti nucleari nuovi : questo è il problema dominante oggi in Europa. Il problema di un “rilancio”, cioè di costruire impianti nuovi al di là di quelli che servono a sostituire quelli vecchi è – direi – decisamente in secondo piano.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Quanto-ci-costa-davvero-il-nucleare
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In corteo con i capelli bianchi 04.03.2010
FERDINANDO CAMON
Ci sono foto tali che ne basta una sola per simboleggiare un intero evento: la vedi, e ti ricordi tutto. La strage di Bologna, il terremoto dell’Aquila.
E poi il napalm in Vietnam, la guerra di Spagna. Queste foto che arrivano dalla Grecia resteranno il simbolo della crisi: la crisi che morde la cellula interna della società, la famiglia, e dentro la famiglia addenta l’elemento più debole, il vecchio, il nonno. Una sola di queste foto vale come tante prime pagine di quotidiani: ecco cosa fa la crisi, taglia le pensioni, costringe gli anziani, che già gravano sulle famiglie, a gravare ancora di più, a diventare un peso morto. Gli anziani hanno un sussulto di dignità e protestano. E come protestano? Non scagliano bombe, non tirano sassi, non lanciano bottiglie molotov. Con ogni probabilità, non sanno nemmeno fabbricarsele. No, semplicemente manifestano per le strade.
Ovviamente, la loro è una sfilata contro lo Stato. E lo Stato risponde con la forza: poliziotti in gran numero, con stivali elmi scudi e manganelli, schierati a sbarrare il passaggio, e a ributtare indietro la schiera dei vecchietti tumultuanti. I vecchietti hanno i capelli bianchi, quelli che hanno i baffi hanno baffi bianchi. I poliziotti oppongono divise verde-scuro, stivali neri, scudi opachi. È la guerra della canizie sdentata contro i ventenni in armi. Un vecchietto è arrabbiato, lo si vede dalla bocca, ma non è una bocca feroce, è una bocca imbronciata. Sta urtando un poliziotto con ambedue le mani, ma è debole, da dietro qualche amico lo sorregge. C’è uno che urla, in questo marasma, ha la bocca spalancata, il suo grido deve suonare osceno e disturbante nella strada: ma non è un vecchietto, è un poliziotto. Un vecchietto avanza con un cartello sul petto, è un vecchietto-sandwich. Davanti a lui i poliziotti formano uno sbarramento senza buchi, tengono i piedi in posizione anti-urto, uno avanti e l’altro dietro. Se il vecchietto è un sandwich, quelli se lo mangiano. Non spaventano, queste foto, non sono terribili. Però fanno tristezza. Mostrano la crisi al suo apice, e fan capire che la crisi scatena una guerra generazionale: la generazione più debole, quella dei vecchi, è la prima a pagare. Quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, Kusturica girò un film un cui mostrava i fratelli che sparavano ai fratelli. Ho visto il film in Francia e c’era una strofa che diceva: une guerre – n’est pas une guerre – jusque le frère – n’agresse le frère (una guerra non è una guerra finché il fratello non aggredisce il fratello). La guerra è guerra se spacca le famiglie. Adesso facciamo i conti con la crisi, e queste foto vengono a spiegarci cos’è: la crisi è crisi se spacca le generazioni, se i nipoti aggrediscono i nonni.
Crisi Grecia, la protesta non si placa
OPINIONI E l’Europa fa finta di niente MARIO DEAGLIO
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L’ombra di molti gialli italiani nel Pasolini inedito
Red, 03.03.2010
Marcello Dell’Utri ha annunciato ieri il probabile ritrovamento del dattiloscritto di “Lampi sull’Eni” di Pierpaolo Pasolini, che avrebbe dovuto costituire un capitolo del romanzo incompiuto “Petrolio”, il suo romanzo ‘politico’. E per scriverlo raccolse anche materiali scottanti, probabilmente grazie a contatti privilegiati nel mondo dell’industria e della politica. Si torna così a parlare della tragica scomparsa di Mattei e della stessa scomparsa di Pasolini
E’ un giallo nel giallo la scomparsa del capitolo ‘Lampi sull’Eni’, che Pier Paolo Pasolini aveva già scritto per il suo romanzo incompiuto ‘Petrolio’. Si è sempre temuto che quelle pagine mancanti fossero state sottratte dallo studio romano dello scrittore, poeta e regista. La prima ideazione dell’opera risale alla primavera del 1972 e su di essa Pasolini lavorò fino alla morte, all’omicidio avvenuto all’idroscalo di Ostia, nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975. ‘Petrolio’ è stato pubblicato postumo, con fedeltà all’autografo custodito tra le sue carte nell’archivio del Gabinetto Vieusseux di Firenze, solo nel 1992 dall’editore Einaudi, con la cura del filologo Aurelio Roncaglia.
Del capitolo scomparso in quel gigantesco ‘frammento’ pubblicato 18 anni fa, di quello che avrebbe dovuto essere un romanzo-monstruum di circa duemila pagine, si legge a pagina 97 dell’edizione Einaudi: “Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato ‘Lampi sull’Eni’, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria”. Dove quel ‘Bonocore’ altri non è nella prosa pasoliniana che Enrico Mattei, il presidente dell’Eni misteriosamente morto in volo.
Di questo mistero legato a Pasolini si parla nel libro ‘Il Petrolio delle stragi’ dello scrittore Gianni D’Elia, un saggio-inchiesta pubblicato nel 2006 dalle edizioni Effigie, di recente ripreso da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in ‘Profondo nero’ (Chiarelettere, 2009), lo stesso titolo dato a uno dei capitoli dell’inchiesta di D’Elia, che i due autori correttamente indicano tra le principali fonti d’ispirazione del loro lavoro.
Nel 2005, per il trentennale dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, le edizioni Effigie hanno pubblicato “L’eresia di Pasolini” di D’Elia, una rivisitazione dell’opera di questo “fratello maggiore”, considerato dall’autore una “avanguardia della tradizione”.
Nel 2006 D’Elia è tornato sul suo pamphlet arricchendolo attraverso la sua lettura di ‘Petrolio’ come uno strumento per leggere il nostro ieri e l’oggi. Pasolini non sarebbe stato ucciso da un ragazzo di vita perché omosessuale, ma da sicari prezzolati dai poteri, ‘occulti o no’, in quanto oppositore, corsaro, a conoscenza di verità scottanti. E il motivo dell’omicidio sarebbe stato proprio “Petrolio”.
Iniziato nella primavera del 1972, durante la crisi petrolifera mondiale, ‘Petrolio’ fu pensato da Pasolini come il suo romanzo ‘politico’. E per scriverlo raccolse anche materiali scottanti, probabilmente grazie a contatti privilegiati nel mondo dell’industria e della politica. Una fonte di ‘Petrolio’, come è stato accertato anche da una recente inchiesta della magistratura che indagava sulla morte di Mattei, fu un volume, “nato dai veleni interni all’ente petrolifero italiano”, scritto da tale Giorgio Steimetz, che si intitolava ‘Questo è Cefis. L’ altra faccia dell’ onorato presidente’ e uscì nell’aprile 1972 presso una non meglio identificata Agenzia Milano Informazioni (Ami).
Si tratta di un libro fantasma, perché fu subito ritirato dalla circolazione. Si trattava di un pamphlet sulla vita, sul carattere e sulla carriera del successore di Mattei alla guida dell’Eni.
Soprattutto, raccontava alcuni passaggi biografici, da quando Cefis fu partigiano in Ossola (con alcuni risvolti poco chiari) alla rottura con Mattei nel 1962, mai perfettamente spiegata; dal rientro all’Eni al salto in Montedison. Una copia fotocopiata di questo volume si trova nell’archivio di Pasolini e dalle sue carte autografe risulta che ne fa quasi la parafrasi.
Secondo alcune recenti ricostruzioni in quel capitolo di “Petrolio” sparito, intitolato “Lampi sull’Eni”, si ipotizza che Eugenio Cefis, che Pasolini aveva ribattezzato ‘Troya’, avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali. E proprio indagando sulla morte di Mattei, presidente dell’Eni prima di Cefis, pochi anni fa un magistrato pavese, Vincenzo Calia, ha constatato la lucidità dello scrittore “corsaro” nel ricostruire il degrado e la mostruosità italiana identificando il burattinaio principale in Eugenio Cefis, affarista e “liberista” tanto quanto Enrico Mattei era utopista e statalista.
Anche Calia ha letto “Petrolio” e poi è riuscito fortunosamente a reperire una copia anche del libro misterioso “Questo è Cefis”. E per primo ha colto tutte le analogie e le simmetrie tra il testo di Steimetz e il romanzo incompiuto di Pasolini. Per il sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia il fondatore dell’Eni fu “inequivocabilmente” vittima di un attentato.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14305
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Il governo italiano mina l’unità europea sulle droghe 03.03.2010
Le Ong si dissociano e denunciano la strumentalizzazione.
Una lettera alla presidenza del gruppo europeo a Bruxelles e a Vienna
Il governo italiano continua a boicottare la politica europea sulle droghe, sia a livello dell’Unione che del gruppo europeo presso l’Onu a Vienna.
Il motivo del contendere è la riduzione del danno.
Il governo italiano ha la pretesa di imporre a tutti i paesi europei quali interventi siano da considerarsi accettabili e quali da mettere al bando, sulla base di pregiudizi ideologici e non di evidenze scientifiche.
In quest’opera di disturbo, la delegazione italiana ha esibito un documento sulla riduzione del danno che condanna come “non accettabili” alcune misure già applicate da molti paesi europei (trattamenti con eroina, stanze del consumo e pill testing), millantando che la posizione espressa nel documento sia frutto di un accordo fra il Dipartimento Antidroga e le ONG italiane.
Un gruppo di operatori e di associazioni maggiormente impegnate nelle pratiche di riduzione del danno hanno scritto alla presidenza spagnola del gruppo europeo sia a Bruxelles che a Vienna dissociandosi da questa visione ideologica della riduzione del danno e chiarendo che “le posizioni italiane non sono un consensus paper concordato fra il Dipartimento e le ONG”. I firmatari lamentano “che il governo italiano stia contestando la posizione europea sulla riduzione del danno, frutto di approfonditi negoziati nel corso degli anni e largamente condivisa”. “Ci rincresce che questa importante questione di salute pubblica sia così strumentalizzata politicamente”-termina la lettera.
La lettera è firmata da: Giorgio Bignami (president of Forum Droghe), Maurizio Coletti (president of Itaca Italia), Leopoldo Grosso (vicepresident of Gruppo Abele), Riccardo De Facci (representative of Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza for drug policies), Andrea Gallo (president of Comunità San Benedetto al Porto, Genova), Edoardo Polidori (Itaca Italia), Claudio Cippitelli (Coordinamento Nazionale Nuove Droghe), Grazia Zuffa (Fuoriluogo), Fabio Scaltritti (Comunità San Benedetto al Porto, Genova), Henri Margaron (director of Drug Addiction Department, Livorno), Stefano Vecchio (director of Drug Addiction Department, Napoli), Massimo Oldrini (representative of Lega Italiana Lotta Aids).
Scarica la lettera (in formato pdf).
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Imparare dalle piante a usare la luce, febbraio 2010
Le foglie delle piante possono essere considerate del tutto simili a pannelli solari che assorbono e accumulano l’energia luminosa. Per questo, conoscere i meccanismi molecolari utilizzati dalle piante per ottimizzare l’assorbimento della luce può essere utile anche per sviluppare tecnologie più efficienti nell’assorbimento e accumulo della radiazione solare.
Da questa considerazione è partito lo studio di un gruppo di ricercatori delle Università degli studi di Milano, del Piemonte Orientale e Ludwig Maximilian Universitaet di Monaco, che è giunto a identificare una nuova proteina, l’enzima fosfatasi TAP38, capace di rimuovere i gruppi fosfato e quindi di riportare l’apparato fotosintetico allo stato funzionale. La scoperta, ora pubblicata sulla rivista scientifica “Plos Biology”, chiarisce importanti dettagli molecolari alla base della regolazione della fotosintesi e può portare grandi benefici sul fronte agricolo, per la produttività delle piante coltivate, e nelle tecnologie legate anche alle energie rinnovabili.
Attraverso la fotosintesi, le piante assorbono l’energia luminosa e la convertono in sostanza organica, essenziale per l’alimentazione di molti organismi che popolano il nostro pianeta. La radiazione luminosa che raggiunge le foglie, tuttavia, è soggetta a cambiamenti continui della propria intensità e composizione spettrale, conseguenza di molteplici e naturalissimi fattori: le nuvole, il movimento delle foglie indotto dal vento, l’alternarsi del giorno e della notte. Per fronteggiare al meglio queste situazioni, le piante hanno sviluppato meccanismi molecolari che consentono loro di adattare rapidamente l’apparato fotosintetico alle diverse condizioni luminose e quindi ottimizzare l’attività fotosintetica.
Numerosi studi svolti in passato hanno dimostrato che l’apparato fotosintetico può assumere due diverse modalità funzionali (secondo le condizioni di luminosità), definite come stato 1 e stato 2. Nel 2005, lo stesso gruppo di ricerca che ha condotto questo studio aveva identificato l’enzima chinasi STN7 responsabile della transizione dell’apparato fotosintetico dallo stato funzionale 1 allo stato 2, mediante l’aggiunta di gruppi fosfato a una proteina dell’apparato fotosintetico deputata all’assorbimento della luce.
Nel lavoro pubblicato su “Plos Biology”, i tre gruppi di ricerca delle Università degli Studi di Milano, del Piemonte Orientale e della Ludwig Maximilian Universitaet di Monaco, hanno identificato una nuova proteina, l’enzima fosfatasi TAP38, responsabile di rimuovere i gruppi fosfato e quindi di riportare l’apparato fotosintetico allo stato funzionale 1.
Il gene codificante la fosfatasi TAP38 è stato isolato nella pianta modello Arabidopsis thaliana attraverso un approccio di genomica funzionale. Dieci geni nucleari, codificanti fosfatasi localizzate nel cloroplasto, sono stati silenziati e le corrispondenti linee mutanti di Arabidopsis analizzate per la capacità del loro apparato fotosintetico di passare dallo stato funzionale 1 allo stato 2 e viceversa in funzione delle condizioni luminose ambientali. Si è potuto in tal modo osservare che la linea mutante di Arabidopsis, priva della fosfatasi TAP38, rimaneva bloccata allo stato funzionale 2 indipendentemente dalle condizioni luminose, conseguenza del fatto che i gruppi fosfato aggiunti dalla chinasi STN7 all’apparato fotosintetico non erano rimossi.
Nello stesso tempo, gli studiosi hanno anche potuto verificare che altre piante private della fosfatasi TAP38 ma coltivate in serra – e quindi in condizioni di luminosità per le quali la permanenza della pianta nello stato 2 risulta particolarmente funzionale – beneficiavano di un’attività fotosintetica migliore rispetto alle piante selvatiche di controllo, come dimostrato anche dalla maggior produzione di biomassa. Osservazione particolarmente interessante per le ricadute che la conoscenza di questo meccanismo molecolare potrà avere nel controllo della produttività delle coltivazioni in serra.
http://www.scienzaegoverno.org/n/076/076_01.htm
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Un brevetto internazionale della Sapienza consentirà di abbattere i costi di bioconversione di materie prime vegetali a biocarburanti 16.02.2010
La ricerca riguarda il processo di saccarificazione mediante il quale i polisaccaridi complessi della parete cellulare dei tessuti vegetali vengono trasformati in zuccheri semplici per mezzo di enzimi o di acidi minerali. Questo procedimento chimico ha costi elevati che incidono pesantemente sul prezzo dei biocarburanti.
I ricercatori del dipartimento di Biologia vegetale della Sapienza, coordinati dal professor Felice Cervone, hanno scoperto come migliorare il processo di saccarificazione attraverso l’impiego di proteine che, modificando la struttura dei polisaccaridi della parete, rendono i tessuti più aggredibili da parte degli enzimi idrolitici.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), la rivista ufficiale dell’Accademia delle scienze americana.
L’articolo a firma di Vincenzo Lionetti, Fedra Francocci, Simone Ferrari, Chiara Volpi, Daniela Bellincampi, Roberta Galletti, Renato D’Ovidio, Giulia De Lorenzo, and Felice Cervone, è disponibile su www.pnas.org/content/107/2/616.abstract?sid=a9b1ce5f-e094-486b-99c2-895e6e20a5b3.
La biomassa vegetale è una importante risorsa rinnovabile per la produzione di biocarburanti. Per essere convertito in etanolo, per esempio, il tessuto vegetale, formato principalmente da polisaccaridi complessi, deve essere ridotto a zuccheri fermentabili attraverso un processo chiamato “saccarificazione”. L’utilizzo su scala industriale di questo processo è ostacolato dalla limitata efficienza della tecnologia che si basa sull’idrolisi enzimatica dei polisaccaridi e dalla necessità di utilizzare pre-trattamenti termochimici e meccanici che incidono più del 30% sul costo del biocarburante. I ricercatori della Sapienza hanno escogitato una soluzione al problema dimostrando che le piante possono essere trasformate o trattate con proteine che modificano la struttura della pectina e rendono i tessuti più aggredibili da parte degli enzimi idrolitici. La pectina è una sorta di collante che determina l’irrigidimento della parete cellulare formando legami crociati fra i vari polisaccaridi. Piante che esprimono una poligalatturonasi che idrolizza la pectina e piante che esprimono un inibitore della pectina metil-esterasi, che interferisce con la formazione dei legami crociati, sono più suscettibili alla saccarificazione e hanno una ridotta necessità di pre-trattamenti degradativi .
http://www.uniroma1.it/ufficiostampa/leggi.php?codice=01071
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Luna on the rocks 03.03.2010
600 milioni di metri cubi di ghiaccio sarebbero nascosti nei crateri dei poli del satellite terrestre. Un bene prezioso che riapre il dibattito sull’opportunità delle missioni di esplorazione e colonizzazione
Roma – Quando ormai era stata data per perduta (la missione era stata ufficialmente “abbandonata”, quando il modulo aveva perso contatto con la base) la prima missione lunare indiana ha fatto centro scovando l’acqua lì dove l’uomo non poteva guardare: nei crateri inesplorati della Luna.
Le rilevazione effettuata con un radar della NASA, mini-SAR, installato sulla navicella indiana Chandrayaan-1, ha condotto alla scoperta che potrebbe riaprire la strada alle missioni lunari: oltre 40 crateri vicino ai poli (perennemente all’ombra del sole) nasconderebbero nei propri meandri riserve d’acqua pari a 600 milioni di metri cubici di ghiaccio, almeno secondo le ultime analisi.
“Il quadro mostrato dalle plurime rilevazioni e dai dati raccolti dagli strumenti delle missioni lunari mostrano che la creazione di acqua, la migrazione, il deposito e le ritenzione stanno avvenendo sulla Luna” ha spiegato Paul Spudis, scienziato dell’esperimento Mini-SAR, in una nota.
La scoperta è stata fatta studiando i crateri lunari situati ai poli. Lì il radar Mini-SAR ha rilevato alti rapporti di polarizzazione circolare (CPR) all’interno dei margini dei crateri, ma non fuori: questo scarto suggerirebbe che l’alto livello di CPR non sarebbe causato dalla ruvidezza ma da qualche materiale contenuto solo all’interno di tali crateri. E tale intuizione farebbe supporre la presenza nei crateri lunari di acqua congelata, relativamente pura e che costituirebbe uno strato di almeno due metri di spessore.
Il primo indizio sulla presenza d’acqua sul satellite terrestre era stato trovato sempre da Chandrayaan-1, da Cassini e Deep Impact di Nasa, ma sembravano minime quantità poco sfruttabili. Maggiore possibilità sembrava offrire la missione Lunar Crater Observation and Sensing Satellite (LCROSS) che ha bombardato la Luna per scovare significative quantità di vapore e ghiaccio nel polo sud.
La nuova scoperta all’altro polo presenta, però, maggiori risorse più facilmente raggiungibili, che permettono di immaginare più facilmente l’istallazione di una base lunare: secondo gli scienziati la nuova risorsa può essere utilizzata come carburante per i razzi, oppure per estrarre ossigeno o acqua potabile per gli eventuali ospiti lunari. Aprendo nuovi scenari per l’esplorazione del satellite che sembrava momentaneamente accantonata.
Claudio Tamburrino
http://punto-informatico.it/2824971/PI/News/luna-on-the-rocks.aspx
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Google: il Senato combatta i censori 03.03.2010
BigG vorrebbe che le autorità statunitensi si impegnassero più attivamente nella lotta al silenziamento del libero pensiero online. Mentre si pensa a denunciare la Cina alla WTO e ad imporre alle società IT di non piegarsi
Roma – Le strategie in politica estera del governo degli Stati Uniti dovrebbero fare della libertà d’espressione sulla Rete uno dei propri capisaldi. Dato in particolare uno scenario come quello attuale, in cui si stagliano minacce al libero pensiero online. Da paesi come la Cina e l’Iran, tanto per iniziare. È questa, in sintesi, la recente posizione dell’alto rappresentante di Google Nicole Wong, intervenuta nel corso di un dibattito guidato dalla sottocommissione del Senato statunitense impegnata su tematiche quali i possibili approcci legislativi relativi ai principali diritti umani. Un’occasione istituzionale per Google, che ha fatto il punto sulla situazione attuale dell’ecosistema online in vari paesi del mondo.
Ma non c’era soltanto Google. I delegati di Microsoft e Yahoo! hanno alimentato il dibattito al Senato, nell’ottica di quella che è stata chiamata Global Network Initiative (GNI). Una maniera per responsabilizzare quelle società high-tech che spesso vengono spinte verso la censura da alcuni governi autoritari del pianeta. Responsabilità che forse non tutte vorrebbero accollarsi.
Almeno stando al chairman della sottocommissione – il senatore democratico Dick Durbin – che ha fatto notare come aziende del calibro di Facebook, Twitter, McAfee e Apple avessero rifiutato di partecipare al dibattito. Ma Google c’era e ci ha tenuto a far sentire le proprie posizioni. Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fare tesoro degli accadimenti più recenti, a partire da tutto ciò che ha scatenato scintille tra BigG e le autorità di Pechino.
Come ha fatto notare Wong, almeno 25 paesi del globo terrestre hanno bloccato i servizi di Google in passato. La sua piattaforma di video sharing – YouTube – non è stata ben vista da paesi come l’Iran e il Pakistan. La stessa ex-Persia ha recentemente dichiarato guerra ai servizi di posta elettronica di Gmail. Blogger e Orkut non sono stati poi accolti certo in maniera trionfale in paesi come l’India e l’Arabia Saudita.
Le autorità a stelle e strisce – secondo il parere di Wong – dovrebbero quindi pensarci molto bene prima di fare affari con governi che si premurano continuamente di soffocare la libera espressione online. Anche se lo stesso CEO di Google, Eric Schmidt, non aveva fatto mistero di avere le migliori intenzioni per il prosieguo dei rapporti commerciali con il paese asiatico.
La situazione generale a livello mondiale sarebbe dunque particolarmente grave. Se persino paesi democratici come l’Italia – ha detto Wong – hanno sistemi legislativi differenti a regolare le attività online. Con conseguenze spiacevoli per BigG, che si è ritrovata a fronteggiare una contestata condanna, in barba alle previsioni (peraltro statunitensi) del cosiddetto porto sicuro riservato agli intermediari.
L’amministrazione di Barack Obama starebbe pensando ad alcune mosse. Su tutte, quella di portare la situazione cinese davanti agli alti vertici della World Trade Organization. Una strategia che potrebbe aumentare il livello di tensione tra Pechino e Mountain View. L’accusa risiederebbe in determinate pratiche scorrette di mercato da parte del paese asiatico, ritenute fortemente discriminanti nei confronti di alcune società IT statunitensi.
Ma non si tratta di responsabilizzazioni unilaterali. Nella visione del senatore Durbin bisognerebbe imporre sanzioni di natura civile su quelle aziende statunitensi che cedono tranquillamente alle pressioni censorie dei paesi autoritari. Non sono stati offerti particolari dettagli, ma il concetto consisterebbe nella punizione di quelle società che violano i diritti umani attraverso l’oscuramento di blog e social network.
Ma questa nuova legislazione incontrerebbe alcuni impedimenti. “Con alcune eccezioni, l’industria tecnologica sembra non molto intenzionata ad autoregolarsi – ha spiegato Durbin – E nemmeno ad instaurare un dialogo diretto con il Congresso, circa i seri pericoli che minacciano i fondamentali diritti umani. Data questa sorta di resistenza, ho deciso che sia giunto il momento di essere più propositivi a riguardo”.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2824513/PI/News/google-senato-combatta-censori.aspx
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Alzheimer: da spugne marine speranza per farmaci 02.03.2010
Potrebbe venire dai tunicati, una specie di spugna marina invertebrata, un passo decisivo nella comprensione dello sviluppo dell’Alzheimer e nei test di possibili farmaci.
Secondo due ricercatori dell’Università di San Diego questo invertebrato, che ha l’80% del DNA simile a quello umano, è infatti un perfetto incubatore della malattia, e il suo utilizzo nei test potrebbe far superare le principali difficoltà in questo senso, prima fra tutte l’estrema lentezza con cui la malattia si manifesta nei modelli animali.
Mike Virata e Bob Zeller, che hanno pubblicato lo studio su Disease Models & Mechanisms, sono partiti dall’osservazione che i tunicati, che sono considerati gli organismi invertebrati più vicini all’uomo, hanno tutti i geni ‘necessari‘ a far sviluppare l’Alzheimer.
Una volta introdotta nei tunicati una proteina mutata che nell’uomo è alla base dello sviluppo delle placche all’origine di questa malattia, i ricercatori hanno effettivamente notato in solo un giorno lo sviluppo della malattia nel cervello degli invertebrati, connessa a problemi nel comportamento.
Una volta trattati con un farmaco sperimentale anti-placche gli animali sono tornati normali.
“E’ una novità fondamentale – hanno spiegato gli autori – perchè tutti i modelli sviluppati in precedenza negli invertebrati non davano luogo alle placche, mentre nei vertebrati queste si formano in diversi mesi. Ora c’è uno strumento per testare i farmaci rapidamente“.
Per approfondire:
Ricerca sul morbo di Alzheimer
Diagnosi del morbo di Alzheimer
Terapia per il morbo di Alzheimer
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Olanda, successo dell’estrema destra
Napolitano: segnale preoccupante 04.03.2010
Alle amministrative boom del partito del candidato xenofobo Gert Wilder.
Che ora punta al governo nazionale
AMSTERDAM
Adesso la destra xenofoba in Olanda fa davvero paura. A soli tre mesi dalle elezioni politiche, il Partito della libertà (Pvv) guidato dal leader anti-islam Geert Wilders ha stravinto le amministrative, affermandosi come prima forza politica nella città di Almere, ad una trentina di chilometri da Amsterdam, e come secondo partito all’Aja, la capitale dei Paesi Bassi. Clamorosa la sconfitta politica dei partiti di governo, in calo in tutto il Paese: dai cristiano-democratici del premier, Jan Peter Balkenende, che a questo punto alle prossime politiche rischiano di perdere il primato, ai laburisti del Pdva dell’ex ministro delle finanze, Wouter Bos, che perdono terreno anche nella loro roccaforte di Amsterdam. Mentre guadagnano posizioni i due partiti liberali (lo storico Vvd e il piccolo D66). Il rischio – sottolineano i commentatori politici olandesi – è che il prossimo 9 giugno il partito di Wilders possa fare il grande balzo in avanti anche a livello nazionale. E in un piccolo Paese come l’Olanda, in cui su 17 milioni di abitanti più di 800.000 sono musulmani, la situazione potrebbe davvero diventare esplosiva. Tra l’altro, nel cuore dell’Europa. «Si tratta di un segno preoccupante», è stato il commento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dopo un incontro a Bruxelles col presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek. Parole che riflettono la preoccupazione di quasi tutte le capitali europee, allarmate dall’affermazione sempre più frequente nel Vecchio Continente di formazioni che seguono orientamenti xenofobi e anti-europeistici.
«Sono tendenze fuori dalla storia e fuori dalla realta», ha affermato Napolitano, per il quale con le politiche ispirate al nazionalismo e contrarie al processo di integrazione europea «si pensa di tornare al passato, ma è una pericolosissima e anacronistica illusione». «E se queste illusioni prendono piede – ha aggiunto – è perchè le forze politiche tradizionalmente orientate all’europeismo non si battono in modo persuasivo per l’affermazione di una visione corretta e lungimirante del ruolo dell’Europa». La vittoria del Pvv di Wilders – seppur limitata a due Comuni – è ancor più sorprendente se si pensa che il partito è nato solo nel 2006, sulle ceneri della formazione guidata dal leader populista Pim Fortuyn, assassinato nel 2002. Ma le clamorose iniziative anti-islamiche del suo quarantaseienne leader – dalla richiesta di limitare drasticamente l’immigrazione a quella di bandire il Corano – lo hanno subito reso molto popolare, regalandogli già un enorme successo alle elezioni europee del giugno scorso. Ciò in un Paese che in questi anni più di altri in Europa sta vivendo il conflitto tra una tradizione di grande tolleranza e un presente di difficile integrazione con la crescente popolazione musulmana. «Quello che è stato possibile all’Aja e ad Almere è possibile in tutto il Paese», ha esultato Wilders festeggiando il responso delle urne coi suoi sostenitori. «Questa nostra vittoria è un trampolino di lancio», ha aggiunto, riferendosi all’appuntamento delle elezioni del prossimo nove giugno. Mentre il premier dimissionario Balkenende ha ammesso: «Avrei preferito risultati diversi», sottolineando «il ruolo importante» che sull’esito del voto amministrativo ha avuto la caduta del governo dello scorso 20 febbraio determinata dai contrasti interni sulla missione militare in Afghanistan.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201003articoli/52802girata.asp
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La distruzione dei boschi, la legge Attila/Presso 04.03.2010
La Regione Piemonte ha deciso di produrre il 20% del proprio fabbisogno energetico da fonti rinnovabili. Come vuol farlo? Attraverso la distruzione dei boschi. Per produrre energia saranno utilizzati ogni anno 2,2 milioni di metri cubi di legname, secondo le pazzesche norme della nuova Legge forestale regionale (L.R. 4/2009). Una legge in totale conflitto con le disposizioni di sostenibilità delle Risoluzioni approvate nelle Conferenze Ministeriali sulla protezione delle foreste in Europa. La Legge Attila/Bresso è stata approvata in modo bipartisan (e come poteva essere altrimenti?) sia dal PDL che dal PDmenoelle. In pochi anni parte dei boschi del Piemonte scompariranno, sia quelli pubblici che quelli privati. Infatti, secondo un comunicato del WWF: “Attraverso il meccanismo della gestione provvisoria associativa (L.R. 4/2009, art. 18), in Piemonte il taglio del bosco oggi può venir eseguito senza darne comunicazione diretta al proprietario. Se il proprietario vuole conservare il bosco, tocca a lui rincorrere le amministrazioni che ne deliberano il taglio e opporvisi; se non fa nulla si trova il bosco tagliato! La legna gli sarà pagata al valore reale di mercato, ma chi poi la utilizzerà come biomassa ne otterrà la supervalutazione, drogata grazie ai soldi pubblici, di cui si è detto sopra“.
I boschi sono un bene prezioso e sempre più raro, la quota pro capite di boschi dal 1861, anno della nascita dell’Italia, è dimezzata. I boschi dovrebbero essere trasmessi alle generazioni future. Distruggere i boschi per produrre energia elettrica è diseconomico, oltre che criminale. Il legno infatti ha un basso contenuto energetico CE, pari a circa un quarto di quello del gasolio.
Perché la Regione Piemonte ha approvato una legge CONTRO la proprietà privata, CONTRO l’ambiente e CONTRO l’economia? Secondo il WWF: “La risposta sta in un sistema di incentivi eccessivi, che non ha eguali in altre Nazioni europee e non è accompagnato da un adeguato corollario di limitazioni. Manca la valutazione dei costi ambientali dell’attività, che dovrebbe essere, al contrario, vincolante nei processi decisionali. Ciò che ci si prepara a fare è una grossa speculazione economica, con effetti ambientali devastanti. Francesi, svizzeri e austriaci, nostri vicini lungo l’arco alpino, pur utilizzando i boschi regolarmente, non si sognano di produrre corrente elettrica da biomasse forestali, ma si limitano a sfruttare intelligentemente i residui di lavorazione del legno a fini termici. Se strapagassimo, al prezzo attuale del legname da opera, il legno che si progetta di bruciare in Piemonte in un anno, arriveremmo alla cifra di 58 milioni di euro. Nell’attuale mercato “drogato”, per utilizzare quello stesso legno e produrre energia, l’Amministrazione Pubblica verrà a spendere una cifra estremamente più elevata, che nessuno ha calcolato (o reso noto), ma di cui possiamo aver percezione se consideriamo le dichiarazioni rese dalla Regione: negli ultimi 5 anni sono stati destinati 300 milioni di euro per promuovere l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili e, entro il 2013, sono previsti investimenti nel settore che raggiungeranno il miliardo di euro. Il dato è riferito alla generalità delle fonti rinnovabili, ma considerato che la Regione vuole ottenere il 60% dell’energia da biomasse forestali, è automatico che il grosso degli investimenti vada a finire in tale comparto. Per citare solo un esempio di voce di spesa correlata, si consideri che per le pratiche forestali in Piemonte è prevista la realizzazione di 2.000 chilometri di NUOVE STRADE FORESTALI e altrettanti Km necessitano di opere di manutenzione. Sono i soldi del cittadino, che sborsa per il kWh da biomasse circa il triplo del suo valore reale e che paga gli investimenti pubblici che sostengono la cosiddetta filiera del legno attraverso vari canali e organismi competenti: FESR, FAS, Fondo Sociale, Piano di Sviluppo Rurale (che finanzia agli agricoltori le centraline) Consorzi forestali, IPLA, UNCEM, Assessorati alla montagna e foreste, ecc..“.
Ci stiamo autodistruggendo in silenzio. Siamo una razza in estinzione. Chi avesse ancora cuore e voce scriva una mail alla presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso: presidente@regione.piemonte.it.
Ps: Scarica e diffondi il documento del WWF: “Il grande inganno energetico da biomasse forestali della Regione Piemonte“.
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Lo gnommero italiano
Nicola Palumbo, 04.03.2010
In ben 12 dialoghi, Platone argomenta che, per fondare la democrazia, bisogna allontanare dalla città retori e sofisti, che non dimostrano ciò che sostengono, ma persuadono le folle a partire dalla mozione degli affetti, dai dettati ipnotici che propongono con i loro effetti discorsivi, cioè in un modo del tutto irrazionale. La democrazia si fonda su elementi razionali, su chi vigila cosa, sulla decisionalità partecipata, non su elementi irrazionali
In ‘Quer pasticciaccio brutto de via Merulana’, romanzo ideato a partire dal 1945, che narra di una indagine, condotta dal commissario della Squadra Mobile di Polizia ‘Don Ciccio’ Ingravallo su un furto di gioielli, ai danni di un’anziana donna di origini venete, la vedova Menegazzi, in un tetro palazzo di via Merulana 219, noto come ‘Palazzo degli Ori’, a due passi dal Colosseo, dove in seguito viene uccisa la moglie di un uomo facoltoso, la signora Liliana Balducci, dalla quale Ingravallo è attratto, lo scrittore italiano e giornalista RAI Carlo Emilio Gadda scrive: “Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia”.
Il giallo non ha soluzione e non si chiude con la scoperta del colpevole: Gadda stesso sosteneva di non sapere chi fosse; secondo la sua concezione, la realtà è troppo complessa e caleidoscopica per essere spiegata e ricondotta ad una logica razionalità, la vita è un caos disordinato, un “pasticciaccio” di cose, persone e linguaggi. Il “pasticciaccio” è “brutto” proprio perché è uno “gnommero”, un gomitolo, una matassa ingarbugliata, inestricabile, inscindibile, che rappresenta uno spaccato della società italiana.
Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Raffaella Bartolini, tra i principali azionisti del quotidiano ‘Il Foglio’, diretto da Giuliano Ferrara, e attrice italiana che, durante una rappresentazione al teatro Manzoni di Milano nel 1980 ne conobbe il proprietario Silvio Berlusconi, intraprendendo con lui una relazione, martedì sera 28 aprile 2009, con una e-mail all’Ansa, in risposta all’articolo dal titolo “Donne in politica: il ‘velinismo’ non serve” di Sofia Ventura, pubblicato sul periodico on line della ‘Fondazione Farefuturo’, presieduta da Gianfranco Fini, proprio nel mezzo della campagna elettorale per le europee, stigmatizzando duramente le belle donne candidate nel PdL e criticando il comportamento del marito, dopo aver partecipato in una discoteca napoletana alla festa per i diciotto anni di Noemi Letizia, una ragazza di Casoria, scriveva:
“Non posso più andare a braccetto con questo spettacolo. Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido. […]. Tutto in nome del potere. Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica. E per una strana alchimia, il Paese tutto concede, tutto giustifica al suo Imperatore. […]. Mio marito insegue lo spirito di Napoleone, non di un dittatore. Il vero pericolo è che in questo Paese la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica, come temo stia succedendo. Io ho fatto del mio meglio, tutto ciò che ho creduto possibile, ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene, è stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata”.
La donna, anima sensibile, motivo di elevazione, riesce a cogliere immediatamente particolari e sfumature che gli uomini, forse, neppure dopo una vita intera riusciranno a capire, la razionalità narcisistica del maschio è messa a soqquadro dalla libertà dell’intelligenza emotiva della donna, la donna sa leggere ‘tra le riga’, la donna riesce a leggere lo spazio tra una frase scritta e l’altra, l’uomo no. Chi meglio di una donna può capire un uomo che, nella fattispecie, ha avuto accanto per 29 anni? La signora Lario, che Vittorio Feltri, nell’editoriale di ‘Libero’ del 30 aprile 2009, definì “donna stravagante, forse eccentrica”, “velina ingrata” che “sicuramente è pericolosa per Berlusconi … uomo che non può essere distratto dai capricci rumorosi della moglie”, decise di rivelare in modo pubblico un fatto privato per tutelare la sua “dignità di donna”, per dare “l’esempio di una donna che sa tutelare la propria dignità”, perché “quello che emerge oggi attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, e che è ancora più grave, è la sfrontatezza, la mancanza di ritegno del potere e questo va contro le donne in genere, soprattutto contro quelle che sono sempre state in prima linea e ancora lo sono, a difesa dei propri diritti”. Il messaggio della signora Lario è un inno alla femminilità, una esaltazione della bellezza intellettuale della donna, una esclamazione di dignità, le sue parole, troppo velocemente dimenticate dai media, troppo celermente messe in soffitta, costituiscono un monito a vigilare.
Il suo gesto e il suo comportamento rappresentano uno scacco verso il sistema, che offre carni vergini in pasto ai draghi, che “sfrutta la donna-tangente come bustarella in carne ed ossa, che crea omertà e salda amicizie virili a poco prezzo, l’ultima invenzione della creatività imprenditoriale rampante” (da ‘L’infedele’, programma di approfondimento di Gad Lerner, del 12 febbraio 2010 dal titolo: ‘Bertolaso, forse ti è sfuggito qualcosa?’). Le parole della signora Lario rappresentano il grido di una donna rivolto a tutte le donne, alla loro intelligente femminilità, non al corpo, ma alla persona, non alla donna oggetto della bramosia, del possesso del maschio dominante. La donna si può sfiorare, ma non possedere, la donna si può accarezzare, ma mai ingabbiare, snaturerebbe l’ontologia della femminilità. Ma quella che Feltri bollò come colei che si esibiva “a torace nudo sul palcoscenico del teatro Manzoni (Milano) dove Silvio la conobbe, innamorandosene”, voleva anche anticipare una riflessione sullo stato di salute mentale del marito? Cosa sarebbe l’Italia, se fosse governata da un Capo del Governo “che non sta bene”? E’ previsto nella Carta Fondamentale della Repubblica italiana un organo preposto a vigilare sullo stato di salute mentale del Capo del Governo? Quando in una famiglia uno dei membri vive in uno stato di sofferenza psichica, tutta la famiglia ne risente, tutto il sistema-famiglia vive la dimensione del malessere del singolo. L’Italia in questi anni, in questi giorni, è simile ad un atleta che non si allena più da tempo, in affanno, in crisi, con tutta la rabbia in corpo di volere ritornare ai livelli agonistici di un tempo. L’Italia è un Paese che vive in una condizione di sofferenza e malessere psichico, perché è governata da “una persona che non sta bene”?
L’editoriale del 4 settembre 2009, dal titolo ‘Peligro público’, de ‘El País’, periodico non sportivo a maggior diffusione in Spagna, che fa parte del conglomerato mediatico del ‘Grupo Prisa’, diretto da Jesús de Polanco, che nel 1989 ha avviato collaborazioni con altri giornali europei e che partecipa ad una rete di risorse comuni con ‘La Repubblica’ in Italia e ‘Le Monde’ in Francia, riferendosi all’imprenditore Silvio Berlusconi, così concludeva: “Oltre a controllare i media pubblici, Berlusconi è il maggiore imprenditore della comunicazione dell’Italia. Adesso vuole liquidare i media, nazionali ed esteri, che resistono al suo dominio. Ha chiesto anche agli imprenditori di non pubblicizzare i loro prodotti in quei periodici che lo criticano. Quest’uomo è, come ha detto sua moglie, “ridicolo”; ma è anche un pericolo pubblico”.
Il 10 settembre 2009, durante la conferenza stampa congiunta del Presidente Silvio Berlusconi e del Presidente José Luis Rodríguez Zapatero, al termine del Vertice intergovernativo italo-spagnolo, tenuto sull’isola de La Maddalena, alla domanda di Miguel Mora, giornalista de ‘El Pais’, concernente la richiesta di spiegazioni sul giro di prostituzione, di veline alle sue feste e sulla necessità di rassegnare le dimissioni da Primo Ministro “per tranquillizzare un po’ gli animi”, con il suo solito sorriso sardonico, lo stesso sorriso che Omero dipinge sul volto di Ulisse, nel libro XX dell’Odissea al verso 302, quando sta per scagliarsi contro i Proci, Silvio Berlusconi, mostrando il suo machismo al mondo e con il suo solito spirito da conquistadores, affermava: “E’ invidioso è, abbiamo molte turiste straniere che hanno prenotato per le vacanze del prossimo anno. […]. Io dico che alzi, tra i maschi miei colleghi, qualcuno qui presente, la mano a dire che non è una cosa gradevole quello di sedersi ad un tavolo e, invece di trovarsi soltanto persone lontane dall’estetica, se invece gli occhi si possono posare su delle presenze femminili gradevoli e simpatiche […]. Quando io sono stato vittima di un attacco di una persona che ha voluto creare artatamente uno scandalo, io mi sono comportato come si deve comportare, secondo me, ogni padrone di casa, che non sia diverso dalla normalità delle persone, ma anche da lì è venuta fuori la prova che io non ho versato una lira, un euro, per avere una prestazione sessuale e allora confermo, aldilà di questo, che nella mia vita io non ho mai neppure una volta dovuto dare dei soldi a qualcuno per una prestazione sessuale e le dico anche perché, perché da chi ama conquistare, la gioia e la soddisfazione più bella è la conquista, se tu paghi, mi domando, che gioia ci potrebbe essere”.
La ‘Libertad Digital Televisión’, canale disponibile attraverso il servizio di ‘Internet Protocol Television Zattoo’, una Internet Protocol Television peer-to-peer, attualmente disponibile in Svizzera, Danimarca, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Norvegia, commentava che Berlusconi ha dedicato gran parte della conferenza stampa congiunta con Zapatero per “hablar de sus problemas personales” (“per parlare dei suoi problemi personali”).
Il 12 settembre 2009 il Primo Ministro spagnolo Zapatero, rispondendo ai giornalisti, a margine del suo incontro a Parigi con il Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy, in merito al comportamento di dominanza assunto da Berlusconi, durante la conferenza congiunta di due giorni prima, affermava: “Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e cortesia istituzionale”. Elena Salgado Méndez, Secondo Vice Presidente del Governo spagnolo e Ministro dell’Economia e delle Finanze, affermava di non aver gradito molto il commento di Berlusconi sulle donne del governo spagnolo e il suo sarcasmo.
In un’intervista, pubblicata il 18 settembre 2009 sul quotidiano spagnolo ‘El Pais’, rilasciata al corrispondente da Roma Miguel Mora, dal titolo “No será la Iglesia la que acabe con Berlusconi” (“Non sarà la Chiesa a farla finita con Berlusconi”), il maestro Andrea Camilleri, dipingeva l’oscurità del panorama politico italiano, chiamando Silvio Berlusconi “buffone delirante perché riflette il peggio di ciascuno di noi e suscita l’invidia che ogni italiano prova nei confronti delle motociclette che non rispettano nessuna regola del codice della strada”. Camilleri, che definiva il Partito democratico “un monstruo de dos cabezas” (“un mostro a due teste”), argomentava che gli italiani amano così tanto Berlusconi “perché si guardano allo specchio e sono uguali. Impera una maleducazione insopportabile”. E della signora Lario, esempio di “civismo femminista”, Camilleri diceva: “Non è mai stata una velina, era un’attrice di teatro e anche abbastanza dotata. E’ una donna offesa che non ne può più, che non può parlare con suo marito e decide di farlo attraverso i media. Mia moglie, se facessi una cosa simile, mi butterebbe giù dalla finestra. Ciò che risulta davvero offensivo è l’esibizionismo di papi, così poco serio. Sei un nonno di 72 anni! Se vuoi farlo, fallo con discrezione, cosciente di ciò che sei. E poi, che figuraccia! Se dici di frequentare minorenni è già un orrore, ma le escorts…”. Nell’intervista il maestro del romanzo noir parlava di una situazione italiana “sul punto di un’implosione” e concludeva asserendo che “non sarà la Chiesa a farla finita con Berlusconi. Spero siano i cittadini a farlo”.
Nell’intervista raccolta dal giornalista di ‘Anno Zero’, Stefano Maria Bianchi, andata in onda durante la puntata del programma di Rai Due del 17 dicembre 2009, Umberto Galimberti, filosofo e psicoanalista, pochi giorni dopo l’aggressione al Premier del 13 dicembre 2009 in Piazza Duomo a Milano, così affermava: “A me non pare che ci sia una correlazione tra le campagne di odio e i gesti. Nel senso che l’odio e l’amore sono gli indotti di coloro che detengono il potere con strumenti di tipo carismatico. Non c’è dubbio che Berlusconi è una persona carismatica, quindi produce amore e odio. Amore e odio sono sentimenti e come tali si muovono nello scenario dell’irrazionale e se uno non controlla i propri sentimenti automaticamente compie dei gesti. Allora il problema è che il clima d’odio è proprio una inevitabile conseguenza di tutte le leadership carismatiche, così come le dimensioni d’amore. Alla stessa maniera che si dice ‘meno male che Silvio c’è’, così si crea anche una controparte di odio. Non è l’odio il mandante, il clima d’odio il mandante, ma è il carisma che prepara il terreno a che queste cose accadano”.
Ancora, spinto dal giornalista Bianchi ad una riflessione sul fotogramma, che ritrae Berlusconi, quando esce, “come un leone”, dalla macchina, sporgendosi dal predellino, rivolgendosi alla sua gente con un atto di grande coraggio, Umberto Galimberti affermava: “E’ un gesto molto forte quello di apparire al proprio popolo con la faccia rovinata, martirizzata, se poi teniamo conto che noi italiani abbiamo nel sottofondo psichico della nostra cultura questa apologia e devozione del martirio, questa figura inevitabilmente gli creerà un ulteriore consenso e alla stessa maniera gli creerà un ulteriore contrasto emotivo. Quello che io voglio sottolineare e che se una leadership, se un potere si regge sulle basi emotive è molto molto pericoloso, abbiamo già passato la linea di demarcazione della democrazia. La democrazia funziona per argomenti, prima ci sono i fascini, ci sono i carismi, ci sono i plagi, ci sono le adorazioni, quindi c’è anche l’odio”.
In ben 12 dialoghi, Platone argomenta che, per fondare la democrazia, bisogna allontanare dalla città retori e sofisti, che non dimostrano ciò che sostengono, ma persuadono le folle a partire dalla mozione degli affetti, dai dettati ipnotici che propongono con i loro effetti discorsivi, cioè in un modo del tutto irrazionale. La democrazia si fonda su elementi razionali, su chi vigila cosa, sulla decisionalità partecipata, non su elementi irrazionali. La democrazia, di per sé, non è segno di benessere e di cura del bene comune, la democrazia è uno strumento, è un metodo, il miglior metodo possibile messo a punto dall’uomo finora per aver cura della cosa pubblica. La televisione è la massima espressione dell’evento retorico, dove si vince o si perde a partire dall’effetto che un discorso fa, dalla capacità di essere pronti, spiritosi, con la battuta immediata: tutto ciò non appartiene al genere dell’argomentazione, tutto ciò non costruisce la democrazia. Infatti il rischio è di una deriva telecratica, vale a dire passare dalla democrazia a ‘qualcosa d’altro’. La discussione politica si è spostata dal Parlamento, sede della democrazia, alla televisione, sede della retorica, una sorta di sospensione dell’evento democratico a favore dell’elemento retorico, che si basa sulla dimensione irrazionale.
Il 10 febbraio 2010, Robert Maggiori, giornalista di ‘Libération’, chiamato ‘Libé’ dai suoi lettori, storico quotidiano francese la cui sede è situata nel III arrondissement di Parigi, fondato nel febbraio del 1973 da Jean-Paul Sartre, Serge July, Philippe Gavi, Bernard Lallement e Jean-Claude Vernier, in un articolo dal titolo “L’Italie de Berlusconi, un pays en voie de barbarisation” (“L’Italia di Berlusconi, un Paese in via di imbarbarimento”), disegnando un ritratto impietoso del nostro Paese, al tramonto del ventennio berlusconiano, asseriva: “L’Italia è un Paese normale? L’anomalia rappresentata da Berlusconi – il fatto che concentri in sé il potere politico e mediatico, che utilizzi il Parlamento come un’azienda destinata a fabbricare leggi che lo salvino dai tribunali, che vomiti insulti sulla magistratura, che critichi continuamente la Costituzione, che riduca la politica a un cumulo di barzellette e dichiarazioni istrioniche, che porti con sé il peso dei suoi scandali sessuali – tutto questo spingerebbe a rispondere di no. Ciò che colpisce, ad esempio, è il fatto che dopo essere stata considerata il laboratorio-avanguardia dell’idea di Europa, l’Italia è oggi regredita a uno status ‘provinciale’. La sua stessa classe politica è provinciale, viaggia poco, soltanto di rado parla inglese. Il ruolo centrale ancora attribuito alla televisione immobilizza il Paese agli anni ‘80. Tutto è intrattenimento, pubblicità, talk show urlati, fondi schiena e merletti, le trasmissioni di inchiesta sono rarissime e di conseguenza quelle a cui potrebbero partecipare filosofi, storici, sociologi, psicanalisti o uomini di scienza praticamente non esistono. […]. Berlusconi è un uomo di televisione vecchio stile, per il quale Internet è un mezzo pericoloso, incontrollabile e fuori dal suo impero. Ma è a livello sociale che la regressione è più netta. Berlusconi catalizza talmente l’attenzione che all’estero non si percepisce come il fatto più importante sia piuttosto una leghizzazione della società, che porta con sé una degradazione morale e civica, un imbarbarimento dell’Italia”.
La democrazia non può e non deve finire, è un metodo perfettibile dal punto di vista ‘accidentale’, ma non dal punto di vista ‘ontologico’, senza dubbio siamo in un epoca di forte ‘rivoluzione concettuale’, si assiste alla transizione da un paradigma concettuale ad un altro, si sta dischiudendo la strada verso una forma di democrazia più evoluta, densa, appassionata e partecipata, quale è la ‘democrazia postmoderna’. Una democrazia postmoderna spinge alla partecipazione, spinge ad una cittadinanza attiva, ad un impegno civico propositivo, ad una azione risolutiva, a scendere in piazza liberamente e disarmati, la democrazia postmoderna è disarmata e disarmante, è una democracy botton-up (‘democrazia dal basso verso l’alto’), non più popolo, come serbatoio di voti, bensì cittadinanza partecipata. La politica al maschile è fallita, superata, il machismo politico ha fatto il suo corso. Un nuovo paradigma socio-politico preme per essere accettato. Questi argomenti risultano incomprensibili alla politica vecchia maniera, sono duri da intendere al politico ancorato all’ancien régime, vi è in atto uno scontro di paradigmi politici, il nuovo che preme porta con sé novità cognitive. Premono nuovi verbi che si scritturino nello spazio della polis. Solo con una ventata di novità il Belpaese si salverà, solo con l’immissione in modo incisivo del femminile in politica guarirà la politica nostrana, perché ora è ammalata e rischia di abituarsi a questa malattia. Solo con una grande novità, l’Italia potrà svincolarsi da una deriva di banlieue culturale in cui è entrata e riacquistare la posizione centrale di cui è degna dal punto di vista socio-storico.
È il tempo giusto, il tempo opportuno, il tempo speciale, è il tempo sociale per un Presidente del Consiglio dei Ministri donna.
A Lu.La. che, oltre a suggerirmi i concetti fondamentali, ne è anche co-autrice.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14311
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