Il 27.02 il cinquantenario della morte
Il progetto interrotto di Adriano Olivetti 17.02.2010
di Paolo Bricco
Adriano Olivetti era un uomo affettuoso, goffo e timido. Amava mangiare dolci e credeva che, indagando le pieghe della firma di una persona su un foglio bianco, si potesse intuirne la forza e le fragilità. Ma, soprattutto, era un industriale di grande abilità e allo stesso tempo aveva una passione politica che, con il suo carico di utopia, era insieme simile e profondamente diversa rispetto a quella del suo tempo.
Uno strano mix che lo avrebbe portato, il 23 aprile del 1955, in un discorso ai lavoratori, a formulare alcune domande, probabilmente ancora oggi rimaste inevase: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?».
I suoi 59 anni, conclusisi il 27 febbraio del 1960, ovvero mezzo secolo fa, su un treno che da Milano portava a Losanna, sono stati paradigmatici del secolo scorso, ma hanno rappresentato bene la contraddizione che egli ha incarnato per la cultura, la vita pubblica e l’industria del nostro paese.
Suo padre Camillo, che aveva fondato l’azienda a Ivrea nel 1908, era un ingegnere allievo di Galileo Ferraris e aveva idee socialiste. Anche l’ingegner Adriano era permeato dal rigore positivista del Politecnico di Torino e nutriva interesse per il socialismo. Un episodio spiega bene quanto questa posizione, nei tempi duri del fascismo, non fosse esclusivamente teorica, né la sua personalità fosse da “consenso di massa”. L’8 dicembre del 1926, portò in macchina il leader socialista settantenne Filippo Turati e il pensatore liberal-socialista Carlo Rosselli fino al porto di Savona, da dove si sarebbero imbarcati per scappare dai sicari del regime. Dai diari di Ferruccio Parri, con cui Adriano si alternava alla guida dell’auto: «Una gelida e chiara notte di dicembre. Neve, strade difficili. Lunga notte di corse or precipitose, or caute, che si temevano i posti di blocco dei carabinieri».
In lui, un altro elemento coerente con cosa è stato il Novecento per noi è l’amore verso l’America: come già capitato in gioventù a suo padre, e anche a molti altri rampolli del capitalismo nascente (per esempio Gianni Agnelli), si reca a venticinque anni negli Stati Uniti dove resta affascinato dal fordismo, tanto che convincerà gradualmente il vecchio Camillo a riorganizzare l’impresa di Ivrea, ormai una realtà nella produzione di macchine da scrivere e da calcolo, secondo i criteri tayloristici del “tempi e metodi”.
Dunque, nel suo profilo ci sono la cultura positivista, l’industrialismo fordista, il sottofondo socialista (pur temperato dalla conoscenza di Piero Gobetti) e l’America, tanta America. Tutta roba del Novecento. Anche se Adriano, alla fine della seconda guerra mondiale, scarta all’improvviso di lato. Il socialismo non basta. Come non bastano il pensiero liberale o per lui, ebreo da parte di padre e valdese da parte della madre Luisa, una interpretazione religiosa unitaria del mondo. Inizia infatti a elaborare una visione originale che condensa nell’Ordine politico delle comunità: una miscela di utopia e federalismo, autonomie locali e democrazia diretta. Una impostazione ignorata dalla politica italiana uscita dal fascismo, ma che avrebbe dato origine, al rientro a Ivrea, al movimento Comunità.
Sì, perché c’è un ritorno a Ivrea. Camillo è morto nel 1943. L’azienda, adesso, la guida lui. La crescita, dal 1946 al 1958, è significativa. Posto un indice iniziale pari a 100, l’esportazione sale a 1.787, il fatturato interno a 600, l’occupazione a 258, i salari reali medi a 386 punti. L’Olivetti è una multinazionale: in dodici anni le consociate estere salgono da quattro a diciannove. Cinque gli stabilimenti in Italia, altrettanti all’estero. Per ottenere questi risultati, Adriano Olivetti moltiplica i prodotti meccanici (la Divisumma costa 35mila lire e viene venduta a 350mila lire), chiama a Ivrea una serie di intellettuali (fra i tanti, impegnati in azienda e nelle attività culturali, lo scrittore Paolo Volponi, i poeti Franco Fortini e Giovanni Giudici, il critico letterario Renzo Zorzi, i sociologi Luciano Gallino e Franco Ferrarotti, il designer Ettore Sottsass), garantisce servizi sociali ai dipendenti (hai la depressione? L’azienda ti fa curare dai medici migliori e ti manda al mare in Toscana) e punta sulla prima elettronica. All’assemblea degli azionisti del 1959 l’imprenditore di Ivrea dice: «La tecnica elettronica potrà avere nel futuro notevoli ripercussioni sul metodo di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati in via meccanica: esiste quindi una ragione fondamentale di sicurezza che ci consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando la tecnica permetterà di trasformare alcuni nostri prodotti da meccanici a elettronici».
Fra il 1958 e il 1960 succede tutto, nell’accavallarsi di dimensioni diverse che caratterizza costantemente la sua vita. Nel 1958 partecipa, con il movimento di Comunità fattosi partito, alle elezioni politiche nazionali: si dissangua finanziariamente e viene eletto solo lui. Nel 1959 esce sul mercato il calcolatore elettronico Elea 9003. Nello stesso anno, compra la Underwood, compiendo la prima acquisizione italiana negli Stati Uniti (dovrà arrivare, a condizioni storiche completamente diverse, Sergio Marchionne con Fiat-Chrysler).
Il nodo, che si reciderà l’anno dopo con la sua morte, si aggroviglia proprio in quel 1959: l’impresa, che soffre di una sottocapitalizzazione strutturale tipica del capitalismo italiano, non ha la forza finanziaria per sostenere la doppia operazione. La crisi si avvita: a tre anni dalla sua morte, nel 1963, il patrimonio netto (61,8 miliardi di lire) è la metà dei debiti (118,5 miliardi di lire) e il gruppo sta per finire in mano a un pool di banche svizzere, che potrebbe escutere le azioni della famiglia avute in pegno in cambio di prestiti. Il gruppo di intervento organizzato da Mediobanca, che non poteva fare a meno della Fiat come partner industriale, salverà una impresa ricca di prodotti, competenze, estetica e cultura internazionale, ma povera di capitali e molto indebitata. Le posizioni del presidente della Fiat Vittorio Valletta (per cui l’elettronica di Ivrea era un «neo da estirpare») e di Enrico Cuccia (convinto soprattutto della centralità della chimica per lo sviluppo italiano), con un mitizzato e fantomatico favore americano all’uscita dall’elettronica, fanno sì che, alla fine, si sacrifichi quest’ultima, ceduta alla General Electric, e si conservi la presenza negli Stati Uniti.
L’anomalia naturale, il progetto interrotto dalla morte, l’unicità in fondo della sconfitta e il seme che, quando tutto sembrava finito con Adriano scomparso e la grande elettronica venduta, nel 1965 avrebbe comunque generato la Programma 101, il primo personal computer da tavolo. È in questo modo che si forma una specie di icona del capitalismo diverso, un uomo così descritto da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare: «Lo incontrai a Roma per la strada, un giorno, durante l’occupazione tedesca. Era a piedi; andava solo, con il suo passo randagio; gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava».
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17/02/2010 – IMMIGRAZIONE, VERSO L’INTEGRAZIONE
La diplomazia della birra e del cous cous
San Salvario a Torino era il simbolo del degrado. Dieci anni dopo è diventato un quartiere trendy
EMANUELA MINUCCI
TORINO
«Vede questa lista di interventi? La lamentela più grave riguarda gli schiamazzi serali, quelli che arrivano dalle birrerie o dai locali di tendenza. Vogliamo confrontarla con quella di dieci anni fa? Allora la gente, esasperata dallo spaccio, sfilava per strada di notte e i giornali titolavano “Tori- no: voglia di spranga contro l’immigrato”».
La storia della scommessa vinta da San Salvario (il quartiere più multietnico della città a due passi da Porta Nuova) è tutta chiusa nella cartellina gialla del comando dei vigili urbani: da zona calda, ad alto tasso di immigrati clandestini (oggi sono il 14 per cento degli abitanti) al quartiere più effervescente e culturalmente vivace della città. «È vero, ci sono voluti dieci anni, una grande figura sociale come il parroco Don Gallo, e soprattutto un’amministrazione che ha fatto della mixitè il punto di forza dell’area – spiega Carlo Olmo, docente di Storia dell’Architettura contemporanea – ma alla fine il quartiere ha saputo trasformare i problemi in opportunità».
Olmo indica in lontananza gli scavi del metrò, la trincea che separa San Salvario dall’appena rinnovata stazione di Porta Nuova e aggiunge: «Opere come questa, insieme con un fittissimo calendario di iniziative culturali, e un tessuto commerciale rivitalizzato: ecco il processo multiplo che ha saputo trasformare la diversità di San Salvario, con i suoi tanti stranieri in risorsa».
Una risorsa che in qualche caso, proprio in questa zona incastonata fra il Parco del Valentino e la stazione, è virata in status symbol. Si pensi soltanto a quanto accadde l’estate scorsa, all’asilo Bay, nel cuore di San Salvario, la scuola più multietnica della città: negli Anni Novanta era «l’asilo dei neri», quello dove nessun genitore italiano avrebbe voluto iscrivere il proprio bambino. Nel luglio scorso quelle stesse classi ad alto tasso di occhi a mandorla e pelle nera (il 60 per cento dei bambini è straniero) sono diventate meta ambitissima: i genitori dei bambini italiani capirono l’importanza del confronto fra culture diverse.
E dire che sino a qualche anno fa in quello che fu battezzato il «crocevia dello spaccio», fra via Berthollet e via Nizza, la gente arrivava a svendere gli alloggi e la sera, per strada, c’era il coprifuoco: oggi, invece, laddove resiste lo spaccio, molto più contenuto di allora i controlli danno buoni frutti: «Grazie ad un’intensa collaborazione con gli abitanti e la procura – spiega il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Antonio De Vita – è stato possibile provare l’attività di spaccio attraverso filmati che hanno garantito la condanna dei pusher». A San Salvario i carabinieri hanno da tre anni una nuova stazione. E anche i vigili urbani hanno una sede con un’ottantina di agenti di cui una buona metà è a disposizione della gente. Gente come Laura Pagano, 44 anni, architetto che dieci anni fa, per la disperazione, voleva vendere il suo alloggio di 80 metri quadri: «La sera avevo paura a rincasare, i pusher nascondevano gli ovuli nella nostra buca delle lettere». Oggi al posto del phone center che confinava con il portone di Laura c’è una bottega di birra artigianale, e la sera un viavai di fighetti. «Altra vita – commenta lei – e l’alloggio ha raddoppiato di valore». Aggiunge, orgoglioso il presidente di quartiere Mario Cornelio Levi – ora le signore torinesi hanno imparato dai loro vicini di casa a cucinare cous cous e banane verdi fritte. La diversità è diventata punto d’incontro e, perché no, tendenza: quando mangi il cibo di un altro è perché ti fidi».
D’accordo con lui è Don Gallo, il parroco-simbolo del quartiere che nel 2002 aprì il piccolo teatro Baretti al fianco della sua parrocchia: «E’ servito parecchio – racconta – come servono tuttora gli oratori e le gallerie d’arte: la cultura e il gioco, come sempre, sono collanti meravigliosi»
http://www3.lastampa.it/torino/sezioni/costume/articolo/lstp/138452/
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Storia di Yulia P.: in Russia torna la psichiatria punitiva? 13.0.2010
Lucia Sgueglia
Sabato 13 Febbraio 2010
MOSCA – All’appuntamento nella Casa dei Giornalisti di Mosca, mentre fuori la neve cade fitta, arriva con uno zainetto in spalla, viso aria acqua e sapone nonostante i 35 anni, capelli a caschetto, sguardo azzurro limpido. Rifiuta caffé, aperitivo, sigaretta. Parla calma, a volte sorride. Assurdo pensare che tra pochi giorni, Yulia Privedennaya varcherà le porte del Serbsky: il famigerato ospedale psichiatrico dove in epoca sovietica rinchiudevano i dissidenti. Psichiatria punitiva, secondo la teoria della “schizofrenia latente”: costoro erano “malati” poiché privi d’istinto di autoconservazione. Oggi la pratica pare tornata in voga in Russia.
Un mese di esame psichiatrico intensivo attende Yulia: lo ha deciso la corte suprema dopo vari inutili appelli, e perizie che l’han giudicata “suggestionabile, con idee illusorie sulla trasformazione della società”. La sua colpa? Coi compagni di P.o.r.t.o.s. (Associazione poetica per l’Elaborazione di una teoria Universale della Felicità), nel 1996 crea una comune agricola alle porte di Mosca, vicino Lyubertsy: allevano mucche e polli sulle note di Beethoven tra dipinti a olio, coltivano bio, scrivono poesie, parlano Esperanto, tra ritratti di Che Guevara, Lenin, bandiere della pace; organizzano campi estivi per bambini, accolgono figli di famiglie difficili per salvarli da alcool e droga, pagandogli gli studi. Che c’è di male? “Forse – riflette Yulia – l’aver proposto un’associazione giovanile alternativa, non finanziata dai partiti come i “Nashi” [filoPutin]. Siamo convinti che la società civile debba essere autonoma, per stimolare lo sviluppo”. Mostra alcune foto che la ritraggono con Mikhail Gorbaciov e Raissa, nella Kiev “arancione” del 2004, sulla muraglia cinese. Da sempre sostenitrice attiva di Gorby, “un politico dal volto umano, ci ha regalato un’idea”. Portos è apolitica. Ma nasce proprio dalla perestrojka: agli inizi degli ‘80 il leader ideologico e fondatore del movimento, Yuri Davidov, critica il Pcus e organizza una marcia-blitz di protesta dall’Ucraina alla Russia, 100 km in 24ore, finisce negli “Psikhushka” tra elettroshock e somministrazione forzata di medicine tossiche come il Borbomil. “Allora non poteva esistere un collettivo che non fosse il komsomol”, ricorda Yulia. Finita l’Urss, nell’ottobre 1993 difendono la casa Bianca dai tank di Eltsin in nome del pacifismo: “volevamo evitare il sangue”. E Portos è dedicata a Gennady Sergeev, il giovane ufficiale del gruppo speciale Alfa che rifiutò di obbedire agli ordini di Eltsin e sparare contro l’edificio. Col capitalismo, “cominciammo a riflettere sul lavoro contadino come vivere alternativo”. Le “comuni” tanto di moda tra Europa e Occidente negli anni 60 erano una novità assoluta per la Russia reduce dall’Urss: e Yulia dice di essersi ispirata in verità più ai kibbutz. Due capre regalate da una vecchia, poi la prima piccola fabbrica di agricoltura sperimentale, 30 persone in tutto ma tanti clienti che comprano i loro prodotti sani. “é interessante che la Russia oggi sia meno autosufficiente dal punto di vista alimentare di 100 anni fa, con Nicola II – nota Yulia – importa tutto, in provincia scarseggiano latte e carne”. La teoria economica si intreccia, seppur indirettamente, con la critica politica. Nel 2000 ricevono la visita della polizia per la lotta al crimine organizzato: “distrussero tutti i macchinari, in un hangar avevamo una biblioteca di 10mila volumi”. Davidov è arrestato con altri 4, condannato a 6 anni, un compagno a 8, altri due dichiarati infermi mentalmente (le loro, “idee deliranti sulla ricostruzione e la riforma della società”). L’accusa è “organizzazione di formazione armata illegale” e “limitazione della libertà altrui”. Fucili da caccia con regolare porto d’armi, spiega Yulia: “avevamo subito attacchi, Lyubersty è il regno dei narcotrafficanti, non gli andavamo giù”. La seconda accusa riguarda due minorenni che vivevano da Portos: “Pensiamo che gli inquirenti abbiamo pagato le famiglie o costretto i ragazzi a dire che li maltrattavamo, è falso”. In prigione Davidov, morto l’anno scorso, scrive un libro zeppo di statistiche per dimostrare che la salute dei russi è peggiorata sotto Putin. “I numeri non mentono”, commenta Yulia. I Portos cambiano sede, ma nel 2007 tocca a Yulia: stesse accuse, 3 mesi in cella d’isolamento – il famigerato Sizo – senza processo. “Erano dei servizi segreti, mi fermarono mentre andavo al funerale di una poetessa: le vostre idee sono peggio di crimini, dissero. E ammisero che mi seguivano da 5 anni”.
Utopisti, hippy, estrosi, sognatori forse, ma certo non pericolosi. Nell’ultima perizia, a interrogare Yulia è la dott.ssa Venera Akhmerova, al Serbsky da 35 anni: “mi chiese cosa pensavo di Putin e Stalin, perchè non facevo una vita normale come tutti, famiglia, bambini. Citai Pushkin, mi disse che era pazzo anche lui. Al processo non c’erano testimonianze contro di me, ecco perché hanno deciso la via psichiatrica”. Ora Yulia, che ama leggere Campanella e Giordano Bruno, ma anche Evtushenko e Solzhenytsin, rischia il prolungamento del ricovero a 90 giorni: “Ho paura che mi diano medicine dannose come successe a Yuri. E allora diverrò pazza davvero”. Ma non si arrende. Portos ha una filiale in Ucraina, vicino Kharkov, nel villaggio di Karavan, si chiama “Sparta”, un invito al lavoro duro: lì le tv sono più libere, sono andate a trovarli, hanno raccontato la loro “città del sole”, un modello, pare, che comincia a fare proseliti.
Sul Messaggero
http://www.lettera22.it/showart.php?id=11237&rubrica=11
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A Torino
Deceduto Emilio Lavazza, presidente onorario della società del caffè
A capo dell’azienda dal 1979 al 2008, quando divenne la più grande in Italia delle società monoprodotto 17-18.02.2010
– Si è spento martedì a Torino, ma la notizia è stata diffusa solo oggi, il cavaliere del lavoro Emilio Lavazza, 78 anni, presidente onorario dell’omonima società produttrice di caffè. Era l’esponente della terza generazione della famiglia. È stato, si fa notare negli ambienti industriali torinesi, uno straordinario capitano d’industria che ha dato all’azienda cinquant’anni di conduzione esemplare.
AZIENDA – Nel 1955 entrò nell’azienda familiare, la Lavazza spa, fondata nel 1895 dal nonno Luigi. Nel 1971, alla morte del padre Giuseppe, venne nominato amministratore delegato. Nel 1979, scomparso anche lo zio, divenne presidente, incarico mantenuto fino al 2008, quando fu nominato presidente onorario. Nel 1993 è stato insignito della laurea honoris causa in economia e commercio dell’Università di Torino. È stato membro della giunta dell’Unione industriale di Torino e presidente dell’Associazione italiana industrie prodotti alimentari. Sotto la sua guida la Lavazza è diventata la più grande azienda monoprodotto italiana, tra le maggiori del settore alimentare e leader nel panorama italiano del caffè con una quota nazionale pari al 47% del mercato. Con la volontà di internazionalizzare l’azienda, attraversando culture, lingue e realtà diverse, ha iniziato la diffusione del «caffè all’italiana». La Lavazza conta più di 4 mila addetti ed è presente in oltre 90 Paesi con una fitta rete di distributori e nove consociate dirette in Francia, Inghilterra, Germania, Stati Uniti, Austria, Spagna, Brasile e India.
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Ceausescu vale 2.300 Euro 18.02.2010
Circa 2.300 euro: tanto ha costato a Valentin Ceausescu la registrazione del ‘brand’ famigliare all’Osim, l’ente che si occupa della registrazione dei marchi in Romania.
Valentin, figlio del dittatore Nicolae, ha depositato il marchio circa un anno e mezzo fa allo scopo di tutelare l’immagine dei genitori. Il brand è registrato con il numero 252037 e ne è vietata la riproduzione su 45 classi di prodotti.
OraValentin ha sporto denuncia contro uno spettacolo teatrale che porta in scena le ultime ore dei genitori, processati e giustiziati nel dicembre 1989. Il nome del ‘brand’ è stato infatti utilizzato senza averne prima richiesto l’autorizzazione.
http://raccoltaindifferenziata.wordpress.com/2010/02/18/ceausescu-vale-2-300-euro/
Dalla rassegna http://www.caffeeuropa.it/
Il Corriere della Sera racconta che quello di Ceausescu è diventato un “marchio vincente in Romania”: “Dalle confezioni di cioccolato ai cellulari: il volto del Conducator fa vendere di tutto”. Ma il figlio Valentin, per arginare lo sfruttamento del nome, ha deciso di registrare il cognome al registro dei brevetti di Bucarest.
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Bauman
Anticipazione/ “L´etica in un mondo di consumatori”, il pensatore della “modernità liquida” riflette sulla dittatura del presente
La vita “adessista” non vuole acquisire o collezionare ma solo rottamare, Febbraio 2010
ZYGMUNT BAUMAN
È stato Stephen Bertman a coniare i termini «cultura del momento» e «cultura della fretta» per definire il nostro modo di vivere in questa società. Sono definizioni idonee e che risultano particolarmente comode ogni volta che cerchiamo di cogliere la natura della condizione umana liquido-moderna. La mia tesi è che tale condizione si caratterizza principalmente per la sua tendenza (un caso fin qui unico) a rinegoziare il significato del tempo.
Il tempo, nell´era liquido-moderna della società dei consumatori, non è né ciclico né lineare, com´era normalmente per le altre società note della storia moderna o premoderna. Direi che è invece puntinista, frantumato in una moltitudine di pezzetti distinti, ognuno ridotto a un punto che si avvicina sempre di più alla sua idealizzazione geometrica di non dimensionalità. Come ricorderete sicuramente dalle lezioni di geometria a scuola, i punti non hanno lunghezza, larghezza o profondità: esistono, si sarebbe tentato di dire, prima dello spazio e del tempo; sia lo spazio che il tempo ancora non sono cominciati. Ma come quell´unico punto che, secondo quanto ipotizzano le teorie cosmogoniche più avanzate, precedeva il big bang che diede inizio all´universo, ogni punto si presume contenga un infinito potenziale di espansione e un´infinità di possibilità che attendono di esplodere se adeguatamente innescate. E ricordiamo che nel «prima» che precedette l´eruzione dell´universo non vi era nulla che potesse fornire la benché minima avvisaglia che stava avvicinandosi il momento del big bang. I cosmogonisti ci dicono un mucchio di cose su quello che avvenne nelle prime frazioni di secondo dopo il big bang; ma conservano un odioso silenzio sui secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni o i millenni prima.
Ogni punto-tempo (ma non c´è modo di sapere in anticipo quale) potrebbe – soltanto potrebbe – recare in sé la possibilità di un altro big bang, anche se questa volta su scala ben più modesta, da «universo individuale», e i punti successivi continuerebbero a essere visti come punti recanti tale possibilità, indipendentemente da ciò che sarebbe potuto succedere con i punti precedenti e nonostante l´esperienza accumulata dimostri che la maggior parte delle possibilità di solito è predetta in modo errato, trascurata o mancata, che la maggior parte dei punti si è rivelata infruttuosa e che la maggior parte dei sommovimenti è morta sul nascere. Una mappa della vita puntinista, se mai venisse tracciata, assomiglierebbe a un camposanto di possibilità immaginarie o irrealizzate. O, a seconda del punto di vista, come un cimitero di occasioni sprecate: in un universo puntinista, i tassi di mortalità infantile e di gravidanze abortite della speranza sono molto elevati.
È proprio per questa ragione che una vita «del momento» normalmente è una vita «della fretta». La possibilità che potrebbe essere contenuta in ogni punto lo seguirà nella tomba: per quell´unica, particolare possibilità non ci sarà una «seconda possibilità». Ogni punto può essere vissuto come un nuovo inizio, ma spesso e volentieri il traguardo arriverà poco dopo la partenza, e in mezzo sarà accaduto ben poco. Solo una moltitudine, in inarrestabile espansione, di nuovi inizi può – semplicemente può – compensare la profusione di false partenze. Solo le vaste distese di nuovi inizi che siamo convinti ci aspettino più avanti, solo una moltitudine sperata di punti le cui potenzialità da big bang ancora non sono state messe alla prova, e che perciò ancora non sono state screditate, possono salvare la speranza dalle macerie delle conclusioni premature e degli inizi abortiti.
Come ho detto prima, nella vita «adessista» dell´avido consumatore di nuove Erlebnisse (esperienze vissute), la ragione di affrettarsi non è acquisire e collezionare il più possibile, ma rottamare e sostituire più che si può. C´è un messaggio latente dietro a ogni spot che promette una nuova opportunità inesplorata di beatitudine: non ha senso piangere sul latte versato. O il big bang avviene proprio ora, in questo esatto momento e al primo tentativo, oppure attardarsi in quel particolare punto non ha più senso: è tempo di spostarsi su un altro punto.
Nella società dei produttori che ormai sta scomparendo dalla memoria (almeno nella nostra parte del pianeta), il consiglio, in un caso simile, sarebbe stato: «insisti». Ma non nella società dei consumatori: qui, gli utensili inefficaci devono essere abbandonati, non affilati e rimessi alla prova con più competenza, più impegno e migliori risultati. E si lascino perdere anche quegli elettrodomestici che non sono riusciti a fornire la «piena soddisfazione» promessa a quelle relazioni umane che hanno prodotto un «bang» meno «big» di quanto ci si aspettava. La fretta dev´essere massima quando si tratta di correre da un punto (che ha deluso, che sta deludendo o che sta cominciando a deludere) a un altro (ancora non collaudato). Si dovrebbe rammentare l´amara lezione del Faust di Christopher Marlowe: finire all´inferno per aver desiderato che il momento – solo perché piacevole – potesse durare per sempre.
Data l´infinità di opportunità promesse e presunte, a trasformare in «punti» sbriciolati la più attraente novità del tempo, una novità che si può star sicuri che verrebbe abbracciata avidamente ed esplorata con passione, è la doppia aspettativa o speranza di prevenire il futuro e neutralizzare il passato. Riuscire a mettere a segno un doppio successo di questo tipo, dopo tutto, è l´ideale della libertà. (…)
Partiamo dalla straordinaria impresa della neutralizzazione del passato. Essa si riduce a un unico cambiamento nella condizione umana, ma un cambiamento realmente miracoloso: la possibilità di «rinascere» con facilità. D´ora in poi, non sono solo i gatti a poter avere nove vite. Durante quel lasso di tempo terribilmente breve che trascorriamo sulla terra, deplorato non troppo tempo fa per la sua detestabile brevità e che da allora non si è prolungato più di tanto, gli esseri umani – come i proverbiali gatti – ora hanno la capacità di spremere molte vite, una serie infinita di «nuovi inizi». Rinascere significa che la/e nascita/e precedente/i, insieme alle relative conseguenze, viene o vengono annullata/e: sembra l´avvento dell´onnipotenza di tipo divino, sempre sognata ma fino ad ora mai sperimentata. Il potere di determinazione causale può venire disarmato, e il potere del passato di limitare le opzioni del presente può venire drasticamente contenuto, forse addirittura abolito del tutto. Ciò che eri ieri non preclude più la possibilità di diventare qualcuno di totalmente diverso oggi.
Dal momento che ogni punto nel tempo, ricordiamolo, è pieno di potenziale, e che ogni potenziale è diverso e unico, si può essere diversi in modi realmente innumerevoli: è qualcosa che oscura perfino la sbalorditiva molteplicità di permutazioni e la strabiliante varietà di forme e sembianze che gli incontri casuali di geni sono riusciti finora e probabilmente continueranno a produrre in futuro nella specie umana. Si avvicina a quella capacità di eternità che sgomenta, in cui, considerando la sua infinita durata, ogni cosa può/deve, prima o poi, succedere, e in ogni caso potrà essere/sarà, prima o poi, fatta. Ora quella mirabile potenza dell´eternità sembra essere stata compressa nel tutt´altro che eterno intervallo di tempo di una singola vita umana.
Di conseguenza, l´impresa di disinnescare e neutralizzare la capacità del passato di limitare le scelte successive, e quindi di circoscrivere pesantemente le occasioni di «nuove nascite», deruba l´eternità della sua attrattiva più seducente. Nel tempo puntinista della società liquido-moderna, l´eternità non è più un valore e un oggetto di desiderio, o per meglio dire, quello che era il suo valore e che la rendeva un oggetto di desiderio è stato espunto e trapiantato nel momento presente. Di conseguenza, la «tirannia del momento» della tarda modernità, con il suo precetto del carpe diem, gradualmente ma costantemente, e forse inarrestabilmente, rimpiazza la tirannia premoderna dell´eternità, con il suo motto del memento mori.
http://materialiresistenti.blog.dada.net/post/1207124372/Bauman#more
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Buone notizie dal mondo dell’idrogeno, Febbraio 2010
Arrivano da laboratori italiani, greci e statunitensi alcune buone notizie dalla ricerca sulla produzione d’idrogeno. E sono tutte legate allo sviluppo delle tecnologie per la trasformazione dell’energia solare in energia elettrica, che stanno aprendo la strada alla produzione di idrogeno rinnovabile su vasta scala.
La rivista Energy and Environmental Science ha recentemente pubblicato le conclusioni di uno studio compiuto da ricercatori italiani del CNR diretti da Mario Pagliaro (chimico che coordina l’attività del Polo fotovoltaico siciliano) e dai loro colleghi greci guidati da Athanasios Konstandopoulos (ingegnere chimico, direttore del Laboratorio APT di Tessalonica, che coordina il progetto di ricerca comunitario Hydrosol per cui ha recentemente ottenuto il premio “Cartesio” della Commissione europea).
Lo studio propone, da un lato, l’utilizzo del fotovoltaico abbinato a un elettrolizzatore per generare idrogeno come combustibile per usi on-demand da parte di imbarcazioni o automobili; dall’altro, prospetta l’impiego della concentrazione solare per fornire calore a un processo termochimico in grado di generare enormi quantità di idrogeno, utile a soddisfare il fabbisogno energetico di centri abitati e industrie.
Il primo ha la versatilità necessaria per sostenere la creazione di un’infrastruttura di generazione distribuita di energia nei paesi in via di sviluppo soprattutto ora che il prezzo di elettricità solare è scesa a livelli bassi, senza precedenti. Al contrario, la nuova scissione termochimica ottenuta con il solare a concentrazione (CSP) ha il potenziale per trasformare e immagazzinare l’energia solare in idrogeno pulito usando solo una piccola frazione delle zone desertiche del mondo. In entrambi i casi il ricorso alla chimica nanoscopica dimostra di poter rendere vicino il traguardo della convenienza economica. Lo studio prende in esame entrambe le tecnologie, mostrando come un’economia che poggi su queste basi costituisca una reale opportunità di sviluppo sostenibile e citando una serie di casi, a cominciare dal progetto comunitario Hydrosol, coordinato da Konstandopoulos e dalle attività svolte da Pagliaro.
I lavori portati avanti parallelamente nei due paesi convergono nel documento in un’unica conclusione: l’idrogeno rinnovabile prodotto impiegando l’energia solare per scindere l’acqua sarà il combustibile del futuro.
“Le tecnologie sono due – dice Pagliaro – perché due sono gli usi del combustibile idrogeno richiesti dal mercato. E in entrambi i casi è stata l’applicazione della nanochimica alle tecnologie per la conversione della radiazione solare a rendere possibili i traguardi che le rendono ormai convenienti dal punto di vista economico”.
Dall’altra parte dell’Atlantico, intanto, i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno superato un importante ostacolo nella produzione su ampia scala di energia solare: immagazzinare l’energia per l’uso anche quando il sole non brilla. Questo sarà possibile proprio grazie a un innovativo processo che permetterà all’energia del sole di poter essere utilizzata per dividere l’acqua in idrogeno e ossigeno che potranno poi essere ricombinati all’interno di una cella a combustibile; si crea energia elettrica senza produrre carbonio.
La scoperta chiave è rappresentata da un nuovo catalizzatore che produce ossigeno dall’acqua e da un altro catalizzatore che produce idrogeno utilizzabile. Il nuovo catalizzatore è costituito da cobalto metallico, fosfato e da un elettrodo immerso in acqua. Quando l’energia elettrica – prodotta da una cella fotovoltaica, una turbina eolica o da qualsiasi altra fonte – scorre attraverso l’elettrodo, il cobalto e il fosfato formano un film sottile sull’elettrodo, producendo ossigeno. Combinato con un altro catalizzatore, come il platino, in grado di produrre idrogeno dall’acqua, il sistema è in grado di duplicare la scissione delle molecole d’acqua che si verifica durante la fotosintesi.
Fonti:
CNR
Massachusetts Institute of Technology (MIT)
http://www.scienzaegoverno.org/n/075/075_01.htm
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Le acque reflue riscaldano la piscina, Febbraio 2010
Recuperare calore dalle fognature per riscaldare la piscina comunale. Succede a Levallois-Perret, Hauts-de-Seine, comune alle porte di Parigi, dove sta per essere sperimentato “Blu Degrees”, progetto energetico d’avanguardia realizzato da Lyonnaise des Eaux, azienda francese che fornisce acqua potabile a 12 milioni di persone e provvede alla depurazione delle acque reflue prodotte da oltre 9 milioni di persone.
Ogni giorno una delle fogne principali di Levallois-Perret raccoglie l’acqua di centinaia di bagni, lavastoviglie o lavatrici, trasportando ininterrottamente un flusso d’acqua calda, dai 13 ai 20 gradi. Una fonte di energia preziosa, che il municipio ha deciso di sfruttare, con l’obiettivo di garantire all’acqua del centro acquatico una temperatura costante di 28°C per tutto l’anno.
Per ottenere ciò saranno istallati sotto il manto stradale 40 metri quadrati di lastre di acciaio inox contenenti uno scambiatore termico, a contatto con le tubature fognarie: in questo modo il liquido contenuto nei tubi dello scambiatore aumenta la propria temperatura prima di arrivare a una pompa di calore da 120 kW. L’operazione costa alla città di Levallois 474mila euro, che il progetto ripagherà in un decennio, tagliando circa il 24% dei consumi legati al riscaldamento, ossia 20.000 euro l’anno e riducendo indirettamente del 66% le emissioni di CO2.
Primo impianto francese nel suo genere, segue l’esempio di molti già esistenti nelle grandi città scandinave e di analoghi impianti funzionanti con successo in Svizzera e in Germania e che anche qualche comune italiano sta prendendo in considerazione. Va ricordato, però, che il recupero di calore sui sistemi delle acque reflue è realizzabile sono nelle zone ad alta densità abitativa, nelle quali il flusso delle acque reflue è superiore a dieci litri al secondo.
Fonte: www.leparisien.fr
http://www.scienzaegoverno.org/n/075/075_02.htm
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Ed ecco le vinacce antiparticolato, Febbraio 2010
“Vinacce antiparticolato” che riducono le emissioni del gasolio, in particolare le polveri sottili PM10. Farà anche sorridere, ma ora esiste un singolare additivo realizzato dai sottoprodotti della lavorazione del vino, il cui utilizzo sembra capace di dimezzare le emissioni di PM10 di motori datati, ante Euro 4 ed Euro 5, senza modifiche impiantistiche agli automezzi, costose e ancor meno convenienti sui mezzi più prossimi alla dismissione.
A mettere a punto questo inusuale additivo è stata Magigas, azienda pistoiese operante nella distribuzione del GPL in Toscana ed Emilia Romagna: lo ha chiamato Magigas D7 e lo ha testato con buoni risultati su motori di autobus Iveco Euro 0 e Euro 2 presso il Centro Ricerche europeo JRC di Ispra, in provincia di Varese. E i risultati sono sorprendenti: l’emissione specifica di un autobus equipaggiato con motore Euro 2 che circola in area urbana – che è responsabile mediamente dell’emissione di PM10 pari a 0,55 grammi per chilometro – potrebbe ridursi a 0,18 gr/Km
L’efficacia della miscela D7-gasolio sarà ora verificata dal vero, nel corso di una sperimentazione voluta e finanziata dalla Regione del Veneto, che interesserà per un periodo di sei mesi, da marzo ad agosto, l’intera flotta di autobus dell’Actv in servizio al Lido di Venezia. L’iniziativa è stata presentata dall’assessore alle politiche della mobilità del Veneto Renato Chisso, da Giovanni Torracchi amministratore delegato di Magigas, e da Stefano Biondi Presidente di Envicon, società che fornirà l’additivo e le apparecchiature di misurazione finalizzate a verificare in continuo la riduzione degli inquinanti nei gas di scarico.
La raccolta dei dati e la certificazione dei risultati ottenuti saranno affidate in continuità al Centro di Ricerca della Commissione Europea di Ispra e all’Arpav; alla sperimentazione collaborerà anche l’Università di Venezia. A metà del periodo di prova sarà presentata una relazione intermedia sui risultati ottenuti. Il contributo regionale coprirà il costo dell’additivo e gli oneri concernenti l’analisi delle emissioni in campo e successive elaborazioni; le spese di comunicazione e presentazione della sperimentazione all’utenza; l’attività di divulgazione scientifica.
I controlli sulle emissioni saranno effettuati con apparecchiature mobili poste sui mezzi stessi, in modo da permettere un monitoraggio costante in tutte le situazioni operative in un periodo soggetto a numerose variazioni climatiche. L’operatività circoscritta al territorio dell’isola permetterà un’analisi precisa del comportamento dei mezzi alimentati in una prima fase con gasolio commerciale e quindi, in seguito con gasolio miscelato con additivo D7. La riduzione di PM 10 attesa dalle prove è dell’ordine di 185 kg, ma è previsto un significativo calo anche per l’anidride carbonica (-30 per cento, 2.656 tonnellate), per gli ossidi di azoto (-5/-10 per cento) e per gli idrocarburi incombusti (- 25 per cento).
La Regione ha finanziato la sperimentazione con 100 mila euro e se avrà successo, vedrà la conversione di tanti altri motori inquinanti in auto ecologiche. I prossimi, come ha annunciato l’amministrazione locale, saranno i vaporetti.
Fonte: Ufficio Stampa Regione Veneto
http://www.scienzaegoverno.org/n/075/075_04.htm
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Cosa rischia ora l’Italia 18.02.2010
di Luigi Zingales
Il rigore di Tremonti non basta a frenare il contagio greco. Si deve riformare lo Stato
L’aspetto più sorprendente della crisi dell’euro, scatenata dai problemi greci, è l’assenza dell’Italia dalla lista dei colpevoli. I paesi a maggior rischio, soprannominati ‘PIGS’ (porci), sono il Portogallo, l’Irlanda, la Grecia e la Spagna (da cui l’acronimo), non l’Italia. Il ‘Wall Street Journal’ ha addirittura menzionato l’Italia tra i paesi che dovrebbero finanziare un possibile intervento a favore della Grecia. C’è di che rallegrarsi?
Se l’Italia non si trova oggi sul tavolo dei principali imputati lo deve principalmente alla prudenza del nostro settore privato. A fronte di un elevatissimo rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, abbiamo un indebitamento delle famiglie molto limitato. Il nostro debito estero totale (privato più pubblico) è solo il 125 per cento del Pil, contro il 175 per cento della Grecia e il 928 per cento dell’Irlanda. Questa prudenza ha anche evitato una bolla immobiliare, che è costata carissima a Spagna e Irlanda, sia in termini di caduta del Pil che in termini di crisi bancarie. Parte del merito va anche riconosciuto al ministro Giulio Tremonti, che ha resistito alle forti pressioni ad aumentare la spesa pubblica. Mentre i deficit di bilancio di Grecia, Irlanda, e Spagna sono esplosi al 12-13 per cento del Pil, il nostro è salito ‘solo’ al 5 per cento, un livello non sostenibile nel lungo periodo, ma accettabile nel mezzo della peggior recessione del dopoguerra.
Queste virtù che ci hanno salvato nel breve periodo, però, non devono generare false illusioni. Al di là dei problemi contingenti dei PIGS, questa crisi mette in luce le contraddizioni di un’unione monetaria che non si è trasformata in unione politica.
Rinunciare alla sovranità monetaria ha costi e benefici. Finora abbiamo goduto dei benefici: tassi di interesse bassi e stabili, che hanno ridotto il
disavanzo pubblico in un paese con un enorme debito. Adesso, però, cominciamo a vederne i costi. L’Italia, che come i PIGS ha visto i propri prezzi crescere più dei partner commerciali, ha perso di competitività. Non potendo svalutare il cambio, per recuperare la competitività rimangono solo tre possibilità: un forte aumento della produttività, una riduzione dei salari, o un congelamento dei salari nel contesto di una politica monetaria più accomodante nei confronti dell’inflazione. La prima possibilità, di gran lunga preferibile, è difficile da conseguire. La produttività italiana è cresciuta a ritmi molto lenti negli ultimi anni. Per invertire questa tendenza sarebbero necessari forti investimenti del settore privato, difficilmente concepibili in un periodo di crisi. La riduzione dei salari nominali è difficilmente gestibile dal punto di vista sociale, come le proteste in Grecia dimostrano. La terza soluzione è inaccettabile ai nostri partner europei, soprattutto tedeschi, che non hanno alcuna intenzione di tollerare una maggiore inflazione per alleviare gli errori degli altri membri dell’unione.
In questo contesto è forte per i PIGS (e soprattutto per la Grecia) la tentazione di uscire dall’euro. L’uscita permetterebbe un forte aumento di competitività (almeno nel breve periodo) senza toccare i salari nominali. L’aumento dei tassi che ne conseguirebbe renderebbe inevitabile un default sul debito, ma questo default colpirebbe principalmente gli investitori esteri, che detengono la maggior parte del debito dei PIGS (e dell’Italia). Non è un’opzione facile, ma può diventare preferibile a un periodo di forte recessione e tensioni sociali. Questa è la paura dei mercati finanziari che oggi attribuiscono una probabilità del 10 per cento che la Grecia faccia default entro un anno.
Nel momento in cui l’uscita della Grecia rendesse la scelta di aderire all’euro reversibile, la sorte dell’Italia sarebbe segnata. Anticipando la possibilità di un default, i mercati finanziari comincerebbero a richiedere tassi più elevati sul debito pubblico italiano. Un rialzo dei tassi aggraverebbe il nostro deficit di bilancio e ridurrebbe il beneficio di stare nell’euro, aumentando la probabilità di una nostra uscita con inevitabile default: un circolo vizioso da cui è difficile uscire.
Purtroppo la disciplina fiscale di Tremonti, pur necessaria, non è più sufficiente. A meno di miracoli del settore privato, l’unica via sicura per riguadagnare competitività senza svalutare è riformare lo Stato. L’inefficienza statale (dai processi interminabili, alle code per i permessi, alla mancata protezione contro la criminalità) pesa come un macigno sulle nostre aziende. Rimuovere questo macigno è necessario per rimanere in Europa.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cosa-rischia-ora-litalia/2121293/18
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di Jean Baudrillard
Georges Bataille, teorico dell’economia solare
Oggetti DI SCAMBIO 19.02.2010
Anticipiamo dal numero zero della rivista «tysm» un testo inedito di Jean Baudrillard che, prendendo spunto dalla lettura delle opere di Bataille, riflette sui concetti di accumulazione e di consumo e sui processi simbolici del dono e del contro-dono
Continuità, sovranità, intimità, intensità immanente: un solo pensiero, in Bataille, un solo pensiero mitico, dietro questi termini: «Io sono di quelli che votano gli uomini a cose diverse dalla produzione che cresce incessante, che li provoca all’orrore sacro».
Il sacro è, per eccellenza, la sfera della «parte maledetta», sfera della dépense sacrificale, del lusso e della morte. Sfera di un’economia «generale» che contraddice tutti gli assiomi dell’economia propriamente detta (un’economia che, generalizzandosi, brucia i suoi propri limiti e passa davvero al di là dell’economia politica – cosa che quest’ultima e tutto il pensiero marxista non sono in grado di fare secondo la logica interna del valore). È anche la sfera del non-sapere.
Paradossalmente, le opere riunite qui (Baudrillard si riferisce al settimo volume delle Oeuvres complètes di Georges Bataille, ndt) sono in qualche modo il «Libro del Sapere» di Bataille, quello in cui prova a alzare i contrafforti di una visione che, in fondo, non ne ha bisogno, la cui pulsione verso il sacro dovrebbe, pur nella sua incandescenza distruttrice, negare quel tipo di apologia e di esposizione discorsiva che sono la Part Maudite e la Théorie de la Religion. «La mia posizione filosofica è fondata sul non-sapere che concerne l’insieme, poiché il sapere non concerne che i dettagli». Bisogna dunque leggere questi frammenti apologetici sul doppio versante del sapere e del non-sapere.
L’idea centrale è che l’economia che governa le nostre società risulta da una malversazione del principio umano fondamentale, che è un principio solare di dépense. Da subito, il pensiero di Bataille si applica, al di là dell’economia propriamente politica (che per l’essenziale si regola sul valore di scambio), al principio metafisico dell’economia: l’utilità. È l’utilità che viene affrontata alla radice – principio apparentemente positivo del capitale: accumulazione, investimento, ammortizzazione, etc. ma in realtà principio di impotenza, incapacità totale di spendere (dépenser), cosa che sapevano tutte le società anteriori, deficienza incredibile, e che toglie all’essere umano tutta la sovranità possibile. L’economia nel suo insieme si fonda su ciò che non può, non si sa più spendere (se dépenser), su ciò che non può più diventare la posta di un sacrificio – essa è dunque interamente residuale, è un fatto sociale ristretto, ed è contro l’economia come fatto sociale ristretto che Bataille vuole innalzare la dépense, la morte e il sacrificio quali fatti totali – ecco, questo è il principio dell’economia generale.
Il maestro alle prese con la morte
Il principio di utilità (valore d’uso) si confonde con la borghesia, con quella classe capitalista la cui definizione per Bataille (contrariamente a Marx) è negativa: essa non sa più sprecare. Allo stesso modo, la crisi del capitale, la sua fatalità crescente e la sua agonia immanente non sono legate, come in Marx, a una storia, a delle peripezie dialettiche, ma a quella legge fondamentale dell’incapacità di dispendio, che consegna il capitale al cancro della produzione e della riproduzione illimitata. Nessun principio di rivoluzione, in Georges Bataille: «Il terrore delle rivoluzione non fa che subordinare sempre più l’energia umana all’industria». Ma un principio di sacrificio – solo principio di sovranità, il cui sviamento da parte della borghesia e del capitale fa passare tutta la storia umana dal tragico sacro al comico dell’utile.
Questa critica è una critica non marxista, una critica aristocratica. Poiché guarda all’utilità, alla finalità economica come a un assioma della società capitalista. Ecco, allora, che la critica marxista non è che una critica del capitale venuta dal fondo delle classi medie e piccolo borghesi, a cui il marxismo è servito da un secolo come ideologia latente: critica del valore di scambio, ma esaltazione del valore d’uso – critica, dunque, al tempo stesso di ciò che ancora costituiva la grandezza quasi delirante del capitale, di ciò che in esso restava di religioso secolarizzato: l’investimento a ogni prezzo, a prezzo dello stesso valore d’uso.
Il marxista, da parte sua, cerca il buon uso dell’economia. Non è dunque che una critica ristretta, piccolo borghese, un passo avanti nella banalizzazione della vita verso il «buon uso» del sociale! Bataille, al contrario, si libera di questa dialettica di schiavi da un punto di vista aristocratico, quello del maestro alle prese con la sua propria morte. Possiamo tacciare questa prospettiva di pre o di post-marxismo. In ogni caso, il marxismo non è che l’orizzonte disincantato del capitale – tutto ciò che lo precede o lo segue è più radicale.
Quello che rimane incerto in Bataille (ma senza dubbio questa incertezza non può essere eliminata), è sapere se l’economia (il capitale) che si equilibra su delle dépenses assurde, ma mai inutili, mai sacrificali (le guerre, gli sprechi…) non sia quanto meno attraversata da parte a parte da una dinamica sacrificale; l’economia politica non è, in fondo, che una disavventura contrastata dalla sola grande legge cosmica della dépense? Tutta la storia del capitale non è che un’immensa deviazione verso la sua stessa catastrofe, verso la sua fine sacrificale? Non possiamo infatti non disperdere (dépenser). Una lunga spirale trascina forse il capitale al di là dell’economia, verso una distruzione dei suoi propri valori, o siamo noi per sempre in questo rifiuto del sacro, nella vertigine dello stock, che significa rottura dell’alleanza (dello scambio simbolico nelle società primitive) e della sovranità?
Bataille si appassionò all’evoluzione attuale del capitale verso la fluttuazione dei valori (che non è la loro trasmutazione) e la deriva delle finalità (che non è l’inutilità sovrana o l’assurda gratuità del riso e della morte, al contrario). Ma il suo concetto di dépense non gli ha permesso di analizzarlo: ancora troppo economico, troppo vicino alla figura inversa dell’accumulazione, come la trasgressione è troppo vicina alla figura inversa dell’interdetto. In un ordine che non è più quello dell’utile, ma un ordine aleatorio del valore, la pura dépense non basta alla sfida radicale, anche se mantiene tutto il fascino romantico di un gioco inverso dell’economia – specchio frantumato dal valore di mercato, ma impotente contro lo specchio alla deriva del valore strutturale.
Bataille fonda la sua economia generale sull’«economia solare» senza contropartita, sul dono unilaterale della sua energia che ci fa il sole: cosmogonia della dépense, che si dispiega in un’antropologia religiosa e politica. Ma Bataille ha letto male Mauss: il dono unilaterale non esiste. Non è la legge dell’universo. Lui, che ha così a fondo esplorato il sacrificio umano tra gli Aztechi, avrebbe dovuto sapere come loro che il sole non dona niente, bisogna nutrirlo di continuo con sangue umano affinché risplenda. Bisogna sfidare gli dei con il sacrificio, affinché rispondano con la profusione. Altrimenti detto, la radice del sacrificio e dell’economia generale non è mai la pura e semplice dépense, o non so quale pulsione di eccesso che ci viene dalla natura, ma un processo incessante di sfida.
Negli interstizi del testo
L’«eccesso di energia» non viene dal sole (dalla natura), ma da un continuo rilancio dello scambio – processo simbolico leggibile in Mauss, non quello del dono (questa è la mistica naturalistica in cui cade Bataille), ma quello del contro-dono – solo processo veramente simbolico e che implica, in effetti, la morte come una sorta di eccesso massimale – ma non come estasi individuale, sempre come principio massimale di scambio sociale. In questo senso, possiamo rimproverare a Bataille di aver «naturalizzato» Mauss (ma in una spirale metafisica talmente prodigiosa che il rimprovero non è veramente tale), e di aver fatto dello scambio simbolico una sorta di funzione naturale di prodigalità, al contempo iper-religioso nella sua gratuità e ancora troppo vicino, a contrario, al principio di utilità e dell’ordine economico che essa si sfianca nel trasgredire, senza mai perderlo di vista.
È ad «altezza di morte» che ritroviamo Bataille, e la vera questione rimane: «Come può essere che gli uomini abbiano tutti provato il bisogno e sentito l’obbligo di uccidere ritualmente degli esseri viventi? Non potendo rispondere, tutti gli uomini sono rimasti nell’ignoranza di quello che sono». C’è una risposta a ciò, sotto il testo, in tutti gli interstizi del testo di Bataille, ma a mio avviso non si trova nella nozione di dépense, né in quella sorta di ricostruzione antropologica che cerca di partire dai dati «oggettivi» del suo tempo: marxismo, biologia, sociologia, etnologia, economia politica, di cui cerca quanto meno di raccogliere il potenziale oggettivo, in una prospettiva che non è né esattamente una genealogia, né una storia naturale, né una somma hegeliana, ma un po’ di tutto questo.
Ma l’esigenza del sacro, essa, è senza cesura nella sua asserzione mitica, e la volontà didattica è eternamente trafitta dalla visione folgorante di Bataille, da un «soggetto del sapere» sempre «al punto di ebollizione», che fa sì che anche le considerazioni analitiche e documentarie abbiano sempre quella forza del mito che, sola, fa la forza – sacrificale – della scrittura.
(traduzione di Marco Dotti)
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100219/pagina/11/pezzo/271863/
di M. D.
PROSPETTIVE
Una critica aristocratica dell’utile
Pubblicato nel giugno del 1976, sul numero 234 della «Quinzaine littéraire» allora come ora diretta da Maurice Nadeau, Quand Bataille attaquait le principe métaphysique de l’économie è, a suo modo e prendendo le debite precauzioni, un piccolo unicum critico. Nel ’76, Baudrillard aveva infatti da poco consegnato alle stampe L’échange symbolique et la mort, apparso ancora nella «Bibliothèque des sciences humaines» di Gallimard. L’anno seguente, con un testo inizialmente pensato e scritto in forma di recensione (Oublier Foucault), maldestramente rifiutato e poi diffuso in un clima di semi-clandestinità da una sola libreria, Baudrillard si inimicò pressoché tutti a Parigi, ruppe con le edizioni di rue Sébastien-Bottin e scelse, quale proprio editore di riferimento, Galilée.
Nel ’76, però, apparve anche, sempre da Gallimard, il settimo volume delle Œuvres Complètes di Georges Bataille. Un volume incentrato sulla «parte maledetta», sui limiti dell’utile e sulle correlative nozioni di sacro e dépense, importanti anche in rapporto all’idea di «scambio simbolico» che Baudrillard aveva sviluppato derivandola in parte proprio dal meccanismo del potlach studiato da Bataille e, ovviamente, da Marcel Mauss. La pubblicazione del volume offrì a Baudrillard l’occasione per confrontarsi sulla questione dell’utile in Bataille.
Critico nei confronti di una certa impostazione marxista, Baudrillard si proponeva di trovare una via d’uscita o, se si vuole, un superamento a quella che gli pareva l’insormontabile impasse di una critica troppo in controtempo rispetto alla tarda modernità e ai suoi simulacri: l’opposizione tra valore di scambio e valore d’uso, frutto della correlativa centralità del rapporto «produzione-merce» nell’analisi economica. Il lavoro di Jean Baudrillard, su questo terreno, si era già spinto verso «un’economia politica del segno», arrivando a delineare l’orizzonte immateriale (o ipereale, secondo il suo lessico) corrispondente al dissolvimento del «concreto oggetto» dello scambio. Viste da questa prospettiva, anche le riflessioni di Bataille potevano essere un buon punto di partenza, ma non rappresentavano certo un punto di arrivo. Alla «critica del valore di scambio, ma esaltazione del valore d’uso» che Baudrillard vede nel marxismo, Bataille oppone una critica di taglio aristocratico, alla quale, però, occorre prestare attenzione, soprattutto per quanto attiene le note sulla struttura religiosa secolarizzata del capitale e sul sacro. In questa prospettiva, osservava Baudrillard, andrebbe studiata anche «la “rabbia puritana degli affari”» che impone, in un processo bulimico senza fine, che «i soldi guadagnati debbano essere subito reinvestiti e non abbiano valore né senso se non nell’arricchimento infinito» capace di coimplicare nel proprio gioco perverso ogni ingenuo o tragico antagonismo.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100219/pagina/11/pezzo/271865/
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Da rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.rekombinant.org
Disarmo: il paradosso di Obama. Pervenuto il 22.02.2010
Il giorno dopo l’annuncio di Barack Obama a favore del rilancio dell’energia nucleare negli Stati Uniti – http://www.energy.gov/ -, Massimo Scalia e Gianni Mattioli (Comitato per il Controllo delle Scelte
Energetiche e promotori del movimento antinucleare) hanno scritto che “Obama non ha mai promesso ai suoi elettori di uscire dal nucleare” e che l’America “si può permettere una politica di manutenzione del nucleare e muovere al tempo stesso un grande passo verso il futuro”.
Così non la pensa Robert Alvarez (studioso senior presso l’Institute for Policy Studies dove si occupa di disarmo nucleare, politiche energetiche ed ambientali) che ha elencato le cinque ragioni del no agli
investimenti per nuovi reattori – Five Reasons NOT to Invest in Nuclear Power – http://www.commondreams.org/headline/2010/02/17 .
Greg Mello (Los Alamos Study Group) scrive un articolo “The Obama disarmament paradox” –
http://thebulletin.org/web-edition/op-eds/the-obama-disarmament-paradox – in cui si legge che il discorso tenuto da Obama a Praga nell’aprile 2009 è stato interpretato dai più come un impegno significativo per il disarmo nucleare.
Ora, però, la Casa Bianca chiede uno degli aumenti più grandi nella storia della spesa nucleare. Se la richiesta sarà interamente finanziata, la spesa avrà un aumento del 10 per cento in un solo anno, con ulteriori aumenti promessi per il futuro. Il Los Alamos National Laboratory avrebbe un incremento del 22 per cento, il più grande dal 1944.
In particolare, il finanziamento sarebbe più del doppio per il plutonio “pit” (contenitore, materiale fissile sotto forma di pits), segnale di un impegno per la produzione di nuove armi nucleari.
Così com’è, il bilancio del Presidente è compatibile con la sua visione del disarmo?
La risposta è semplice: Non vi è alcuna prova che Obama abbia, o abbia mai avuto, alcuna prospettiva di questo tipo. Non ha detto nulla in tal senso a Praga. Lì, semplicemente, ha parlato del suo impegno “a
cercare… Un mondo senza armi nucleari”. Una vaga aspirazione, un romanzo, a quel livello di astrazione.
Il Vice President Joe Biden durante il suo discorso alla National Defense University, ha detto che alcuni membri del partito potrebbero avere dei problemi a proposito della decisione dell’amministrazione di
investire 7 miliardi dollari nei prossimi cinque anni per aggiornare il complesso di armi nucleari.
Il bilancio è stato pubblicato nei primi giorni di febbraio
http://www.cfo.doe.gov/budget/11budget/Content/Volume%201.pdf . Se si fa un confronto con gli anni passati si può vedere che nel 2008 sono stati spesi 6.30 miliardi di dollari, 6.38 nel 2009, più o meno
simile è la spesa per il 2010, mentre per il 2011 sono previsti 7.01 miliardi.
L’ultima richiesta di George W. Bush per il 2009 era stata di 6.62 miliardi ma poi il Congresso ne aveva approvati 6.38.
http://www.lasg.org/images/NuclearWeaponsBudget.gif
L’attenzione viene concentrata su due strutture, l’impianto di uranio a Y-12 National Security Complex a Oak Ridge e uno a Los Alamos.
http://www.lasg.org/ , http://www.y12.doe.gov/
Analisi sui costi e funzioni dei due nuovi impianti di produzione previsti.
http://www.lasg.org/CMRR_Dec_09.pdf
Biden ha spiegato che per capire la motivazione di tale scelta bisogna cogliere la complessa e apparentemente contraddittoria verità, per cui l’unico modo per ottenere una riduzione di armi nucleari nel mondo (come per il trattato START ), è necessario che gli Stati Uniti siano in grado
di agire da una posizione di forza nei negoziati. Se la minaccia degli Stati Uniti non è reale ed affidabile, la sua capacità di scoraggiare e influenzare la politica diminuisce.
Diversa è la posizione di Paul Martin, direttore di http://www.peace-action.org/ che ha detto che sarebbe più saggio smantellare le scorte degli Stati Uniti perchè minore è il numero di armi nucleari, più gli Stati Uniti sono sicuri e inviano un messaggio giusto al resto del mondo.
L’articolo di Greg Mello ricorda che Obama ha promesso di negoziare “un nuovo trattato di riduzione delle armi strategiche [START] con i russi” e che avrebbe proseguito con la ratifica del trattato Comprehensive Test Ban Treaty (Trattato di bando complessivo dei test nucleari), ma che paradossalmente il controllo per un fermo al nucleare dei Democratici nel Congresso, Pentagono, STRATCOM e NNSA http://nnsa.energy.gov/ , è assente.
Il ricercatore conclude affermando che il paese e il mondo devono affrontare sfide alla sicurezza davvero apocalittiche, dal cambiamento climatico alla incombente scarsità di carburanti. L’economia è molto
debole e rimarrà tale per il prossimo futuro. Gli aumenti di spesa proposti in armi nucleari in un bilancio complessivo militare più grande dal 1940, dovrebbero essere un vibrante appello per un rinnovato impegno
politico al servizio dei valori fondamentali di qualsiasi società.Questi valori sono oggi gravemente minacciati – non da ultimo da una Casa Bianca incerta, che o non vuole o non è in grado di lottare per ciò che è giusto -.
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Lo sventato golpe in Turchia è colpa dell’Europa? 23.02.2010
Suscita ovviamente stupore la notizia che un Paese ormai stabilmente integrato nell’orbita dell’economia e del commercio mondiale, con tassi di crescita del PIL tra i più elevati, agganciato stabilmente alla Comunità atlantica possa vivere l’esperienza di un colpo di Stato. Eppure è quanto il primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan ha denunciato nel corso di una visita in Spagna, rendendo noti alcuni dettagli dell’operazione di polizia che ha condotto all’arresto di 40 tra i più importanti vertici militari del Paese.
Il tentativo di rovesciare il governo del partito filo-islamico AKP (Partito del Benessere, poi trasformato in AP per una sentenza della Corte suprema turca che vietava il riferimento alla dottrina islamica) risale al 2002, anno in cui Erdogan vinse le elezioni politiche con una schiacciante maggioranza.
Già allora, le voci critiche su una possibile deriva islamica della Turchia non mancarono, in un rimpallo di accuse e di caveat che costella tipicamente la storia moderna del Paese anatolico. I militari sono i custodi della laicità dello Stato fin dai tempi della rivoluzione di Kemal Ataturk, che agganciò definitivamente la Turchia all’Occidente, secolarizzandola.
Da allora, ad Ankara si sono prodotti in meno di settant’anni ben quattro colpi di Stato, con la presa di potere temporanea dei militari per motivi di sicurezza nazionale. In questo clima, è ovvio che l’ascesa prepotente al potere di un partito politico che si richiama esplicitamente all’Islam (benché secolarizzato) sia stata vissuta con particolare preoccupazione da parte dei garanti del kemalismo, e dei militari in particolare.
Le indagini sul tentativo di putsch, che prevedeva anche due attentati ad altrettante moschee di Istanbul ed un incidente con caccia greci nei cieli dell’Egeo, hanno fatto emergere una rete fitta di relazioni tra militari e giornalisti, il cui obiettivo era quello di delegittimare il governo di Erdogan e rovesciarne quindi il potere. Un piano, conosciuto come Balyoz (“martello”) e che era stato denunciato appena un mese fa dal quotidiano turco Taraf.
La vicenda della congiura ai danni del governo si collega strettamente ad un’altra clamorosa rivelazione fatta dalla stampa nel 2008 e parzialmente ammessa da alcuni degli indagati: in Turchia sarebbe stata a lungo attiva una struttura paramilitare, conosciuta come “Ergenekon”, composta da circa 400 tra stellette, intellettuali, banchieri e professionisti, pronta ad attivarsi in caso di ribaltamento in senso islamico della Costituzione.
Una rete che la stampa, anche locale, ha paragonato alla italiana Gladio per missione, obiettivi e consistenza. La notizia del fallito golpe avrà delle conseguenze non superficiali anche sull’opinione pubblica turca, preoccupata di vedere intaccate le conquiste in senso democratico di questi ultimi due decenni.
Resta, sullo sfondo, un enorme vuoto da parte dell’Europa, che dovrebbe una volta e per tutte porsi il problema dei danni che la sua politica attendista e prudente verso Ankara sta causando negli equilibri di un alleato chiave per la sua sicurezza e di un partner energetico e commerciale formidabile.
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Pervenuto via email il 22.02.2010
Un attacco devastante ai diritti dei lavoratori
Approvata dalla Camera, la Proposta di Legge “Collegato Lavoro” ora passa al Senato
Il Disegno di Legge “Collegato Lavoro” garantisce nuove tutele per le aziende ai danni dei lavoratori: più difficile vincere cause di lavoro, impugnare licenziamenti ingiusti, ottenere giusti risarcimenti. Particolarmente garantite le aziende che fanno ricorso massiccio allo sfruttamento del lavoro precario.
Diventerebbe legge la possibilità di derogare ai CCNL, “certificando”, tramite commissioni, i contratti individuali contenenti clausole peggiorative: viene limitata la giurisdizione del giudice e si incentiva il ricorso all’arbitrato.
Certificazione dei contratti e arbitrato: vi è la possibilità di assumere lavoratori con il ricatto di sottoscrivere un contratto individuale “certificato”, dove si certifica la “libera volontà” del lavoratore di accettare deroghe peggiorative a norme di legge e di contratto collettivo, e dove il lavoratore rinuncia preventivamente, in caso di controversia o licenziamento, ad andare davanti al magistrato (rinunciando alla piena tutela delle leggi): in questo caso, il giudice viene sostituito da un collegio arbitrale che può decidere a prescindere dalle leggi e dai contratti collettivi; massima discrezionalità, da parte del collegio arbitrale, nei casi di vertenza per i lavoratori assunti con contratti precari e atipici (determinati, cocopro ecc…).
Processo del lavoro: il giudice non può entrare nel merito delle scelte organizzative e produttive poste dal datore di lavoro, non può più contestare la sostanza, le ragioni più o meno giuste delle scelte dell’azienda, ma deve limitarsi alla verifica dei requisiti formali delle azioni aziendali: questo limite si rafforza soprattutto nei casi di contratti di lavoro “certificati”, dove in giudice non può contestare le deroghe peggiorative contenute negli accordi individuali; abolito l’obbligo del tentativo di conciliazione prima del ricorso al giudice.
Licenziamenti: il giudice, nelle cause di licenziamento, deve “tener conto” di quanto stabilito nei contratti individuali e collettivi come motivi di licenziamento per “giusta causa” o “giustificato motivo”, deve considerare, più che il diritto, la situazione dell’azienda, la situazione del mercato del lavoro, il comportamento del lavoratore negli anni, ecc; tramite i contratti “certificati” si possono certificare e rendere legali motivi aggiuntivi (non previsti dalla legge e dai contratti collettivi) per licenziare liberamente il lavoratore.
Impugnazione dei licenziamenti: per i licenziamenti invalidi o inefficaci, per i contratti a tempo determinato, contratti cococo e a progetto, per i lavoratori coinvolti nei trasferimenti di ramo d’azienda, per i lavoratori che contestano forme di intermediazione del rapporto di lavoro (appalti e somministrazione), a tutti questi è introdotta, per i tempi dell’impugnazione, la prescrizione di 60 giorni a cui deve seguire, pena nullità dell’impugnazione, il ricorso o la richiesta di conciliazione entro i successivi 180 giorni. La nuova procedura ha effetto retroattivo.
Risarcimento per lavoratori a termine irregolari: nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il risarcimento onnicomprensivo è limitato tra 2,5 e 12 mensilità, il risarcimento può essere ridotto alla metà se nel CCNL di riferimento è prevista una qualsivoglia procedura o graduatoria di stabilizzazione. La norma ha effetto retroattivo.
Risarcimento per i contratti di collaborazione irregolari: il datore di lavoro che, entro il 30.09.2008, abbia fatto una qualsiasi offerta di assunzione al lavoratore in collaborazione, è tenuto unicamente a un indennizzo limitato tra 2,5 e 6 mensilità.
Attività usuranti: per salvaguardare i “conti pubblici” si introduce tra gli aventi diritto una ulteriore selezione per l’accesso alla pensione dei lavoratori esposti ad attività usuranti (graduatoria in base ai contributi versati).
Riforma degli ammortizzatori sociali: già “pagata” con l’ultima contro-riforma previdenziale, il tempo concesso al Governo, per attuare la riforma, slitta di 24 mesi.
Riordino enti previdenziali: delega al Governo per semplificare, snellire gli enti previdenziali, con un rafforzamento delle competenze dei Ministeri del Lavoro e della Sanità sugli stessi enti.
Riordino della normativa sui congedi e permessi di lavoro: a costo zero si prevede una stretta sulle norme che regolano la materia, compresi i premessi per handicap già in parte resi operativi.
Mobilità ed esuberi dei dipendenti pubblici: le procedure di messa in mobilità e di esubero dei dipendenti pubblici si estendono anche nei casi di trasferimento delle competenze dalla Stato agli enti locali o in caso di esternalizzazione dei servizi.
Part time per i dipendenti pubblici: le amministrazioni possono revocare la concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati.
Aspettativa per i dipendenti pubblici: a richiesta possono essere collocati in aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell’anzianità di servizio, per un periodo massimo di dodici mesi, ora anche per avviare attività professionali e imprenditoriali.
Apprendistato: l’obbligo scolastico può essere assolto lavorando, già dall’età di 15 anni, con contratti di apprendistato.
Assenze per malattia: obbligo di trasmissione telematica e di rilascio del certificato di malattia esclusivamente dal medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale (è esplicitamente previsto il licenziamento se la mancanza è reiterata).
Lavoro interinale: estensione dei soggetti autorizzati all’attività di intermediazione di mano d’opera: associazioni, enti bilaterali, e anche gestori di siti internet.
Contratti di prestazione occasionale: estensione dei mini cococo per i servizi di “badantato” per 240 ore all’anno solare.
Sanzioni: modifica delle sanzioni previste per il lavoro in nero, sulle infrazioni sull’orario di lavoro, previste deroghe contrattuali a livello territoriale e aziendale.
Insieme alla norme già approvate in Finanziaria (Legge 191/2009) che hanno reintrodotto il lavoro in affitto a tempo indeterminato (staff leasing) ed esteso l’utilizzo dei “buoni lavoro”, siamo di fronte al peggior attacco di diritti dei lavoratori dopo il “Pacchetto Treu” e la Legge 30: non staremo a guardare, sin da ora proclamiamo lo stato di agitazione e la mobilitazione generale.
(Da CGIL)
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La newsletter http://www.movisol.org/ del 23.02.2010
Il carry trade brasiliano, i Rothschild e il BRIC
Negli scorsi anni, il Brasile ha sviluppato un enorme carry trade che ha consentito a molte banche europee di darsi un’aura di solvibilità. Oltre alle implicazioni finanziarie, questo sistema ha una dimensione geopolitica significativa che interessa la Russia, la Cina e l’India, e cioè quei paesi che LaRouche ha designato, assieme agli Stati Uniti, quali potenziali alleati in una combinazione di potere forte abbastanza da poter imporre una sostituzione dell’attuale sistema finanziario della globalizzazione.
L’impero (britannico) della globalizzazione ha cercato di sabotare questo approccio promovendo un blocco alternativo chiamato BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) basato sulla illusoria promessa che una volta crollato completamente il sistema americano, prevarrà quello britannico con l’aiuto, appunto, del carry trade brasiliano (cfr. SAS 6/10).
Un elemento chiave dietro questa operazione è, non sorprendentemente, il principale banchiere dell’Impero Britannico nei secoli: la famiglia Rothschild. I rapporti tra i Rothschild e il Brasile sono così profondi che il sito web dell’Archivio Rothschild contiene una pagina speciale sul Brasile, l’unica nazione a ricevere queste attenzioni particolari. Vi si legge che “i legami tra NM Rothschild & Sons e la nazione brasiliana risalgono ai tempi del fondatore della banca”, nel primo decennio del XIX secolo.
Oggi colui che Lord Jacob Rothschild chiama “il mio quarto figlio”, e cioè il finanziere di Sao Paolo Mario Garnero, ha una forte influenza sul governo di Lula da Silva assieme al Banco Santander, istituto nominalmente spagnolo ma in realtà britannico. Quando si verificò una fuga di capitali dal Brasile durante la campagna elettorale del 2002, motivata dai timori che un governo Lula avrebbe portato al caos o ad azioni contro le banche, Santander decise di rinnovare le sue linee di credito al Brasile, mentre Garnero organizzò un viaggio in USA per i consiglieri di Lula, facendoli incontrare con esponenti di Wall Street e della Casa Bianca.
Garnero opera dal 1975 tramite il gruppo che ha fondato e guida ancor oggi, Brasilinvest. Esso ha funto da battistrada per la privatizzazione e la globalizzazione dell’economia brasiliana. Descrivendosi come la prima banca d’affari brasiliana, Brasilinvest poggia su alleanze con la tradizionale finanza anglo-veneziana, ben rappresentata nel suo consiglio d’amministrazione: da Nat Rothschild al Banco Santander, da Hong Kong and Shanghai Banking Corporation al Monte dei Paschi di Siena, da Carlo de Benedetti alla Societé Generale.
Garnero è finito nell’inchiesta Cirio, per cui si sta celebrando il processo di bancarotta fraudolenta. Ricordiamo che le banche che avevano usato la Cirio per fare il loro “carry trade”, hanno venduto i bonds ai risparmiatori sapendo che la Cirio era insolvente.
Nel 2004, il Consiglio Internazionale di Brasilinvest tenne la sua riunione annuale a Londra. Tra i partecipanti vi erano due finanzieri chiave per l’operazione BRIC: il re russo dell’alluminio Oleg Deripaska e l’immobiliarista cinese David Tang (DWC Tang Development). Garnero non solo presentò a Lula Deripaska, ma anche il capo del fondo di investimento cinese CITIC.
Lyndon LaRouche ha ripetutamente ammonito i dirigenti russi, cinesi e indiani contro questa truffa che sembra venire dal Brasile, ma è in realtà made in London. Nel giugno 2002, quattro mesi prima dell’elezione di Lula, LaRouche fu invitato in Brasile a discutere con rappresentanti politici, economici e militari, mentre infuriava il dibattito sulla globalizzazione. L’economista statunitense invitò i brasiliani a non cadere nel tranello ma di battersi per sviluppare il potenziale scientifico, tecnologico ed economico del paese. Lula scelse la via opposta, quella di trasformare il Brasile in una pedina degli interessi finanziari centrati a Londra.
Trattato di Lisbona: un caso per la Corte Costituzionale tedesca
Come abbiamo scritto in precedenza, il Presidente EU Herman Van Rompuy sta usando la “crisi greca” per cercare di concentrare i poteri decisionali a livello dell’Unione Europea, erodendo ulteriormente la già compromessa sovranità nazionale degli stati membri. Secondo alcune indiscrezioni, il “nuovo regime di più forte governance economica” suggerito da Van Rompuy darebbe a Bruxelles maggiore controllo sulle politiche economiche nazionali, ben al di là dell’attuale autorità di controllare i bilanci. Sarebbe stilata una lista di cinque obiettivi comuni che poi verrebbero aggiustati ad ogni paese. Gli esperti dell’UE poi monitorerebbero gli obiettivi in dettaglio, legandoli a finanziamenti e prestiti dell’Unione, e i governi inadempienti finirebbero all’indice, con tutte le conseguenze immaginabili in termini della perdita di credito internazionale.
Questa “più forte governance economica”, che assomiglia per molti aspetti a proposte formulate da alcuni politici francesi nel passato, è stata appoggiata per la prima volta dal governo tedesco. Infatti, al vertice franco-tedesco che ha preceduto il vertice UE dell’11 febbraio, il Presidente Nicolas Sarkozy e il Cancelliere Angela Merkel hanno accettato il progetto di Van Rompuy. Mentre la svolta ha avuto una certa eco sui media francesi, quelli tedeschi hanno fatto scena muta, a causa del tacito accordo tra Angela Merkel e i direttori dei grandi mezzi d’informazione, sul non trattare il tema della sovranità nel contesto della politica europea.
Approvando la proposta di Van Rompuy, la Merkel ha violato un tabù e gli ultimi principii di sovranità della Germania, esposti nella storica sentenza della Corte Costituzionale del 30 giugno 2009. La scarsa pubblicità data alle decisioni del vertice mira a evitare un ricorso costituzionale da parte di gruppi o singoli parlamentari. L’unico organo d’informazione che, in Germania, abbia svelato l’azione anticostituzionale della Merkel è Neue Solidaritaet, il settimanale del movimento di LaRouche.
– Nota personale: Qui non riesco a capire, precedentemente diceva che gli aiuti alla Grecia sono doverosi!
Un altro atto anticostituzionale è stato suggerito dagli esperti del Parlamento tedesco, che alla vigilia del vertice UE hanno presentato un parere a favore del salvataggio della Grecia giustificandolo con l’Articolo 122 del Trattato di Lisbona, che ammette aiuti per un paese membro in causa di catastrofi naturali e altre circostanze “straordinarie”.
Elezioni nel Nord Reno-Westfalia: un bivio per la politica tedesca
Le elezioni del 9 maggio nello stato del Nord Reno-Westfalia (NRW), il Land più popoloso della Germania, offrono un’opportunità cruciale al Movimento Solidarietà tedesco (BueSo), che ha annunciato di presentare almeno 40 candidati. I temi della campagna: un nuovo accordo di Bretton Woods, l’uscita dal Trattato di Lisbona e il ripristino della sovranità nazionale, l’abbandono dell’ambientalismo radicale e la reindustrializzazione ad alta tecnologia.
Il BueSo lancerà la campagna il 20 marzo con una conferenza nazionale, per discutere come promuovere sistemi di trasporto a levitazione magnetica (non solo per il NRW), trasformare il più grande porto fluviale europeo, Duisburg, da hub per la globalizzazione a hub per l’industrializzazione di tutta l’Eurasia, e sviluppare l’energia nucleare, in particolare il reattore ad alta temperatura e la fusione termonucleare. Con ciò, il BueSo si differenzia nettamente dagli altri partiti, più o meno maltusiani, ambientalisti e culturalmente pessimisti.
In una dichiarazione rilasciata il 19 febbraio, il presidente del BueSo Helga Zepp-LaRouche ha stigmatizzato la politica filo ambientalista e filo-austerità dell’attuale governo tedesco: “Fino al giorno del voto il NRW, il cancelliere Merkel e la CDU cercheranno di nascondere la vera entità del disastro e annunceranno i tagli solo dopo il 9 maggio. Ma date le scadenze e la dinamica del crollo, non sarà facile farlo. Questa dinamica colpisce non solo i paesi membri dell’UE, ma anche le amministrazioni locali. Il crollo delle entrate fiscali ha condotto molti comuni sull’orlo della rovina, e li sta costringendo a chiudere asili nido, piscine, biblioteche ecc, tutti servizi che ci sono voluti decenni per costruire. E questo significa un netto taglio nella qualità di vita dei cittadini”.
“In questa situazione è vergognoso vedere come la CDU nel Nord Reno-Westfalia stia costruendo un’alleanza con i Verdi. Gli elettori considerino bene, prima del voto, che cosa significherebbe ciò in uno stato federale che è già divenuto la vittima principale della svolta paradigmatica. Il NRW, da stato denso di infrastrutture e industria ultra-moderna, è stato trasformato in un un’area in cui molte città sono dominate da musei dell’industria e da case da gioco, banche e imprese assicurative costruiti sui riconvertiti siti industriali. Invece di costruire il treno a levitazione magnetica (maglev), in congiunzione con il CargoCap [una variante del maglev per il trasporto sotterraneo], vaste aree del NRW sono state dichiarate “zone di emissione di polveri fini” mentre gli ingorghi sull’autostrada si allungano ogni giorno. Il Verde-Nero [i colori della coalizione Verdi-CDU] è un incubo per il Nord Reno-Westfalia”.
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Bloom Box, il futuro dell’energia verde? 23.02.2010
Una azienda statunitense mette in mostra la sua soluzione energetica per il futuro e preconizza celle a combustibile alla portata di tutti. Denso il segreto, tanti i soldi e qualche nome eccellente a dare credito alla cosa
Roma – Le promesse delle unità energetiche basate su celle a combustibile, batterie “verdi” a impatto zero sull’ambiente sarebbero finalmente in procinto di divenire realtà grazie alla ricerca e al business messi in piedi da Bloom Energy. In attesa della presentazione ufficiale della tecnologia, l’azienda californiana ha mostrato in anteprima i suoi “Bloom Boxes” in un recente episodio dello show televisivo della CBS 60 Minutes.
All’apparenza ogni Bloom Box è un oggetto non molto più grande di un mattone: all’interno ci sono l’ossigeno e un combustibile ecocompatibile come gas o bio-combustibile, opportunamente mescolati all’interno delle celle per produrre la reazione chimica necessaria a generare corrente elettrica. Ogni Bloom Box, dice il CEO di Bloom Energy K.R. Sridhar, costa attualmente tra i 700mila e gli 800mila dollari ma con la produzione di massa si dovrebbe scendere fino ai 3mila dollari per unità.
A quel punto (entro 5-10 anni) ogni casa avrà il suo generatore di energia economico, sicuro e non inquinante, continua Sridhar, a concretizzare una rivoluzione da tempo attesa e sulle cui effettive ricadute la riservatissima società di Sunnyvale (nessuna insegna sull’edificio che la ospita, informazioni quasi inesistenti sul sito web ufficiale) ha sin qui totalizzato 400 milioni di dollari di fondi di investimento e l’interesse dei grandi nomi dell’hi-tech made in USA.
Nel servizio in esclusiva andato in onda sulla CBS, infatti, oltre a (di)mostrare per la prima volta l’esistenza di Bloom Box (e l’apparente conferma del fatto che le celle a combustibile stanno per trasformarsi in un business concreto) viene comunicato che i “mattoni energetici” sono già impiegati da mesi – in test che avrebbero avuto un ampio successo – presso 20 aziende inclusi giganti del calibro di FedEx, Wal-Mart, eBay e Google.
Google ha confermato l’esistenza del test, la sua durata estesa nel corso del tempo e il fatto che nei 18 mesi di funzionamento i Bloom Box impiegati sono stati attivi per il 98% del tempo e hanno generato 3,8 milioni di Kilowatt di elettricità. Sulla stessa lunghezza d’onda si trova anche eBay, secondo le cui dichiarazioni cinque Bloom Box sarebbero stati sufficienti a risparmiare 100mila dollari di costi energetici nel corso degli ultimi nove mesi.
Siamo dunque di fronte all’alba di una nuova rivoluzione ambientale, economica e tecnologica con la presentazione di quello che Sridhar non teme di definire il “Sacro Graal dell’energia pulita”? Allo scadere del countdown sul sito ufficiale di Bloom Energy si potrà forse avere qualche indizio.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2818490/PI/News/bloom-box-futuro-dell-energia-verde.aspx
Da leggere i commenti
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Pena di morte il mondo guarda a Obama 24.02.2010
MARIO MARAZZITI*
Sono 6149. I giorni in cui Gregory Taylor è stato nel braccio della morte in North Carolina, innocente. Sono finiti il 17 febbraio, quando, per la prima volta nella storia americana, è stato liberato da un verdetto di una Commissione indipendente nominata dallo Stato per i casi dubbi. 137 sono gli innocenti, molti dei quali mai risarciti, che hanno speso anni in quei bracci della morte. Come Curtis Mc Carthy, 21 anni passati nel carcere-modello di Mc Alister in Oklahoma: costruito sottoterra. Mai la luce del sole. Sepolti vivi. Vivi ma morti. Così ci si abitua all’idea. A lui, sopravvissuto, chiedo: «Provi rabbia?». E Curtis risponde, appena appena sorridendo: «No. Se avessi rabbia o odio, sarei ancora prigioniero. Invece sono un uomo libero». In California c’è il più grande braccio della morte del mondo, a San Quentin, 647 condannati. Aumentano di 30 all’anno. Pochissime le esecuzioni. Oltre alla bancarotta, all’intasamento della Corte Suprema per i ricorsi, con danno per il resto del sistema giudiziario, si apre lo scenario che essere condannati a morte senza certezza di essere uccisi per venti, trent’anni, sia una forma di tortura cui nessuno aveva mai pensato prima.
Sono 141 i Paesi del mondo che non usano più la pena capitale. Ma è un trend recente. Per millenni pensatori e Stati, da Aristotele a Kant, da Sant’Agostino a Hegel hanno trovato la pena di morte normale. Anche se i primi cristiani erano visti con sospetto nell’esercito romano perché non amavano uccidere. All’inizio degli Anni Settanta erano solo 23 i Paesi che avevano abolito la pena estrema. Oggi sono 103 in ogni circostanza, e altri 38 l’hanno abolita in tempo di pace o, di fatto, non eseguono condanne da più di 10 anni.
Emerge dal primo Rapporto sulla pena capitale del segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Il rapporto stesso segna una svolta epocale: è quella intervenuta con l’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu della Risoluzione per una moratoria universale della pena di morte il 18 dicembre 2007. La pena capitale non è più solo una questione di giustizia interna agli Stati, ma è di interesse generale perché tocca i diritti umani. È un documento non vincolante. Ma quanto sia importante lo mostra il fatto che per quindici anni c’è stato un fuoco di sbarramento per bloccarlo. Come quando nel 1998 l’Ue ha ritirato la Risoluzione alla vigilia del voto perché era nato un fronte trasversale che la descriveva come iniziativa «neocolonialista» di una superpotenza, l’Ue, che voleva imporre la sua visione dei diritti umani. Ci sono voluti altri nove anni per risalire la china. Intanto si era celebrato a Strasburgo il primo Congresso contro la pena di morte, si era registrato un grande dinamismo francese e italiano sull’argomento, era nata a Roma la Coalizione mondiale contro la pena di morte (Wcadp), a Sant’Egidio, per iniziativa di Ecpm e un’altra dozzina di organizzazioni internazionali, da Amnesty International, a Sant’Egidio, a Pri e Fidh. E’ nata, sempre per iniziativa di Sant’Egidio, con il sostegno della Wcadp, la più grande mobilitazione interculturale sul tema, che ha visto oltre cinque milioni di adesioni in più di 150 Paesi del mondo: è diventata l’Appello con milioni di adesioni e le firme dei maggiori leader religiosi e laici del mondo, consegnato all’Onu alla vigilia del voto, per vanificare l’argomento del «neocolonialismo».
Si sono affermati i due grandi appuntamenti mondiali – non rituali – anche nei Paesi mantenitori, delle Giornate contro la pena di morte, il 10 ottobre, e delle Città per la vita, il 30 novembre, mentre si sono rafforzate le coalizioni regionali e la capacità di fare «rete»: oltre cento sono i movimenti abolizionisti e molte delegazioni ufficiali di governi che parteciperanno al prossimo congresso mondiale a Ginevra, dal 24 febbraio. È cresciuta la capacità di sinergia tra movimenti della società civile e Stati. Il rifiuto della pena capitale è diventato per l’Ue un elemento identitario. Mentre è stata capace di fare un passo indietro e di collaborare alla nascita di un fronte «cross regional», tale da creare il più vasto movimento di Paesi co-sponsor all’Assemblea Generale Onu. È una sfida che si ripeterà in autunno, quando la nuova Risoluzione verrà presentata, per marcare una crescita di consenso.
Nonostante il decennio della guerra in Iraq e del terrorismo, infatti, la pena di morte è arretrata. Uzbekistan, Kazakhstan, Kirghizistan, ma anche Gabon, Togo, e altri Paesi africani hanno fatto la differenza, sostenuti anche da Ong e Stati nella svolta abolizionista. Alcune svolte sono maturate, come per la pace, anche a Roma, a Sant’Egidio.
Negli Stati Uniti, in due anni, New Jersey e New Mexico, East Coast e Far West, hanno rotto il fronte e, dopo 30 anni, hanno abolito la pena capitale. La Corte Suprema Usa ha dichiarato incostituzionale l’esecuzione di disabili mentali e minori. In Cina la Corte Suprema ha invitato a ridurre solo ai «casi molto gravi» la condanna capitale e ha tolto alle corti locali il potere di comminarla: si calcola una riduzione del 30 per cento sul totale delle esecuzioni (che non si conosce in maniera certa). L’Asia si muove: è nata l’Adpan, la coalizione regionale, le Filippine hanno imboccato di nuovo la via abolizionista, il presidente della Mongolia ha inaugurato quest’anno la via abolizionista. Taiwan ha fermato da anni le esecuzioni quando appena 7 anni fa era il paese del mondo più attivo sul fronte delle esecuzioni, in rapporto alla popolazione. Aperture ci sono in Corea del Sud. Anche se in Iran le esecuzioni crescono e vengono esibite, in Giappone è passato il primo anno senza esecuzioni capitali. In India c’è un dibattito al livello della Corte Suprema, e altrettanto accade in Pakistan, con 7000 sentenze capitali fermate. Nei Caraibi cresce il dibattito anche tra i governi, perché la pena di morte non serve contro la violenza diffusa, vera malattia caraibica, con la povertà: l’Europa può fare molto per aiutare in questa direzione. Algeria, Tunisia, Libano, Giordania possono accelerare il cambiamento nell’area del Mediterraneo. Il Marocco ha fermato, in pratica, le esecuzioni e cresce la richiesta di abolizione. Il mondo guarda all’America di Obama, che crede nella necessità di essere più in sintonia con il resto del mondo. C’è la possibilità, storica, che la prossima Risoluzione Onu in autunno veda le astensioni di Stati Uniti, Giappone e India, con la crescita dei consensi nel resto del mondo. È un obiettivo per cui vale la pena di lavorare.
*portavoce della Comunità di Sant’Egidio
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Un esame del DNA semplice ed economico potrebbe aiutare a predire le malattie di cui soffrirà un individuo 22.02.2010
Un accurato e poco costoso esame del DNA potrebbe rivelarsi estremamente utile per predire se una persona soffrirà di malattie autoimmuni o è predisposta ad ammalarsi di alcuni disturbi.
Lo hanno messo a punto i ricercatori della University’s School of Chemistry di Edinburgo sotto la guida di Juan Diaz-Mochon.
Il metodo utilizza un tipo di analisi chimica della saliva (e quindi manderebbe in pensione quella che usa gli enzimi) e sarebbe in grado di individuare anche minuscole variazioni nel codice genetico in punti critici della catena del DNA che indicano una predisposizione a precisi disturbi.
Secondo quanto spiegato dai ricercatori scozzesi, il test agirebbe in soli trenta minuti e offrirebbe una fotografia chiara e abbastanza accurata delle malattie alle quali una persona potrebbe andare incontro nel corso della vita.
Fonti
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India, un panino una birra e poi – Gesù 23.02.2010
Che devo dire? A me l’immagine di questo Gesù con la lattina di birra in una mano e la sigaretta nell’altra piace, mi piace pensare a un figlio di dio così umano, così bello con i capelli lunghi e biondi, che sembra un fricchettone buono.
Invece in India l’hanno presa molto male. Allah non si tocca, i vari dei e i vari santi induisti pure e Cristo che è, un dio minore? Così a Meghalaya, nell’India nord-orientale, hanno ritirato i libri di testo con l’immagine di Gesù hippie (forse un Gesù così in un libro di testo è un po’ eccessivo).
Ora i fondamentalisti induisti che fanno? Non ti vanno a tappezzare con l’immagine alcune città in Panjab, braccando i cristiani casa per casa? E così sono due giorni che in India si è scatenata nuovamente la caccia al cristiano. Ci siamo molto stancati di queste persecuzioni, anzi, di ogni tipo di persecuzione e violenza in India, da quella dei maoisti, che pure hanno delle ragioni, a queste religiose, totalmente irragionevoli e pretestuose. Non bastano le nostre?
http://orientalia4all.net/post/india-un-panino-una-birra-e-poi-gesu#more
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Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 25.02.2010
Google sarebbe colpevole di aver trattato a fini di profitto dati personali sensibili di un minorenne con ritardo mentale. Il tribunale di Milano, spiega Il Sole 24 ore, ha condannato ieri tre manager europei della società per la pubblicazione nel 2006 di un video in cui tre minorenni si accanivano contro un coetaneo. Parallelamente arrivano problemi per Google da Bruxelles, dove l’Antitrust Ue ha acceso un faro sul motore di ricerca in seguito alla denuncia per concorrenza sleale da parte di 3 siti concorrenti. Due sono specializzati nella comparazione di prezzi (si tratta dell’inglese Foundem e del tedesco Ciao!bing, controllato da Microsoft) e il terzo nel trovare leggi online (il francese Ejustice). Bruxelles non ha ancora avviato una indagine formale. Le tre aziende sostengono di essere penalizzate da Google attraverso l’algoritmo adoperato dalla società per le ricerche sulla rete che – spiega il Corriere- in qualche modo occulterebbe i loro nomi trascinandoli in fondo alla lista dei risultati e velandone la visibilità. Inoltre, controllando la gran parte della pubblicità, Google farebbe in modo di mantenere i prezzi alti. Sul Corriere, un colloquio con l’ex Commissario alla concorrenza Mario Monti, che ricorda come il caso Microsoft aprì la strada: l’Europa è forte se decide di esserlo, dice Monti, e aggiunge che sugli abusi di mercato siamo un modello anche nei confronti dell’America di Obama.
Su tutti i quotidiani commenti e analisi sulle vicende parallele che hanno coinvolto Google, quasi sempre con proposta delle ragioni a favore e contro l’azienda. Il Corriere della Sera ha un Focus sulla sentenza di Milano in cui si contrappongono la tesi della opportunità di controllare i contenuti (Edoardo Segantini) e quelle di chi, come Marco Gambaro, ricorda che ai postini non si chiede cosa c’è nelle lettere. Con intervista al Commissario Antitrust Antonio Pilati: nel caso del ragazzo down l’obbrobrio lo ha commesso chi lo ha filmato, divulgando il video, non il motore di ricerca. Attribuire la responsabilità a Google è improprio. Anche sul Riformista, opinioni a confronto, con intervista all’avvocato di uno dei tre dirigenti di Google Italia condannati ieri a Milano (Giuliano Pisapia).
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Google, la giornata nera del colosso web
Frida Roy 24.02.2010
Il Tribunale Milano condanna a sei mesi di reclusione tre dirigenti di Google per non aver impedito nel 2006 la pubblicazione di un video con un minore affetto da sindrome di Down insultato e picchiato da 4 studenti di un istituto tecnico. Interviene l’ambasciata Usa: non siamo d’accordo pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale. Tanti anche i commenti politici negativi
La condanna di tre dirigenti di Google per il video di un disabile picchiato – il primo caso planetario di procedimento penale che coinvolge il motore di ricerca per la diffusione di contenuti web – sta facendo il giro del mondo e della Rete, provocando anche la reazione negativa dell’ambasciatore americano a Roma, David Thorne, in un crescendo che quasi assomiglia al caso diplomatico tra il colosso del web e la Cina.
“Siamo negativamente colpiti dalla odierna decisione. Pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale, non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli Internet service provider”, fa sapere l’ambasciatore David Thorne in una nota. Una dura presa di posizione che si unisce a quelle di quanti, dopo la diffusione della notizia della condanna, hanno espresso perplessità nei confronti della decisione dei giudici milanesi.
“La direttiva dell’Unione europea sull’e-commerce, che in Italia è stata recepita nel 2003 parla chiaro: gli intermediari non possono essere ritenuti responsabili di quello che viene pubblicato sui loro siti”.
Molti blog americani e italiani prendono le difese di Big G. “Possiamo spiegare al giudice italiano Oscar Magi cos’è YouTube?”, scrive l’esperto Mike Butcher su TechCrunch, uno dei più seguiti blog tecnologici Usa, riassumendo una delle posizioni più diffuse nella blogosfera americana: i tre responsabili italiani di Google sono stati condannati in base ad “accuse ridicole”, perché il video del disabile vessato è stato tolto quasi immediatamente dal sito. Su Business Insider, Matt Sucherman, responsabile per gli affari europei, definisce dal canto suo la sentenza “incredibilmente stupida”.
Della stessa portata le reazioni in Italia. “E’ probabile che il diritto alla libertà di informazione e il diritto alla privacy saranno sempre più in conflitto. E tutti coloro che vorranno ridurre la prima potranno appellarsi alla seconda”, scrive il noto blogger Luca De Biase, mentre per Vittorio Zambardino “non è la libertà di Google in gioco ma quella dei singoli”.
Per il presidente del Garante della Privacy, Francesco Pizzetti, la sentenza “pone all’attenzione di tutti la necessità di individuare con urgenza regole condivise”, mentre è “inaccettabile” per gli Internet Provider. “La responsabilità penale personale di un soggetto privato non può essere trasferita ad un operatore che si trova nell’impossibilità oggettiva di controllare un contenitore immenso di contenuti video come YouTube”, dice Dario Denni, segretario dell’Aiip, l’Associazione italiana Internet Provider che riunisce 50 operatori. E Andrea Monti, avvocato ed esperto di diritto della Rete, spiega che si potrà commentare meglio quando sarà nota la motivazione della sentenza, ma “per il momento è interessante notare che il giudice ha assolto sull’accusa di diffamazione. E’ stata dunque rigettata l’impostazione accusatoria che collegava l’omesso controllo sui contenuti pubblicati tramite Google alla lesione della reputazione”.
Tanti anche i commenti politici negativi, da Paolo Gentiloni del Pd (“sentenza allarmante”) a Ffwebmagazine.it, periodico online della Fondazione Farefuturo che chiede di “punire i bulli e non il web”, in una delle giornate più nere di Google, da oggi ufficialmente anche sotto la lente dell’Antitrust Ue dopo una segnalazione del concorrente Microsoft.
L’anno scorso aveva fatto discutere la vendita di cimeli nazisti, autenticati dallo storico negazionista David Erving, su e-Bay. Finora non era mai accaduto, tuttavia, che Google venisse condannata per il contenuto di un video caricato su Youtube, in Italia né in Europa.
La sentenza coincide con un periodo tutt’altro che facile per il motore di ricerca americano, negli ultimi tempi al centro di un attacco concentrico in Italia da parte di diversi settori, uniti nel chiedere un giro di vite sulla rete. Da ultimo, il blitz (fallito) del decreto Romani, che prevedeva filtri al web e assimilava i servizi televisivi a quelli Internet.
E’ in questo clima di forte ostilità che è maturata una sentenza destinata non solo a far discutere, come già sta facendo, ma che potrebbe anche creare un precedente nel quadro regolamentare comunitario. Senza dimenticare che la decisione dei giudici di Milano, nel caso in cui venisse impugnata a Strasburgo, potrebbe anche essere oggetto di una procedura di infrazione da parte della Ue qualora venisse riconosciuta difforme rispetto alla normativa vigente.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14258
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25/2/2010 – LA CONDANNA DI GOOGLE
La libertà e l’anarchia
VITTORIO SABADIN
Dal punto di vista di Google, l’aspetto più preoccupante della sentenza di Milano è che ogni video dovrà subire un controllo prima di essere messo online su YouTube. Poiché ogni minuto che passa circa 20 ore di nuovi filmati vengono caricati nel mondo, la decisione del tribunale mette i brividi. Un lettore del Guardian, in uno dei tanti blog subito aperti sull’argomento dai giornali europei ed americani, ha provato a fare i conti: pagando gli addetti alle revisioni anche solo 5 dollari l’ora, il costo annuo del controllo preventivo dei filmati supererebbe gli 80 milioni di dollari.
Ma questa è una ipotesi di cui Google non vuole nemmeno sentire parlare: ha pagato YouTube 1,6 miliardi di dollari nel 2006 e non ha ancora scoperto come farci soldi. L’anno scorso il sito di filmati più visitato al mondo ha perso tra i 100 e i 500 milioni di dollari e dunque non è proprio il caso di caricarlo di altre spese assumendo esseri umani al posto dei computer.
Dietro agli appelli per la doverosa difesa della libertà del web i dirigenti di Google cercano di mascherare una realtà meno nitida, che vede il principale motore di ricerca sotto attacco su vari fronti. L’editore Rupert Murdoch lo accusa di cannibalismo perché rende disponibili gratuitamente i contenuti pubblicati dai giornali; l’Unione Europea ha aperto una indagine per posizione dominante; gli autori di libri sono preoccupatissimi per il progetto di mettere online le loro opere, e gli utenti di Buzz (l’alternativa a Facebook) hanno scoperto con orrore che Google li conosce già a fondo e custodisce la lista completa dei loro amici.
La sentenza di Milano non mette in pericolo la libertà di Internet, ma si limita a cercare di porre un confine tra la libertà e l’anarchia, ricordandoci che il potere richiede responsabilità e rispetto dei diritti degli altri. Chiunque abbia un proprio website o possa accedere ad un service è in grado di mettere online un video, ma è individualmente responsabile di quello che fa. Google pretende di non esserlo, poiché afferma di non poter controllare tutto. Il suo obiettivo è cercare di fare valere in ogni parte del mondo le leggi della California, cosa che ai giudici europei ovviamente non piace. Se Google cerca di trarre profitto da YouTube, ha sentenziato il magistrato milanese, si assume anche degli obblighi e non può agire al di fuori delle leggi italiane. E questa volta non può nemmeno fare finta di non sapere: il video incriminato è rimasto infatti online per due mesi, ed è stato tra i più visti nella sezione «Video divertenti».
In gioco non sono i principi di libertà, che vanno sempre salvaguardati. Come ha detto Hillary Clinton, «Internet libero è un diritto umano inalienabile e va tutelato». Pretendere di censurare il web per evitare violazioni è come illudersi di trovare un modo per non fare commettere più reati, è impossibile. L’importante è che ci siano sistemi di controllo che intervengono quando un reato viene commesso, e che i colpevoli vengano identificati e puniti.
Ma Google, YouTube, Yahoo! e altri grandi operatori del web hanno sempre pensato di essere intoccabili semplicemente perché non sapevano che cosa c’era nei loro server. La sentenza di Milano ha stabilito che questa scusa non è più accettabile quando si trae profitto dalla grande quantità di contenuti messi a disposizione spesso senza il minimo rispetto per i diritti di copyright, per la tutela della privacy e della decenza. Occorre dunque esercitare un controllo rimuovendo con rapidità quello che va rimosso. Anche se fa male al business.
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25/2/2010 – LA CONDANNA DI GOOGLE
Caduto un principio siamo tutti più cinesi
ANNA MASERA
Dopo la sentenza di ieri, che bolla Google come penalmente responsabile per contenuti caricati dagli utenti sul Web, siamo tutti più cinesi. Il mondo su Internet si chiede come mai in Italia si attacchino i principi fondamentali di libertà sui quali è stata costruita Internet. E come mai ci si metta di traverso alla legge europea, che mette i fornitori al riparo dalla responsabilità se rimuovono i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza (come ha fatto Google). Questo meccanismo ha contribuito a far fiorire la libertà di espressione in Rete proteggendo al contempo la privacy di ognuno. Se YouTube o Facebook sono ritenuti responsabili del controllo di ogni singolo contenuto caricato sulle loro piattaforme, il Web come lo conosciamo cesserà di esistere, assieme a molti benefici connessi.
La pretesa che Google si doti di un sistema di censura per filtrare i filmati in rete è come incriminare la Società Autostrade per mancato controllo degli automobilisti al casello. E’ vero che Google, che pure è a fini di lucro e mette il casello dove vuole, deve dotarsi della migliore tecnologia possibile per evitare gli abusi. E’ quello che sta facendo, grazie a quell’etica di impresa («we shall do no evil») che ha contribuito a determinare il suo successo. Ma il possesso della patente deve essere controllato dal poliziotto, non dal casellante. Ed è ora di prendere atto dell’inapplicabilità tecnologica di certe misure. I guai di Google non sono solo in Italia, perchè questo nuovo intermediario fa paura ai concorrenti, ma finora solo la Cina l’ha censurata.
Dal New York Times ci chiedono: «L’accanimento contro Internet in Italia è perchè è una rete di comunicazione libera alternativa alle tv berlusconiane?». Risponde Luciano Floridi, Cattedra Unesco in Etica Informatica: «Non credo in un complotto, ma mille fiocchi di neve formano una slavina». La decisione dei giudici si aggiunge alle proposte di legge per imbrigliare Internet, contribuendo a un’atmosfera illiberale e demagogica che influisce anche sulla competitività del Sistema Italia: siamo al 78° posto del World Bank Group per facilità nel condurre gli affari. Oggi siamo tutti più cinesi.
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Commento di Claudio Santini del 25/2/2010, qui: http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/commentiRub.asp?ID_blog=283&ID_articolo=49&ID_sezione=649&sezione=Da%20Gutenberg%20a%20Twitter
Io sono disabile, in carrozzina. Trovo la sentenza ridicola, ipocrita e testimone di una certa mentalità comune sulla disabilità. I problemi della disabilità vanno buttati sotto al tappeto, quindi non è colpevole per la giustizia chi mette in rete un video, chi non lo segnala, chi non fa niente perché non accadano gli abusi, ma chi lo pubblica e chi lo rende noto. Grazie a quel video è stata messa fine ad un abuso operato nei confronti di un ragazzo, 5.500 persone lo hanno visto e molti di questi non hanno fatto nulla per segnalarlo alle autorità, però la colpa è di Google, che appena ha ricevuto la segnalazione lo ha tolto di mezzo. No, è merito di google se quel video ha permesso ad un ragazzo di non venir più vessato da dei piccoli mascalzoni. Ed è bene che si sappia che queste cose accadono in Italia, non che si devono nascondere sotto il tappeto. Non so se la denuncia è partita dai genitori del ragazzo, o d’ufficio. Se è partita dai genitori e non è prodroma di una richiesta di risarcimento danni (cosa che riterrei sbagliata), credo che stiano dando un messaggio sbagliato al figlio. Purtroppo nella società questi fatti accadono, spesso, ne sono capitati molti anche a me seppure in maniera diversa, devono capire che anche loro non sono esenti da colpe , di non essersi accorti che qualcosa non andava a scuola. Il ragazzo deve essere abituato a reagire nella maniera più adatta per lui, cioè confidandosi coi genitori. Nessuno colpevole, i genitori che non si sono accorti di nulla no, a scuola no, i ragazzi uno scappellotto e via, i 5.500 che hanno visto il filmato senza far nulla no. Solo Google è il mostro….
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Potrebbe essere alla base della loro tendenza a nascere sottopeso
DNA diverso per i bimbi in provetta
(AGI) – Washington, 23 feb. – I bimbi nati in provetta presentano sottili differenze genetiche rispetto a quelli concepiti ‘naturalmente’ che potrebbero essere alla base della loro tendenza a nascere sottopeso. Lo afferma uno studio presentato alla conferenza dell’American Association for the Advancement of Science, secondo cui dal 5 al 10% dei geni coinvolti nel metabolismo del glucosio e dell’insulina sono diversi nei nati da fecondazione assistita. I ricercatori dell’universita’ di Temple, in Pennsylvania, hanno condotto i test genetici sui bambini partendo dalla statistica secondo cui i nati in provetta hanno una maggiore probabilita’ di avere un peso alla nascita inferiore ai 2,5 chilogrammi. Il risultato e’ comunque considerato preliminare, hanno spiegato durante la conferenza di presentazione, ed e’ impossibile per ora stabilire se dipenda dalla tecnica di fecondazione o dai problemi di infertilita’ dei genitori. In ogni caso, affermano gli esperti, c’e’ bisogno di maggiori studi: “Questo tipo di ricerche e’ spesso osteggiato perche’ viene considerato un attacco alla fecondazione assistita – ha spiegato Carmen Sapienza, uno degli autori – ma dal mio punto di vista e’ meglio sapere se, ad esempio, queste differenze genetiche possono portare allo sviluppo di problemi in eta’ avanzata, in modo da essere preparati”.
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Calpestare l’oblio
Red, 24.02.2010
Cento poeti italiani contro la rimozione della memoria repubblicana, della cultura e della poesia nella società dello spettacolo italiana
http://www.lagru.org/media/oblio.pdf
Caro amico e lettore,
a questo link troverai la versione definitiva dell’e-book “Calpestare l’oblio”, cento poeti italiani contro la rimozione della memoria repubblicana, della cultura e della poesia nella società dello spettacolo italiana.
Hanno collaborato alla realizzazione di questo piccolo gioiellino dell’autoeditoria elettronica alcuni dei più importanti esponenti della poesia italiana contemporanea, mentre gli artisti Nicola Alessandrini e Valeria Colonnella ne hanno curato la grafica e le illustrazioni.
“Calpestare l’oblio” è stata una grande operazione che dalla piattaforma del web si è tradotta in acceso dibattito sulle principali testate giornalistiche italiane (L’Unità, Left, MicroMega, Gli altri, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Libero, Il Foglio, Il manifesto) ed in un’assemblea nazionale dei poeti, che si è tenuta l’8 gennaio del 2010 al BebadoSamba di Roma.
Proprio in questi giorni numerose iniziative analoghe sorgono spontaneamente in diverse città e regioni d’Italia.
È giusto e necessario che questa battaglia politica e poetica si irradi e traduca spontaneamente in tutte le sue forme possibili, per calpestare ogni oblio, nazionale e locale, e per combattere ogni rimozione culturale e riduzione intellettuale operate dall’ideologia del trentennio del berlusconismo televisivo sul corpo indifeso della nostra comunità.
Questo e-book, che è dunque la conclusione di un’operazione più amplia di partecipazione democratica e poetica, sia dunque un tuo possibile punto di partenza.
Aiutaci a diffonderlo, nei tuoi spazi su rivista, portale, sito o blog. Inoltralo ai tuoi contatti e-mail. Organizza spontaneamente nella tua città un dibattito di poesia, arte e cultura sui temi che questa iniziativa corale ha sollevato e continuerà a sollevare.
Buona lettura.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14255
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 26.02.2010, particolarmente succosa.
Le aperture
Il Giornale: “Processi, vittoria di Berlusconi. Schiaffo della Cassazione ai PM. Mills è prescritto: la causa non doveva nemmeno essere celebrata. Per colpire il Cavaliere la Procura di Milano è ricorsa a un artificio che la Suprema Corte ha bocciato. La sinistra scornata dovrà inventarsi qualcos’altro”.
La Repubblica: “Mills-Berlusconi, reato prescritto. Dalla sentenza della Corte un punto a favore del Cavaliere che dice: mai infranto la legge. Il Pd replica: ‘questa non è una assoluzione’”. E poi: “Ma la Cassazione: la corruzione ci fu. Il premier: perseguitato dalle toghe rosse”. A centro pagina il quotidiano si occupa della inchiesta sul riciclaggio e l’evasione fiscale: “Schifani scarica Di Girolamo: elezione da annullare. Telefonia e riciclaggio, Scaglia arrestato nella notte”.
Il Corriere della Sera: “Caso Mills, reato prescritto. La Cassazione: legale corrotto, ma condanna annullata. Per il Cavaliere forse ancora un anno di processo. Berlusconi: ci sono giudici diversi da quelli di Milano”. L’editoriale è firmato da Angelo Panebianco: “La corruzione e i partiti”. A centro pagina la cronaca dell’onda nera di petrolio che dal Lambro e poi dal Po avanza verso il mare, nonostante si stia tendando di sbarrargli la strada. “Lambro, i crimini e gli errori”. A fianco la vicenda Di Girolamo: “Schifani: si può annullare l’elezione di Di Girolamo. Il politico sott’accusa rischia di perdere il posto in Senato”.
La Stampa: “Mills, il reato è prescritto”. Il quotidiano sottolinea però che l’avvocato inglese “accusato con Berlusconi, dovrà risarcire Palazzo Chigi” che si era costituito parte civile perché “il reato ci fu”. A centro pagina il quotidiano si occupa della riforma sanitaria Usa: “Sanità, pronti ad andare da soli. Barack Obama non trova l’accordo con i Repubblicani”.
Il Riformista: “Il Cavaliere prescritto. La sentenza della Cassazione sul processo Mills salva Berlusconi”. In alto sulla prima pagina si racconta invece “chi salvò il senatore Di Girolamo” un anno e mezzo fa, quando il Senato respinse un’altra richiesta di arresto per il senatore, proprio per le irregolarità nella sua elezione all’estero.
Libero: “Silvio assolto, Travaglio fa appello”. Quanto all’inchiesta sul riciclaggio, il quotidiano oggi annuncia sul suo sito “tutti gli audio della cricca”. Su Libero si parla anche della puntata ieri della trasmissione di Santoro AnnoZero, che “inscena il processo alla moralità del governo. Verdetto: Morgan innocente, il Cav in croce”.
Il Sole 24 Ore: “Raffica di avvisi di garanzia” nella inchiesta sulle società di tlc. “Salgono a 85 gli indagati, il pm Capaldo in missione all’estero. Bernabè: Telecom tranquilla su Sparkle. Scaglia rientra e si costituisce. Befera: preoccupa il livello delle frodi Iva”. In evidenza anche la notizia delle dimissioni del Presidente del Consiglio dei lavori pubblici, indagato nella inchiesta sul G8.
Il Foglio dedica il titolo di apertura alla Francia di Sarkozy e alla “visita storica in Ruanda” del presidente francese. “Sarkozy imbelletta la Francafrique per contenere i cinesi. Il presidente francese vuole ‘rifondare una relazione privilegiata’ con il Continente nero. Tra affari e alleanze”.
Mills
Carlo Federico Grosso spiega sulle colonne de La Stampa la sentenza della Cassazione che ieri – fissando la decorrenza della prescrizione dal momento in cui all’avvocato Mills sarebbero stati messi a disposizione i denari per la corruzione e non dal momento – alcuni mesi dopo – in cui egli ne acquisì la diretta disponibilità trasferendoli dal fondo – che era comunque gestito da una società che faceva capo anche a lui. La corruzione – ha deciso la Cassazione (giustamente, secondo Grosso) si è consumata dunque nel novembre del 1999 e non nel febbraio del 2000. Per questo la prescrizione decennale per quel reato è scattata. “Il reato giudicato prescritto con riferimento a Mills non potrà che essere considerato tale anche con riferimento a Berlusconi”, che è “imputato come corruttore nello stesso processo in cui l’avvocato Mills figurava come corrotto”, e la cui posizione è stata stralciata in ottemperanza al lodo Alfano, poi annullato dalla Corte Costituzionale. “Speriamo che, quantomeno nel caso di specie, la decisione presa serva a stemperare le tensioni ed a consentire che vengano abbandonati provvedimenti infausti quali il processo breve, il legittimo impedimento, le guarentigie per i ministri ed alte cariche dello Stato e via dicendo”, conclude il giurista.
Di Girolamo
Il Sole 24 Ore intervista Andrea Augello, relatore della Giunta che nel 2008 giudicò non eleggibile Di Girolamo. E dice: “Troppo garantismo, ma nessuna protezione”. Dice anche che Di Girolamo “non era minimamente conosciuto dalla classe dirigente di An e io l’ho incontrato quando ho dovuto ascoltarlo nel Comitato inquirente. E se non l’ho mai visto io, che sono entrato nel Msi a 14 anni, ho ragione di ritenere che questa persona non abbia alcuna familiarità con la classe dirigente a Roma”.
Il Corriere della Sera racconta la figura di Gennaro Mokbel, che ieri ha ricevuto nel carcere di Regina Coeli la visita di un parlamentare dell’Idv accompagnato da una giornalista. “Io e i partiti? Dal Pci allo schiaffo ad Alemanno. Li ho provati tutti, anche la Dc e Forza Italia, a cui ho procurato 1300 tessere nel mio territorio”.
La Stampa sottolinea che il nostro ambasciatore in Belgio non fa certo una bella figura nella vicenda che ha coinvolto il senatore Di Girolamo, accusato di non esser stato affatto un residente all’estero. Sulla base di intercettazioni, si ricostruiscono le conversazioni tra i due in modo da far figurare il Belgio come residenza del senatore. L’Ambasciatore gli suggerisce di sottolineare il fatto che per la sua attività, si trova ad agire, in quanto titolare di uno studio legale ramificato, tanto in Belgio che in Svizzera o in Germania.
Fastweb-Telecom
Una intera pagina di “domande e risposte” nel Focus del Corriere della Sera è dedicata alla inchiesta su telefonia e fondi neri. Tutto comincia con messaggi che promettono premi in denaro. E prosegue con la triangolazione delle fatture che crea crediti con l’erario. Due intere pagine sulle tlc sotto inchiesta anche sul Sole 24 Ore, che segue il viaggio delle “Phun Card”, girandola di società, denaro e schede telefoniche prepagate che ruota intorno alla “cartiera” CMC. La proposta di questa azienda prevede che Fastweb comperi dalla società delle Phun card prepagate per rivenderle poi a società estere. Dal lavoro di intermediazione Fastweb riceverebbe un margine del 7 per cento.
G8
Ampio spazio su La Repubblica alla inchiesta sulla Protezione civile e sugli appalti del G8. In sintesi, tutti sapevano – secondo il quotidiano, che anticipa i contenuti di una inchiesta del settimanle L’Espresso – chi avrebbe vinto gli appalti. Un alto ufficiale dell’esercito, con 4 mesi di anticipo, il 7 dicembre 2007, avrebbe saputo a chi sarebbero andati gli appalti milionari per il G8 2009. Avrebbe saputo anche che il Presidente del Consiglio lavori pubblici Balducci avrebbe avuto un incarico, come in effetti è avvenuto, quando verà nominato soggetto attuatore per le opere alla Maddalena. L’alto ufficiale scrisse infatti tutto ciò che sapeva su due fogli e fece recapitare una copia al giornalista de L’Espresso Fabrizio Gatti. Che nei giorni scorsi l’ha aperta.
Le chiamano per questo “buste profetiche”. Un’altra copia sarebbe stata diretta al Ministero della Funzione Pubblica di Renato Brunetta.
E poi
L’inserto R2 de La Repubblica è dedicato all’omicidio di un leader di Hamas a Dubai. Ne scrive Vittorio Zucconi: dieci anni di preparazione, 26 killer arrivati da tutto il mondo, ecco come è nata l’ultima vendetta del Mossad. Una missione perfetta svelata dalle telecamere dell’Albergo in cui alloggiava. Ma forse i killer avevano previsto anche questo. Nel retroscena si parla anche del coinvolgimento di alcuni palestinesi nel complotto. Una talpa avrebbe dato il via alla fase finale del blitz.
Ieri il Presidente iraniano Ahmadinejad era a Damasco, dove è stato ricevuto dal suo omologo siriano Bashar Al Assad. Quest’ultimo ha ribadito che l’Iran ha diritto al nucleare. Un lungo articolo sul Sole 24 Ore ricorda una alleanza di trent’anni, cementata da interessi politici, economici e religiosi.
Lo stesso quotidiano offre un articolo dell’ex presidente Usa Jimmy Carter dedicato alla politica della sua era: “E’ deplorevole definire debole il mio mandato e dire oggi che l’attuale inquilino della Casa Bianca potrebbe trasformarsi in un secondo Carter. In Afghanistan, Iran e Medio Oriente la nostra azione dura ancora”.
Dal 1 al 4 marzo il Presidente Napolitano incontrerà i vertici Ue: ma i veri padroni del vapore, secondo Il Riformista, sono Germania e Francia. Primo di una serie di articoli che si occupa di una Ue che sembra essere sul viale del tramonto.
La Stampa intervista il politologo Alain Minc, di cui è in uscita un pamphlet sugli scenari possibili che attendono il mondo, dall’Iran alla Cina, dalla Russia alla fine dello Stato nazione preannunciato nell’Europa delle piccole patrie.
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Il Nobel Mundell: «L Italia? Peggio della Grecia 18.02.2010
ROMA «L’Italia deve essere preoccupata». A dirlo è Robert Mundell, il Premio Nobel all’economia nel 1999, in una intervista a Bloomberg Tv in cui si sostiene che l’Italia rappresenta per l’euro una minaccia ancora più grande della Grecia a causa delle dimensioni ben maggiori del paese ellenico. «Se l’Italia avrà delle difficoltà e diventerà un bersaglio della speculazione, ci saranno enormi problemi per l’euro», dice Mundell nell’intervista. Per il professore della Columbia University, «l’Europa si ritroverà in una fase complicatissima se l’Italia incapperà nella stessa situazione della Grecia, perchè è più grande del paese ellenico e con un debito elevato». Secondo Mundell, «dobbiamo essere sicuri che qualsiasi misura venga presa nei confronti della Grecia, e forse anche di Portogallo e Irlanda, possa venire adottata anche per l’Italia». Secondo Mundell, Premio Nobel per l’economia nel 1999 e i cui studi sono alla base dell’euro, è dunque l’Italia la «minaccia più grande» per la tenuta di Eurolandia, perchè «sarebbe molto difficile aiutare l’economia italiana» date le sue dimensioni più rilevanti rispetto alla Grecia o al Portogallo. Mundell, intervistato dall’agenzia americana, ha spiegato che l’Europa non può permettersi un euro troppo forte, e ha indicato in un tasso di cambio di 1,40 dollari per euro il livello massimo tollerabile. Il professore della Columbia University, entrando nello specifico della crisi greca, ha aggiunto che le probabilità che la Grecia possa lasciare l’euro sono inferiori al 10%, anche perchè una svalutazione valutaria non aiuterebbe affatto l’economia greca. L’Unione europea – ha spiegato – dovrebbe offrire «un prestito a lungo termine condizionato al mantenimento della disciplina fiscale da parte della Grecia. Non può essere semplicemente un prestito incondizionato da 50 miliardi di dollari o giù di lì, con la Grecia che poi fa quello che vuole».
http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2010/02/18/NZ_08_PIED.html
Non occorre essere un Nobel per arrivarci…
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Ma le critiche sono ancora lecite? 25.02.2010
di Paolo Flores d’Arcais
Michele Santoro ha totalmente ragione. Poiché mi sono permesso una critica e un suggerimento alla sua “gestione” degli ospiti di “Anno zero”, dove alcuni invitati tolgono ad altri il diritto alla parola con interruzioni ininterrotte, insulti ululanti e sovrapposizione di voce, Michele Santoro ha decretato che sono “un membro perfetto dell’Agcom” (non ho idea di cosa sia, ma è certamente una cosa brutta) e “un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’”.
Ben mi sta. Ho commesso il delitto di lesa Maestà catodica (ormai anzi al plasma), ho dimenticato che un conduttore di programma televisivo è come lo zar autocrate di tutte le Russie, solo lui conosce cosa sia il bene del suo popolo, e chi si azzarda a qualcosa che ecceda l’umile supplica è ipso facto un malvagio (in questo caso un apologeta del Berlusconi-pensiero). Non provo neppure a scusarmi, il delitto di lesa Maestà è per definizione e da secoli inescusabile in terra, come inespiabile è in cielo quello contro lo Spirito.
Del resto, per una buona confessione, come ci hanno insegnato al catechismo, non basta la contrizione per la colpa commessa, è necessario anche il “fermo proposito” di non peccare più, e io credo che invece mi capiterà ancora di inciampare nel temerario pensiero che tutte le Maestà, e financo i conduttori televisivi, siano esseri umani fallibili e limitati come noi, polvere che tornerà polvere, e dunque scambiarsi critiche e suggerimenti sia la normalità di una civile esistenza.
Perché il problema esiste, anche se Michele Santoro prende cappello al solo menzionarlo: un ospite che impedisce ad un altro ospite di argomentare, sovrapponendo la sua voce, le sue interruzioni sguaiate, i suoi insulti bercianti, realizza lavoro di censura che spesso sconfina in un vero e proprio manganello e olio di ricino mediatico.
Cose che accadono sempre più spesso, e sempre in una sola direzione, con “personaggi” ormai perfettamente addestrati al ringhiare e ragliare che imbavaglia l’opinione altrui e comunque schiaccia sul nascere ogni possibilità di controversia “ad armi pari”.
Suggerire di far qualcosa perché il confronto anche il più aspro avvenga invece sempre per argomentazione razionale e nel rispetto delle “modeste verità di fatto” (in mancanza del quale rispetto, scriveva Hannah Arendt, il totalitarismo è già in marcia) non mi sembra un bizzarro chiedere la luna, ma l’abc della democrazia liberale. E forse anche della buona televisione.
Michele Santoro ha il merito di fare dell’ottima televisione, con inchieste giornalistiche esemplari. E tanto più il suo lavoro è meritorio in quanto, nel deserto informativo dell’Impero berlusconiano, senza Gabanelli, Iacona e Santoro gli italiani che non leggono un quotidiano (nove su dieci) nulla verrebbero a sapere del groviglio di cloache sulle quali poggia lo sbrilluccichio di cartapesta dell’Italia raccontata minzolinescamente, groviglio che sta portando rapidamente allo smottamento definitivo del paese.
Proprio perché ha saputo innovare e fare scuola sul giornalismo d’inchiesta, però, Michele Santoro potrebbe riflettere se non valga la pena inventare e sperimentare inedite modalità di “gestione” degli ospiti, che realizzino davvero e per tutti il diritto all’argomentazione. E che magari avrebbero il plauso di milioni di cittadini telespettatori. E che in un vicino domani potrebbero a loro volta essere considerate esemplari. Michele Santoro non accresce invece i suoi già cospicui meriti o la sua autorevolezza, se reagisce alle critiche e ai suggerimenti con l’albagia e gli anatemi di un Bruno Vespa qualsiasi.
p.s.
Michele Santoro ha iniziato la sua risposta a Marco Travaglio scrivendo che “siamo diversi e con diverse opinioni su molte cose: legalità, moralità, libertà e televisione”. Trascuro la televisione, metto tra parentesi le libertà e la moralità, sul cui significato esistono discussioni che riempiono biblioteche, ma la legalità? Incuriosisce davvero in cosa possa consistere tale differenza, visto che la “opinione” di Marco in proposito è semplicemente e limpidamente quella standard di quanti si riconoscono nei valori della Costituzione repubblicana. E’ davvero e solo una curiosità, sinceramente e senza secondi fini
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Arriva [Forty Five] 45: sarà il nuovo Watchmen? 24.02.2010
Supereroi e fumetti vanno a braccetto da quasi un secolo e riuscire ad innovare, in un mercato così saturo di personaggi, storie, tradizioni, miti e leggende, non è certo cosa facile, sopratutto se non ti chiami Marvel o Dc. A provare ad inserire un elemento di novità arriva [Forty Five] 45, una graphic novel pubblicata Com.X. e realizzata, almeno per quanto concerne lo script, dall’esordiente Andi Ewington. La caratteristica particolare del fumetto (pardon, graphic novel) sta nel fatto che in [Forty Five] 45 la storia si dipana attraverso una serie di interviste ad altrettanti supereroi fittizi, illustrate da artisti diversi, i quali, per ideare e disegnare ambienti e personaggi, hanno avuto come base solo il testo dell’intervista preparato da Ewington. Un approccio sicuramente inusuale, che ha portato decine di disegnatori differenti a dare il proprio contributo ad un’opera che col passare del tempo si è trasformata da promettente esordio a probabile erede di capolavori amati e celebrati come Watchmen o Sandman.
La storia ruota attorno alla figura di un giornalista, James Stanley, che sta per diventare padre. Lui e sua moglie hanno deciso di non sottoporre il nascituro al test denominato Super S, che permetterebbe ai genitori di sapere in anticipo se il loro erede sarà o meno dotato del cromosoma supplementare che conferisce a chi lo possiede particolari poteri. Nonostante la decisione della coppia sia ferma, James non può fare a meno di pensare a come potrebbe essere la futura vita di suo figlio, chiedersi se potrà avere un esistenza normale, e quali conseguenze potrebbe avere l’essere padre di un supereroe. Decide allora di intervistare 45 supereroi di età e sesso differente, ognuno con la sua storia da raccontare, per avere un quadro più chiaro di quello che lo aspetta. Ben presto però, un’indagine fatta per rassicurare sé stesso e per cercare di comprendere il mondo e le sensazioni di persone diverse, cambia radicalmente scopo e obiettivo, allorquando Stanley s’imbatte nella XoDOS, una misteriosa organizzazione…
I casi umani (o, meglio, super-umani) che Stanley si trova di fronte nelle sue peregrinazioni sono ovviamente i più disparati: ci sono i genitori, fieri del proprio superpargolo che viene spedito a studiare in una scuola per supereroi come quella creata dal Professor Xavier in X-Men, una coppia di coniugi inglesi che preferisce educare il proprio figlio in casa, lontano dai clamori mediatici e dagli sguardi indiscreti, genitori terrorizzati che abbandonano la propria prole agli orfanotrofi e ovviamente una serie di personaggi atipici, bizzarri e borderline che hanno tutti qualcosa a che fare con la XoDOS.
[Forty Five] 45 è stato accolto in modo trionfale della critica americana. A colpire è stato soprattutto il coraggio dimostrato da Ewington che, pur facendo un passo ben più lungo della sua gamba, ha vinto una scommessa rischiosa. Solitamente tutti coloro che esordiscono nel mondo dei fumetti (o in quello del cinema, dei videogiochi o della musica) partono con progetti poco ambiziosi, magari accontentandosi di vedere pubblicato un singolo, un cortometraggio o un gioco indie. Ewington invece si è presentato al pubblico in pompa magna con un progetto magniloquente, complesso, articolato, ricco di sottotesti e dotato di una struttura assolutamente originale nel mondo dei comics, sia per quanto riguarda la narrazione tout court e che per quanto concerne l’aspetto grafico. [Forty Five] 45 È attualmente disponibile su Amazon.com al costo di circa 18 dollari, nulla è dato sapere per ora su una sua release italiana.
http://www.wired.it/news/archivio/2010-02/25/arriva-%5Bforty-five%5D-45-sara-il-nuovo-watchmen.aspx
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La Cina punta sull’autocensura 24.02.2010
Di Andrea Girolami
Proviamo a partire da un adagio popolare: tutto il mondo è paese. Non si sono ancora spenti gli echi della polemica italiana per la presenza su Facebook di gruppi offensivi anti-down o per i video di abusi sempre su persone afflitte da questo svantaggio fisico che hanno portato alla condanna dei vertici di Google che ecco arrivare una notizia dal sapore simile dalla Cina.
Da oggi infatti per aprire un sito con suffisso .cn bisognerà dare prova della propria identità, anche attraverso una vera e propria schedatura fotografica. L’iter per questo nuovo processo di registrazione era partito già in dicembre in seguito a una campagna del governo cinese per colpire la presenza di contenuti pornografici in rete.
Tutte le foto degli aspiranti proprietari di siti dovranno essere inviate al Ministero dell’Industria e dell’Informazione per essere sottoposte ad un accurato esame.
“Il problema della sicurezza in rete deve essere affrontato alle sue radici“, a parlare così è il ministro cinese Li Yizhong a cui rispondono però osservatori americani preoccupati per questo evidente tentativo cinese di intimorire i propri cittadini che vogliono proporre contenuti su internet.
La strategia è infatti quella di puntare su una vera e propria auto-regolamentazione dei proprietari di siti internet cinesi, a questo punto tutti regolarmente schedati, che sapendosi sotto l’occhio vigile del ministero dovrebbero automaticamente evitare di pubblicare materiale scomodo all’attuale governo cinese.
In Cina attualmente è partita anche una discussione volta a regolamentare in maniere simili anche i possessori di telefoni cellulari e gli autori di commenti su siti internet.
http://www.wired.it/news/archivio/2010-02/24/la-cina-punta-sull%27autocensura.aspx
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DNA 2.0: l’uomo riprogramma le basi della vita 19.02.2010
Di Fabio Deotto
La notizia è sorprendente: degli scienziati inglesi sono riusciti a costringere cellule batteriche a produrre proteine che in natura non sono mai esistite. Come? Hanno trovato il modo di insegnare alla cellula a leggere in modo diverso il DNA.
Messa così, suona molto vaga, me ne rendo conto.
Ci riprovo: Poniamo di voler davvero giocare a fare Dio. Poniamo di voler creare un nuovo tipo di vita. Consideriamo che le molecole fondamentali che costituiscono e regolano il nostro organismo sono le proteine. Consideriamo anche che le proteine sono catene di aminoacidi e che gli aminoacidi che le nostre cellule sono in grado di codificare sono 20.
Ci siete? Bene.
Ora poniamo di voler aumentare il numero di aminoacidi codificabili, di volerne creare di nuovi, con nuove caratteristiche, per ottenere proteine dalle proprietà tutt’ora sconosciute. Cosa dovremmo fare? Provate a chiederlo a Jason Chin dell’Università di Cambridge. Perché lui non solo conosce la risposta, ma l’ha già messa in pratica.
Un sistema di lettura limitante:
Tutto è partito da una constatazione: il nostro DNA è una lunga catena formata da quattro diverse basi azotate (Adenina, Timina, Citosina e Guanina). Questa catena funziona come un codice a quattro lettere, una lunga serie di “parole”, ognuna formata da tre lettere denominate “codoni”. Il sistema tradizionale della cellula legge questa catena e per ogni codone produce un amminoacido diverso. Questo meccanismo ha regolato la vita per milioni di anni. Finchè non è arrivato Chin e ha detto: “Ok, e se provassimo a riprogrammare la cellula in modo che impari a leggere codoni di 4 basi azotate invece che di 3?”. Il numero di combinazioni possibili passerebbe da 64 a 256.
Riprogrammare i traduttori:
Per ottenere un risultato simile, Chin è andato ad operare direttamente sui “traduttori” che la cellula usa per convertire il DNA in proteine: i ribosomi. Riprogrammando i ribosomi in modo che imparassero a leggere “parole” di quattro lettere invece che tre, la squadra ha praticamente ingegnerizzato la cellula rendendola in grado di produrre una più ampia varietà di aminoacidi e, in prospettiva, proteine con proprietà fino ad oggi impensabili. In uno dei primi esperimenti, condotti con successo, la squadra è riuscita a far produrre alla cellula una catena proteica contenente due aminoacidi completamente inediti. È la prima volta che questi composti vengono prodotti da una cellula vivente.
Un nuovo set di mattoncini per costruire il futuro:
Ancora una volta, il limite è la fantasia. L’impresa portata a termine da Chin e colleghi spalanca le porte su scenari che fino a qualche giorno fa avrebbero fatto sorridere anche il più ottimista dei futurologi. Prima di abbandonarci a fantasticare sulla creazione di creature costituite da nuove proteine sintetiche, è il caso di analizzare le possibili applicazioni che questa scoperta avrà nel prossimo futuro. I ricercatori infatti stanno già esplorando la possibilità di trasformare le cellule in fabbriche di biomateriali, programmandole in modo che producano composti sintetici dalle proprietà funzionali, siano essi materiali plastici o fibre iper-resistenti. A quanto pare, infatti, le catene proteiche prodotte dalle cellule riprogrammate mostrano legami chimici più resistenti dei normali ponti disolfuro. Un dato che ha portato qualcuno a pensare all’utilizzo delle cellule-fabbrica per produrre rivestimenti proteici per i farmaci che non vengano facilmente degradati dai succhi gastrici.
http://www.wired.it/news/archivio/2010-02/20/dna-20-l-uomo-riprogramma-le-basi-della-vita.aspx
Approfondimento
Il DNA che si assembla da solo. E il copyright è umano. 22.06.2009
Di Fabio Deotto
Mammiferi clonati, mais insetticida, conigli fosforescenti: negli ultimi anni la genetica è diventato uno sconfinato campo da gioco per scienziati creativi. Man mano che i genomi vengono decodificati diventa sempre più facile manipolare i meccanismi della vita per ottenere prodotti funzionali all’utilizzo umano.
Ma cosa succederebbe se riuscissimo a inventare un linguaggio diverso da DNA e RNA? Quali prospettive si spalancherebbero?
Una risposta potrebbe arrivare dalla troupe guidata dal chimico iraniano Reza Ghadiri allo Scripps Research Institute di La Jolla, California. Ghadiri e colleghi, infatti hanno sintetizzato un nuovo tipo di molecola che unisce le proprietà di appaiamento degli acidi nucleici alle funzionalità dei composti peptidici e proteici. Si chiama tPNA (thioester peptide nucleic acid) e gli esperimenti hanno dimostrato che è in grado non solo di appaiarsi a molecole complementari DNA e RNA ma anche di modificare la propria composizione a seconda dell’ambiente in cui sono inserite (cosa che il DNA, non può fare).
Ghadiri non è il primo a cimentarsi in un’impresa simile. Negli ultimi anni sono stati fatti diversi tentativi per la sintesi di un nuovo sistema di informazione basato su polimeri organici, ma le molecole risultanti avevano una composizione definita e irreversibile. Il composto ideato da Ghadiri e colleghi, al contrario, ha la proprietà di assemblarsi e disassemblarsi autonomamente, ovvero senza bisogno dell’intervento di enzimi specifici (come le DNA-polimerasi). Il segreto consiste nell’utilizzo di tioesteri delle basi azotate comunemente sfruttate nella polimerizzazione del DNA. In questo modo le basi nucleotidiche possono instaurare legami tioestere con le cisteine di una catena polipeptidica usata come supporto. Questi legami non sono indissolubili e permettono alla molecola di riassemblarsi in modo differente nel momento in cui cambia la composizione chimica e molecolare dell’ambiente che la circonda.
Lungi dall’essere frutto di un puro sfoggio di abilità biomolecolare, il tPNA è importante per diverse ragioni.
Esistono diverse teorie sull’origine la vita, ovvero su quali passi hanno preceduto lo sviluppo degli odierni organismi basati su DNA e proteine. La più interessante è quella secondo cui i primi organismi viventi erano basati interamente sull’RNA. Ora, la molecola del team di La Jolla fornisce materiale per un’ipotesi alternativa. I costituenti chimici dei peptidi e degli acidi nucleici, infatti, erano già presenti nel brodo primordiale che ha fatto da culla ai primi organismi: nulla perciò vieta di ipotizzare che l’origine della vita sia dovuto all’autoassemblarsi di molecole simili alle basi azotate del tPNA.
E non è tutto. Secondo Ghadiri, infatti, i principi alla base del tPNA potrebbero essere sfruttati per creare nuovi tipi di enzimi (in grado di catalizzare reazioni chimiche fin’ora impensabili). Oppure per la costruzione di biomateriali in grado di auto-ripararsi o di rimodellarsi in risposta alle esigenze dell’ambiente.
http://www.wired.it/news/archivio/2009-06/22/dna.aspx
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