“America ed Europa sono rassegnate: Teheran otterrà la bomba atomica”
Da “Il Corriere della Sera” di lunedì 8 febbraio 2010
007 L`esperto Usa Marvin Cetron: «Entro 3-4 anni gli ayatollah disporranno di armi nucleari» «America ed Europa sono rasse~ate:
Teheran otterrà la bomba atomica» WASHINGTON – Secondo Marvin Cetron, l`autore del «Rapporto 2000» sul terrorismo per la Cia e l`Fbi, il servizio segreto e la polizia federale americani, è troppo tardi per evitare che l`Iran produca armi atomiche. «Entro tre o quattro anni, nel migliore dei casi poco di più – dichiara – gli ayatollah disporranno delle prime armi nucleari operative, a meno che Israele non ne distrugga gli impianti». Cetron, reduce da un lungo viaggio nel Golfo persico, aggiunge che «America ed Europa si sono rassegnate a fare i conti nel prossimo futuro con un Iran diventato potenza nucleare». L`esperto di antiterrorismo sostiene che alla Nato si stia discutendo un contingency plan, un piano d`emergenza, per isolare e contenere il regime degli ayatollah, come l`Urss durante la guerra fredda.
Lei esclude che la diplomazia e le sanzioni possano fermare Teheran e che l`America la bombardi? «Con un regime che reprime i cittadini e sfida il mondo la diplomazia e le sanzioni non otterranno alcun effetto. Non credo che la Nato abbia lo stomaco per un bombardamento preventivo dell`Iran, anche se protesterebbe solo pro forma se Israele ne eseguisse uno. Al contrario, a me risulta che il Pentagono stia allestendo contro gli ayatollah – che vogliono missili di media e lunga gittata capaci di colpire Israele e l`Europa – le difese antimissilistiche più efficaci oggi esistenti. Ritengo che siano stati già ammoniti che, se mai usassero armi atomiche, parte dell`Iran scomparirebbe dalla faccia della terra».
Ma alla «resa» della Nato, di cui lei parla, non potrebbe subentrare Il ricorso alla forza in caso di crisi? «Qualsiasi strategia può cambiare.
Ma l`Occidente deve badare a non alienarsi ulteriormente il mondo islamico, a non innescare conflitti – sarebbe esagerato immaginare una terza guerra mondiale che non sarebbe in grado di sedare.
Sospetto che soprattutto i leader europei preferiscano negoziare con un Iran con le armi nucleari, come negoziarono con l`Urss, che non esporre il mondo a sussulti incontrollabili.
E che abbiano dalla loro la maggioranza dell`opinione pubblica».
A suo parere Israele potrebbe intervenire senza tenere conto dell`opinione pubblica internazionale? «Se ne avesse tenuto conto in passato oggi non esisterebbe. Israele farà ciò che è necessario alla sua sicurezza, come ha sempre fatto contro il terrorismo. Non escludo che abbia già uomini in Iran pronti a fare saltare gli impianti del nemico e so che dispone di missili e bombe per penetrare a grandi profondità nei bunker atomici. In caso estremo, attaccherebbe da terra e dal cielo. L`unica alternativa possibile è un rovesciamento del regime a Teheran, l`avvento di una democrazia.
Ma al momento non mi sembra molto realistica: gli oppositori vengono assassinati».
Non è possibile che il mondo islamico, la Russia, la Cina cerchino di dissuadere l`Iran? «Anche se tentassero, non otterrebbero nulla. Temo che alla Russia e alla Cina facciano comodo un`America e una Europa in difficoltà, e il mondo islamico è diviso, molti sono segretamente schierati per l`Iran. I paesi del Golfo persico no, sono spaventati, e l`America ha promesso di proteggerli con uno scudo antimissilistico. E possibile invece che qualcuno di loro voglia procurarsi armi nucleari scatenando una corsa al riarmo.
L`Arabia Saudita a esempio potrebbe chiederle al Pakistan o alla Corea del Nord, ha i soldi per pagarle».
Ennio Caretto Difesa La Nato sta già preparando un sistema di dffesa anti-missile
http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=43335234
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Iran e Nord Corea tempo scaduto 08.02.2010
ALDO RIZZO
Giovedì 11 febbraio, 31° anniversario della «rivoluzione islamica» iraniana, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha in programma di esaminare un giallo internazionale che dura da due mesi e che riguarda, appunto, l’Iran. Con esso, anche la Corea del Nord, cioè i due Stati che, per il loro regime interno e per le ambizioni di potenza nucleare, rappresentano oggi la più grave sfida agli equilibri strategici mondiali. C’è un nesso, una sintonia, un’alleanza di fatto, tra la residuale, storicamente, satrapia comunista di Kim Jong Il e la repubblica religiosa di Ahmadinejad, che contesta il mondo da una diversa, anzi opposta ideologia? Dietro questa domanda, c’è il più grande problema del secolo, la proliferazione degli armamenti nucleari, secondo solo a quello dei cambiamenti del clima planetario. Secondo?
Il giallo in sé è nel fatto che, dall’11 dicembre, all’aeroporto di Bangkok, è trattenuto un aereo di fabbricazione russa, proveniente dalla Corea del Nord e con un carico di armi e di pezzi missilistici, verosimilmente diretto a uno scalo di Teheran, in violazione dell’embargo dell’Onu. Così almeno credono le autorità thailandesi, che hanno trasmesso il loro rapporto al Consiglio di sicurezza. I diretti interessati, ovviamente, negano, mentre l’equipaggio di kazaki e bielorussi si dichiara all’oscuro della natura del carico. Il caso pratico, in qualche modo, sarà risolto, i thailandesi ne sono stanchi. Ma resta il problema degli «aiuti» che la Corea comunista cerca di distribuire da tempo. E, per esempio, un caso analogo si è avuto, la scorsa estate, a Abu Dhabi, con la nave «Australia», anch’essa diretta in Iran. E c’è anche il precedente della consegna clandestina, stavolta di materiale strettamente nucleare, alla Siria, alleata dell’Iran, col successivo intervento, in questo caso, dell’aviazione israeliana.
La Corea del Nord, di suo, è già una potenza atomica. Secondo Graham Allison, grande esperto americano, harvardiano, sul nuovo numero di «Foreign Affairs», essa aveva già pronte due bombe al plutonio nel 2001, ora ne ha dieci e ne sta preparando un’undicesima. Quanto all’Iran, è ancora solo una minaccia, ma sempre più concreta, come dimostra la decisione di ieri di arricchire ulteriormente l’uranio. Le ricorrenti offerte di dialogo sono giustamente interpretate dai più come mosse dilatorie. Fra l’altro, esse si accompagnano a sempre più preoccupanti test missilistici, di una gittata sempre maggiore.
Se Pyongyang e Teheran andranno fino in fondo, la previsione è che, per reazione, altri Paesi, dal Medio all’Estremo Oriente (Arabia Saudita, Egitto, Giappone, Corea del Sud, e non solo), finiranno per volere anch’essi la Bomba, obiettivo tecnicamente complesso in certi casi, facile in altri. La «proliferazione» diventerà incontrollabile, accentuando gravemente, come ha ammonito più volte Kissinger, la probabilità, prima o poi, di nuove Hiroshima. Se a questo si aggiunge la possibilità di un terrorismo atomico, per la fragilità del Pakistan (anch’esso da tempo soggetto nucleare insieme a India e Israele) di fronte alle insidie dei talebani e di Al Qaeda, lo scenario si fa catastrofico. Altro che «riscaldamento globale», che comunque si aggiungerebbe al quadro.
Dunque indurre la Corea del Nord a rinunciare all’armamento già acquisito e l’Iran a fermare realmente, e non solo a parole, la sua corsa, diventa la premessa necessaria per evitare un futuro drammatico al mondo. Resta un piccolo problema: come fare. In generale, i rimedi possibili sono molti, escludendo gli attacchi preventivi, che aggraverebbero la situazione. Maggiori controlli sul nucleare «civile», con più efficaci poteri per l’Onu e la sua specifica Agenzia, sanzioni economiche, con controfferte tecnologiche, politiche di disarmo progressivo delle potenze storiche (Usa e Russia), «declassamento» del prestigio politico di avere la Bomba (un altro grande esperto americano, Charles Ferguson, ancora su «Foreign Affairs»)… Questo ed altro. Ma la condizione preliminare è che la comunità internazionale, o la sua parte più responsabile, e non solo i doganieri di Bangkok, capiscano definitivamente che il tempo sta scadendo.
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Grecia un malanno balcanico 08.02.2010
ENZO BETTIZA
Finora la bancarotta greca è stata interpretata e spiegata soprattutto in termini economicistici, in chiave europeistica o europea, prescindendo dal quadro balcanico in cui la Grecia, con la sua turbolenta storia moderna, era e resta profondamente inserita almeno da un secolo e passa. Della sua doppia anima, occidentale e orientale, si è continuato in questi giorni a parlare della prima ignorando la seconda che, invece, è presentissima in una crisi assai più complessa del solo tracollo finanziario. Al tremendo deficit del Pil, che ormai sfiora il 13% e rischia di escludere Atene dai 16 dell’Eurozona, s’appaia già da tempo una tormenta d’ordine sociale, morale, psicoideologica mai vista in proporzioni così devastanti in altre nazioni dell’Ue.
La verità è che la Grecia è diventata non solo un Paese finanziariamente disastrato, ma anche truffaldino nei confronti della contabilità comunitaria oltreché aggressivo e violento con se stesso. Da una parte le falsificazioni ottimistiche su un deficit in fuga quadrupla dai parametri di Maastricht; dall’altra un’amministrazione pubblica clientelare, corrotta in profondità, tipicamente balcanica, che invece di sanare il disastro lo ha aggravato manipolandolo con statistiche alterate nell’interesse esclusivo della corporazione. A tutto ciò si aggiungono gli assegni scoperti per due miliardi di euro nella prima metà del 2009, le ininterrotte occupazioni di scuole, l’ondata di scioperi a catena nei settori dell’agricoltura, del terziario, della cantieristica, della sanità.
Infine lo scoppio di sommosse di studenti anarchici che, come si ricorderà, hanno messo a ferro e fuoco il cuore di Atene. Altri scontri durissimi tra manifestanti e agenti si sono verificati a Salonicco, Patrasso, Rodi, Creta, Ioannina. Ancora nel gennaio di quest’anno s’è visto uno schieramento di mille trattori bloccare, per tre settimane, in protesta ai tagli dei sussidi agricoli, strade e valichi di frontiera con Bulgaria e Turchia disertati dai doganieri anch’essi in sciopero.
Diversi osservatori, analizzando l’immane disagio che sta mettendo in ginocchio la Grecia e spingendola fuori dall’Europa, parlano già di una crisi talmente generalizzata da richiedere la «rifondazione dello Stato». Il morbo andrebbe, insomma, ben al di là dei buchi neri del Pil e del debito con l’estero per investire e intaccare alla radice la società greca nel suo insieme. Non ne escono bene, dal tutto, nemmeno le due storiche dinastie politiche dei Karamanlis (conservatori) e dei Papandreu (socialisti) che si sono alternati al potere democratico dopo la fine della dittatura dei colonnelli. Gli uni e gli altri hanno tollerato troppo a lungo nepotismi, corruttele, evasioni fiscali, sotterfugi e imbrogli con le casse comunitarie. Soltanto adesso, sotto la minaccia di una stringente sorveglianza contabile che la Commissione di Bruxelles inizierà il 16 marzo, l’ultimo dei Papandreu, odierno primo ministro, ha annunciato che la nazione potrà salvarsi dal baratro soltanto con una cura churchilliana di «lacrime e sudore». Speriamo non sia troppo tardi, rispetto alla gravità dei danni originari avviati già nei lontani Anni Ottanta, che videro la Grecia entrare nella Comunità europea, dalla finanza allegra di Papandreu padre definita «baldoria» dagli storici meno indulgenti.
L’alternativa che la crisi pone oggi a Bruxelles è drastica: trattenere la Grecia in Europa o restituirla ai Balcani? L’alternativa nonché drastica, e ovviamente costosa, è anche paradossale. I greci, all’epoca dell’ultima tragedia balcanica, davano l’impressione di gustare la vita su un’oasi occidentalizzata, pacifica e benestante ai margini dell’inferno jugoslavo. Grazie ai «fondi strutturali» elargiti dalla Comunità agli Stati più bisognosi, perdipiù grazie alle popolose stagioni turistiche che portavano denaro e benessere, essi certamente vivevano già al disopra dei loro mezzi; ma davano comunque l’impressione di vivere tranquilli in un Paese che stava uscendo, con risultati apprezzabili, dal sottosviluppo e dal brutto ricordo di una lunga guerra civile e di una nefasta tirannia militare. Il grande malato dei Balcani era allora l’ex Jugoslavia. Tuttavia, gli orrori che divampavano subito a ridosso del confine greco, in Macedonia, in Bosnia, in Croazia, alla fine nel Kosovo, sembravano distanti anni luce ai turisti che trascorrevano le vacanze sulle solari isole elleniche. Sembrava così agli stessi greci.
Poi, appena finite le crudeli e più visibili ostilità, che avevano decimato slavi e albanesi, tutti hanno cominciato a domandarsi quale santabarbara tornerà a scoppiare a breve termine dopo la «fragile» tregua imposta dai bombardamenti Nato alla Serbia. Domande rimaste non solo senza risposta, ma anche smentite dai fatti. Il Kosovo, proclamata l’indipendenza, non s’è trasformato in una nuova polveriera. Il Montenegro carezza l’idea di diventare con spiagge e casinò una Costa Azzurra adriatica. La Croazia, recente scoperta del turismo di massa, tesse la tela per associarsi all’Unione Europea. Sarajevo, cessati da tempo i massacri in Bosnia-Erzegovina, è rinata poco per volta. I governanti serbi, dimenticato Milosevic e sbarazzatisi di Karadzic, si apprestano a seguire i cugini croati sulla via che porta a Bruxelles. La Slovenia, prima della classe fra le nazioni postcomuniste entrate in Europa, è stata già accolta nell’Eurozona ed ha già esercitato una presidenza semestrale dell’Ue. La tregua, in altre parole, è diventata pace e speranza, a dispetto dei gufi che tra Bosnia e Kosovo vedevano fino a ieri solo bombe ad orologeria.
Nessuno invece intravedeva il pericolo nella lussuosa punta meridionale dei Balcani. Quasi nessuno, insomma, se l’aspettava che la Grecia comunitaria, proprio la Grecia, largamente beneficata dall’Europa fin dal 1981, sarebbe diventata oggi la grande malata della penisola balcanica.
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Immigrati: ‘Permesso a punti’ al via nei prossimi giorni
Monica Maro, 05.02.2010
Maroni: già introdotto per legge nel ‘pacchetto sicurezza”. Insorge l’opposizione. L’analisi del direttore di Migrantes mons. Perego: “Senza una politica che consideri residenza e cittadinanza come punti fermi, il permesso a punti rischia di essere solo un supplemento di burocrazia. Puntare sulle 150 ore, in accordo con imprese e sindacati”.
Censis: Da 80% italiani sì a cure anche a clandestini. Per il 65% dei connazionali la salute è un diritto inviolabile
Un ‘permesso di soggiorno a punti’ quello che verrà rilasciato ai nuovi immigrati regolari. Per avere il permesso bisognerà firmare un ‘accordo per l’integrazione’ ma firmare questo accordo comporterà il farsi carico di una serie di obblighi e di adempimenti che solo se portati a termine permetteranno di raggiungere i 30 punti indispensabili per ottenere il documento. Non basterà più seguire la Bossi-Fini. Come ‘naturale conseguenza’ della legge sulla sicurezza, secondo il ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ieri ne ha discusso con il collega del Welfare Maurizio Sacconi, solo se entro due anni l’immigrato in attesa di permesso di soggiorno raggiungerà i 30 punti che gli vengono assegnati avrà il permesso. E dovrà dimostrare di aver superato il corso di lingua italiana, di conoscere la Costituzione, di essersi iscritto al Servizio sanitario, di mandare i figli a scuola. Se commette reati, i punti gli vengono tolti. Se dopo due anni non raggiunge i 30 punti, ha un altro anno per arrivare al punteggio pena l’espulsione.
Il regolamento attuativo del ‘permesso di soggiorno a punti’ sarà pronto nei prossimi giorni. Lo ha confermato il ministro dell’Interno Roberto Maroni che ha spiegato che non c’è bisogno di nessuna nuova legge perché “questo sistema è già stato introdotto nel ‘pacchetto sicurezza’ approvato nell’agosto dell’anno scorso. Dobbiamo solo fare un atto amministrativo e con il ministro Sacconi abbiamo trovato un’intesa tecnica per il regolamento”.
“Abbiamo quindi definito le procedure e i contenuti dell’applicazione di una norma che esiste già. Ho letto sui giornali toni allarmati, l’argomento immigrazione – ha aggiunto Maroni – suscita emozioni, ma talvolta non è conosciuto. La norma che prevede il permesso di soggiorno a punti, è già in vigore, la legge c’è già. Noi adesso facciamo solo un atto amministrativo per attuarla. Si tratta di un provvedimento utile e di civiltà e penso che sarà molto apprezzato da chi vuole inserirsi nella nostra società e vuole lavorare. Si tratta di uno degli strumenti più avanzati in Europa sul fronte dell’integrazione. Questo sistema, ha aggiunto il ministro, serve a “garantire l’integrazione: io ti suggerisco le cose da fare per integrarti nella comunità. Se le fai ti do il permesso, se non le fai significa che non vuoi integrarti. Lo applicheremo solo ai nuovi permessi con durata di due anni. Ma non chiederemo soldi agli immigrati per i corsi di lingua, faremo tutto noi, per garantire standard uniformi in tutte le province”.
Uno strumento inefficace e sbagliato. Per monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Migrantes, il permesso di soggiorno a punti annunciato ieri dai ministri dell’Interno e del Lavoro si presenta come uno strumento “che in sé può anche essere positivo, ma che in una realtà come quella italiana appare come estemporaneo e inefficace”.
“Nel nostro paese – è il giudizio di mons. Perego – mancano infatti quei paletti fondamentali, quelle strutture essenziali per l’integrazione, che rappresentano un prerequisito per fare in modo che strumenti come il permesso di soggiorno a punti possano avere successo”. Per dirla con un paragone, quello della patente a punti, la condizione dell’immigrato sarebbe quella di dover acquisire un permesso di guida valido vivendo però una situazione in cui mancano strade adeguate, non ci sono cartelli stradali, non vi è alcuna indicazione che aiuti nell’utilizzo dello strumento conseguito.
“Prima di lavorare su strumenti che rendono nella pratica più difficoltoso il percorso di incontro, regolarizzazione e integrazione – spiega Perego – bisogna lavorare nel concreto sui cardini della cittadinanza e della residenza, costruendo una vera struttura intorno a ciò e destinando risorse: investimenti che finora però non abbiamo visto”. Per il direttore di Migrantes “di fronte ad un paese che anziché dopo 40 giorni ti da’ il permesso di soggiorno dopo un anno e in cui gli Sportelli immigrazione sono gravati da moltissimo lavoro, la cosa principale è di non aggravare ancora la burocrazia ma di costruire una politica legata al territorio, con la collaborazione di comuni e associazioni, e con un forte rilancio di strumenti come quello delle 150 ore, in accordo con il mondo imprenditoriale e quello sindacale”. In particolare lo strumento delle 150 ore (che lega istruzione e formazione professionale) potrebbe giocare un ruolo importante anche nella valutazione del tipo di presenza sul territorio, del perché una persona è arrivata in Italia, delle sue esigenze di sicurezza sul lavoro. E quanto ai comuni, sarebbe già importante dare loro un ruolo nelle procedure di rinnovo di un permesso di soggiorno già accordato (dando così rilievo al requisito della residenza su un determinato territorio). “Senza una politica di integrazione – dice – ogni strumento rischia di essere o estemporaneo o tale da aggravare l’inefficacia di una situazione già di per sé assai precaria”.
Il permesso di soggiorno a punti va dunque “nell’ottica del pacchetto sicurezza”, mira a “credere che la sicurezza passa attraverso uno strumento in più e non attraverso una politica diversa: e noi invece dobbiamo affermare proprio questo, anche perché penso che dal punto di vista del contrasto alla irregolarità questo strumento certamente non aiuti”.
Perego fa anche due altre considerazioni. Anzitutto, c’è da sciogliere un pregiudizio, dal momento che “non è vero che il mondo dell’immigrazione non è attento ad imparare la lingua o a iscriversi al Servizio sanitario nazionale”: anzi, tale attenzione è molto forte e deve essere facilitata creando attorno le condizioni perché tali risultati possano essere raggiunti. Da questo punto di vista “lo strumento per far ciò non può essere quello di ordinare qualcosa, non almeno in via prioritaria, ma quello di creare attorno alle persone condizioni favorevoli”. In secondo luogo, non bisogna considerare il migrante sempre e solo come una persona interessata a fermarsi a lungo sul territorio nazionale: tale idea è solamente una ipotesi, che per alcune categorie di immigrati (Perego porta l’esempio delle ucraine specializzate nei servizi alla persona, tutte di età fra 45 e 55 anni, e tutte interessate a far rientro nel proprio paese dopo un certo periodo di tempo) non si realizza affatto. Ecco allora la necessità, per comprendere il fenomeno dell’immigrazione nella sua complessità, di guardare alle storie dei migranti e alle loro stesse esigenze.
Insorge l’opposizione. Il Pd, nelle parole del capogruppo in commissione Affari Costituzionali della Camera Gianclaudio Bressa, considera il ‘permesso a punti’ una “scandalosa lotteria sociale i cui giudici imbrogliano in partenza” e l’Italia “il Paese più xenofobo d’Europa”.
Ancor più la responsabile Immigrazione del Pd, Livia Turco, critica questa sorta di ‘forche caudine che ostacoleranno l’integrazione e favoriranno l’illegalità. Secondo la Turco, “in un Paese come l’Italia dove per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno occorre aspettare più di un anno e dove i corsi di lingua e cultura sono gestiti dal volontariato e dalla Chiesa, non si può fare come se fossimo in Canada. Se Maroni e Sacconi vogliono imitare il Canada o gli altri Paesi che hanno questo sistema, risolvano prima i problemi”.
Per Emma Bonino, candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio e vicepresidente del Senato, “sulla paura si fanno le campagna elettorali, poi quando uno si trova a governare non ci riesce se non con legislazioni contraddittorie, con elementi razzisti e demonizzando un fenomeno ma con l’incapacità di governarlo. Il fenomeno dell’immigrazione è completamente demonizzato ma non governato”.
Per Paolo Ferrero si tratta di un provvedimento “demenziale”. “Invece di alzare nuove e odiose asticelle sociali e culturali nei confronti degli immigrati, che già vengono quotidianamente criminalizzati dalla Lega e dal centrodestra, il governo pensi a stanziare fondi per le politiche d’integrazione, su cui non c’è un euro”. E il segretario di Rifondazione comunista ricorda: “Con paletti come quelli previsti dal permesso di soggiorno a punti metà dei nostri connazionali emigrati all’estero in massa, nel Novecento, non sarebbero mai potuti entrare nei Paesi dove erano emigrati e dove invece si sono presto integrati, a partire dagli Usa”.
“Se il permesso a punti costituisce un percorso per arrivare più facilmente alla cittadinanza, ma dubito che sia così, allora potrebbe andare bene. Se invece è l’ennesimo ostacolo della maggioranza per limitare il numero d’immigrati, allora dico no”. Lo dice il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei. In realtà, continua Di Giovan Paolo, “temo che si vogliano solo mettere paletti per una reale integrazione degli immigrati nel nostro Paese, legando la presenza sul nostro territorio per motivi di lavoro alla conoscenza di nozioni che anche tanti italiani ignorano”.
“Per fortuna, come dice il Censis, la gente dimostra di essere più avanti della politica e dice sì alle cure per gli extracomunitari anche irregolari. Nel frattempo- aggiunge- sono arrivati a Roma una sessantina di stranieri che erano a Rosarno. Perché sono stati accolti solo dalle associazioni e dai movimenti e non da organizzazioni dello Stato?”.
I dati del Censis. Più dell’80 per cento degli italiani ritiene che anche gli immigrati clandestini o irregolari devono avere accesso ai servizi sanitari pubblici.
La maggior parte, 65 per cento, motiva questa opinione con il fatto che la salute è un diritto inviolabile, per una minoranza (compresa fra il 12 e il 19 per cento), le cure per tutti sono necessarie ad evitare epidemie. E’ quanto emerge da una indagine realizzata dal Censis. A volere la sanità pubblica anche per i clandestini è l’86,1 per cento dei residenti al Sud, il 78,7 per cento al Centro, il 78,4 per cento al Nord-Est e il 75,7 per cento al Nord-Ovest. Dello stesso parere oltre l’85 per cento degli italiani laureati, l’83,1 per cento dei 30-44enni e più dell’85 per cento dei residenti nelle città con 30 mila-100 mila abitanti. E’ alta la quota dei favorevoli anche tra gli italiani più cagionevoli di salute e quindi più bisognosi di cure: l’83,9 per cento di chi dichiara di avere una salute pessima auspica un’offerta sanitaria pubblica estesa anche a clandestini e irregolari.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14109
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Il potere super-adesivo dell’acqua 05.02.2010
I ricercatori della Cornell Università hanno inventato un dispositivo in grado di sfruttare la tensione superficiale per far aderire due superfici di qualsiasi tipo
Sarà forse uno scarafaggio a ispirare il “super adesivo” del futuro, a dispetto di tutti gli studi di ingegneria condotti sul geco, il rettile noto per le sua capacità di aderire alle superfici. Siamo ancora alla fase di prototipo e il sistema è da perfezionare, ma Paul Steen e Michael Vogel della Cornell University (Usa) hanno creato un dispositivo che simula il meccanismo delle zampe dell’insetto tipico della Florida, la cui peculiarità è quella di aderire alle superfici con una forza cento volte maggiore del proprio peso grazie alla tensione superficiale dell’acqua. Lo studio che sta dietro alla realizzazione del dispositivo è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.
Il congegno consiste in un sistema di due piani: quello inferiore fa da contenitore per l’acqua, quello superiore è forato; i buchi sono dell’ordine di micron (milionesimi di metro). La fisica è la stessa che tiene uniti due vetri bagnati: una comune batteria da 9 Volt fa sì che le gocce siano spinte attraverso lo strato superiore (qui il video) e la tensione superficiale dell’acqua fa aderire il dispositivo a un qualsiasi oggetto. Per staccare le due superfici è sufficiente invertire il campo elettrico, in modo che l’acqua torni al suo posto, sempre attraverso i pori (qui il video).
“Nella nostra esperienza quotidiana, questa tensione è relativamente debole – spiega Steen – ma a seconda del numero di fori è possibile generare una forza notevole”. Uno dei prototipi, per esempio, presenta mille fori da 300 micron di diametro ed è in grado di sostenere un peso di circa 30 grammi (corrispondente a 60 graffette, qui il video). Riducendo le dimensioni dei fori e aumentandone il numero, la forza di adesione cresce. I ricercatori stimano che un dispositivo di circa sei centimetri quadrati con milioni di buchi da un micron potrebbero sostenere quasi otto chilogrammi.
Steen e Vogel immaginano i futuri prototipi, di ben maggiori dimensioni. Secondo i due ricercatori, questo meccanismo di adesione rapida potrebbe essere un giorno incorporato a scarpe o guanti e rendere possibile camminare sui muri come Spiderman. (t.m.)
Riferimento: doi: 10.1073/pnas.0914720107
http://www.galileonet.it/news/12351/il-potere-super-adesivo-dellacqua
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Foreste a ritmo accelerato 04.02.2010
Negli Stati Uniti orientali alcune foreste stanno crescendo dalle due alle quattro volte più in fretta rispetto a duecento anni fa. Responsabile: il riscaldamento globale
Le foreste degli Stati Uniti orientali stanno crescendo molto più velocemente di quanto non abbiano mai fatto negli ultimi duecento anni. Lo dichiara su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) un’equipe di ecologi capitanata da Geoffrey Parker, che dal 1987 sta misurando e catalogando gli alberi presenti nella foresta che circonda il centro di ricerca presso cui lavora, lo Smithsonian Enviromental Research Center (Serc), situato quindici chilometri a sud di Annapolis, nel Maryland. Il responsabile di questa accelerazione? Il cambiamento climatico.
I dati utilizzati per lo studio sono stati raccolti durante gli ultimi 23 anni e si riferiscono a 55 zone della foresta. Queste aree sono di grandezza variabile – da 75 a 15 metri quadrati di superficie – e gli alberi presenti hanno un’età compresa tra i 5 e i 225 anni.
Generalmente le foreste crescono più velocemente quando sono giovani e man mano che invecchiano rallentano lo “sviluppo”, aumentando però la loro ‘biomassa’, ossia la materia di cui sono costituite (tronco, rami, radici, foglie,…). Conoscendo specie e diametro di ciascun albero, i ricercatori del Serc hanno potuto calcolare la biomassa delle aree in esame; in seguito hanno creato una “crono-sequenza”, raggruppando serie di alberi dello stesso tipo a differenti stadi di sviluppo, in modo da poter stabilire la loro velocità di crescita.
Stando ai calcoli, il 90 per cento della foresta sta mettendo su peso molto più velocemente di quanto previsto: dalle due alle quattro volte. Si parla di due tonnellate di biomassa in più all’anno ogni quattromila metri quadrati di superficie. In pratica, è come spuntasse un albero di sessanta centimetri di diametro in ciascun acro in appena 12 mesi.
Secondo gli studiosi, le cause vanno ricercate nel cambiamento climatico e in particolare nell’aumento della temperatura (quasi un decimo di grado), in un maggior quantitativo di anidride carbonica in atmosfera (aumentata del 12% negli ultimi vent’anni) e in una stagione favorevole alla crescita più lunga (7,8 giorni in più all’anno). Tutti fenomeni che hanno come conseguenza un aumento del sequestro della CO2 , utilizzata dalla pianta per fare fotosintesi e aumentare la propria biomassa.
I ricercatori ancora non sanno quanto esteso sia il fenomeno, ma ritengono che i risultati possano essere rappresentativi di tutte aree boschive degli Stati Uniti orientali, che non differiscono molto da quella che circonda il Serc per quanto riguarda clima e specie. Intanto sperano che altri ecologisti in diverse parti del mondo stiano raccogliendo dati, in modo da poter presto avere un quadro il più completo possibile su questo effetto del cambiamento climatico. (f.p.)
Riferimento: doi: 10.1073/pnas.0912376107
http://www.galileonet.it/news/12343/foreste-a-ritmo-accelerato
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Silicone dal cuore elettrocinetico 03.02.2010
Il Pzt, il materiale più efficiente nel convertire il movimento in elettricità, è stato per la prima volta unito al silicone, diventando flessibile e biocompatibile
Un sandwich al silicone farcito con Pzt (titanato zirconato di piombo), un materiale in grado di convertire l’energia meccanica del movimento in energia elettrica con un’efficienza dell’80 per cento, è stato realizzato dagli ingegneri dell’Università di Princeton (Usa). I ricercatori hanno reso così il più efficiente tra tutti i materiali piezoelettrici finalmente flessibile e biocompatibile. I vantaggi? La sostenibilità e l’adattabilità: un simile sistema permette di sfruttare a pieno i movimenti naturali del corpo, come quelli dovuti alla respirazione e alla locomozione, per produrre una grande quantità di energia. Lo studio, finanziato dalla U.S. Intelligence Community, è stato pubblicato su Nano Letters, una rivista specializzata della American Chemical Society, e potrebbe rivoluzionare il campo dei dispositivi elettronici medici, come quello dell’elettronica portatile.
Quando un materiale piezoelettrico viene stressato meccanicamente, al suo interno si crea una differenza di potenziale che può essere utilizzata per produrre corrente elettrica. Come ricordato, di tutti i materiali piezoelettrici il Pzt è il più efficiente (anche 100 volte più del quarzo). Il principale ostacolo alla realizzazione di sistema a Pzt flessibile sta però nel fatto che il materiale ha una struttura cristallina; questo significa che si forma a temperature molto alte, che sciolgono eventuali substrati flessibili. Ma Michael McAlpine, docente di ingegneria meccanica presso l’ateneo statunitense e a capo del progetto, sembra aver trovato il modo di aggirare questo problema, facendo crescere il materiale alle sue classiche temperature e trasferendone poi delle nanostrisce tra due lamine di silicone.
Il team punta ora all’applicazione di questa tecnologia, dato che gli impianti possono caricare vari tipi di apparati elettrici e possono essere collocati ovunque si produca movimento costante. Grazie alla biocompatibilità del silicone, per esempio, potrebbero essere posti vicino ai polmoni e il movimento della respirazione genererebbe elettricità sufficiente a far funzionare un peacemaker. Si eviterebbero così gli interventi chirurgici di sostituzione delle batterie usate, come suggerisce lo stesso McAlpine: «I nuovi meccanismi potrebbero essere impiantati nel corpo per alimentare perpetuamente i dispositivi medici senza pericolo di rigetto. Il composto, inoltre, si flette quando ad esso si applica corrente elettrica: ciò consentirebbe ulteriori usi in microchirurgia». Ma i chip potrebbero anche alimentare dispositivi portatili, come riproduttori Mp3, telefoni cellulari o pc, che potrebbero caricarsi durante una corsa o una passeggiata. Attualmente, gli ingegneri di Princeton stanno studiando dei prototipi per testare quanta elettricità riescono generare quando sono inseriti nelle scarpe.
I limiti del materiale non sono ancora stati indagati, ma i ricercatori sono ottimisti: «Migliorando nel tempo la fabbricazione di questi sistemi, saremo in grado di realizzare lamine sempre più grandi in grado di generare sempre più elettricità». (a.o.)
Riferimento: DOI: 10.1021/nl903377u
http://www.galileonet.it/news/12335/silicone-dal-cuore-elettrocinetico
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Il futuro dell’elettronica è ibrido 05.02.2010
Ricercatori giapponesi sostengono di aver trovato il modo di fondere insieme silicio e grafene. Aprendo la strada a una potenziale nuova industria capace di andare molto oltre i limiti delle attuali tecnologie elettroniche
Roma – I chip al grafene, autentico “Santo Graal” dell’elettronica di questi anni frenetici di evoluzione tecnologica a briglie scolte, sarebbero a un passo dalla realizzazione su scala industriale. O per lo meno è quello che promettono ricercatori giapponesi della Tohoku University assieme ai colleghi di altri istituti e centri di ricerca nipponici, che nel lavoro Crescita Epitassiale su Silicio attraverso una Elettronica Combinata Grafene-Silicio descrivono un metodo rivoluzionario per fondere due mondi sin qui difficili da combinare.
A far combaciare gli oramai rodati standard industriali di lavorazione del silicio e le promesse mirabolanti del grafene (chip più veloci e performanti, affidabili e resistenti) ci stanno provando in tanti, inclusi i ricercatori della Pennsylvania State University che hanno annunciato la realizzazione di wafer di grafene da cui produrre, in futuro, i nuovi microchip al carbonio.
La ricerca nipponica promette di andare oltre questi traguardi, perché il metodo di crescita epitassiale descritto nello studio permette di applicare la tradizionali tecnica litografica per lo “stampaggio” dei circuiti integrati a un sottile strato di grafene. “Il grafene è un promettente contendente alla successione del trono del silicio nell’elettronica al di là dello standard CMOS”, scrivono i ricercatori giapponesi, ma per far si che avvenga la successione tecnologica è necessario sviluppare un metodo di “crescita epitassiale su larga scala di grafene su substrati”.
Piuttosto che abbandonare i substrati di silicio correntemente adottati e imbarcarsi in un costosissimo processo di riconversione dell’intera industria dei semiconduttori, gli scienziati nipponici dicono di aver sfruttato in maniera innovativa il metodo della crescita epitassiale di grafene su substrati di silicio, vale a dire una delle strade sin qui battute per raggiungere la singolarità tecnologica fra i due elementi.
Lo studio dimostra appunto che la formazione di grafene epitassiale (ovverosia “la deposizione di sottili strati di materiale cristallino su un substrato massivo, anch’esso cristallino, che ne indirizza la crescita e ne determina le proprietà strutturali”) “è possibile grafitizzando sottili strati di carburo di silicio formati su substrati di silicio”.
In parole povere, con la loro tecnica di crescita del composto silicio-carbonio i ricercatori giapponesi avrebbero trovato il modo di accelerare enormemente la ricerca e lo sviluppo di soluzioni tecnologiche a base di grafene, estendendo (almeno in teoria) le mirabolanti qualità di quest’ultimo materiale al “substrato” industriale che produce microchip a milioni per i dispositivi elettronici di tutto il mondo. “Se stiamo per entrare nell’era del grafene”, chiosano dal MIT, “si può ragionevolmente sostenere che tale era cominci da qui”.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2805062/PI/News/futuro-dell-elettronica-ibrido.aspx
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Nasa: Plutone sta cambiando colore 04.02.2010
Foto mostrano che adesso e’ piu’ rosso rispetto a prima
(ANSA) – NEW YORK, 4 FEB – Nuove foto pubblicate dalla Nasa mostrano che Plutone sta cambiando colore. Le immagini illustrano un corpo celeste, nel 2006 quello che un tempo era considerato l’ultimo pianeta del Sistema Solare e’ stato ‘degradato’ a pianetino, piu’ rosso di quanto non fosse apparso in vari decenni. All’occhio del profano Plutone sembra colore giallo-arancio, ma gli astronomi assicurano che e’ adesso il 20 per cento piu’ rosso.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/02/04/visualizza_new.html_1681155448.html
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Si era trovato ”a fare politica per colpa della Resistenza”. Del 1992 il suo testamento politico con una lettera alla nipote
Addio ad Antonio Giolitti, gentiluomo ”senza tetto” a sinistra.
Roma, 8 feb. (Adnkronos) – E’ morto questa mattina a Roma Antonio Giolitti. Nipote dello statista Giovanni Giolitti, è stato membro dell’Assemblea costituente nel 1946 e più volte ministro dal 1963 al 1974. Avrebbe compiuto 95 anni il 12 febbraio. Nel 1956, dopo i fatti di Ungheria, abbandonò il Pci per entrare nel Psi. Nel ’85, in polemica con Bettino Craxi e la sua politica abbandona il Psi, e nel ’87 è eletto senatore come indipendente del Pci. Al termine della legislatura nel 1992 si ritira dalla politica attiva.
Cordoglio per la scomparsa di Giolitti è stato espresso dalle massime cariche dello Stato. ”Ha lasciato l’impronta di una personalità di eccezionale levatura culturale e morale nella vita politica e nell’attività di governo”, afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio inviato alla famiglia di Giolitti. “Partecipo con profonda commozione al dolore dei familiari e al più vasto cordoglio per la scomparsa di Antonio Giolitti. Deputato all’Assemblea Costituente, parlamentare per numerose legislature, ministro della Repubblica, membro italiano della Commissione Europea per due mandati”, sottolinea il capo dello Stato.
”La sua finezza intellettuale, la sua coerenza e la sua dirittura – rimarca il Quirinale – sempre accompagnate da rara sobrietà e discrezione, sono state per me personalmente fonte di ispirazione e hanno nutrito una sempre più schietta amicizia tra noi. Le istituzioni della Repubblica – conclude Napolitano – rendono ad Antonio Giolitti rispettoso e riconoscente omaggio”.
”Profondo cordoglio per la scomparsa di un protagonista di molti decenni di storia italiana“, esprime anche il presidente del Senato Renato Schifani. “Dalla militanza antifascista alla Liberazione – sottolinea la seconda carica dello Stato – dalla partecipazione alla Costituente ai numerosi incarichi di governo, nazionale e sovranazionale, e alla lunga attività parlamentare, conclusasi nel 1992 con la X Legislatura in Senato, Giolitti ha rappresentato per il Paese un esempio altissimo di valore umano e civile”.
La figura di Giolitti è quella di uno dei “principali protagonisti della storia italiana“, scrive in un telegramma alla famiglia Giolitti il presidente della Camera Gianfranco Fini. “Tra i primi ispiratori della programmazione economica – ricorda la terza carica delo Stato – espresse sempre nel corso della sua lunga attività politica, fondata sulla cultura riformista, un coerente e appassionato impegno per il consolidamento della democrazia del nostro Paese”.
Un gentiluomo ”senza tetto” a sinistra, è stato definito Giolitti, morto alla vigilia dei 95 anni, protagonista politico di primo piano dei primi decenni della vita repubblicana, esponente di spicco prima del Pci di Palmiro Togliatti, da cui uscì clamorosamente nel 1957 dopo l’VIII congresso seguito ai fatti di Ungheria, e poi del Psi di Pietro Nenni, per il quale svolse il ruolo di ministro del Bilancio nei primi governi di centrosinistra, capeggiando quelle ”riforme di struttura” che assunsero il nome, grazie a lui, di ”programmazione economica” durante il boom degli anni Sessanta.
Dopo aver rifiutato pubblicamente la fede marxista per abbracciare il New Deal e l’economia di Keynes, Giolitti fu poi commissario europeo dal 1977 al 1985, lo stesso anno in cui, con Bettino Craxi ormai ”padrone assoluto” del partito, ruppe clamorosamente con il Psi, sbattendo la porta e denunciando il tradimento degli ideali socialisti. Accettò così di appartenere a quella sinistra ”impaziente e insoddisfatta”, come Giolitti ebbe a dire, candidandosi nel 1987 come indipendente nelle liste del Pci in quella che allora si chiamava la Sinistra indipendente, restando in carica per cinque anni e chiudendo a 77 anni la sua intensa carriera politica attiva.
L’intellettuale che giovanissimo lavorò per la casa editrice Einaudi si era trovato suo malgrado ”a fare politica per colpa della Resistenza”, esordendo drammaticamente come partigiano al fianco del comunista Giancarlo Pajetta.
Ormai silente e osservatore distaccato delle vicende politiche, nel 2006, in occasione dell’anniversario dei fatti di Ungheria, Antonio Giolitti ha ricevuto l’omaggio del presidente della Repubblica Napolitano il quale, recandosi personalmente nella sua abitazione romana, ha riconosciuto che cinquant’anni prima la ragione stava dalla sua parte. Giolitti aveva infatti aderito al ”Manifesto dei 101”, la lettera firmata dagli intellettuali comunisti per protestare contro il sostegno del Pci all’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche.
Risale al 1992 il testamento politico di Giolitti, quando pubblica ”Lettere a Marta” (Il Mulino), un volume autobiografico di riflessioni e ricordi personali indirizzato alla nipote. Era stata Marta infatti a sollecitarlo a scrivere le sue memorie, per mettere nero su bianco ”una ricerca e una verifica delle circostanze e dei motivi che hanno sospinto uno come me e forse tanti altri miei simili all’impegno nella politica, e a perseverarvi”.
Da qui la domanda: perchè la sinistra in Italia non ha mai governato in quanto tale? Cioè con un suo programma, con una sua carica trasformatrice, lasciando un suo segno nel paese? Giolitti pensava di essere una delle figure capaci di dare una risposta convincente. Per una ragione semplicissima: aveva la credibilità che gli derivava dall’essere stato uno dei pochissimi ”uomini di governo” che la sinistra italiana aveva avuto.
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USA-CINA
Il risiko e il rischio 04.02.2010
Armi a Taiwan e Tibet, Obama si gioca il ruolo cinese nella crisi americana. Diritti umani, il pulpito Abu Ghraib
Joseph Halevi
L’America che Obama ha ereditato da Bush può arrogarsi il diritto di decidere sui diritti umani nel mondo? No, l’attuale situazione in Iraq ed Afghanistan segnate a vita dalle storie di Abu Ghraib e Bagram e dalle innumerevoli vittime civili della guerra, la questione vergognosa e irrisolta di Guantanamo, alla fine l’approvazione del golpe in Honduras e la persistente accettazione della cancellazione da parte di Israele dei diritti civili, politici e nazionali dei palestinesi, testimoniano del fatto che nei confronti dei diritti umani nel mondo gli Usa non sono un paese kasher. Inoltre come metodo di pressione politica – come accade ora per il Tibet con la decisione di Obama di ricevere il Dalai Lama tre giorni dopo l’invio di 6,6 miliardi di dollari di armi a Taiwan – questa linea non può funzionare nei confronti della Cina. Come invece funzionava alla grande nei confronti dell’Urss la cui dipendenza alimentare dagli Usa era diventata endemica dopo le grandi crisi granarie del 1961-63. Il punto è che il capitalismo Usa necessita della Cina.
Ne consegue che le tensioni che si sviluppano tra i due paesi riflettono in gran parte il nodo della crisi globale e una problematica interna agli Stati uniti. Basti pensare a tutta la vicenda del conferimento a Pechino dello status di nazione più favorita durante la presidenza Clinton in tandem all’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Allora si abbinava dumping cinese e controllo del cambio e del flusso dei capitali all’assenza di diritti umani e dei lavoratori. Per aumentare la pressione venne gettata nel pentolone anche la vendita di armi a Taiwan, con l’aggiunta del peperoncino nordcoreano. Con lo spostamento dell’asse degli interessi capitalistici Usa verso l’outsourcing – e quindi verso un’economia nel cui circuito le importazioni entrano in maniera determinante ponendo quindi il problema del finanziamento di un deficit estero non eliminabile – è cambiata anche la natura della pressione sulla Cina. Non si tratta più di accusare Pechino di essere il vettore low cost a bassi salari della produzione di beni di consumo per il mercato Usa, né si tratta di chiedere alla Cina una maggiore liberalizzazione della sua bilancia dei pagamenti in conto capitale. La crisi asiatica dell 1997-98 mise fine a quest’ultima velleità, con Clinton che addirittura encomiò Pechino per aver mantenuto la stabilità fianziaria grazie ai suoi controlli.
Nei confronti della Cina l’amministrazione Obama non si discosta dalla concezione strategica elaborata alla fine degli anni Novanta presso la Rand Corporation da Zalmay Khalilzad, fino al 2009 ambasciatore Usa all’Onu dopo aver servito in Iraq (2005-2007) ed in Afghanistan (2003-2005). Il termine allora coniato da Khalilzad è congage, che significherebbe ingaggiare anche scontrandosi. L’idea è di forzare la Cina in uno schema compatibile con le mutevoli condizioni degli Usa. Sul piano economico la Cina dovrebbe continuare ad essere produttrice low cost in modo da permettere sia i profitti dell’economia di servizi e della distribuzione negli Usa, sia il consumo delle famiglie americane i cui redditi reali per occupato sono in calo da decenni. In tale contesto la Cina deve anche garantire il finanziamento del deficit Usa senza intralciare la politica monetaria di Washington. Deve inoltre affiancare gli Usa sia in Afghanistan che in Iran. Ogni volta che questo schema deraglia, Washington rilancia la pressione via Taiwan, diritti umani in Tibet (questi ultimi legittimi ma non dal pulpito Usa) e cose simili – significativamente sulla repressione nello Xinjang musulmano la Casa bianca tace da sempre.
Oggi le equazioni economico geopolitiche Usa sono ancora più inconsistenti. La Cina dovrebbe aiutare la (non) ripresa statunitense rivalutando la sua moneta. Ad eccezione delle automobili, la produzione cinese di beni di consumo di massa e di input industriali è molte volte superiore qauella degli Usa, al punto che, in quei settori, Pechino ormai sorpassa Washington anche in termini procapite. Di quanto dovrebbe rivalutarsi lo yuan affinchè ridiventi conveniente localizzare la produzione nuovamente negli Stati uniti? Nemmeno una rivalutazione del 100 o 200% sarebbe sufficiente ad effettuare un tale mutamento strutturale lungo un arco di tempo assai lungo ma credibile. Nel frattempo si disarticolerebbero sia le relazioni produttive che di vendite, e i servizi finanziari ad esse connesse. Le discontinuità sarebbero insostenibili.
Lo stato autoritario e antioperaio cinese non è in osmosi con lo stato Usa ma la produzione cinese è integrata al capitalismo statunitense e ciò si riproduce all’interno dell’America. Contraddizioni pesanti che gli Stati uniti non sanno affrontare e reagiscono brandendo delle clave in maniera inconsulta e senza coerenza. Ma con effetti pericolosi come quello di disarticolare la stessa base economica di Taiwan che oggi poggia interamente sulla Cina.
http://fuoriclasse.ilmanifesto.it/argomenti-settimana/articolo_1dd9870b67d2e738ce05833c82e44cef.html
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Afghanistan meglio che Obama si ritiri 09.02.2010
MIKHAIL GORBACIOV
L’Afghanistan è in subbuglio, con tensioni crescenti e morti quotidiani, molti dei quali – compresi donne, bambini e anziani – nulla hanno in comune con terroristi o militanti. Il governo sta perdendo il controllo del suo territorio: delle 34 province, una decina sono nelle mani dei taleban. La produzione e l’esportazione di oppio sta crescendo. E c’è il rischio concreto che la destabilizzazione si estenda ai Paesi vicini, comprese le repubbliche dell’Asia centrale e il Pakistan.
Ciò che è iniziato nel settembre 2009 dopo la rielezione di Karzai – una risposta militare al terrorismo, in apparenza appropriata – potrebbe finire in un colossale fallimento strategico. Dobbiamo capire perché sta succedendo e che cosa si può ancora fare per ribaltare una situazione quasi disastrosa. La recente conferenza internazionale sull’Afghanistan di Londra, cui hanno partecipato rappresentanti di molti Paesi e organizzazioni internazionali, è un primo passo in una nuova direzione. I delegati hanno preso decisioni che potrebbero capovolgere la situazione, a condizione che si rifletta su quanto è successo negli ultimi tre decenni e se ne tragga una lezione.
Nel 1979 il governo sovietico inviò i suoi soldati in Afghanistan, giustificando quella mossa con il desiderio di aiutare elementi amici e con la necessità di stabilizzare un Paese vicino.
L’errore più grave fu la mancata comprensione della complessità dell’Afghanistan: il suo mosaico di gruppi etnici, clan e tribù, le sue tradizioni uniche, il suo governo minimale. Così si ottenne il risultato opposto: un’instabilità ancora più grande, una guerra con migliaia di vittime e conseguenze pericolose per la Russia. In più l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, soffiò sul fuoco nello spirito della Guerra Fredda, pronto ad appoggiare chiunque contro l’Unione Sovietica, senza pensare alle conseguenze.
Come parte della perestrojka a metà degli Anni 80, la nuova leadership sovietica trasse le sue conclusioni dai guai in Afghanistan e prese due decisioni: ritirare i soldati e lavorare con tutte le parti in conflitto e con i governi coinvolti per arrivare a una riconciliazione nazionale e fare dell’Afghanistan un Paese pacifico e neutrale che non minacciasse nessuno.
Guardando indietro, io continuo a pensare che fosse un doppio percorso corretto e responsabile. Sono sicuro che, se fossimo riusciti a concluderlo, si sarebbero evitati problemi e disastri. Abbiamo lavorato molto e in buona fede, ma avevamo bisogno di una cooperazione sincera e responsabile da parte di tutti. Il governo afghano era pronto a scendere a patti e in un certo numero di regioni le cose cominciarono a migliorare. Ma il Pakistan e gli Stati Uniti bloccarono tutto. Volevano una sola cosa: il ritiro delle truppe sovietiche. Pensavano che così avrebbero avuto il pieno controllo dell’Afghanistan. Rifiutando anche il minimo appoggio al governo del presidente afghano Muhammad Najbullah, il mio successore Boris Eltsin fece il loro gioco.
Negli Anni 90 il mondo sembrava indifferente all’Afghanistan. In quel decennio il governo cadde nelle mani dei taleban, che trasformarono il Paese in un porto franco per i fondamentalisti islamici e un incubatore di terrorismo. L’11 settembre 2001 fu un brusco risveglio per i leader occidentali. Anche allora, però, l’Occidente prese una decisione che non era attentamente ponderata e perciò si rivelò sbagliata. Dopo aver spodestato il governo taleban, gli Stati Uniti pensarono che la vittoria militare, ottenuta a poco prezzo, fosse conclusiva e avesse risolto l’annoso problema. L’iniziale successo è stato probabilmente una delle ragioni per cui gli americani si aspettavano una «passeggiata» in Iraq, con ciò facendo anche laggiù un fatale errore di strategia militare. Nel frattempo costruivano in Afghanistan una facciata democratica, da difendere con le forze di sicurezza internazionali, cioè le truppe della Nato, che cercava di assumere il ruolo di poliziotto globale.
Il resto è storia. La via militare in Afghanistan si rivelò sempre meno sostenibile. Era un segreto di Pulcinella; anche l’ambasciatore degli Stati Uniti lo scriveva nei cablogrammi resi pubblici di recente. Negli ultimi mesi mi è stato chiesto più volte quale suggerimento darei al presidente Obama, che ha ereditato questo caos dal suo predecessore. La mia risposta è sempre stata la stessa: una soluzione politica e il ritiro delle truppe. Il che richiede una strategia di riconciliazione nazionale. Ora, finalmente, un piano molto simile a quanto noi avevamo suggerito più di vent’anni fa e i nostri partner avevano rifiutato è stato presentato all’incontro di Londra: riconciliazione, coinvolgendo nella ricostruzione tutti gli elementi più o meno ragionevoli e puntando su una soluzione politica più che militare.
L’inviato delle Nazioni Unite in Afghanistan ha detto in una recente intervista: occorre smilitarizzare l’intera strategia in Afghanistan. Che peccato che questo non sia stato detto, e fatto, molto prima! Oggi le probabilità di successo sono al massimo del cinquanta per cento. Ci sono stati contatti con alcuni elementi taleban. Ma molto di più va fatto per coinvolgere l’Iran e molto resta da fare con il Pakistan. La Russia potrebbe diventare un tassello importante del processo di stabilizzazione afghana. L’Occidente dovrebbe apprezzare la posizione dei suoi leader: lungi dal gongolare guardando l’Occidente che ingoia il rospo e lavandosene le mani, la Russia è pronta a collaborare con l’Occidente perché capisce che è nel suo interesse contrastare le minacce che arrivano dall’Afghanistan.
Mosca ha ragione a chiedere perché, negli anni della presenza militare Usa e Nato in Afghanistan, sia stato fatto poco o nulla contro l’oppio, che in grandi quantità arriva in Russia attraverso i confini porosi dei suoi vicini, minacciando la salute dei suoi abitanti. Ha anche ragione a chiedere accesso alle opportunità economiche in Afghanistan, compresa la ricostruzione di decine di progetti costruiti con il suo aiuto e distrutti negli Anni 90. La Russia è un vicino dell’Afghanistan e bisogna tener conto dei suoi interessi. Dovrebbe essere ovvio, ma qualche volta occorre ricordarlo.
Vorrei sperare che stia nascendo una nuova fase per il sofferente Afghanistan, un raggio di speranza per i suoi milioni di abitanti. L’opportunità è lì, ma per afferrarla occorrono realismo, tenacia, onestà nell’imparare dagli errori del passato e abilità nell’agire sulla base di quella conoscenza.
Copyright 2010 Mikhail Gorbaciov
Distributed by The New York Times Syndicate
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Alla Farnesina si torna all’antico 09.02.2010
BORIS BIANCHERI
Sino a una ventina d’anni fa, nel nostro ministero degli Esteri i problemi internazionali venivano assegnati tra le varie Direzioni a seconda della loro natura: esisteva una Direzione degli Affari Politici, una Direzione Affari Economici, una degli Affari Culturali e così via. Il tutto coordinato dalla Segreteria Generale e, beninteso, sotto la direzione e la responsabilità politica del ministro e dei suoi sottosegretari. Questo schema dava al «che cosa?» preminenza sul «dove?», cioè dava priorità alla natura di un problema rispetto al Paese o gruppo di Paesi nei cui confronti il problema si poneva.
Tale criterio contrastava però con quanto si faceva in alcuni grandi Paesi europei, in Gran Bretagna e in Francia in particolare, dove invece la priorità era data alla geografia, con dipartimenti suddivisi, appunto, in aree geografiche: Europa, Americhe, Asia e via dicendo. In una fase della politica estera comune dell’Unione Europea che richiedeva continue riunioni di coordinamento tra dirigenti dei vari ministeri degli Esteri, parve utile dare alle nostre strutture un assetto che rispecchiasse più da vicino quello di nostri autorevoli partner e si passò a una formula mista, ma prevalentemente geografica, di ripartizione interna.
Non si tratta di un problema puramente organizzativo: esso riflette delle scelte nel ruolo che la politica estera assume nello sviluppo del proprio Paese e del modo in cui si vuole tenere il passo con le trasformazioni in atto nello scenario mondiale. Accadde però che quella riforma di una decina d’anni fa venisse attuata quando era già superata e quando gli stessi Paesi il cui assetto l’Italia aveva preso a modello si accingevano a cambiarlo. Gli ultimi decenni hanno infatti segnato un continuo processo di erosione delle realtà geografiche storiche e la crescente internazionalizzazione della vita della società civile. Cento anni fa, il rapporto tra due Paesi aveva un fondamento politico-geografico che si proiettava anche sull’interscambio, sulla finanza o sulla cultura. Oggi, tutte le attività di una società evoluta hanno delle dimensioni internazionali – l’educazione, l’ambiente, la sanità, il lavoro, la scienza, le comunicazioni e via dicendo – e sono queste ultime che condizionano il più delle volte anche il rapporto politico sottostante. Ecco dunque che la Farnesina si propone di tornare all’antico schema di una ripartizione delle competenze interne fondata su base tematica, seppur largamente aggiornata e corretta. E non a caso altri Paesi europei hanno nel frattempo già fatto riforme simili. Avremo dunque una Direzione per la Mondializzazione, dove trovano posto non solo le grandi organizzazioni internazionali e i processi di governance come il G8 o il G20, ma anche tutti i rapporti bilaterali con i singoli Paesi del mondo. Solo l’Europa avrà una sua Direzione per l’Unione Europea, mirata soprattutto al processo di integrazione e ai rapporti con la Commissione e le altre istituzioni dell’Unione. Dovrà esservi poi una Direzione per gli Affari Politici e di Sicurezza, una Direzione per la Promozione del Sistema Paese, che va dalla cultura all’attività delle imprese all’estero, una Direzione per la Cooperazione allo sviluppo e una per gli Italiani all’estero.
È un progetto che presuppone evidentemente una stretta e coerente attività di coordinamento con la presidenza del Consiglio e con tutti gli altri ministeri, un problema questo che si è posto da tempo e che è stato affrontato anche attraverso una sempre più frequente presenza di funzionari diplomatici presso le altre amministrazioni. Sul suo progetto il ministero degli Esteri apre giustamente un dibattito nei prossimi giorni. Tutto è perfezionabile, ma non c’è dubbio che esso risponda, assai meglio del modello attuale, alle esigenze poste dalla globalizzazione e da processi economici e politici che trascendono i confini della geografia. Ha anche il merito di ridurre il numero delle grandi unità operative della Farnesina. Auguriamoci soltanto, guardando alle crisi in atto, a talune tentazioni protezionistiche, a striscianti nazionalismi e allo scetticismo che si accompagna in questi ultimi tempi alla visione universalistica di Barack Obama, che anche questa volta esso non entri in vigore quando il mondo sta di nuovo cambiando.
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DNA, in USA si schedano i neonati 08.02.2010
Test taciti e obbligatori per i bebè nati negli States. Ciò che preoccupa di più sono le politiche, variabili a seconda dello stato, che regolano il trattamento di questi dati
Roma – Ogni nuovo nato negli Stati Uniti viene regolarmente sottoposto a uno screening completo del proprio codice genetico, senza richiedere l’assenso dei genitori in quanto è lo stesso Governo centrale a rendere obbligatorio questo test: tanto quanto le principali vaccinazioni. A rivelarlo è la CNN che cita il caso di Annie Brown, neonata la cui predisposizione genetica alla fibrosi cistica era stata rivelata ai genitori una volta eseguito questo test ormani divenuto di routine.
La direttiva che impone l’analisi dei corredi genetici di tutti i neonati statunitensi arriva direttamente da Washington, ma l’organizzazione finale è demandata, come prevede il sistema federale USA, ai singoli stati: i quali posso decidere autonomamente la durata del periodo in cui trattenere i dati genetici dei cittadini. Questo è il punto cruciale in: una pratica che ricorda quanto predetto mostrato in Gattaca, i dati di milioni di neonati vengono registrati e immagazzinati per periodi che variano da due settimane fino all’archiviazione permamente.
I dati di chi nasce in Lousiana vengono trattenuti per 2 settimane, ma in Minnesota e in California, per esempio, le banche genetiche possono solo aumentare la propria mole, in quanto continuano a immagazzinare schede senza eliminarne. In alcuni casi, come in Texas, è possibile per i genitori richiedere che la cartella relativa al proprio pargolo venga distrutta.
Oltre al fastidio di dover comparire in database dove un tempo venivano registrati solo i condannati, per i registrati sorgono anche dei problemi dettati dal sistema sanitario statunitense: il test ha un costo che viene generalmente coperto dall’assicurazione e se viene rilevata un qualche difetto genetico, come nel caso di Annie Brown, questa viene inserita nel profilo del cittadino. Il quale potrebbe trovarsi a dover pagare un sovrapprezzo per le spese mediche qualora gli sia stata diagnosticata una qualche malformazione congenita.
Gridare all’eugenetica risulterebbe inappropriato, ma ci si chiede in ogni caso quale possa essere il motivo che spinga le amministrazioni di California, Maine, Michigan, Minnesota, North Carolina, Tennessee e Vermont a trattenere a tempo intederminato vita morte e miracoli di chi alla vita si è appena affacciato.
Una questione analoga ha fatto discutere in Gran Bretagna, dove è stata istituita un’anagrafe del DNA per i soli criminali condannati ma che in origine prevedeva criteri di ammissione molto più elastici: ridotti poi nel corso dell’iter legislativo.
Giorgio Pontico
http://punto-informatico.it/2806680/PI/News/dna-usa-si-schedano-neonati.aspx
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BigG e la macchina del tempo di Google Earth 08.02.2010
Con l’acquisizione di immagini di 70 anni fa, Google dona alle sue mappe una caratteristica pressoché unica. Utile per assistere alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale
Roma – BigG ha inserito nel database di Google Earth un consistente quantitativo di foto aeree d’epoca, grazie alle quali è ora possibile scrutare gli stessi paesaggi attraverso epoche diverse, mantenendo però la stessa prospettiva.
Video: http://www.youtube.com/watch?v=FOR0fPTx-os&feature=player_embedded
Solitamente i voli virtuali effettuati con Google Earth restituiscono immagini recenti di un Europa a colori, in cui si alternano le linee sinuose delle zone rurali con enormi quantità di acciaio e cemento tipiche delle conurbazioni che sono sorte dopo la fine del secondo conflitto mondiale, una delle pagine più drammatiche del ‘900 immortalate a suoi tempo da Robert Capa.
Le foto di cui sono entrati in possesso a Mountain View sono state realizzate nel corso diricognizioni fotografiche risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Da materiale necessario per preparare il piano di battaglia, questi scatti sono diventati il cuore pulsante della feature Historical Imagery.
Il centro storico originale di Varsavia, completamente raso al suolo nel corso del conflitto e ricostruito tra gli anni ’70 e ’80, torna quindi visibile agli occhi dei netizen insieme ad altri famosi teatri del conflitto: si possono scorrere intere pagine di storia semplicemente spostando l’indicatore della data, che compare selezionando l’apposita opzione dal menù di navigazione.
Giorgio Pontico
http://punto-informatico.it/2805760/PI/News/bigg-macchina-del-tempo-google-earth.aspx
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Il vetro è liquido 08.02.2010
Una pellicola a base di silice proteggerebbe da qualsiasi agente esterno, mandando in pensione gli attuali prodotti per la pulizia
Roma – Il suo nome ufficiale è SiO2 ultra-thin layering, ma è già stato ribattezzato dagli addetti ai lavori come Liquid Glass. Si tratta un composto chimico capace di formare una pellicola pressoché impenetrabile ad agenti esterni come microrganismi, pioggia e macchie di caffè: in pratica consente di applicare alla parola repellente i più svariati prefissi. Ovvero, trasformare praticamente qualsiasi oggetto in anti-macchia.
Oltre al composto di Silice non sono stati utilizzati ulteriori additivi: l’unica differenza è l’aggiunta di acqua o etanolo a secondo dal tipo di superficie da rivestire. Inoltre si tratta di un composto traspirante, il che significa che può essere utile anche in ambito biologico: esperimenti effettuati in alcuni vigneti hanno comprovato la validità di questa tesi, osservando anche una maggiore resistenza del vitigno all’attacco di parassiti.
L’invenzione è stata realizzata in Turchia dall’azienda tedesca Nanopool, la quale ha portato avanti parte delle ricerche presso il Saarbrücken Institute for New Materials. Terminata la fase sperimentale pare che il vetro liquido possa debuttare molto presto sul mercato, e qualcuno ha già predetto per questo prodotto un ruolo da game changer: una soluzione del genere, realizzata in varianti specifiche a seconda dell’uso, renderebbe obsoleti gli attuali prodotti per la pulizia.
Alcuni test sono già stati condotti sia in Germania che nel Regno Unito in ambienti di vario tipo: ristoranti, alberghi e treni sono stati oggetto di esperimenti, e proprio la terra di Albione sembra essere il terreno ideale per il lancio ufficiale di Liquid Glass, il cui costo si dovrebbe aggirare intorno alle 5 sterline per flacone.
Giorgio Pontico
http://punto-informatico.it/2805297/PI/News/vetro-liquido.aspx
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No alla Protezione civile $pa – Il 18 febbraio sarà un “no Bertolaso day”.
No alla Protezione civile $pa. La protesta di sindacati, volontari e associazioni.
60 parlamentari del Pd aderiscono all’appello. Il 18 febbraio assemblea contro la Spa di Bertolaso
Il 18 febbraio sarà un “no Bertolaso day”. L’Osservatorio civile, rete di volontari, associazioni, comitati territoriali, sindacati, partiti, si mobilita contro l’approvazione del decreto che istituisce la Protezione civile Spa. Il 18 febbraio, nel pomeriggio è stata indetta, all’università La Sapienza, una assemblea pubblica, per dire no al decreto195 in discussione in Parlamento. «C’è poco tempo per impedire la privatizzazione delle emergenze; per impedire che il governo porti a compimento l’opera di snaturamento di uno strumento fondamentale, in un Paese a rischio come il nostro: la Protezione Civile. Con l’obiettivo di governare il territorio, fuori da ogni controllo democratico, sfruttando le emergenze», afferma l’appello di lancio dell’iniziativa (accessibile sul sito http://www.osservatoriocivile.org), che ha raccolto già oltre 3mila adesioni. «La Spa potrà agire da general contractor, detenere immobili, fare utili. Così si rendono le emergenze un business», è scritto nel testo.
Alla protesta ieri hanno aderito, con una lettera, anche 60 parlamentari del Pd, che si aggiungono alla lunga lista di sottoscrizioni: il responsabile ambiente della Cgil Claudio Falasca, Carlo Podda e Antonio Crispi della Fp Cgil, la Fp Cgil presidenza del Consiglio dei Ministri, il sindacato di base Rdb, le organizzazioni sindacali dei vigili del fuoco, rappresentati dei partiti della sinistra (Prc, Verdi, Pdci, SeL), il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando, le associazioni dei terremotati aquilani, il Presidio permanente contro la discarica di Chiaiano, la Rete No Ponte di Reggio Calabria, rappresentati dei No Tav, intellettuali e decine di movimenti e comitati, volontari e realtà locali di Protezione civile. La Spa «potrà agire in qualsiasi circostanza, avvalendosi del potere potere di emanare ordinanze in deroga ad ogni legge e disposizione vigente. Si produce così uno snaturamento istituzionale. Il presidente del consiglio interviene su qualsiasi opera con strumenti discrezionali, coperto dal marchio positivo di migliaia di volontari e associazioni. Ci batteremo contro conversione ed esprimiamo solidarietà a tutti coloro che si stanno muovendo per informare i cittadini della gravissima distorsione che l’approvazione di questo atto può portare alla vita democratica del Paese», afferma la lettera dei parlamentari dell’opposizione.
noallaprotezionecivilespa@gmail.com
La Protezione civile, sostiene la rete Osservatorio civile, da una risorsa per il Paese sta diventando un pericolo per la democrazia. Dal 2001, quando Bertolaso è diventato capo della Protezione civile, sono state varate quasi 700 ordinanze in deroga al codice degli appalti pubblici, ai piani regolatori, alle norme su salute e sicurezza del lavoro, alle leggi ambientali. La protezione civile ha abbandonato previsione e prevenzione delle calamità naturali per diventare un grande ente appaltatore delle opere pubbliche legate ai grandi eventi, libero dal controllo della Corte dei Conti. Con risultati, com’è possibile vedere alla Maddalena, tutt’altro che efficienti. La Protezione civile ha militarizzato interi pezzi del territorio: le discariche campane e l’inceneritore di Acerra sono state definite siti d’interesse strategico nazionale, per nascondere i gravi rischi per la salute causati dalla violazione delle norme in materia di salute dei cittadini. Nei campi dell’Aquila è stato impossibile anche solo fare assemblee o volantinare ed è stato imposto, senza neppure consultare cittadini, il Piano case, che produrrà gravi danni sul tessuto urbanistico della città. Ancora oggi, in Abruzzo, circa 8mila cittadini vivono negli alberghi sulla coste, e non sono partiti i lavori di ricostruzione, neppure per le case con danni lievi.« La Protezione civile che ci serve deve fare tutt’altro. Prevenire le calamità naturali, partecipare all’unica grande opera utile al Paese: la messa in sicurezza del territorio», è scritto nell’appello.
Di questi temi, insieme a lavoratori, associazioni, volontari, partiti, si parlerà nell’assemblea pubblica del 18 febbraio. Nella mattina della stessa giornata i Vigili del fuoco dell’Rdb Cub hanno indetto, contro la Protezione civile Spa, un presidio di protesta davanti al Parlamento.
http://www.osservatoriocivile.org/?p=213
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I cambiamenti dopo le proteste di AGCom e utenti 05.02.2010
Decreto Romani, modifiche approvate: ‘Nessuna censura e nessun controllo’
Si salvano i blog, i motori di ricerca e i giornali online, sotto controllo solo le strutture on-demand
Milano – I cambiamenti al testo del Decreto presentati alla ‘Commissione Lavori Pubblici e Comunicazioni del Senato’ dal senatore PDL Alessio Butti, sono stati approvati: “Nessuna censura e nessun controllo preventivo. La libertà della Rete resta intatta” ha commentato il senatore.
A spingere per la necessità di modifiche da apportare a un Decreto legge che, se approvato, avrebbe trasformato l’Italia nel fanalino di coda europeo in materia di libera circolazione delle idee e delle opinioni su Internet, sono stati l’AGCom (Autorità garante delle Comunicazioni, presieduta da Corrado Calabrò) ma soprattutto il popolo della Rete.
Dopo il clamore delle proteste, dunque, il tanto temuto ‘filtro’ al web è stato ammorbito e smussato e, secondo il nuovo emendamento, rimarranno esclusi dalle nuove normative i veicoli mediatici come i blog, i giornali online e in versione digitale, i motori di ricerca, e comunque tutti quei media audiovisivi (come le web TV e i servizi di Live Streaming), che possono garantire un’informazione libera e omogenea.
Il senatore Butti ha assicurato che ora il Decreto riguarderà solo i servizi e le strutture basate sul meccanismo dell’on-demand, anche se restano da chiarire ancora diversi punti, come per esempio la tutela del controllo finale sui contenuti. E’ sempre il senatore a proporre che questo compito venga affidato alla stessa AGCom.
Da parte sua, il Viceministro alle Telecomunicazioni Paolo Romani, che ha dato il nome al Decreto, si è detto soddisfatto delle modifiche apportate, augurandosi che “servano a spegnere le fiammate che sono divampate” attorno alla sua proposta di legge.
Eleonora Ballatori
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Dalla newsletter di http://www.movisol.org/ del 09.02.2010
La Russia promuove l’energia nucleare e il ciclo completo del combustibile alla conferenza di Monaco sulla sicurezza
Riflettendo l’incremento dell’energia nucleare nel mondo, la conferenza annuale sulla Sicurezza di Monaco ha dedicato una sessione alla sicurezza dell’energia nel giorno di apertura, il 5 febbraio. Il Prof. Valery Yazev, fisico e attualmente vicepresidente della Duma (il Parlamento russo), ha proposto che il mondo aumenti la componente nucleare delle fonti energetiche ricorrendo al ciclo completo del combustibile, ed ha dichiarato che la Russia costruirà un nuovo reattore autofertilizzante. Nonostante le previsioni di alcuni, Yazev ha detto che le fonti energetiche cosiddette “verdi” non costituiranno più del 7-8% della produzione mondiale di energia entro il 2030.
In effetti, la Russia sta costruendo il secondo reattore autofertilizzante, il BN-800, il cui progetto viene venduto anche in Cina. Altri esponenti russi hanno promosso il programma di reattori autofertilizzanti per aumentare l’uso pacifico dell’energia nucleare, impedendo al contempo il diffondersi delle armi nucleari. Il vicepremier russo Sergei Ivanov ha notato che la AIEA ha approvato la proposta russa di creare una riserva di uranio arricchito da fornire ad altri paesi che usano l’energia nucleare a scopo pacifico, sottolineando che questo significa che i paesi che desiderano l’energia nucleare non dovranno arricchire l’uranio per proprio conto.
Ivanov ha discusso lo sviluppo di una nuova generazione di reattori nucleari che rende impossibile l’arricchimento dell’uranio per scopi militari. Ha chiesto che Russia e Stati Uniti collaborino su queste tecnologie. Parlando durante la stessa sessione, l’ex consigliere di sicurezza nazionale dell’India M.M. Narayanan ha spiegato che anche l’India ha un programma per sviluppare reattori autofertilizzanti.
L’energia nucleare è stata promossa da altri due partecipanti alla sessione sulla “sicurezza energetica”: l’amministratore delegato dell’impresa tedesca RWE, Juergen Grossmann, e l’amministratore delegato della francese Areva, Anne Lauvergeon. Grossmann ha chiesto che si produca più elettricità dal nucleare rispetto a petrolio e gas. I sogni sull’energia verde non si materializzeranno nel futuro prevedibile, ha aggiunto. Più tardi ha commentato che le fonti energetiche “rinnovabili” sono possibili solo grazie alle sovvenzioni, sottolineando che in gennaio non c’è stata praticamente energia di fonte eolica e solare per dimostrare perché debbano essere sviluppate altre fonti diverse dall’eolico e il solare.
Anche Anne Lauvergeon ha sottolineato l’importanza dell’energia nucleare, che non è rinnovabile ma “riciclabile”. Ha dichiarato che il “rinascimento nucleare” è una realtà anche se lo sviluppo dell’energia nucleare viene spesso ostacolato da regimi differenti sulle licenze in ciascun paese. Ha chiesto dunque un “sistema Schengen” per la stabilità nucleare europea. Sfidata dal primo ministro di Singapore sulla sicurezza del trasporto di “larghe quantità di uranio” ha dimostrato quanto poco uranio sia necessario per alimentare una centrale nucleare, descrivendo anche le procedure di sicurezza utilizzate per il trasporto.
Il contributo principale alla discussione fornito dal vice segretario di Stato americano James Steinberg è stato quello di vaneggiare contro gli approcci nazionalisti e “mercantilisti” alla sicurezza energetica chiedendo che la distribuzione dell’energia mondiale venga affidata ai “mercati”.
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Pechino non ci crede 12.02.2010
FRANCESCO SISCI
Qualche anno fa l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl a una cena riservata a Pechino con un altissimo funzionario cinese sollevò la questione di sanzioni contro la Corea del Nord che allora, tanto per cambiare, si sottraeva ai colloqui sul disarmo nucleare.
L’ospite cinese allargò le braccia: «Per indurre qualcuno a spogliarsi cosa è meglio fare: abbassare la temperatura e strappargli i vestiti di dosso? Oppure aumentare la temperatura fin quando, per il troppo caldo, non si spoglia da solo?». Secondo il cinese usare le sanzioni era come abbassare la temperatura e spogliare qualcuno: avrebbe provocato solo resistenza e fatica per tutti.
In questa storia c’è tutto il profondo, filosofico, scetticismo cinese verso l’uso di sanzioni, anche contro l’Iran oggi. Non si tratta solo di una teoria, secondo Pechino, ma di esperienza. La Corea del Nord, da decenni in isolamento politico ed economico, non è cambiata e anzi si è arroccata sempre di più. La Cina viceversa, accolta economicamente e politicamente nel consesso internazionale, si è trasformata profondamente.
È con questo scetticismo profondo che la Cina si appresta a votare per le sanzioni dell’Onu contro l’Iran, in sostanza solo per fare un favore all’America di Barack Obama alla ricerca di un qualche successo diplomatico da mostrare. Ci sono certamente anche spinte economiche forti: la Cina è un grande investitore nella Repubblica islamica ed è il singolo maggiore acquirente di gas iraniano. Ma anche questo impegno economico è stato dettato insieme da un calcolo di convenienza e da opportunità politica: rompere l’isolamento iraniano secondo Pechino aiuta al cambiamento del regime.
Le dichiarazioni bellicose di Teheran sul nucleare sono certo una provocazione verso gli Stati Uniti, i quali non possono che replicare. E la Cina non può sottrarsi, specie se vuole abbassare l’attuale febbre di nervosismo bilaterale con gli Usa. In queste ore Pechino è estremamente guardinga a rivelare le sue mosse e le sue intenzioni riguardo al voto sulle sanzioni. Però sembra probabile che alla fine voterà a favore, cercando di attenuarne al massimo l’impatto effettivo. Ma se aderisce (in fondo per fare un favore all’America), questo voto diventerà moneta di scambio politico con Washington.
La trattativa in queste ore sarebbe dunque in questi termini: cosa l’America è disposta a dare alla Cina in cambio della «vendita» delle sanzioni? Per alcuni americani questa Cina che mercanteggia sulle sanzioni è traditrice due volte: perché è amica dell’Iran e perché mette in vendita questa amicizia. Per la Cina invece si tratta di dover fare, in omaggio agli Usa, qualcosa di irragionevole e inutile se non dannoso. Allora, visto che lo si deve fare, almeno che gli Usa paghino un prezzo. Quindi il voto sulle sanzioni contro l’Iran diventa una moneta di scambio geopolitica in cambio di concessioni, per esempio sulle armi a Taiwan o sul Dalai Lama.
Le questioni profonde, le differenze filosofiche nell’approccio politico generale verso nazioni che non condividono la nostra visione politica, restano sullo sfondo, intatte. Ciò anche perché esistono diverse urgenze tra America e Cina. Gli Usa, incalzati anche da Israele, temono il sostegno iraniano ai vari movimenti insurrezionali sciiti del Medio Oriente, e il cambiamento degli equilibri strategici che il nucleare iraniano porterebbe nella regione. La Cina invece non ha sposato la causa di nessuno nell’area, e anzi vede la presenza Usa come un altro errore dell’America, che interviene in prima persona là dove sarebbe opportuno limitarsi al più efficiente principio del «dividere e comandare».
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La diga Grand Inga. Un oltraggio alla biodiversità 08.02.2010
[Fonte: PeaceReporter.net-Luca Manes] Sarà alta 150 metri, disporrà di 50 turbine, costerà 80 miliardi di dollari e sarà in grado di produrre 40mila megawatt di energia, due volte la capacità della diga delle Tre Gole in Cina.
Nel suo tour estivo in Africa, il presidente della Banca mondiale Robert Zoellick ha espresso il pieno sostegno dell’istituzione da lui guidata a uno dei più grandi progetti infrastrutturali della storia dell’umanità: la diga di Grand Inga nella Repubblica Democratica del Congo. Un’opera maestosa, impressionante, di quelle che lasciano senza fiato, così come le omonime cascate dove dovrebbe sorgere fra una quindicina d’anni. Basta citare qualche cifra per avere una vaga idea della sua grandezza: sarà alta 150 metri, disporrà di 50 turbine, costerà 80 miliardi di dollari e sarà in grado di produrre 40mila megawatt di energia, due volte la capacità della diga delle Tre Gole in Cina, altro sbarramento famoso per le sue dimensioni ciclopiche – e per i suoi impatti devastanti sulle popolazioni locali e sull’ambiente. Impatti che la regione attraversata dal fiume Congo ha già subito a causa della costruzione di altri impianti, Inga 1 e Inga 2, durante i lunghi anni di dittatura di Joseph Mobutu.
Due mega-dighe, attualmente in fase di ammodernamento sempre grazie ai soldi dei banchieri di Washington, che hanno sempre funzionato a scartamento ridotto ma “in compenso” hanno contribuito a generare buona parte del debito contratto negli anni Settanta e Ottanta da Kinshasa. A differenza dei suoi due predecessori, Gran Inga avrà delle conseguenze dirette di portata inferiore, soprattutto perché la zona interessata è scarsamente popolata.
Tuttavia di problemi e perplessità legate alla sua realizzazione ce ne sono a bizzeffe. Tanto per cominciare, il progetto prevede la realizzazione di almeno tre linee di trasmissione dell’elettricità a lunga distanza: una, di 3.500 chilometri, fino al Sud Africa, un’altra verso la Nigeria, mentre la terza, di ben 5.600 chilometri, dovrebbe attraversare tutta l’Africa per arrivare in Egitto e nei Paesi dell’Europa meridionale. Ciò che si dice oggi, infatti, è che l’unica possibilità per rendere economicamente sostenibile Grand Inga è costruire una linea di trasmissione che arrivi al Mediterraneo, per vendere elettricità all’Italia, l’Egitto e alla Turchia in primis. Insomma, sebbene in Africa solo il 30 per cento della popolazione abbia accesso all’energia elettrica (ma in alcuni casi si scende al 10), si intende tirare su un mega-impianto che alla fine dovrebbe andare in buona parte a vantaggio dei paesi più ricchi e delle loro multinazionali, che ovviamente si occuperanno dei lavori di costruzione.
Come se non bastasse, la varie linee di trasmissione attraversano zone “calde” del Continente Nero, aree di pregio ambientale e circa 2mila chilometri di deserto. La possibile militarizzazione di ampi tratti del percorso, gli impatti sugli habitat naturali e i costi di manutenzione altissimi soprattutto per i segmenti installati nelle zone più inaccessibili fanno sorgere più di un dubbio sulla reale fattibilità economica del progetto.
Vista l’enorme quantità di denaro necessaria per veder sorgere Grand Inga, sono tante le realtà pubbliche e private che si sono dette interessate al suo finanziamento, che la Repubblica Democratica del Congo non si può permettere. Oltre alla Banca mondiale, si sono già fatte avanti la Banca africana per lo sviluppo, il World Energy Council e un nutrito gruppo di istituti di credito. Altre agenzie di sviluppo, invece, ritengono che con una spesa infinitamente minore e puntando sul fotovoltaico si potrebbe dotare di energia elettrica la popolazione locale che è sparsa su un territorio molto vasto e per la maggior parte non vive nelle grandi città. Ma questi “dettagli” sembrano interessare ben poco le grandi istituzioni finanziarie internazionali.
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La fibra ride con Google 11.02.2010
BigG annuncia che nel corso del 2010 partiranno i lavori per la costruzione di una super-fibra da 1 gigabit al secondo. Lo chiamano un esperimento. ISP e utenti si interrogano sugli obiettivi: costerà oltre 1 miliardo di euro
Roma – Che cosa è Google? Non certo un semplice motore di ricerca, non più ormai. Google è il suo Nexus One, giù nel mercato del mobile. Google è Buzz, nella mischia del social networking. Google è la rosa dei venti del web, un sistema di risoluzione DNS, alternativo a quelli che generalmente sono servizi di cui si fanno carico i provider. Ecco, provider: Google vuole diventare anche ISP.
C’è un post, recentemente apparso sul blog ufficiale di BigG. Lo hanno scritto due product manager dell’azienda di Mountain View, intitolandolo think big with a gig, pensa in grande con un giga(bit). Ovvero, prove tecniche di alta velocità nella Rete. Con un preciso obiettivo: giungere a ritmi cento volte più rapidi di quelli attualmente a disposizione della maggior parte dei netizen statunitensi.
Connessioni fiber-to-the-home che dovrebbero giungere alla velocità di 1 gigabit al secondo, prossimamente sugli schermi elettronici di un gruppo selezionato di abitazioni a stelle e strisce, dalle 50mila alle 500mila utenze. Un esperimento, in pratica, a cui sono stati invitati i rappresentanti dei governi locali, che avranno tempo fino al 26 marzo prossimo per aderire.
Nel corso del 2010, poi, Google annuncerà quali zone degli Stati Uniti potranno sperimentare la super-fibra da 1 gigabit al secondo. Quello che Mountain View deve ancora capire è se scegliere un quartiere residenziale in un’area urbana oppure optare per una zona rurale. Ciò di cui BigG è ben a conoscenza è tuttavia un’altra cosa. Anzi, tre.
Una fibra più veloce aprirebbe uno scenario in cui sviluppatori e utenti potranno giocare con applicazioni di nuova generazione, favorite da ritmi ora impossibili di banda. Lo sviluppo di questa stessa fibra potrebbe poi diffondere nel mondo nuove tecnologie su web, aiutando non di poco la comunità dell’informatica e dell’ingegneria.
Terzo fattore, Google ha reso noto che il suo network verrà mantenuto aperto e neutrale, nel rispetto di quelli che sono i principi dettati dalla Federal Communications Commission (FCC). Gli utenti potranno cioè scegliersi il provider preferito. Come ha detto il CEO di FCC Julius Genachowski dopo l’annuncio di Google, “una grande banda crea grandi opportunità”.
Opportunità per chi? Per gli utenti, certo, che – come ha spiegato il post di BigG – potranno eseguire il download di un film in alta definizione in appena cinque minuti. Ma anche per la stessa Google, che in questo modo potrà decuplicare gli accessi al suo motore di ricerca, alla sua posta elettronica, al suo servizio di mappe o a quello d’informazione. E tutto questo si trasforma in soldi provenienti dalla pubblicità.
Secondo alcuni, la mossa di Mountain View ha mire parecchio precise. Primo, dimostrare al mondo che la costruzione di una super-fibra non sia così difficoltosa come spiegato da carrier come Verizon e AT&T. Secondo, mandare un messaggio chiaro alle telco affinché inizino a ridurre i prezzi, per evitare di essere schiacciate da un competitor agguerrito come Google.
E terzo, dimostrare ancora alle telco che un network gestito insieme alle autorità municipali potrebbe bypassare completamente il bisogno di intermediari, abbattendo i costi e aumentando le prestazioni. Quindi Google sta giocando a fare l’ISP amico della gente comune? Non proprio.
“Noi non stiamo entrando nel settore degli Internet Service Provider, né in quello della banda larga – ha spiegato Rick Whitt, telecom and media counsel di Google – questa è semplicemente una piccola spinta all’innovazione, un suggerimento per un particolare modello di business”.
E quanto costerà a Google questa piccola spinta? Gli analisti si sono scatenati: l’esborso complessivo da parte di BigG potrebbe arrivare a 1,5 miliardi di dollari (1 miliardo di euro circa). Intanto, qualcuno ha lanciato un’ipotesi: dato il massiccio investimento, Google potrebbe essere tentata da sviluppi futuri, specie se la sua super-fibra si rivelerà un successo. Ora, bisognerà solo attendere un numero imprecisato di secondi. E di gigabit, ovviamente.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2809008/PI/News/fibra-ride-google.aspx
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I derivati tossici riprendono a inquinare 11.02.2010
di Joseph Halevi
Alla riunione tra i ghiacci canadesi i ministri delle finanze dei G7 si sono espressi in favore della continuazione degli stimoli, altrimenti la baracca occidentale non si riprende. Che vuol dire? Se continuano a gettar soldi alle banche a tassi nulli o quasi incentiveranno solo la ricerca di sbocchi speculativi. Le banche dovranno pur far fruttare i soldi che ricevono. Il credito è minimo per via della crisi degli investimenti e dell’impoverimento delle famiglie. Il collocamento dei soldi non può che avvenire cercando di speculare sul rischio. Moribonde nelle fasi dello scoppio della crisi, le cartacce derivate tossiche stanno riacquistando così la loro funzione inquinante che non è di assicurare contro il rischio, bensì consiste nel crearlo dal nulla per poi venderlo in un involucro appetibile dal lato speculativo. Quindi gli stimoli relativamente più sicuri sono quelli diretti prodotti dall’aumento della spesa pubblica.
Non è detto che funzioni sempre, Giappone docet. Ma aumentare la spesa in deficit anche di molte volte sicuramente non affonda un’economia sviluppata, Giappone docet bis. Tuttavia sebbene la crisi sia in pieno sviluppo, le politiche economiche nel vecchio mondo capitalistico – quello nuovo è in Cina – sono ora dirette contro la spesa pubblica, tanto negli Usa quanto Europa. Infatti le ipotesi di salvataggio della Grecia (e del Portogallo) non vengono formulate per evitare l’implosione dei due paesi e della Spagna, che con la disoccupazione al 20% è già in via di sfacelo. Le manovre riguardano solo come salvare gli altri BOT europei, quelli tedeschi in particolare, nonché come mantenere fiducia sul futuro dell’Euro. Infatti il Financial Times del 9 febbraio riportava le dichiarazioni di un esponente del governo di Berlino secondo cui «si tratta di trovare delle barriere protettive, di contenere il problema piuttosto che aiutare i greci».
La crisi economica causa la crisi fiscale e questa si aggrava se il bilancio non diventa uno strumento attivo di spesa per uscire dalla crisi ma per far ciò bisogna cacciare i «mercati» dalla sfera pubblica. La crisi fiscale colpisce tutti i paesi alcuni sono percepiti come i più vulnerabili per via del loro grande deficit estero. Se non fosse così non si capirebbe perché la Spagna sia finita nel mirino senza che alcun credito le venga dato per aver mantenuto per anni il bilancio pubblico in attivo. Ancora oggi con oltre l’11% di deficit in rapporto al Pil, la Spagna ha un rapporto debito Pil inferiore a quello stabilito dai parametri di Maastricht. I «mercati» non registrano questo dato perché l’economia spagnola si fonda su mattoni e calcinacci e la speculazione edilizia spagnola veniva venduta sul mercato di Londra le cui società finanziarie gestivano prestiti per acquisti e simultaneamente impacchettavano il rischio. Con la crisi it is all over, è tutto finito. E la Spagna non ha strumenti per strategie alternative. Quindi il deficit pubblico se esplode ora, aumenterà ulteriormente domani e così via. I “mercati”, cioè le grandi società bancarie, finanziarie ed immobiliari integrano nelle loro valutazioni due elementi strettamente connessi: la centralità della Germania come principale centro di accumulazione di surplus esteri in Europa, nonché il fatto che l’unione monetaria europea è stata concepita in modo tale da svincolare i paesi forti, prevalentemente quelli con elevate eccedenze estere (Germania, Olanda), da ogni impegno a sostenere per via fiscale quelli strutturalmente in deficit con l’estero. Quindi la Spagna delle case di Murcia vendute sul mercato londinese, la Grecia dalle casette bianche e blu con vista sul mare ed il Portogallo dall’ottimo pesce, devono sbrigarsela per conto loro per ciò che riguarda l’ economia reale. Solo che una loro implosione colpirà il resto dell’Europa e la stessa Germania in quanto la somma delle loro importazioni non è indifferente.
Per concludere, anche se decidessero di tamponare la falla greca i tre paesi verranno costretti a procedere a dei drastici tagli nella spesa pubblica, implodendo di conseguenza.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100211/pagina/09/pezzo/271242/
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Genetica: ricostruito dna uomo 2000 a.C. 10.02.2010
Da un ciuffo di capelli
(ANSA)- ROMA, 10 FEB – Si chiama ‘Inuk’ ed e’ virtualmente ‘tornato in vita’, anche se e’ escluso che diventera’ un Frankenstein dei giorni nostri. E’ un antenato che visse circa nel 2000 a.C. in Groenlandia, del quale e’ stato ricostruito, per la prima volta,attraverso minuscoli resti fossili, quasi tutto il genoma. Cosi’ da un ciuffo di capelli.
Si e’ saputo che era di carnagione scura, aveva i capelli castani,era di gruppo sanguigno A+,incline alla calvizie e proveniva dalla Siberia.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/02/10/visualizza_new.html_1702429106.html
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Apre in Lombardia il primo distributore di idrogeno 09.02.2010
L’impianto di Assago rifornirà le auto a basso impatto con una miscela di idrogeno e metano. La Regione mette in cantiere 30 nuovi impianti.
Alla presenza del presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni, il distributore posto al chilometro 19 della Tangenziale Ovest di Milano (ad Assago) si è arricchito di una colonnina erogatrice di “idrometano”.
L’idrometano è una miscela gassosa di metano e idrogeno: i due gas sono presenti rispettivamente al 70% e al 30%; il risultato, se usato come combustibile, porta a un’accensione più pronta e migliora la combustione, riducendo allo stesso tempo le emissioni di ossido di azoto e monossido di carbonio.
La Lombardia, insieme a Sapio (società specializzata nella distribuzione dell’idrogeno), Eni e il Gruppo Fiat ha investito 2,1 milioni di euro per favorire la diffusione di auto a basso impatto ambientale, fornendo alle direzioni della regione venti Panda bifuel in grado di funzionare a benzina e a idrometano (o a metano).
Inoltre, dopo la stazione di Assago apriranno altre due stazioni (la prossima a Monza) per il rifornimento di idrometano, mentre il piano generale prevede entro il 2012 la costruzione di un impianto di rifornimento per il metano ogni 45.000 abitanti e ogni 30 Km di autostrada, realizzando in totale 30 distributori.
Secondo Formigoni, la mancata diffusione di auto a metano dipende dalla mancanza di distributori, la cui costruzione a sua volta viene frenata dalla ristrettezza del parco auto a metano attualmente esistente: “È il problema dell’uovo e della gallina. Così abbiamo fatto insieme l’uovo e la gallina: nuovi impianti di distribuzione e incentivi per l’auto a metano”; la Lombardia è infatti pronta a stanziare 10 milioni di euro come incentivi per l’acquisto di auto a basso impatto.
http://www.zeusnews.com/index.php3?ar=stampa&cod=11841
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 15.02.2010
Le aperture
La Repubblica: “Protezione Spa, stop alla legge. Il governo cambia il decreto, decine di consulenze finte. Esplode la rabbia all’Aquila”. “Le intercettazioni: ‘Stanotte con Bertolaso ho guadagnato 500 punti”.
Bertolaso risponde alle domande poste dall’editoriale di ieri del fondatore Eugenio Scalfari: “Mai chiesta la patente di pirata, e chi ha sbagliato deve pagare”. Scalfari a sua volta risponde: “E’ difficile correre con le scarpe nel fango”.
A centro pagina la “guerriglia a Milano: Lega e Pdl: cacciamo tutti i clandestini”.
Di spalla: “Wall Street ha aiutato la Grecia a truccare i conti”. E’ il New York Times a rivelarlo, e nell’articolo si chiama in causa anche l’Italia: gli strumenti finanziari elaborati da JP Morgan Chase, nonostante persistenti alti decifit, un derivato del 1996 ha aiutato l’Italia a portare il bilancio in linea.
Il Corriere della Sera: “Appalti e politici, ecco le carte”, “anche i nomi di Matteoli, Verdini, Pepe e Viceconte nelle telefonate del caso Bertolaso”, “Letta e la Protezione civile: stop alla privatizzazione”. A centro pagina si torna a parlare degli scontri che ci sono stati a Milano in via Padova: “Maroni: dopo via Padova basta quartieri multietnici”. Tommaso Padoa Schioppa firma in prima un editoriale dedicato alla crisi di Atene che ridisegna l’Unione: “La sovranità in movimento”.
La Stampa: Milano: Berlusconi chiama la Moratti. ‘Riportare la calma’. Dopo gli scontri di via Padova si teme l’effetto banlieue. L’omicidio per un pestone sul bus”. A centro pagina: “Protezione civile mai Spa. Letta frena: non sarà privata. Cambiano le norme contestate. Bertolaso: mi dimetto se lo chiede il premier. A l’Aquila i terremotati invadono la Zona Rossa: noi non ridevamo”.
Il Messaggero: “Protezione civile mai privata. La Presidenza del Consiglio frena sul disegno di legge: avanti con strumenti abituali. Mondiali di nuovo, indagato Rinaldi, successore di Balducci”. A centro pagina le annunciate “novità” del decreto Gelmini sui docenti: assunzioni programmate, un anno di tirocinio non retribuito, “selezioni più severe” e “numero chiuso” all’università per chi vuole insegnare. A fondo pagina la notizia della visita del Papa all’Ostello della Caritas di Roma e quella della morte di una giovane italiana di Arezzo nell’attentato di Pune, in India.
Il Giornale: “Bersani chiede aiuto a Bertolaso. Le lettere che imbarazzano il segretario del Pd. Il leader dei democratici vuole la testa del sottosegretario e si scandalizza perché non si occupa solo di terremoti. Ma tre anni fa pretendeva l’intervento della Protezione Civile per organizzare un congresso che gli stava a cuore”, scrive il quotidiano.
Bertolaso
Il sottosegretario Bertolaso risponde punto per punto alle dieci domande postegli ieri da Eugenio Scalfari su La Repubblica e dice tra l’altro: “Resto convinto delle ragioni che hanno portato il governo Berlusconi prima, il governo Prodi ed infine l’attuale governo Berlusconi a confermare al Dipartimento la gestione dei grandi eventi. La ragione: quella della Protezione civile è l’unica normativa che considera, in linea con le normative comunitarie, relativamente all’accelerazione delle procedure, la variabile tempo come reale e cogente”. Ma Bertolaso sottolinea che si tratta di normativa, non anarchia o autorizzazione ad esercitare la pirateria in nome dello Stato.
Ricorda che i Presidenti della Repubblica non hanno mai opposto il rifiuto o obiezioni alle leggi che consentono l’adozione delle ordinanze relative ai grandi eventi e che in occasione del G8 all’Aquila il Presidente Napolitano gli ha manifestato pubblicamente grande apprezzamento.
Molte le intereccettazioni pubblicate, ancora su presunti incontri al Centro Benessere di via Salaria. IL Corriere della Sera riferisce ampiamente dell’informativa della sezione anticrimine dei Carabinieri di Firenze del 15 ottobre scorso, in cui si soffermava, riferendo ai magistrati, sul presunto intreccio di corruzione tra gli uomini che circolavano interno alla Protezione civile e un gruppo di imprenditori. Questi ultimi, a loro volta, erano in collegamento con uomini politici utilizzati per facilitare affari. Secondo il quotidiano i parlamentari del Pdl Verdini, Matteoli, Mario Pepe e Viceconte, sono al centro di intercettazioni telefoniche con alcuni dei principali inquisiti dell’inchiesta, che a loro volta hanno rapporti privilegiati con chi gestisce gli appalti fuori controllo per la realizzazione di Grandi Eventi, a partire da Angelo Balducci (presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici). Il trio De Vito Piscicelli-Di Nardo-Fusi (tre imprenditori coinvolti nella inchiesta) avrebbe avuto la preventiva assicurazione che alcuni lavori (150° anniversario dell’Unità d’Italia e G8 della Maddalena) sarebbero stati aggiudicati alle loro imprese uniti in associazione temporanea.
Sui quotidiani ci si sofferma anche sul cambiamento radicale cui verrà sottoposto il testo del decreto legge che trasforma la protezione civile in Spa. Secondo un retroscena de La Repubblica sul cambiamento c’è il “via libera del Cavaliere”, che anzi avrebbe concluso che se rinunciare alla Spa è il prezzo per salvare Bertolaso, questa scelta va fatta. Potrebbe arrivare mercoledì un maxiemendamento del governoche elimina la Spa o elimina i “Grandi eventi” dal novero delle competenze della struttura.
Esteri
Su tutti i quotidiani la notizia della strage di dodici civili afghani nel corso della grande operazione Mushtarak avviata dalle truppe Alleate insieme ai militari afghani nel sud del Paese. Due razzi hanno ucciso per sbaglio i civili. I militari stavano cercando di eliminare dei cecchini, ma i due proiettili sono caduti a circa 100 metri di distanza dall’obiettivo, investendo un Palazzo abitato da civili. Per il comandante delle truppe Usa in Afghanistan McChrystal è un smacco, perché fin da prima dell’inizio dell’offensiva aveva dato ordine agli ufficiali di ridurre al minimo le vittime civili per ottenere maggiori sostegni locali. Sullo stesso quotidiano si racconta delle interviste incrociate sulle tv Usa e dello scambio di accuse tra l’ex vicepresidente Cheney e quello attuale, Biden. L’ex dice che i Democratici sottovalutano Bin Laden, Biden risponde che Cheney non sa quel che dice. Per Cheney la minaccia più grande per gli Usa è un attacco nucleare o biologico, mentre si discute negli Usa, Bin Laden si prepara. Biden pensa che un attacco all’America stile 11 settembre sia improbabile, ma ogni giorno l’Amministrazione Obama pensa ai rischi del terrorismo.
Intanto la segretaria di Stato usa Hillary Clinton prosegue la su a missione in Qatar e Arabia Saudita, alla ricerca di alleati per isolare l’Iran e minacciarlo di nuove sanzioni. Oggi a Ryad la Clinton vedrà Re Abudllah, alleato cruciale se si vuole vincere l’opposizione cinese a sanzioni più severe e mirate: per farlo, Hillary dovrà convincere i sauditi a fornire ai cinesi la garanzia di soddisfare il loro fabbisogno di greggio, in caso di rottura dei rapporti con Teheran, come scrive il Corriere della Sera. Sullo stesso quotidiano anche un approfondimento sulla situazione in Libano: cinque anni dopo l’assassinio del premier Hariri, le commemorazioni della sua morte hanno segnato l’eclissi del movimento popolare che avrebbe voluto trasformare il lutto nel riscatto dell’indipendenza nazionale e la separazione dall’abbraccio siriano. Molte critiche nei confronti del figlio di Hariri, accusato di aver ceduto alla Siria. Fallito il Tribunale internazionale dell’Aja voluto dall’Onu che avrebbe dovuto individuare e processare i responsabili della morte del premier; cambiata la situazione con l’arrivo della Amministrazione Obama che – nel tentativo di dialogare con l’Iran e migliorare lo scenario iracheno – ha aperto alla Siria. La svolta più radicale, poi, è giunta a metà dicembre scorso quando il figlio di Hariri si è recato personalmente a Damasco per incontrare il presidente siriano Assad.
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La speculazione all’attacco dell’Euro
Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**, 14.02.2010
I mercati dei derivati, come quello del Chicago Mercantile Exchange, confermano che è in corso un attacco speculativo a breve contro l’euro. In pochi giorni gli hedge fund e altri finanzieri d’assalto hanno ammassato 8 miliardi di euro in oltre 40.000 contratti speculativi per scommettere al ribasso sul valore dell’euro. Si teme un effetto valanga
Gli analisti dicono che la crisi generale e quella del debito di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna (che cinicamente definiscono PIGS, e che diventa spesso sulla stampa economica internazionale PIIGS, con l’aggiunta dell’Italia) hanno portato ad un grave indebolimento politico dell’EU e ad una crisi finanziaria nel sistema dell’euro.
Si calcola che un salvataggio delle 4 nazioni menzionate potrebbe costare 320 miliardi di euro.
E’ l'”onda perfetta” per gli speculatori in quanto possono anticipare e accelerare una tendenza che reputano sicura: l’UE e la BCE dovranno inevitabilmente intervenire con operazioni finanziarie di salvataggio per affrontare insolvenze e fallimenti. L’alternativa sarebbe il collasso dell’UE. Nei calcoli di lor signori, si punta sul calo del valore della moneta europea.
D’altra parte le banche in crisi, soprattutto quelle americane ma non solo, hanno fatto incetta di nuova liquidità a basso costo messa a disposizione dai bail out dei governi. La BCE li ha recentemente quantificati intorno al 25% del Pil mondiale.
E’ irritante registrare che quelle stesse banche che avevano speculato nel 2007 sui mercati dei sub prime e che erano state salvate dalla bancarotta con i soldi dello Stato, adesso li usano per speculare sulla debolezza prodotta dall’aumento dei debiti pubblici. E’ il cane che morde la mano del padrone che gli porta da mangiare!
Infatti contro la Grecia e gli altri stati più esposti, si sono moltiplicati i derivati CDS, credit default swaps, una sorta di assicurazione misurata sul crescente rischio di insolvenza del debito. Si ricorda che questo mercato è per il 75% controllato da tre banche, la JPMorgan, la Goldman Sachs e la Deutsche Bank. Il loro effetto immediato è quello di far lievitare i tassi di interessi e quindi i costi del debito e i buchi di bilancio.
Non si tratta di un problema greco o mediterraneo, bensì del riemergere della crisi sistemica che potrebbe investire tutti. Anche il Financial Times titola che “Una crisi greca sta arrivando in America”.
In mutate condizioni, il paragone con l’attacco speculativo del ‘92 contro la lira, la sterlina e altre monete é pertinente. Allora la speculazione portò alla rottura del Sistema Monetario Europeo con un pesante ritardo nelle politiche unitarie dell’Europa e ad una forte svalutazione della lira che favorì la politica di acquisizioni da parte di interessi internazionali di alcune delle nostre industrie più competitive e tecnologicamente avanzate.
Oggi questa è la sfida prioritaria per il futuro dell’Europa. Essa, secondo noi, dovrebbe mettere in campo le azioni più efficaci per bloccare la speculazione sostenendo in modo concreto l’appello di Obama per una riforma della finanza globale. Nel suo discorso del 21 gennaio contro l’armata dei lobbysti di Wall Street calata su Capitol Hill per bloccare le sue proposte, il presidente americano aveva detto “Questa è la battaglia che sono pronto a combattere”. E per la prima volta aveva esplicitamente indicato “gli swaps di copertura per le insolvenze sui crediti e gli altri derivati fuori di ogni controllo ” come le aree che necessitano di un immediato intervento legislativo globale e condiviso.
*sottosegretario all’Economia nel governo Prodi
**economista
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14169
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Birra, fonte di silicio per le ossa 09.02.2010
Uno studio statunitense ha calcolato la quantità del minerale assimilabile nei diversi tipi di birra. La più ricca è quella chiara all’orzo
La birra potrebbe essere un’arma per la prevenzione dell’osteoporosi. Secondo uno studio dell’Università della California di Davis pubblicato sul Journal of the Science of Food and Agriculture, la bevanda bionda è un’importante fonte di silicio, un elemento fondamentale per la salute delle ossa perché ne incrementa la densità minerale, aumentandone forza e resistenza.
Nel loro studio, i ricercatori statunitensi hanno analizzato oltre cento diverse birre commerciali, studiandone il contenuto in silicio in relazione alle tecniche di produzione. Gli esami hanno dimostrato che nella birra questo minerale è presente al 50 per cento in una forma facilmente assimilabile dalle ossa, l’acido ortosilicico. La quantità di questo elemento in un litro di bevanda varia molto – dai 6,4 milligrammi per litro ai 56,6 – tra i diversi tipi di birra, a seconda del cereale di base.
A contenerne in maggiore quantità sono quelle prodotte con l’orzo – grazie all’elevata concentrazione di silicio nella buccia che non viene perso durante la lavorazione – e quelle al luppolo. Queste, che rappresentano solo una piccola parte della produzione mondiale, contengono concentrazioni di minerale quasi quattro volte più alte rispetto alle birre di malto, nelle quali tuttavia molta differenza la fa il colore: quelle più chiare subiscono un processo di cottura meno forte che le sottopone a un minore stress termico. Quelle meno “siliciche” in assoluto sono le birre di grano.
La razione giornaliera consigliata di silicio per la prevenzione dell’osteoporosi non è ancora stata definita con esattezza, ma si aggira intorno ai 30 milligrammi. L’alto contenuto di questo minerale in una forma facilmente assimilabile rende la birra, consumata con moderazione, una delle principali fonti di silicio nelle diete occidentali, povere altrimenti di cereali integrali e di radici. (c.v.)
Riferimento: JSFA doi 10.1002/jsfa.3884
http://www.galileonet.it/news/12373/birra-fonte-di-silicio-per-le-ossa
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Pillola del giorno dopo addio: arriva quella dei cinque giorni dopo 08.02.2010
La pillola del giorno dopo rischia di dover andare in pensione, sostituita dalla pillola dei 5 giorni dopo.
Si chiama Ulipristal, può essere assunta fino a cinque giorni dopo il rapporto sessuale non protetto e garantisce la sua efficacia proprio come il tradizionale Levonorgestrel, noto come “pillola del giorno dopo”, che va assunto al massimo entro le 24 ore.
Uno studio condotto negli Stati Uniti e pubblicato sul Journal of Obstetrics and Ginecologics dà il via libera negli States a questa nuova pillola anticoncezionale d’emergenza: la sperimentazione su un campione di 1241 donne è andata a buon fine, mostrando una percentuale di successo pari al 97,9%, con il rischio di effetti collaterali già noti come emicranie, dolori addominale, nausea.
A questo punto la Food and Drug Administration americana approverà la messa in commercio della pillola di ultima generazione che sui banchi delle farmacie di Spagna, Gran Bretagna, Francia e Germania è già disponibile e arriverà presto anche in Italia.
In Gran Bretagna l’ulipristal è utilizzata già da un anno e la studiosa Anna Glasier ha confrontato la sua efficacia con quella del levonorgestrel su 1700 donne. Pubblicati su The Lancet, i risultati di questa analisi non hanno lasciato dubbi: le gravidanze che la pillola del giorno dopo non era riuscita a scongiurare erano 22 contro le 15 del gruppo che aveva assunto la nuova pillola.
“Questo metodo è ancora più efficace del precedente”, ha concluso la Glasier.
Ma come agisce la nuova pillola? Secondo i suoi creatori agisce esattamente come il levonorgestrel ritardando l’ovulazione e, quindi, prevendo la fecondazione.
Inutile sperare che in Italia l’arrivo dell’ulipristar non venga accompagnato da una ridda di opinioni etico-morali: già ci si domanda se è possibile che, entro i cinque giorni, l’ovulo non sia già stato fecondato e se, quindi, la pillola non impedisca il suo impianto nell’utero agendo alla stregua di un farmaco abortivo.
Quel che è certo è che l’ulipristar non ha nulla a che vedere con la pillola abortiva Ru486 e che il problema davvero urgente riguarda l’informazione sulla contraccezione che deve raggiungere la popolazione di giovanissime.
Gli ultimi dati sulla contraccezione e il sesso tra i giovani italiani ci ricordano che le under 20 non usano metodi contraccettivi e chiedono il levonorgestrel anche quattro o cinque volte l’anno. In pratica, lo utilizzano come un contraccettivo abituale e non come metodo da usare in caso di emergenza.
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La congiura dell’ACTA per filtrare il web 14.02.2010
L’Accordo Anticontraffazione punta a filtrare Internet a livello mondiale, a protezione della proprietà intellettuale.
I 39 membri dell’Anti-Counterfeiting Trade Agreement o Accordo commerciale anticontraffazione sono ormai giunti al settimo segretissimo incontro, nel corso del quale si decideranno i modi e i tempi della lotta a oltranza contro la scopiazzatura di qualsiasi bene avente valore economico.
Le discussioni sono avvenute a Città del Messico e sono state classificate come “segreto militare” anche se di fatto sono volte a rinsaldare la presa di chi già ha il coltello dalla parte del manico.
L’eventualità che larga parte di un possibile mercato sfugga o possa sfuggire alle imposizioni e restrizioni dei brevetti internazionali (si pensi per esempio al settore dei concimi, dei diserbanti, dei medicinali e degli alimenti speciali) deve assillare gli azionisti e i politici che a essi fanno riferimento, se la segretezza invocata è stata fino ad oggi mantenuta.
Evidentemente l’esperienza maturata negli anni, con la rete Echelon prima e in seguito con la sua sofisticatissima evoluzione, deve aver invogliato le multinazionali a crearne una copia per tutelare i propri interessi; e, com’è ormai prassi costante, a cura e spese del mercato, cioè delle tasche dei contribuenti.
C’è tuttavia che teme, e a ragione, che la lotta alla contraffazione dei beni di consumo serva come grimaldello anche alle major dell’intrattenimento per ottenere un ombrello protettivo sovranazionale e in qualche modo “militarizzato” e quindi al di fuori – se non al di sopra – delle ordinarie regole democratiche.
Accordo ideato per combattere specificamente la contraffazione e la vendita di medicinali, in sede di colloqui ACTA si parla ormai apertamente di “filtraggio” di Internet poiché gran parte delle vendite abusive avviene tramite la Rete; ma l’esperienza ha insegnato che una volta che sia stata aperta la fossa delle limitazioni e delle restrizioni, poi ci va a finire dentro tutto quanto ritenuto scomodo, per un motivo o per l’altro, da chi manovra la ramazza.
Anche perché ai colloqui partecipa soltanto personale tecnico istituzionale, restandone completamente esclusa qualsiasi componente “laica”; per i paesi dell’Unione Europea, i membri sono scelti in sede di Commissione.
Tuttavia qualcosa comincia a sussurrarsi da parte dei soliti “ben informati”; si dibatte sull’esigenza di filtrare il web a livello mondiale, di autorizzare le dogane a verificate se computer e supporti rispettino il diritto d’autore, di arrivare velocemente alla “risposta graduale” senza alcun intervento della magistratura ordinaria o speciale.
Le varie associazioni degli utenti temono che al confronto gli accordi definitivi renderanno la recentissima e contestata dottrina dei tre schiaffi poco più temibile di un benevolo scappellotto.
Peggio ancora, pare che al Parlamento Europeo non sia stato dato l’accesso alla documentazione per valutarla, mentre l’analisi sin qui effettuata dai Commissari sembra denunciare impietosamente la violazione delle libertà individuali e costituzionali, compresa la libertà di espressione e la riservatezza della comunicazioni.
Tuttavia almeno per ora la Commissione Europea non vorrebbe sentir parlare di “negoziati segreti”, limitandosi confermare gli incontri sono tuttora in corso e che ancora non è stata presa alcuna decisione.
Forse perché la resa dei conti è rimandata a un’ottava sessione della conferenza che si terrà in Nuova Zelanda entro fine anno, ma dalle restrizioni già operanti nel “quinto continente” c’è da attendersi soltanto una maggiore pressione psicologica sui partecipanti nel senso auspicato, e forse imposto, dalle multinazionali interessate.
http://www.zeusnews.it/index.php3?ar=stampa&cod=11762#edFollow
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Dalla Libia all’Iran, la politica improvvisata di Berlusconi
Andrea Camboni, 15.02.2010
La Libia blocca i cittadini Schengen alla frontiera. 20 italiani bloccati all’aeroporto di Tripoli. Ecco i frutti della politica estera “di pancia” del governo Berlusconi
Il 14 febbraio, con una decisione comunicata all’Ufficio dell’Immigrazione, il Comitato Generale del Popolo, ovvero il governo libico, ha deciso di non rilasciare più i visti di ingresso ai cittadini provenienti dall’area Schengen e, inoltre, di non ammettere sul territorio quei cittadini che arrivano in Libia già provvisti di un visto Schengen. Fonti consolari italiane hanno fatto sapere che, di un gruppo di 40 connazionali arrivati in Libia il 14 febbraio scorso, 22 persone sono tutt’ora bloccate all’interno dell’aeroporto di Tripoli.
Se non si vuole ritenere fallita la politica estera del governo Berlusconi sull’asse Italia – Libia, è necessario credere che anche questa ennesima provocazione di Gheddafi sia stata avallata dalle ripetute strette di mano tra il Cavaliere e il Colonnello.
L’unica voce istituzionale costretta a pronunciarsi sul caso è la Farnesina, che sul sito http://www.viaggiaresicuri.it “sconsiglia” ai cittadini italiani tutti i viaggi verso la Libia a seguito delle “improvvise e non annunciate misure restrittive”. Per il resto, le bocche restano cucite. Tace anche Silvio Berlusconi, dimostrando – se ancora ce ne fosse stato bisogno – la propria sudditanza nei confronti del fascino dittatoriale di Muammar Gheddafi. D’altronde niente di nuovo. Visto che Berlusconi, pur vantando – cosa di per sé già opinabile – legami di amicizia personale con Gheddafi, ha ritenuto in passato di non dover sollevare alcuna questione nei casi dell’immigrazione e della mancata sottoscrizione di Tripoli dei trattati internazionali per la protezione dei rifugiati internazionali.
Per queste ragioni – in relazioni agli accordi libici – anche le mosse del governo italiano appaiono “improvvise e non annunciate”. Nel senso che le dichiarazioni ‘spontanee’ di Berlusconi non rappresentano una linea programmatica del governo in politica estera. Non sono cioè l’espressione di decisioni condivise, ma si lasciano andare all’emozione del momento, senza alcuna analisi politica delle conseguenze.
Ultimo esempio, in ordine di tempo, sono le dichiarazioni di Berlusconi durante la firma degli accordi bilaterali tra Italia e Israele nel palazzo del Governo a Gerusalemme.
“Il problema della sicurezza è fondamentale per Israele. Ora ancora di più perché c’é uno Stato che prepara l’atomica per usarla contro qualcuno. È uno Stato che ha una guida che ricorda personaggi nefasti del passato”.
Dichiarazioni che possono essere facilmente condivisibili, come quella secondo la quale “è un dovere sostenere ed aiutare la forte opposizione” in Iran. Ma che – come ha ricordato Lucio Caracciolo su Limes (Se Berlusconi lancia l’offensiva in Iran, 3 febbraio 2010) – “proprio nelle settimane in cui si discutono i dettagli di un nuovo giro di sanzioni contro il regime dei pasdaran e in cui l’America, per ordine di Barack Obama, rafforza la sua presenza navale nel Golfo, in funzione dichiaratamente anti-iraniana” potrebbero esporre pee prima l’Italia a ritorsioni da parte del governo di Theran. L’importante è che Berlusconi ne fosse consapevole, ovvero avesse in precedenza concordato tale condotta con le autorità diplomatichen e militari. Caracciolo dubita. Infatti conclude:
“I nostri uomini in Libano e Afghanistan sono, di fatto, sotto un ambiguo ombrello di protezione iraniano. È ovvio che, in caso di conflitto, questa protezione cadrà. I nostri contingenti sarebbero probabilmente oggetto delle prime rappresaglie iraniane. Ma non è detto che queste considerazioni siano state presenti a Berlusconi nel momento in cui si lanciava nell’offensiva verbale contro Teheran”.
Insomma, Berlusconi parla. Poi si corre ai ripari.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14183
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Reinventare la finanza dell’Africa 16.02.2010
SANOU MBAYE*
C’è qualcosa di tristemente noto nell’ondata di notizie sulle crescenti piaghe dell’Africa – povertà, malnutrizione, guerre civili e morti in aumento – di fronte alla crisi finanziaria che ha investito il mondo. Più o meno ovunque i media traducono le conclusioni degli studiosi in grafici che illustrano la brutalità e la disperazione che regnano in luoghi come la Guinea e la Repubblica democratica del Congo.
Ma c’è un altro aspetto, purtroppo trascurato, della storia. I Paesi africani che erano stati tagliati fuori dai mercati internazionali per la maggior parte degli ultimi 50 anni hanno per lo più evitato la doppia sventura del disordine finanziario e del rovescio economico. Le economie del continente hanno subito un rallentamento ma non sono entrate in recessione. In effetti, secondo McKinsey & Company, l’Africa nel 2009 è stata tra i maggiori motori della crescita economica mondiale, al terzo posto dopo Cina e India.
In più diversi Paesi africani hanno ricevuto aperture dalle agenzie di credito che hanno dato loro accesso ai centri finanziari. In alcuni casi si parla di livelli pari o superiori a quelli di Paesi come la Turchia o l’Argentina. In tutto il continente sono fioriti gli uffici di Borsa. Inoltre Paesi come Cina, India e Brasile hanno stabilito una piattaforma di scambi per l’esportazione e introdotto un modello di cooperazione basato sul trasferimento di commerci, investimenti e tecnologie piuttosto che sugli «aiuti». I soli cambi Cina-Africa sono cresciuti dai 10 miliardi di dollari del 2000 ai 107 del 2008 e miliardi di dollari sono stati investiti nella produzione di combustibili, scavi minerari, trasporti, produzione e distribuzione di energia elettrica, telecomunicazioni e altre infrastrutture.
Questo tipo di sviluppo ha contribuito a migliorare in modo impressionante la macroeconomia dei Paesi africani. Rispetto agli Anni 90 l’inflazione è stata dimezzata e le riserve del commercio estero sono cresciute del 30%. La finanza pubblica è passata nel 2008 a un più 2,8% del prodotto interno lordo mentre nel 2000-2005 era in deficit per l’1,4 del prodotto interno lordo. I tassi di risparmio sono tra il10% e il 20% e il debito estero è passato dal 110% del Pil nel 2005 al 21% nel 2008. Dal 2000 i Paesi subsahariani hanno avuto una crescita economica fra il 5 e il 7%.
A questa rivoluzione hanno contribuito molti fattori. La domanda dei mercati emergenti ha spinto i prezzi dei beni di consumo. L’urbanizzazione ha dato vigore a un settore dinamico e informale. Ma hanno aiutato anche la migliore amministrazione, la maggior produzione di cibo, gli accresciuti scambi interstatali, la cancellazione del debito, il miglior uso degli aiuti allo sviluppo, l’espandersi delle telecomunicazioni e la nascita di mercati nazionali.
Tuttavia il contributo più significativo è arrivato dalla diaspora africana. Uno studio commissionato dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, che ha sede a Roma, indica come oltre 30 milioni di persone che vivono lontane dai loro Paesi di origine abbiano contribuito con più di 40 miliardi di dollari di rimesse ogni anno mandati alle loro famiglie e alle loro comunità. Nell’Africa subsahariana secondo la Banca Mondiale queste rimesse sono salite da 3,1 miliardi nel 1995 a 18,5 miliardi nel 2007 e rappresentano un importo che va dal 9% al 24% del Pil ed è l’80-750% dell’indice ufficiale degli aiuti allo sviluppo (ODA) Le rimesse degli emigranti sono condizionate dalle norme vigenti e dalla qualità – in termini di velocità, costo, sicurezza e accessibilità – dei prodotti e dei servizi offerti dalle banche, dalle compagnie che trasferiscono denaro, dalle istituzioni di microcredito e dagli operatori privati. Sotto questo aspetto in Africa ci sono tre differenti strategie. Quella anglosassone ha il suo punto di forza nel liberalizzare il mercato delle rimesse incoraggiando la competizione, allentando i vincoli per gli operatori extrabancari, offrendo incentivi finanziari, incoraggiando l’innovazione tecnica e finanziaria e stimolando la collaborazione fra gli operatori sul mercato. Questo approccio, adottato anche dall’Italia, contribuisce a ridurre i costi e ad aumentare il volume degli introiti per i beneficiati.
L’approccio spagnolo promuove il coinvolgimento degli emigranti nel sistema bancario offrendo una vasta gamma di servizi tanto nel Paese d’origine come in quello ospite, con prodotti dedicati e commissioni basse sui trasferimenti di denaro. Questo sistema, assai sviluppato in Marocco e nell’area di influenza portoghese è ben rappresentato dalla politica di tasso zero attuata dalla banca spagnola Santander e dalla sua controparte marocchina, l’Attijariwafa Bank.
Infine, la strategia francese si fonda su due tipi di monopolio. Il primo è quello della Western Union, che controlla il 90% del volume dei trasferimenti con i 16 Paesi della «Zona Franca» africana. La Western Union applica tassi fino al 25% sui trasferimenti a questi Paesi in confronto a una media del 5% e ha richiesto ai Paesi membri la firma di contratti esclusivi per evitare la concorrenza di uffici di cambio stranieri, uffici postali e istituzioni di microcredito. Il secondo monopolio è esercitato nel settore bancario. La Francia ha diritto di veto presso la direzione delle due banche centrali della Zona Franca mentre due banche commerciali francesi, Bnp-Paribas e Société Générale esercitano un quasi monopolio sui programmi di prestito, per lo più imperniati su finanziamenti a breve termine e sulle necessità dei governi, delle imprese pubbliche e private e delle élite. Tutte le altre banche locali hanno adottato lo stesso sistema, limitando fortemente l’accesso ai servizi finanziari da parte dei privati e delle famiglie.
Malgrado la crescente importanza delle rimesse dall’Italia, dalla Spagna e dagli Stati Uniti, la quota maggiore in termini assoluti arriva ancora dalla Francia. C’è davvero bisogno nella Zona Franca di una istituzione finanziaria che converta le rimesse degli emigranti in investimenti produttivi, capaci di generare occupazione e benessere e che allarghi l’accesso ai servizi bancari, all’accensione di ipoteche, ai prodotti assicurativi, ai piani pensionistici e all’assistenza tecnica.
Le statistiche ufficiali del 2009 dimostrano come le rimesse degli emigranti tendano a scendere bruscamente via via che la recessione globale erode le possibilità di trovare lavoro all’estero. Questo rende ancora più importante fare sì che i Paesi africani, molti dei quali hanno svolto un duro lavoro per la crescita sostenibile, abbiano un sistema finanziario in loco che possa gestire le rimesse in modo efficace una volta rimessa in moto l’economia mondiale.
*È stato nell’ufficio direttivo della African Development Bank, è un banchiere senegalese e ha scritto «L’Afrique au secours de l’Afrique».
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