A lezione di network dalle muffe 22.01.2010
Di Caterina Visco
Imparare dal protozoo Physarum polycephalum come costruire reti più efficienti. Lo consiglia una ricerca giapponese su Science
http://www.flickr.com/photos/34146259@N04/sets/72157623136788861/show/
Gli ingegneri dovrebbero andare a lezione dalle muffe per costruire reti per le telecomunicazioni sempre più efficienti. È quanto suggeriscono, dalle pagine di Science, i ricercatori dall’Università dell’Hokkaido dopo aver osservato il Physarum polycephalum, un particolare tipo di muffa unicellulare melmosa.
“Alcuni organismi crescono sottoforma di una rete interconnessa, una strategia per trovare e sfruttare nuove fonti di cibo”, ha spiegato Atushi Tero, autore dello studio. “Physarum è uno di questi”, ha continuato lo scienziato: “una grande muffa ameboide che si muove alla ricerca di fonti di cibo distribuite nello spazio. La sua particolarità sta nel trovare quasi sempre il percorso più breve attraverso un labirinto, e a connettere differenti fonti di cibo tra loro in maniera molto efficiente, spendendo la minore quantità di energia possibile”.
Nello studio i ricercatori giapponesi, insieme a colleghi britannici, hanno posizionato alcuni fiocchi d’avena (i punti bianchi nelle immagini verdi) sopra una superficie umida intorno al P. polycephalum come se il protozoo fosse Tokyo (il grande cerchio giallo nelle immagini verdi) e i fiocchi le città che la circondano. Successivamente gli studiosi hanno studiato come la muffa si muoveva per raggiungere il cibo e hanno osservato che questa si auto-organizza e si diffonde formando una rete comparabile in efficienza (collegamenti brevi e diretti), in affidabilità (una rete solida e capace di rimediare a eventuali traumi o rotture) e nei costi alle infrastrutture che formano la rete ferroviaria di Tokyo.
Comprendere l’essenza di questo sistema biologico e convertirla in semplici regole potrebbe, secondo i ricercatori, risultare molto utile per la costruzione di reti reali. Per questo motivo gli studiosi hanno trasportato le informazioni ottenute sul meccanismo di movimento del P. polycephalum e le hanno utilizzate per costruire un modello matematico da usare come punto di partenza per migliorare l’efficienza e diminuire i costi per la realizzazione , per esempio, di sistemi di sensori remoti (reti specifiche per la telefonia mobile e per il wireless).
“Questo lavoro rappresenta un esempio convincente e affascinante del fatto che la matematica ispirata ai sistemi biologici può portare a algoritmi completamente nuovi e molto efficaci per realizzare sistemi tecnologici con le caratteristiche dei sistemi viventi”, ha commentato Wolfgang Marwan dell’Università tedesca Otto von Guericke di Magdeburg.
http://www.galileonet.it/multimedia/12285/a-lezione-di-network-dalle-muffe
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Mrsa, tracciamento in hi-fi 22.01.2010
Grazie a nuovissima tecnologia si può identificare due batteri distinti per un’unica lettera del Dna, e ripercorrere, indietro nel tempo, la loro diffusione ed evoluzione
Una nuova tecnologia per sequenziare il Dna dei batteri permette di tracciare con precisione la diffusione delle epidemie: partendo da una scala intercontinentale si può risalire persino alla trasmissione del batterio tra due persone all’interno di un ospedale. Il metodo è stato messo a punto dal Wellcome Trust Sanger Institute di Cambridge (Gb), dove i ricercatori lo hanno usato per ripercorrere la storia dell’Mrsa, lo Stafilococco aureo resistente all’antibiotico meticillina, causa di gravi infezioni.
Come riporta Science, si tratta del primo metodo che consente di individuare anche una sola lettera di differenza nel Dna di due batteri dello stesso ceppo. Le più avanzate tecnologie disponibili finora, infatti, non sono mai riuscite a identificare tutti i batteri isolati dai pazienti, lasciando “buchi” e incertezze sulle vie di trasmissione e sull’evoluzione di questi patogeni.
A differenza di questi sistemi, che prendono in esame solo singoli geni o un numero limitato di regioni del genoma, con il nuovo metodo si può comparare l’intero codice di più batteri e stabilire le relazioni di parentela tra i ceppi. Altro punto di forza di questa nuova tecnologia sta nel fatto che non si applica solo al Mrsa, ma a qualsiasi altro batterio.
I ricercatori hanno effettuato due tipi di studi sull’Mrsa. Nel primo hanno analizzato 20 batteri prelevati da pazienti di un unico ospedale che avevano sviluppato l’infezione in un arco di tempo di sette mesi. Il sequenziamento dell’intero genoma di tutti i campioni ha rivelato che non c’erano neanche due batteri uguali. Sulla base di queste sottili differenze genetiche, è stato possibile dividere i pazienti dell’ospedale in due gruppi. Il primo, di 13 individui, erano stati contagiati da cinque ceppi strettamente imparentati (in effetti, queste 13 persone erano state tutte ricoverate nel reparto intensivo, dormivano in stanze adiacenti e avevano contratto l’Mrsa a poche settimane di distanza gli uni dagli altri). Gli altri 7 pazienti, ricoverati in ale distanti dell’ospedale, erano invece stati colpiti da batteri geneticamente più “lontani”. “In questo modo possiamo essere certi che due gruppi isolati di batteri sono stati introdotti nell’ospedale separatamente”, hanno sottolineato i ricercatori.
Risultato altrettanto importante: è stato possibile determinare la velocità con cui si evolve il batterio, ovvero il tasso con cui compaiono le mutazioni. Per uno dei ceppi in esame, per esempio, questo è di una lettera ogni sei settimane.
Per capire meglio l’evoluzione e la diffusione globale su lunghi periodi di tempo, Simon Harris, coautore dell’articolo, ha studiato altri 42 campioni provenienti dal Nord e Sud Africa, Europa, Australia e Asia, prelevati da persone che avevano contratto l’infezione tra il 1982 e il 2003. Identificando ogni singola mutazione e tenendo conto dei momenti in cui i campioni erano stati prelevati, i ricercatori hanno stimato il tasso di mutazione e sviluppato un albero evolutivo dell’Mrsa.
I calcoli mostrano dove e quando questo tipo di Mrsa potrebbe essere sorto: i tipi isolati in Europa si concentrano quasi alla base dell’albero evolutivo, e il tasso di mutazione calcolato suggerisce che il ceppo emerse negli anni Sessanta in Europa. Dato che collima l’ipotesi della correlazione tra epidemia di Mrsa e boom degli antibiotici.
“Capire le differenze tra batteri di uno stesso ceppo è fondamentale per lo sviluppo di una strategia per la salute pubblica, perché permette di seguire e prevedere la diffusione delle infezioni da persona a persona, da ospedale a ospedale, da paese a paese”, ha commentato Stephen Bentley, del Wellcome Trust Sanger Institute, autore senior dello studio. (t.m.)
Riferimento: 10.1126/science.1182395
http://www.galileonet.it/news/12277/mrsa-tracciamento-in-hi-fi
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Modello conchiglia per l’esercito 19.01.2010
La struttura tristratificata del guscio di Crysomallon squamiferum potrebbe ispirare una nuova generazione di armature. Lo studio del Mit su Pnas
Un mollusco oceanico potrebbe salvare la vita di molti soldati nei prossimi anni. Secondo uno studio condotto da Christine Ortiz del Mit (Massachussets Institute of Technology, Boston), infatti, copiare il guscio corazzato della lumaca di mare Crysomallon squamiferum potrebbe aiutare a costruire corazze più resistenti. Questo gasteropode, presente nell’Oceano Indiano, posiede un guscio in grado di dissipare una quantità di energia tale da frantumare facilmente una comune conchiglia. La ricerca, pubblicata su Proceeding of the National Academy of Sciences, è stata finanziata in parte dall’esercito e dal Dipartimento della Difesa statunitensi.
L’attenzione della Ortiz si è concentrata sulla C. squamiferum nel 2003, poco dopo la scoperta del mollusco. Questo gasteropode vive sul fondo dell’oceano, nel campo idrotermale di Kairei, un ambiente pieno di sorgenti di aria calda e particolarmente ostile. Qui la lumaca è esposta continuamente a fluttuazioni della temperatura, a un’alta acidità e agli attacchi di predatori come i granchi. Per difendersi si affida a un’armatura a tre strati: uno strato calcificato più interno, uno sottile centrale, di materia organica, e una copertura più esterna, formata da un strato mineralizzato di un composto di zolfo e ferro (solfuro di ferro). La Crysomallon squamiferum è l’unico animale noto dotato di uno questo strato (molte altre conchiglie presentano solo gli altri due).
Nello studio i ricercatori statunitensi hanno misurato le proprietà meccaniche della conchiglia con una punta di diamante e sottoponendola ad ampi sbalzi di temperatura. Grazie a queste simulazioni hanno potuto osservare che lo strato centrale di materiale organico riesce ad assorbire molta energia durante un attacco violento, migliora la dispersione del calore e l’assorbimento delle fluttuazioni termiche.
“Questo guscio può essere preso come modello per numerose applicazioni”, hanno concluso i ricercatori, “come la realizzazioni di armature e corazze per automezzi blindati. Oppure, in ambito civile, per la realizzazione di parti esterne di automobili e motociclette, di tubature che devono percorrere terreni rocciosi, o di caschi protettivi per numerosi sport”. (c.v.)
Riferimento: Pnas doi/10.1073/pnas.0912988107
http://www.galileonet.it/news/12263/modello-conchiglia-per-lesercito
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27/1/2010 – INTERVISTA. CARLO RATTI: “LE CITTÀ IMPARANO A PARLARE”
Ratti, Internet esce dai computer e rivoluziona oggetti e architettura
“L’universo digitale colonizza il mondo fisico e ci aiuterà a risolvere i grandi problemi”
GABRIELE BECCARIA
Per chi adora l’era digitale le visioni di Carlo Ratti vanno oltre i sogni più scatenati. Le vecchie città ostili, di pietra e cemento, stanno per lanciarsi in volo: si smaterializzano e iniziano a interagire amichevolmente con ogni individuo, come una magia da film in 3D. E’ l’universo di Internet che assume una nuova, ennesima forma.
Architetto Ratti, lei è direttore del «Senseable City Lab» del Mit di Boston – il laboratorio multidisciplinare che prova a inventare il futuro delle metropoli – e domani sarà al «World Economic Forum» di Davos per spiegare quella che si annuncia come un’altra rivoluzione (benigna e senza traumi): la racconta?
«Il titolo sarà “A Future by Design” e le mie osservazioni partiranno dalla frase di Le Corbusier “la civiltà della macchina cerca e deve trovare la sua espressione architettonica”. Oggi al posto della macchina c’è la civiltà digitale&biotech, ma appare la stessa esigenza di ridefinire il paradigma dell’architettura. E stavolta – come nel sogno di Michelangelo – oggetti e costruzioni e le metropoli stesse parleranno e comunicheranno, diventando “responsive”. Sarà la prima volta».
Le immagina come «computer all’aria aperta»?
«E’ così. La tecnologia compenetra lo spazio fisico e si assiste alla fusione tra bits e atomi che crea realtà sempre più interattive. Si realizza un desiderio che percorre la storia occidentale e soprattutto la modernità, come negli “automates” settecenteschi».
Lei è un supporter delle «città intelligenti», eppure fino a poco tempo fa proprio i teorici della dimensione digitale pensavano il contrario: le città – dicevano – sarebbero morte.
«E infatti è un paradosso: le città possono funzionare come sistemi autoregolati in tempo reale ed è interessante che i centri urbani italiani si adattino bene a questa trasformazione: se hanno fatto fatica ad adeguarsi agli imperativi dell’era industriale, la leggerezza e la trasversalità della rivoluzione digitale sono ideali per le loro caratteristiche».
E allora qual è un buon esempio italiano?
«Un progetto su cui lavoriamo in queste settimane è il masterplan per la trasformazione della vecchia Imperiale Manifattura Tabacchi di Rovereto: la sfida è ideare uno spazio intriso di tecnologie digitali, appunto, che serva sia come incubatore di idee sia come luogo di produzione di tecnologie verdi».
Intanto a Londra si immagina «The Cloud»: di che cosa si tratta?
«Vuole essere nei propositi del sindaco Boris Johnson un simbolo delle Olimpiadi del 2012, una Tour Eiffel londinese: progettata da un gruppo multidisciplinare – include me e Walter Nicolino della “carlorattiassociati”, l’artista Tomas Saraceno, il digital designer Alex Haw e l’esperto di nuove strutture leggere Joerg Schlaich, oltre agli architetti della Agence Ter, agli ingegneri della Arup, ai graphic designers di Studio FM e GMJ e a Google – si ispira alle dinamiche della “self-organization” tipica della Rete e dei social networks. L’obiettivo è utilizzare la stessa logica di raccolta diffusa di fondi e idee usata durante la campagna di Barack Obama per dare vita a una realtà fisica. E’ significativo che, se negli ultimi 20 anni si è via via digitalizzato il mondo fisico, ora avviene l’opposto e si promuove così il cambiamento della realtà materiale. E’ solo in questo modo che in futuro potremo affrontare molti dei problemi che ci affliggono, quali il cambiamento climatico».
In pratica come sarà La Nuvola?
«Una torre realizzata con una membrana traslucida, fisica e digitale. Ospiterà un insieme di bolle, che daranno la sensazione di volare, e ciascuna sfera sarà intrisa di pixel che creeranno un mega-display, in perenne trasformazione, democraticamente elaborato come una specie di Wikipedia. Ecco perché The Cloud rappresenterà un emblema: oltre che di Londra, di “global ownership”, di appropriazione collettiva. La immaginiamo come un monumento collettivo sospeso sopra la città: sarà di tutti perché tutti contribuiranno a immaginarla e a finanziarla e poi perché ogni individuo darà un po’ della propria energia alla struttura: si salirà a piedi e si scenderà con “ascensori a recupero”, con un meccanismo simile a quello delle auto ibride».
Pensa che le «città intelligenti» permetteranno anche una migliore mobilità?
«E’ quanto pensiamo di fare a Singapore, dove abbiamo appena aperto una sede: i sistemi di controllo in tempo reale diventano anche in questo caso fondamentali per regolare i flussi di tutti i mezzi, tra cui la bicicletta presentata al summit di Copenhagen: è la “Copenhagen wheel”, sviluppata con Ducati Energia e il ministero dell’Ambiente italiano. Recupera energia in frenata e la restituisce in caso di bisogno, come in salita, e attraverso una serie di applicazioni digitali controlla la qualità dell’aria, segnala dove si trovano i tuoi amici di Rete e, ancora, misura la coppia applicata sui pedali, trasformandosi in trainer, e monitora le emissioni di CO2: calcolando le “miglia verdi” di ciascuno, le città potranno prevedere nuovi incentivi a chi è più ecologicamente virtuoso».
Qual è il prossimo progetto del «Senseable City Lab»?
«Mettiamo etichette intelligenti sui rifiuti e li seguiamo mentre si muovono per ideare strategie con cui riciclarli: il progetto-pilota è partito a New York e Seattle e stiamo analizzando i dati. E’ come mettere un tracciante nel sangue e scoprire che cosa accade in un organismo».
Chi è Carlo Ratti Architetto
RUOLO: E’ DIRETTORE DEL LABORATORIO «SENSEABLE CITY LAB» DEL MASSACHUSETTS INSTITUTE OF TECHNOLOGY DI BOSTON (USA)
IL SITO: HTTP://SENSEABLE.MIT.EDU/
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Pervenuto da Rossana rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.rekombinant.org il 26.01.2010
Ehren Watada ha vinto la sua battaglia contro una guerra illegale.
Ricordate la storia del tenente dell’esercito statunitense Ehren Watada che si era rifiutato di partecipare alla guerra in Iraq perchè ritenuta illegale e criminale? “E ‘mia conclusione, come un ufficiale delle forze armate, che la guerra in Iraq non solo è moralmente sbagliata, ma una terribile violazione della legge americana. Anche se ho provato a rassegnare le dimissioni in segno di protesta, sono costretto a partecipare a una guerra che è manifestamente illegale. Poiché l’ordine di partecipare a un atto illegale è in definitiva illecito, devo rifiutare l’ordine “.
Ehren Watada: io non voglio essere un criminale di guerra http://www.peacelink.it/pace/a/20293.html
Dopo tre anni di tentativi (2006-2009) per farlo condannare dalla corte marziale, l’esercito di Fort Lewis ha deciso di accettare le dimissioni del tenente Watada. Ken Kagan, uno degli avvocati di Watada, ha dichiarato che il tenente Watada aveva già presentato le sue dimissioni in più di una occasione, ma ogni volta era stata respinta. “Questa volta però è stata accettata. A quanto pare solo quando l’esercito si è reso conto che non poteva sconfiggere il tenente Watada in un’aula di tribunale “.
“Siamo molto felici per Ehren, ha detto Seth Manzel, un veterano dell’Iraq che gestisce un bar caffè. Pensiamo che questa è la prova che le persone possono seguire la propria coscienza e che non si può essere puniti per questo.”
Quella di Watada non è stata una obiezione di coscienza contro tutte le guerre, ma si è basata sulla sua convinzione che la guerra in Iraq fosse illegale come le uccisioni di massa di civili a Falluja e altrove, l’uso
del fosforo bianco contro i civili, gli abusi sui prigionieri di Abu Ghraib e altri crimini di guerra.
Ma esiste una guerra giusta? Può esistere una obiezione di coscienza
selettiva?
Il Selective Service Act http://www.infoplease.com/ce6/history/A0844347.html fornisce lo stato di obiettore di coscienza a coloro che si oppongono a tutte le guerre per motivi di coscienza morale. Ma gli obiettori non possono scegliere le loro guerre. Amnesty International afferma che vi è un diritto all’ “obiezione selettiva” e che coloro che sono stati puniti per essersi rifiutati di partecipare a una guerra che ritengono immorale sono “prigionieri di coscienza”.
Ci sono circa 250 soldati che hanno disertato la guerra e che sono prigionieri o sono fuggiti in altri paesi. Nel mese di aprile 2009 l’esercito ha condannato Clifford Cornell, un oppositore che è stato costretto a lasciare il suo rifugio in Canada, a dodici mesi in un carcere militare.
L’amnistia per tutti i resistenti alla guerra dipenderà dalla lotta più grande di portare a casa le truppe e porre fine alle guerre illegali, all’occupazione in Iraq e in Afghanistan. Si deve indagare sui funzionari di alto livello che sono responsabili di crimini di guerra. E vergognoso che i responsabili delle guerre e dei suoi crimini siano ancora in libertà mentre i resistenti vengono perseguitati.
http://www.thenation.com/doc/20091109/brecher_smith
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dollaro, monete, yuan di Vincenzo Comito
Le monete sono loro, i problemi sono nostri 22/01/2010
Il braccio di ferro tra dollaro e yuan ci porta dritti verso il disastro. I perché di una disputa a due che ignora il resto del mondo. E le vittime predestinate
“…stiamo assistendo alla lenta marcia in avanti del treno del disastro. Dobbiamo fermarlo prima che sia troppo tardi…” (M. Wolf, a)
“…nessuno ha un’idea convincente di come uscirne…” (D. Rodrik)
“…la moneta è la nostra, il problema è il vostro…” (J. Connally, già governatore del Texas)
“…i cinesi stanno giocando un gioco pericoloso…” (P. Krugman, a)
“…il vero scopo (delle richieste di rivalutazione dello yuan) è quello di frenare lo sviluppo cinese…” (Wen Jaobao)
Premessa
La crisi, che non si decide a passare veramente, lascia in eredità al nuovo anno, sul fronte economico e finanziario, una serie di problemi irrisolti. Così il 2010 si apre sulla polemica relativa alla presunta, mancata rivalutazione dello yuan cinese. Si tratta di un tema intorno al quale si intrecciano, in un groviglio complesso, problemi tecnici e problemi politici; nel fondo, se guardiamo alla cosa in maniera benevola, vi troviamo la ricerca di un migliore e più stabile assetto dei rapporti economici e finanziari internazionali, mentre se vi diamo invece uno sguardo più disincantato, individuiamo sostanzialmente una lotta sorda per fissare nuovi rapporti di forza tra Usa e Cina, con l’Europa nel ruolo della comparsa.
Alcuni fatti
A metà del 2005, in relazione anche alle pressioni statunitensi, la Cina ha lasciato che lo yuan si rivalutasse ed in tre anni, sino al luglio 2008, il suo rapporto di cambio con il dollaro è cresciuto così di circa il 21, 5%. Da allora, la valuta cinese è stata tenuta legata al dollaro con un rapporto fisso, pari a 6,825 renminbi per un dollaro. Come è noto, nel frattempo la moneta Usa si è svalutata in misura consistente, tendendo a trascinare in giù anche il rapporto di cambio dello yuan con le altre principali monete, in particolare con l’euro.
Negli ultimi tempi, il coro di quelli che in Occidente chiedono una rivalutazione della moneta cinese –molti stimano che sia necessario che il suo valore cresca del 25% rispetto al dollaro- si è fatto sempre più forte.
A favore della rivalutazione
Sul fronte dei sostenitori di una rivalutazione, insieme a tanti uomini politici statunitensi ed europei, troviamo diversi economisti; tra i tanti, vogliamo citare M. Wolf (Wolf, 2009, a e b), P. Krugman (Krugman, 2009, a e b), M. Feldstein ( Feldstein, 2009), D. Strauss-Khan, nonché, infine, J. P. Trichet.
Questi commentatori argomentano che una rivalutazione dello yuan non aiuterebbe soltanto a ridurre gli sbilanci commerciali e finanziari a livello mondiale e in particolare il deficit commerciale statunitense. Più in generale, essi sottolineano l’esigenza che le famiglie americane risistemino le loro finanze, riducendo in particolare i loro debiti. Questo comporta un aumento nel livello dei risparmi, una riduzione nei livelli di consumo ed un incremento delle esportazioni del paese, cosa che richiederebbe un dollaro più debole. La stretta della cinghia statunitense dovrebbe essere bilanciata da un aumento rilevante nei consumi nei paesi con surplus delle partite correnti e con abbondanti risparmi, la Cina in primo luogo (Banyan, 2009).
Secondo lo stesso tipo di commenti, la rivalutazione dello yuan sarebbe di grande beneficio alla stessa Cina, aiutandola, tra l’altro, a riprendere in mano il controllo della propria politica monetaria; tenendosi legato al dollaro, in effetti, oggi il paese sta importando la politica monetaria statunitense, che è invece troppo permissiva per un paese a crescita rapida come la Cina (The Economist, 2009). Una moneta più forte aiuterebbe anche a riequilibrare l’economia, rendendola meno dipendente dalle esportazioni e collocando così il suo sviluppo futuro su di un sentiero più sostenibile. Essa aumenterebbe in effetti il potere d’acquisto delle famiglie, nonché la quota del lavoro sul pil, mentre aiuterebbe a riorientare gli investimenti, a accrescere il peso dei servizi rispetto all’industria, nonché a controllare l’inflazione (The Economist, 2009). Così, nelle parole di Feldstein (Feldstein, 2009), uno yuan più forte ridurrebbe gli squilibri interni e quelli globali.
La risposta alla crisi, che si è basata sull’aumento nel livello del credito e degli investimenti fissi, mentre ha avuto il merito di sostenere la domanda, ha comportato il mantenimento di un modello di sviluppo centrato sulla creazione di ulteriore capacità produttiva in eccesso e la continuazione del sostegno alle esportazioni. Si tendono a scaricare i costi dell’aggiustamento strutturale degli squilibri mondiali sui partner commerciali. Così per Krugman quella cinese è una politica di stampo mercantilistico, predatoria (Krugman, 2009, b). Tale linea d’azione va bene per gli industriali cinesi, non certo per i consumatori (Krugman, 2009, a).
Le politiche cinesi del cambio e quelle strutturali preoccuperebbero così il mondo. Cosa potrà succedere, si chiede Wolf (Wolf, 2009, a) se i paesi in deficit riducessero il livello della loro spesa in relazione al reddito, mentre i paesi in surplus continuassero nella loro politica di eccesso di produzione sul reddito, esportando la differenza? Ne conseguirebbe una depressione. Cosa succederebbe se invece gli stessi paesi in deficit sostenessero la domanda interna con massicci deficit di bilancio? Una forte crisi nella posizione fiscale degli stessi stati. Nessuna delle due alternative, afferma Wolf, appare accettabile. Abbiamo bisogno, scrive l’autore, di politiche concordate di aggiustamento, senza le quali un’ondata di protezionismo nei paesi in deficit appare inevitabile, con grandi difficoltà in generale per l’assetto dell’economia mondiale.
Per completezza di analisi ricordiamo soltanto che a fine 2009 le riserve valutarie cinesi avevano quasi raggiunto, secondo le cifre ufficiali, i 2.400 miliardi di dollari –il che significa che le cifre reali dovrebbero collocarsi intorno ai 2.700/2.800 miliardi.
Contro la rivalutazione
Da parte cinese, oltre che, anche in questo caso, agli interventi dei politici, si lascia volentieri la parola, sul piano tecnico, a degli esperti occidentali. Così, il quotidiano China Daily (www.chinadaily.com.cn, 2009) riporta le valutazioni di Shaun Rein, fondatore del China Market Research Group, nonché quelle di J. Warner, del Daily Telegraph.
Le loro argomentazioni sono sostenute anche da altri esperti, quali ad esempio J. O’Neill, capo economista della Goldman Sachs e D. Rodrik, professore ad Harvard (O’ Neill, 2009; D. Rodrik, 2009), che, dalle colonne del Financial Times, hanno argomentato in particolare contro le tesi di Wolf.Intanto i cinesi sembrano d’accordo in generale sul fatto che lo yuan debba essere nel lungo termine rivalutato, ma affermano che questo non è il momento giusto. Per cominciare a parlare di rivalutazione, suggerisce qualcuno, l’economia dovrebbe arrivare ad una situazione di maggiore stabilità.
In ogni caso, una rivalutazione dello yuan del 25% sarebbe inaccettabile perché metterebbe fuori mercato molte imprese esportatrici e getterebbe sul lastrico diversi milioni di persone. P. Krugman si preoccupa invece soltanto dei circa 1,5 milioni di lavoratori che perderebbero il lavoro negli Stati Uniti se lo yuan non fosse rivalutato.
Secondo Rodrik, se con la rivalutazione la crescita economica cinese si riducesse in maniera significativa –e secondo i suoi calcoli con un apprezzamento del 25% la riduzione sarebbe superiore a 2 punti percentuali di pil all’anno, ciò che potrebbe portare l’economia cinese al di sotto di quella soglia dell’8% annuo che è considerata critica per mantenere la pace sociale interna-, si tratterebbe di una tragedia per il motore di riduzione della povertà più efficace che ci sia al mondo e, potenzialmente, un disastro in termini di stabilità politica e sociale. Ma forse è quello che, aggiungiamo noi, almeno alcuni politici occidentali auspicano. In sostanza, probabilmente, si vorrebbero ripetere con la Cina le stesse mosse che a suo tempo riuscirono così bene prima con l’Europa nel 1971, con la cancellazione degli accordi di Bretton Woods, che portarono al blocco del boom economico europeo, successivamente con il Giappone, che ad un certo punto, verso la fine degli anni ottanta, fu spinto dagli americani a rivalutare fortemente lo yen, cosa che contribuì non poco alla crisi successiva di quella economia. Ma la Cina non è ne l’Europa, né il Giappone; essa non ha, tra l’altro, alcun debito politico nei confronti della superpotenza Usa.
O’Neill, invece indica che i modelli econometrici di cui si serve alla banca, mentre prima della rivalutazione del 2005 mostravano chiaramente che lo yuan era sottovalutato, ora danno invece una risposta molto più incerta. Egli ricorda inoltre che, in questo momento, le importazioni cinesi stanno crescendo più delle sue esportazioni –in effetti, esso è diventato nel 2009 il secondo importatore mondiale.
C’è chi afferma inoltre che una rivalutazione dello yuan porterebbe solo benefici molto limitati agli Stati Uniti; essa non ridurrebbe di molto il suo deficit commerciale, dal momento che vi è solo una piccola sovrapposizione tra le produzioni americane e quelle cinesi e così gli americani sarebbero costretti a pagare di più per le merci cinesi, costringendo a stringere ancora di più la cinghia le classi medie e popolari. In alternativa, si dovrebbe ricorrere ad altri produttori stranieri, come il Vietnam: le cose non cambierebbero. Sul piano finanziario, poi, la Cina sarebbe meno in grado di comprare buoni del tesoro statunitensi e contribuire così a finanziare la ripresa economica di quel paese.
I cinesi hanno poi buon gioco nel ricordare che il loro attuale boom economico, indotto anche dal controllo della moneta, sta tenendo in piedi l’economia del mondo e che, peraltro, il loro surplus si sta riducendo in maniera significativa. Così, la Banca Mondiale ha previsto di recente che il saldo positivo delle partite correnti cinesi dovrebbe ridursi di quasi la metà nel 2009, passando dal 9,8% del pil nel 2008 al 5,6% nel 2009 per scendere al 4,1% nel 2010 (Dyer, 2009), stima che però i recentissimi incrementi delle esportazioni cinesi verso il resto del mondo rendono in qualche modo dubbiosa, almeno per il 2010.
In ogni caso, gli stessi cinesi possono ricordare che i loro consumi interni stanno già aumentando ad un ritmo molto sostenuto –circa il 16% su base annua di recente- e che ci vuole comunque parecchio tempo per arrivare a riorientare in maniera adeguata la loro economia.
Sul fronte valutario, di fronte a quelli che affermano che nell’ultimo periodo la moneta cinese si è svalutata nei confronti di tutte le altre, essi ricordano che se si parte dagli inizi del 2008 lo yuan si è in realtà apprezzato rispetto alle altre monete, tranne che allo yen.
Per quanto riguarda i suoi interlocutori più diretti, Pechino critica in maniera generale la caduta del livello del dollaro e, più in generale, le politiche fiscali e monetarie statunitensi. Il grande deficit fiscale Usa mette in dubbio la sicurezza degli investimenti cinesi in obbligazioni di quel paese, mentre la combinazione di un dollaro debole e di bassi tassi di interesse incoraggia la speculazione internazionale. Come sostiene a questo proposito anche Rein, il più grave problema valutario in questo momento non è quello della debolezza dello yuan, ma quello del dollaro.
Conclusioni: il treno del disastro
Nella disputa sullo yuan non è alla fine del tutto sicuro né come stiano veramente le cose, né cosa bisogna veramente fare. Assistiamo ad un dialogo tra sordi, mentre torti e ragioni sembrano interconnessi in maniera inestricabile.
La Cina ha certo il diritto di difendere la sua economia e il livello dell’occupazione. Ma, siamo sicuri su quali obiettivi essa stia difendendo veramente? Forse i dirigenti cinesi non pensano tanto ai lavoratori e all’occupazione, ma agli interessi dell’industria pesante e della finanza, in particolare a quelli delle imprese di stato (The Economist, 2009).
Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di scaricare i loro problemi finanziari e monetari sugli altri paesi, con un atteggiamento che le parole di Connally di qualche decennio fa sintetizzano ancora perfettamente. Una volta tanto, però, l’operazione gli riesce oggi più difficile.
In ogni caso, ridurre il surplus in Cina richiede profondi cambiamenti strutturali nell’economia e nella società, così come ridurre il deficit negli Stati Uniti (Spence, 2010).
Nessuno dei due contendenti sembra, tra l’altro, preoccuparsi in alcun modo della sorte dei paesi più deboli.
Intanto chi ne esce anche con le ossa rotte è l’euro (De Cecco, 2010), che assorbe sul cambio gli effetti di quello che sta succedendo altrove, con le prevedibili pesanti conseguenze negative sul commercio estero dei paesi dell’Unione. La preoccupazione maggiore, in questa situazione, va più in generale ai destini del mondo; il sistema delle relazioni economiche internazionali potrebbe essere gravemente danneggiato dalla disputa.
A questo punto ci sentiamo di fare, in conclusione, soltanto due affermazioni. La prima riguarda la necessità di dare la priorità ad una concertazione internazionale, che porti al ripensamento complessivo dell’attuale sistema monetario internazionale, di cui appaiono oggi tutti i limiti. Dovrebbe, tra l’altro, emergere un sistema dei cambi più stabile, mentre, più in generale, bisognerebbe arrivare a ribilanciare il potere economico e finanziario internazionale.
La seconda, più operativa, fa riferimento alla previsione che alla fine, all’orizzonte 2010, si profila probabilmente una rivalutazione molto moderata dello yuan – i mercati stanno già scontando che essa si collocherà intorno al 3%; noi azzardiamo la previsione che essa possa arrivare anche al 4-5%, con un movimento verso l’alto che potrebbe partire sommessamente forse già verso marzo/aprile-; essa potrà preludere a delle misure un po’ più sostenute nell’anno successivo.
Testi citati nell’articolo
– Bayan, Currency contorsion, The Economist, 1 dicembre 2009
– De Cecco M., La tortura dello yuan, La Repubblica, Affari e finanza, 18 gennaio 2010
– Dyer G., China current account surplus set to fall, www.ft.com, 4 novembre 2009
– Feldstein M., Why the renmimbi has to raise to address imbalances, www.ft.com, 29 ottobre 2009
– Krugman P., World out of balance, www.nyt.com, 16 novembre 2009, a
– Krugman P., Chinese new year, www.nyt.com, 31 dicembre 2009, b
– O’Neilly J., Reply, www.ft.com/economistforum, 14 dicembre 2009
– Rodrik D., Reply, www.ft.com/economistforum, 14 dicembre 2009
– Spence M., The West is wrong to obsess about the renmimbi, www.ft.com, 21 gennaio 2010
– The Economist, China’s currency. A yuan sided argument, 18 novembre 2009
– Wolf M., Why Exchange rate policy is a common concern, The Financial Times, 9 dicembre 2009, a
– Wolf M., Grim truths Obama should have told Hu, www.ft.com, 18 novembre 2009, b
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http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Le-monete-sono-loro-i-problemi-sono-nostri
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L’indegno silenzio sul reddito garantito di base
di Giuseppe Allegri
ABSTRACT
Riflessioni a voce alta su riforma degli ammortizzatori sociali e reddito garantito in Italia.
L’assai onorevole Ministro del Welfare Maurizio Sacconi, solo un mese fa, di risposta a una domanda sulla riforma degli ammortizzatori sociali, ebbe a dire: “ho nel cassetto il disegno di legge sullo Statuto dei lavori e sulla riforma degli ammortizzatori sociali. Le posso anticipare che il sistema sarà razionalizzato, ma sarà come oggi a base assicurativa e a due pilastri; niente reddito garantito per nessuno, perché bisogna evitare ogni forma di deresponsabilizzazione e di intrappolamento fuori dal mercato del lavoro”. Era domenica 22 novembre 2009, pagina 5 de Il Sole 24 Ore, autore dell’intervista Fabrizio Forquet.
Neanche un mese dopo, sabato 19 dicembre le pagine economiche dei maggiori quotidiani italiani rilanciano le affermazioni di Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia, in occasione del ricevimento di una laurea honoris causa in Statistica all’Università di Padova: “«Indennità per tutti i disoccupati»” (titolo de La Stampa, p. 27); “«Ammortizzatori sociali, troppi esclusi»” (titolo del Corriere della Sera, p. 44).
Sulla stessa pagina del Corsera un commento di Maurizio Ferrera sostiene la necessità di “istituire uno schema di base con prestazioni omogenee per tutti i lavoratori.” Abbandonando “la vecchia impronta assicurativa (particolarmente punitiva nei confronti dei precari, che spesso non prendono niente)”, per “adottare invece l’approccio dell’«universalismo selettivo»: tutti i disoccupati possono accedere a sussidi differenziati in base alla situazione economica, a patto che si diano da fare per cercare un nuovo posto di lavoro”.
La timida risposta del Ministro Sacconi arriva il giorno successivo: un disegno di legge per lo Statuto dei lavori verrà presentato dopo le elezioni regionali della prossima primavera. Due saranno i pilastri della riforma: «una indennità di disoccupazione su base generalizzata ed un secondo strumento integrativo che sarà soprattutto rivolto a conservare il rapporto di lavoro quando, può ridursi il volume della produzione ed anche le ore lavorate» (così il commento virgolettato dalle pagine de Il Mattino on line).
Appare evidente quanto il Governo sia incapace di articolare un progetto adeguato alle esigenze poste dalla nuova questione sociale, del precariato e del lavoro autonomo senza sicurezze, garanzie e diritti, dinanzi a una crisi che tutti auguriamo di lasciarci alle spalle nel 2010; con l’amara consapevolezza che da quella fuoriuscita non giungerà nuovo lavoro, né tanto meno la possibilità di recuperare i posti di lavoro perduti.
E fanno tenerezza, per non dire rabbia, le reazioni dei sindacati confederali al dialogo a distanza Sacconi-Draghi, a partire da Susanna Camusso (Cgil), la quale si premura di osservare che “sulla riforma degli ammortizzatori sociali non ci risulta sia aperto un tavolo”; “ci auguriamo, comunque, che il governo non decida di procedere come spesso ha già fatto: ossia portando il testo del decreto direttamente alla fiducia, senza discuterlo” (il Ministro Sacconi parla esplicitamente di un Disegno di Legge da presentare alle Camere a primavera, ndr). Per concludere poi, mestamente, che “non vedo nelle parole del ministro nessuna valorizzazione della cig e del suo eventuale allargamento” (così una nota Ammortizzatori sociali e Statuto dei lavori, impegni per il 2010, on line su AdnKronos/Labitalia). È un misto di lagnanza per l’assenza di consultazione, cui si affianca la rivendicazione di uno strumento, come la cassa integrazione guadagni (straordinaria, ci verrebbe da aggiungere), sicuramente necessario in questi tempi, poiché non c’è nulla di meglio, ma limitato a una fetta assai minoritaria della forza lavoro attiva e in crisi, in questo Paese; e che comunque passa attraverso la mediazione-cogestione sindacale. Elemento centrale quest’ultimo, ribadito anche da Giorgio Santini (Cisl), che auspica “una forma di protezione grazie alla bilateralità e alla cassa ordinaria” (nella stessa nota di agenzia); cioè al potenziamento degli enti bilaterali, in cui il sindacato confederale la fa da padrone, e rilancio dello status quo della cig.
Sembra di assistere ad uno stanco e odioso gioco delle parti. Con il Governo a recitare il ruolo di chi non mette i soldi e lascia del tutto inattuato il processo di estensione delle garanzie e delle tutele alle nuove forme del lavoro; con buona pace di giuslavoristi assassinati sotto le loro case, come Massimo D’Antona e Marco Biagi, che lo stesso Governo cita, senza dare una minima conseguenza al proprio aprire bocca. Al contempo il Governatore di Bankitalia passa a battere cassa in nome del rilancio dell’economia a suon di crescita dei consumi; e se i soldi non ci sono, almeno un po’ di reddito lo Stato deve darlo. Se non altro ha il merito di parlare quasi rawlsianamente di “equità sociale” e di pericolo di tenuta per gli “esclusi” dalle garanzie del Welfare: è un indubbio punto a suo favore! Di contorno le forze sindacali confederali intravedono il rischio di deperimento della loro possibilità di mediazione, controllo, gestione delle relazioni tra economia, politica e lavoro. È questo un passaggio assai delicato, che meriterà ulteriori interlocuzioni e chiarimenti; in particolare con la Cgil: ci si assesterà ancora, e per sempre, sulla difesa resistenziale di un accordo sociale oramai sconosciuto alle ultime due generazioni di precari-e, autonomi e disoccupate/i? Hic Rhodus, hic salta!
È per lo meno da un ventennio che il modello sociale italiano dovrebbe essere adeguato alle trasformazioni della legislazione sul mercato del lavoro. E ormai un trentennio e oltre che l’intero sistema di produzione, tutela e garanzia delle forme del lavoro necessita di un nuovo patto sociale post-fordista, che tuteli l’essere umano e la sua esistenza dignitosa al di là del lavoro. Non ci risulta che riformisti, reazionari, socialisti, liberali, conservatori, nonché più o meno ex comunisti e democristiani, lo abbiano mai fatto. Per tacere dei sindacati confederali, ancorati alla base di pensionati e dipendenti a tempo indeterminato della grande fabbrica e della funzione pubblica centrale e locale.
In mezzo a questo ridicolo e tragico teatrino (ben oltre quello che Artaud poteva immaginare teorizzando il teatro della crudeltà), in cui tutti i soggetti coinvolti mirano alla conservazione di insopportabili e inique rendite di posizione, finiscono stritolate per lo meno due generazioni di venti-quarantenni.
Eppure, nel silenzio assordante di una società immobile e di una classe dirigente autoreferenziale, lo spazio ci sarebbe per cambiare, radicalmente, le cose. Lo chiedono i lavoratori autonomi e consulenti riuniti in ACTA (Associazione Consulenti del Terziario Avanzato), con la loro azione di sensibilizzazione alla Triennale di Milano riguardo alla gestione separata INPS in cambio dell’assenza di qualsiasi tutela sulla continuità di reddito e l’assistenza sociale. Lo pensano sociologi, giuslavoristi, economisti che vogliono farla finita con un modello sociale il cui unico strumento di reale garanzia per le difficoltà dei singoli è la famiglia (e spesso la donna), sia per i più giovani, che per i più anziani.
E questo spazio si situa dentro la certezza della definizione di un reddito garantito, di base, che accompagni le più o meno giovani generazioni dentro e fuori dal mercato del lavoro, insieme con i nuovi espulsi dalle forme del lavoro, ai tempi della crisi. È una questione di civiltà e di rispetto dell’autonomia individuale, della libertà di accettare o rifiutare un lavoro, dell’autodeterminazione per esercitare il proprio diritto all’intrapresa economica. Sarebbe un orizzonte post-lavorista, libertario, sociale e garantista, sul quale varrebbe la pena discutere, ma solo per come applicarlo. Assumendo che la tutela dell’essere umano oltre, e spesso contro, le attuali forme del lavoro, è una questione di dignità umana. E una società che non adegua le forme di tutela e garanzia per rendere più dignitosa l’esistenza dei più giovani (insieme con quella dei più anziani) merita di essere dimenticata dalla Storia.
http://www.bin-italia.org/article.php?id=1481
reperito il 28.01.2010
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Lo scrittore è morto a Cornish, New Hampshire. Aveva 91 anni. Nel 1951 uscì il romanzo che lo ha reso un mito giovanile. A cui seguirono decenni di reclusione volontaria
Addio a Salinger, una vita misteriosa tra “Il giovane Holden” e tanto silenzio 28.01.2010
di CLAUDIA MORGOGLIONE
NEW YORK – J. D. Salinger è morto oggi a Cornish, New Hampshire, la cittadina dove ha trascorso gran parte della sua vita appartatissima. Aveva 91 anni. L’autore del Giovane Holden, lo scrittore che col suo romanzo – uscito nel 1951 – ha rappresentato in mito per diverse generazioni di giovani, resterà per sempre un simbolo di ribellione, di inquietudine, per chi sta per attraversare la “linea d’ombra” tra l’infanzia e l’età adulta. Un mito alimentato anche grazie alla sua esistenza misteriosa; all’alone di segretezza, quasi di leggenda, che la sua incredibile riservatezza creò attorno a lui.
Pochissime infatti, nel corso dei decenni, le informazioni sulla sua attività di scrittore. E ancora meno sulla sua vita privata. Quel che è certo è che Jerome David Salinger nacque a New York nel gennaio del 1919. Che partecipò alla Seconda guerra mondiale, prendendo parte anche allo sbarco in Normandia. E nel 1953, due anni dopo l’exploit dovuto alla pubblicazione del suo libro più celebre, si spostò dalla Grande Mela al New Hampshire. Cominciando una reclusione volontaria che si è conclusa solo con la sua morte. Nel 1955 sposò una studentessa, Claire Douglas, da cui ebbe due figli, Margaret e Matt, e dalla quale fu lasciato nel 1966.
Queste sono tra le poche notizie disponibili su di lui. Negli ultimi cinquant’anni, infatti, lo scrittore ha rilasciato pochissime interviste. Una, nel 1953, a una studentessa per la pagina scolastica The Daily Eagle di Cornish, un’altra, nel 1974, al New York Times. Non si ricordano sue apparizioni pubbliche. E dal 1965 – anno in cui sulla rivista
New Yorker apparve il suo ultimo racconto – non ha mai pubblicato nulla. Esiste però una sorta di leggenda, messa in giro da persone vicine al suo agente, sull’esistenza di una cassaforte piena di manoscritti inediti che avrebbero dovuto essere pubblicati dopo la sua morte.
Nell’attesa di sciogliere questo mistero, di Salinger restano le opere pubblicate. A partire, naturalmente, dal romanzo che gli ha dato fama eterna: Il giovane Holden (titolo originale Catcher in the Rye), appunto. Un romanzo di formazione anomalo, la crisi precoce di un ragazzino di buona famiglia, insofferente a tutto, raccontata in presa diretta. Un eroe anomalo, il suo, un disadattato di lusso con cui tanti adolescenti, in tutto il mondo, non hanno potuto non identificarsi. Tra gli altri suoi lavori, vanno ricordati Alzate l’architrave carpentieri, I nove racconti e Franny e Zooey. Tutti all’insegna del disagio esistenziale.
Un disagio che, probabilmente, spiega gli eccessi di riservatezza di Salinger. Che nell’era dei mass media e delle esistenze celebri sbattute sulle pagine dei giornali assume una valenza quasi eroica. E infatti lui, per difenderla, non esitò ad andare in tribunale, negli anni Ottanta, per impedire la pubblicazione di una sua biografia. “Mi occupo di narrativa”, disse al giudice, e poco altro. Prima di tornare al suo esilio volontario.
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/01/28/news/morto_salinger-2110784
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Aiuto, ci siamo persi il privato 29.01.2010
Il sociologo Sofsky denuncia come ormai nemmeno più avvertiamo l’incessante sorveglianza: ogni minimo dato e atto della nostra vita è registrato, eppure nessuno sembra spaventarsi
WOLFGANG SOFSKY
Oggi l’incessante sorveglianza non viene praticamente avvertita dalla maggior parte delle persone. Tecnica e attuazione dello spionaggio quotidiano hanno luogo senza che la gente quasi se ne accorga. Da un pezzo si è abituata alle telecamere, alle tessere degli sconti e ai messaggi pubblicitari. Alcune cose appaiono fastidiose, altre inevitabili, molte sono invisibili e ignote. Le telecamere promettono sicurezza, i servizi informatici offrono comodità. A parte qualche sporadica seccatura, il cittadino trasparente apprezza le facilitazioni dell’era digitale. Senza esitazioni rinuncia a essere inosservato, anonimo, inaccessibile. Non avverte la perdita della libertà personale. Nemmeno immagina che ci sia qualcosa da difendere.
È troppo poco geloso della propria sfera privata per preservarla a costo di altri vantaggi. La privatezza non è un programma politico che possa portare voti. La tutela del segreto non è un compito suscettibile di consenso nelle società della comunicazione dilagante. L’esigenza di essere lasciati in pace è poco diffusa. Contrasta troppo con lo spirito di un’epoca che butta tutto in politica e antepone la notorietà alla privatezza. Ma il fatto che la protesta latita e la difesa è fiacca non implica che il pericolo sia irrisorio.
Le persone lasciano più tracce di quanto immaginano. A nessuno è più concesso di sottrarsi tacitamente alla società e di essere lasciato in pace. La pista è così ampia che investigatori capaci sono in grado di appurare in un attimo dove uno è stato e con chi ha parlato. Non è possibile per il singolo cambiare maschera di nascosto e diventare altro da quello che è. Non può travestirsi né scomparire per qualche tempo. Il suo corpo viene continuamente passato ai raggi, il suo percorso di vita registrato, la sua condotta documentata. E quanto più a lungo i dati restano memorizzati, tanto più scarse le possibilità dell’oblio. Il sapere archiviato aumenta quotidianamente. In caso di dubbio ogni fatto del passato può essere ricostruito. Nulla viene trascurato, ignorato, perdonato. Perciò gli individui sono condannati ad affidarsi totalmente a se stessi. Devono mettere in conto ogni traccia, valutare preventivamente tutte le conseguenze delle proprie azioni. Se ogni negligenza, ogni errore, ogni leggerezza vengono registrati, la spontaneità dell’agire è compromessa. Ogni azione viene esaminata e giudicata. Nulla sfugge all’attenzione. Il passato soffoca il presente, e al futuro non si affida comunque nessuno, perché nessuno è in grado di assumersi la responsabilità delle proprie predilezioni, disattenzioni e inaffidabilità. Se a intervalli regolari non venissero cancellati certi dati e fatte sparire certe tracce, gli esseri umani sarebbero reclusi nel carcere della loro storia. Queste prospettive però non sembrano spaventare nessuno. Nelle odierne società occidentali vige – come si suole dire – la legge del cambiamento, della caducità. Le mode vanno e vengono, i conoscenti mutano, i pensieri sono già svaniti prima ancora di prendere corpo. Ovunque si diventa testimoni involontari di discorsi insulsi. Massa, volume acustico e velocità della comunicazione sono esplosi.
Nonostante i programmi di filtraggio, nessun teleschermo sarebbe in grado di preservare in modo attendibile tutte le tracce sospette nel caos dei suoni e delle immagini. Il primo interesse non è il segreto privato, ma la messa in scena pubblica di se stessi. Chi non si vede, non esiste, dice la legge della società mediatica. Non si teme di essere spiati, ma di non essere notati. La gente di oggi pare costantemente dedita a fissare la propria immagine. Perché mai uno dovrebbe essere infastidito dalla telecamera nel centro commerciale, quando egli stesso corre da un’istantanea all’altra mettendosi subito in posa davanti a ogni nuovo sfondo?
Per farsi ancora notare nel guazzabuglio mediatico e lasciare una traccia nella memoria sociale, oggi molti ricorrono a espedienti stravaganti. Ogni mezzo è buono; le loro esternazioni sono stridule e isteriche, le loro opinioni astruse e demenziali, il loro aspetto bizzarro ed eccentrico. A ogni costo vogliono apparire sui teleschermi nazionali per riversare sui telespettatori le banalità della loro esistenza. Una volta spenti i riflettori, scompaiono di nuovo nella massa senza troppo rumore.
La smania volgare di effimero protagonismo accelera la distruzione del privato. L’economia della notorietà rende ciechi nei confronti del pericolo politico. Il desiderio di emergere personalmente ha perso da un pezzo il senso del privato. Dunque non è il caso di dare il cessato allarme. Peggio ancora: sono proprio necessarie le apparecchiature radioscopiche, se le persone si mettono a nudo volontariamente? Superflue appaiono le intercettazioni ambientali, se i colloqui a quattr’occhi rappresentano soltanto una parte infinitesimale della comunicazione, mentre i dialoghi per telefono, telescrivente o Internet possono essere registrati in qualsiasi momento. È proprio necessario captare e registrare ogni sillaba, se il diluvio di parole delle conversazioni quotidiane cela soltanto il vuoto dell’insignificanza? Non ci sarà neppure più bisogno di telecamere, dato che nel prossimo futuro ognuno porterà con sé una carta di identità grazie alla quale sarà sempre possibile scoprire dove si trova.
© 2007 by Wolfgang Sofsky
© C. H. Beck Verlag 2007
© 2010 G. Einaudi, Torino
Traduzione di Emilio Picco
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 30 gennaio)
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La superstar della street art Banksy diventa regista 27.01.2010
Di Andrea Girolam
Lui è lo street-artist più famoso al mondo. Ha iniziato ad imbrattare, si fa per dire, i muri di Bristol (dove è nato) e Londra finendo nel giro di qualche anno ad esporre in prestigiose mostre monografiche e ricevendo i complimenti di superstar come Brad Pitt che insiste nel definirlo il suo artista preferito.
Nonostante l’enorme notorietà raggiunta Banksy è riuscito nell’impresa più difficile: mantenere il più totale anonimato. Nessuno conosce il suo volto o ha mai sentito la sua voce. Adesso presenta il suo primo film come regista intitolato Exit Through The Gift Shop, senza rinunciare a questa regola d’invisibilità fondamentale, anzi mescolando ancora di più le carte in tavola.
Neppure i giornalisti presenti al Sundance Festival in corso in questi giorni in America sapevano nulla dell’arrivo della pellicola che è stata inserita tra le proiezioni all’ultimo momento con grande sopresa di tutti. Si tratta di un documentario vero e proprio di cui circola da qualche giorno un bizzarro trailer online e che viene definita come: “Il primo disaster movie al mondo sull’arte di strada“.
La scusa è quella di seguire i passi dell’aspirante artista e video maker Thierry Guetta, deciso a girare un film proprio sulla street art. Vi compaiono alcuni dei più famosi esponenti contemporanei come Shepard Fairey, l’autore dell’iconico poster di Obama “Hope”. Al momento però di avvicinare lo stesso Banksy tutto prende una piega differente: Thierry si vede puntare contro la sua stessa camera e divenire dunque il protagonista di una bizzarra escalation nel mondo dell’arte, descritto come fallace e decadente.
L’arrivo di Exit Through The Gift Shop è stato annunciato solo dalla comparsa di alcuni graffiti dello stesso Bansky nelle principali città dello Utah, stato dove si svolge il Sundance Festival dove il film è stato presentato in anteprima assoluta.
Chi ha avuto la fortuna di vedere il film è stato attento a non svelare nulla più dello stretto necessario ma le prime reazioni sembrano decisamente entusiastiche. Adesso è solo una questione di tempo prima di scoprire con i nostri stessi occhi il talento di un prodigio invisibile come questo anche dietro la macchina da presa. Il film esordirà nelle sale inglesi il 5 marzo.
al link il trailer
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In un’oliva la Calabria di domani 21.01.2010
Croce amava spesso ripetere, a proposito di tutto il meridione: “Il Sud è un paradiso abitato da diavoli”. Ecco una storia positiva di come “fare impresa” in Calabria possa diventare una “battaglia per un nuovo modello di sviluppo” e un progetto di riscatto sociale. Quella di Domenico Cristofaro e della ‘sua’ Ecoplan.
di Ilaria Donatio
La prima cosa che Domenico Cristofaro dice al telefono, è che è un geometra calabrese figlio di due sarti, “per chiarire subito che lui è partito da zero”, che “se in Italia fare gi imprenditori è difficile anche quando si eredita un’impresa bell’e avviata”, partire da zero, può rivelarsi un “handicap”, perché “sei un pioniere, nel bene e nel male”.
La seconda è spiegare perché lo ha fatto: la “volontà di uscire fuori dai soliti schemi assistenzialistici”, la “voglia di dimostrare a se stessi e al territorio di poter fare qualcosa di diverso” e l’idea di “creare ricchezza e sviluppo con l’autoimprenditorialità”. Il territorio: tornerà spesso durante tutta la conversazione, per dire che non è solo teatro o sfondo, ma la chiave di tutto, perché “nulla sarebbe potuto essere fuori dalla Calabria”, questo è “fuori discussione”.
È subito chiaro, dunque, che questo pioniere di Polistena – nella parte orientale della Piana di Gioia Tauro, alle pendici dell’Aspromonte – ha grinta da vendere. Di lui e della sua impresa, Ecoplan, si è molto parlato negli ultimi mesi: un’“idea-progetto” concepita 17 anni fa ma ancora unica e rivoluzionaria per l’industria ambientale: da un impasto realizzato con la sansa esausta di olive (solo nella Piana se ne producono due milioni e mezzo di quintali ogni anno) – risultato dell’ultima spremitura delle olive – e con polipropilene riciclato, ottenuto con i residui della lavorazione di pannolini per bambini, Domenico ha costruito pannelli ecologici molto resistenti, con uno spessore che può arrivare fino a trenta millimetri (tanto che in un comune vicino Milano, ci hanno pavimentato i percorsi pedonali all’interno di un parco pubblico).
Ma le lastre dell’imprenditore calabrese sono adatte a una miriade di utilizzi: pavimenti, scaffali, mobili, arredi scolastici, allestimenti di soppalchi, strutture balneari, pianali di veicoli industriali o di container: tutto senza tagliare un albero. Una plastica speciale – la Ecomat – riciclabile all’infinito (l’azienda ritira e ricicla i propri prodotti a fine ciclo vita, abbattendo i costi di acquisto dei nuovi), ma priva di formaldeide o di altre sostanze cancerogene – spesso contenute nelle colle con cui si producono i pannelli in legno – che potrebbe scompaginare totalmente l’industria dei pannelli e dei laminati.
Così, è nata Ecoplan. Dopo “dieci anni di ricerca e sviluppo, spesi per mettere a punto il prodotto”, la linea di produzione è stata definitivamente messa a punto nel 2007 e già ha fatto notizia in tutto il mondo tanto che “cinesi e coreani” – produttori mondiali di container – “sono venuti a vederla” (ma, con un pizzico di orgoglio, Domenico ci informa che i campioni li ha chiesti anche un big come Norman Foster, grande architetto e designer britannico e L’Oréal li sta esaminando con attenzione, per i pavimenti e gli arredi “ecologici” dei suoi nuovi show room in giro per il mondo).
E la ‘ndrangheta? “Non si è fatta vedere, ancora, forse perché è un settore ad alta tecnologia che per ora non produce ricchezza,”. Ma se bussasse alla sua porta, Domenico non ha dubbi: “Se cedessi alla richiesta del pizzo, sarebbe come cederle un pezzo di mio figlio”. Lui, che di figli ne ha due (di dodici e quattordici anni), ha scelto una gestione sempre trasparente della sua impresa, a qualsiasi prezzo: come quando ha “restituito allo Stato oltre 250 mila euro dei finanziamenti ottenuti” (perchè non li aveva potuti spendere come inizialmente previsto, a causa di problemi legati alla ritardata messa a punto dell’impianto), su un totale di un milione e 300 mila euro di finanziamenti a fondo perduto, cui ha avuto accesso grazie alla legge 44 per l’imprenditoria giovanile (l’investimento complessivo realizzato è pari al doppio, circa due milioni e mezzo).
Neanche la malattia ha piegato questo calabrese vitalissimo e coriaceo che, per curarsi, qualche anno fa se n’è andato da solo a Milano, per poi tornare a occuparsi dell’azienda, “la sua medicina migliore”. E trova, di tanto in tanto, anche la forza di rassicurare chi gli sta accanto: “Mia moglie ha avuto, giustamente, momenti di stanchezza durante tutti questi anni” perché “non è facile seminare sempre e attendere il momento della raccolta: a un certo punto ti chiedi anche se arriverà, prima o poi”.
In futuro, dovrebbe partire un’altra sfida: quella di utilizzare al posto della sansa, la lolla di riso, cioé la parte dell’involucro che contiene il riso e che viene scartata durante il ciclo di lavorazione dello stesso. Nell’ambito del programma di cooperazione ambientale tra Italia e Cina, è allo studio il “progetto Ecomat”: nel dragone rosso la quantità di lolla presente, è talmente elevata da costituire un serio problema per il suo smaltimento. Ed ecco che Domenico pronto a scommettere: quella di realizzare, in Cina, uno o più impianti per la produzione di pannelli, utilizzando scarti industriali di origine vegetale, la lolla del riso, alternativi ai pannelli in legno tropicale perché, spiega, “la produzione di legname per scopi industriali è tra le cause principali della deforestazione nelle aree tropicali”.
La verità è che Italia è piena di progetti innovativi (che non fanno rumore) ma quando “fare impresa” diventa una “battaglia per un nuovo modello di sviluppo” (Ecoplan è stata premiata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta da Edo Ronchi), quando “investi in una terra” la cui economia è governata, in troppi settori, dalla ‘ndrangheta, e sorretta da braccia clandestine, come gli immigrati di Rosarno (a dieci chilometri dai padiglioni della Ecoplan), dove sfruttamento e illegalità sono all’ordine del giorno, allora si tratta di vera “resistenza” condita da un po’ di “sana utopia”.
“Questa, oltre ad essere una missione imprenditoriale”, è anche una “missione sociale, etica, responsabile, stimolatrice”, legata al territorio di cui vuole sfruttare in maniera positiva, peculiarità e caratteristiche. Ma “senza stravolgerne l’assetto, con lo sguardo rivolto al futuro in maniera glocale e, al tempo stesso, ecologica e sostenibile, con l’ambizione di eccellere in innovazione e in qualità”.
In quella Calabria, dove di “aziende produttive vere e proprie ce sono davvero poche; dove, se vuoi fare le cose per bene e nel rispetto della legge trovi difficoltà, mentre se vuoi tagliare per il ‘corto’, magari, tutto diventa più facile e fattibile”. A cominciare dal rapporto con le amministrazioni pubbliche, con le istituzioni, con le banche, con i fornitori con i clienti, con il tessuto sociale e imprenditoriale… “Quante volte mi hanno chiesto di entrare in politica! Ma io mi sentirei incoerente: posso essere parte della classe dirigente anche facendo l’imprenditore”.
Lui che “don Pino De Masi, l’ha visto crescere” ed ha sempre con sé “la tessera di Libera in tasca” (impegnata nella lotta contro tutte le mafie), riferisce il commento del sacerdote (referente dell’associazione per la Piana di Gioia Tauro) ai fatti di Rosarno: “Il problema immigrati non esula dal problema delle mafie perché è la ‘ndrangheta che gestisce tutto ed è sempre la criminalità organizzata che stabilisce i movimenti, le paghe ed il compenso dei caporali”. Per poi citare quel detto antichissimo, che Benedetto Croce amava spesso ripetere a proposito di tutto il meridione: “Il Sud è un paradiso abitato da diavoli”. E chiudere con le parole del “più grande scrittore calabrese di sempre”, Corrado Alvaro, che nel suo diario, all’inizio di un viaggio che lo avrebbe portato a Torino per insegnare, scriveva “… è anche troppo quello che sono riuscito a combinare con tutti gli inconvenienti con cui sono partito: meridionale, povero, scrittore”.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/in-unoliva-la-calabria-di-domani/
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Applicazione su Mussolini è la seconda più scaricata in Italia
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato giovedì 28 gennaio 2010 in Brasile.
[Epoca]
L’applicazione mostra discorsi e video del fascista nel periodo 1914-1938, quando era il leader in Italia
L’Italia continua ad essere fonte di molte polemiche. L’ultima riguarda le applicazioni della Apple, conosciute come apps, le più scaricate nel paese. Al secondo posto nella classifica c’è un’applicazione con 100 discorsi di Benito Mussolini, il fascista che si alleò con la Germania nazista di Hitler che comandava in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale.
L’applicazione si chiama iMussolini, e può essere scaricata dall’Applestore italiano tramite internet al costo di 79 centesimi di euro. È battuta solo da un’applicazione che simula un raggio X e che secondo la pubblicità “ti permette di vedere nude le persone che ti sono accanto”. Creata da Luigi Marino, imprenditore di Napoli di 25 anni, l’applicazione di Mussolini è balzata da 55 downloads al giorno ai più di mille attuali.
L’applicazione contiene discorsi e video dal 1914, quando Mussolini prese il potere, fino al 1938, quando era al suo auge come leader in Italia. I discorsi sono accompagnati da foto dell’italiano con la scritta: “iMussolini, l’uomo che ha cambiato la storia del nostro paese”.
Nella sua pagina di presentazione, il creatore dell’applicazione racconta che è in preparazione una nuova versione con tutto il contenuto dell’era fascista. Sull’indirizzo internet, viene chiesto inoltre agli internauti di non lasciare messaggi inneggianti al fascismo.
“Vorrei ringraziare tutti coloro che scaricano l’applicazione, ma chiedo anche di non postare commenti inneggianti al fascismo. È stato un periodo delicato della nostra storia e l’applicazione offre l’opportunità agli italiani di esaminare e ascoltare ciò che Mussolini diceva. Non è un’applicazione a favore di Mussolini né del fascismo. È uno strumento per conoscere la storia”, ha detto Marino, il suo creatore. Dopo molti commenti polemici sull’applicazione, la Apple ha deciso di chiudere la pagina dei commenti.
[Articolo originale “App sobre Mussolini é o segundo mais baixado na Itália”]
http://italiadallestero.info/archives/8844
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Onde radio per trovare le supernove 27.01.2010
Il radiotelescopio Very Large Array ha individuato per la prima volta una supernova attraverso le emissioni radio. Lo studio su Nature
Per la prima volta l’esplosione di una supernova è stata individuata attraverso le emissioni radio e non con l’osservazione dei lampi di raggi gamma rilasciati con lo scoppio. A riuscirci è stato il radio telescopio Very Large Array (Vla)National Science Foundation degli Stati Uniti. Lo raccontano, sulle pagine di Nature, gli astronomi che hanno osservato le registrazioni delle emissioni radio.
Quando alcuni particolari tipi di supernova esplodono, oltre all’energia liberano anche materia pesante a velocità prossime a quella della luce. La fuoriuscita di materia ad alta velocità genera i lampi di raggi gamma o Gamma ray burst (Grb). Fino ad oggi queste supernove erano state identificate soltanto attraverso la registrazione dei Grb. Il telescopio statunitense invece, grazie alle sue osservazioni radio, ha mostrato l’espulsione di materia pesante ad alta velocità durante l’esplosione della supernova SN2009bb – individuata per la prima volta lo scorso marzo – mentre non è stato possibile rilevare i raggi gamma. “È incredibile che le onde radio possano segnalare eventi di così grande energia”, ha commentato Roger Chevalier della University of Virginia.
Lo studio, svincolando l’individuazione delle supernove dall’uso dei satelliti per l’individuazione dei raggi gamma, apre nuove prospettive alla ricerca astronomica. “Le osservazioni radio diventeranno presto uno strumento più potente dei satelliti nella ricerca di questo tipo di supernova”, ha concluso Alice Sodererberg dell’Harvard Smithsonian Center for Astrophysics, “soprattutto grazie alle nuove prospettive offerte dal nuovo radiotelescopio Expanded Very Large Array in arrivo”. Per esempio potrebbero essere individuate stelle in cui i raggi gamma vengono smorzati nel momento dell’esplosione o vengono lanciati lontano dalla Terra. (c.v.)
Riferimenti: Nature doi:10.1038/nature08714
http://www.galileonet.it/news/12297/onde-radio-per-trovare-le-supernova
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Sorpresa: l’Italia apre alla produzione di Canapa Terapeutica
Nonostante lo scetticismo di partenza degli stessi proponenti, è passata al Senato la proposta per la produzione di farmaci cannabinoidi da parte dell’Istituto Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, partendo dal materiale che potrebbe essere fornito dal Centro di Ricerca per le Colture Industriali di Rovigo. Ecco l’articolo di Paolo Crocchiolo.
di Paolo Crocchialo, 30/01/2010
Mercoledì 20 gennaio si è svolta, presso la sede nazionale del partito radicale, una conferenza stampa organizzata dalla sen. Donatella Poretti per illustrare iniziative e proposte in tema di libertà di cura e cannabis terapeutica, nonché sulle nuove norme in discussione al senato riguardanti la terapia del dolore.
Alla conferenza stampa hanno partecipato, oltre alla Sen. Poretti, il sen. Marco Perduca, il farmacologo Paolo Pesel, l’avvocato Angelo Averni, Claudia Sterzi segretaria dell’associazione radicale antiproibizionista, Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, Marco Cappato, segretario dell’associazione Luca Coscioni e Paolo Crocchiolo in rappresentanza del Forum Droghe e dell’Associazione Cannabis Terapeutica.
La discussione, oltre alla terapia del dolore (prevalentemente ottenuta mediante l’uso di oppiacei), è stata focalizzata principalmente sull’impiego terapeutico dei cannabinoidi, non solo per contrastare il dolore, ma anche nelle varie sindromi in cui la ricerca ne ha ampiamente dimostrato l’efficacia. Al termine della conferenza, la sen Poretti ha avanzato l’idea di proporre in parlamento un emendamento che preveda la produzione di farmaci cannabinoidi da parte dell’Istituto Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, partendo dal materiale che potrebbe essere fornito dal Centro di Ricerca per le Colture Industriali di Rovigo.
La proposta presenterebbe il duplice vantaggio di evitare l’inutile spreco consistente nell’annuale distruzione di tutta la cannabis prodotta da parte del Centro di Rovigo e al tempo stesso di permettere un considerevole risparmio per lo Stato Italiano, che eviterebbe in tal modo di dover importare dall’estero come avviene oggi i farmaci cannabinoidi per i molti pazienti che ne hanno diritto.
Gli stessi estensori della proposta si sono dichiarati scettici sull’accoglimento della stessa da parte di un parlamento profondamente ideologizzato e prevenuto nei confronti della cannabis, ivi inclusa la cannabis terapeutica. Nei giorni successivi invece, contrariamente alle aspettative dei relatori e degli stessi proponenti, è stato reso noto che il governo per bocca del viceministro Fazio sta considerando con favore e attenzione la proposta lanciata durante la conferenza stampa del 20 gennaio. La proposta si è dunque concretizzata in un Ordine del Giorno proposto dai senatori radicali Poretti e Perduca e fatto proprio dal Governo che, nonostante le precisazioni del Dipartimento antidroga, pone le basi per una produzione italiana di farmaci a base di cannabis.
Si tratta ora di intensificare l’azione di lobbying perché anche in Italia i fondamentali diritti ad una corretta e adeguata terapia del dolore, alla libertà di cura in generale ed in particolare alla libertà di cura con la cannabis siano finalmente riconosciuti e concretamente applicabili.
http://www.fuoriluogo.it/sito/home/7330
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Elie Wiesel non è nemmeno Elie Wiesel
Il Parlamento italiano ha invitato a parlare del Giorno della Memoria il noto sopravvissuto e premio Nobel Elie Wiesel. Gianfranco Fini ha ascoltato, con il volto atteggiato a compunzione e dolore, la testimonianza del celebre personaggio, che è scampato da Auschwitz-Birkenau.
Eppure c’è il fondato dubbio che Elie Wiesel non sia Elie Wiesel, ma qualcun altro che ne ha preso il posto.
A rivelare la storia ad un giornale ungherese è stato un vero sopravvissuto: Miklos Gruner, che nel maggio 1944, a 15 anni, fu internato con genitori e fratelli ad Auschwitz-Birkenau. Il giovane Gruner lavorò alla fabbrica di benzina sintetica della IG Farben, mentre i suoi parenti morivano l’uno dopo l’altro. Rimasto solo, il ragazzino fece amicizia con altri due internati, più anziani, come lui ungheresi: i fratelli Lazar e Abraham Wiesel.
Lazar Wiesel aveva allora, nel 1944, 31 anni. Gruner non dimenticò il numero con cui il suo amico era stato tatuato dai nazisti: A 7713. Nel gennaio ‘45 i detenuti furono trasferiti a Buchenwald perchè i sovietici si stavano avvicinando al campo; molti morirono nel trasferimento, avvenuto in parte a piedi: morì anche Abraham Wiesel.
L’8 aprile del ‘45 gli americani liberarono Buchenwald, e trasferirono Miklos Gruner, che aveva contratto la tubercolosi, in un sanatorio svizzero. Più tardi, Miklos Gruner si stabilì in Australia. Ma tornò spesso in Europa, e precisamente in Svezia, dove s’era stabilito un suo fratello, altro sopravvissuto. La sua storia era nota ai giornali svedesi, che l’avevano spesso intervistato.
Sicchè nel 1986 (l’anno in cui Elie Wiesel ricevette il Nobel) Miklos Gruner fu contattato dal giornale Sydsvenska Dagbladet a Malmoe, che lo invitò ad incontrare «il suo vecchio amico Elie Wiesel» onde trarne un articolo commovente. «Mai conosciuto uno con questo nome», rispose Gruner interdetto. Gli fu spiegato che «Elie Wiesel» era l’internato che lui aveva conosciuto nel lager come Lazar Wiesel. Allora Gruner accettò lietamente l’invito.
L’incontro avvenne il 14 dicembre 1986 nel Savoj Hotel di Stoccolma. «Quando mi trovai di fronte al cosiddetto Eli Wiesel», ha ricordato Gruner, «con mio grande stupore ho visto un uomo che non conoscevo affatto, che non parlava nemmeno ungherese nè yiddish, ma l’inglese con un forte accento francese. Sicchè il nostro incontro terminò dopo dieci minuti. Quell’uomo mi diede in regalo un suo libro, intitolato «Night» (Notte) di cui diceva di essere l’autore. Accettai il libro, ma dissi a tutti i presenti che quell’uomo non era la persona che diceva di essere».
Quell’uomo rifiutò di mostrare a Gruner il numero tatuato sul suo braccio. Divenuto sospettoso, Gruner spulciò tutti gli elenchi degli internati di quegli anni: un Elie Wiesel non compariva da nessuna parte. Per di più. Gruner scoprì che il libro che «Wiesel» gli aveva donato e di cui si diceva autore, era una traduzione inglese di un libro scritto in ungherese nel 1955 da Lazar Wiesel – il suo vero e vecchio amico di Gruner – e pubblicato anche in tedesco con titolo «Und di Velt hot Gesvigen».
Il Mondo tacque. Il libro che Wiesel gli aveva dato era una specie di riassunto di quello autentico, riscritto prima in francese poi in inglese, e pubblicato col titolo francese «La Nuit», e in inglese come «The Night», nel 1958. Il libro era stato venduto in 6 milioni di copie, e aveva fruttato a «Elie Wiesel» parecchi milioni di dollari.
Allora Gruner si mise alla ricerca del suo vero amico, Lazar Wiesel: voleva contattarlo, farsi spiegare cos’era successo. Non l’ha mai trovato. Il vero Lazar Wiesel è misteriosamente scomparso, e nessuno ne sa più niente.
«Eli Wiesel non ha voluto più incontrarmi», ha raccontato a suo tempo Gruner, «è un uomo di successo, si fa pagare 25 mila dollari per 45 minuti di conferenza sull’olocausto. Ho fatto una formale denuncia all’FBI di Los Angels su questo caso di falsa identità, l’ho denunciato ai giornali e ai governi in USA e in Svezia. Risultati zero. Ho anche ricevuto minacce di morte per questo, ma io non ho paura. Ho depositato il dossier (sul falso Wiesel) in quattro diversi Paesi: se muoio d’improvviso, essi saranno resi pubblici. Il mondo deve sapere che Elie Wiesel è un impostore; sto per pubblicare un libro che si intitolerà ‘Identità Rubata A-7713’».
Questa storia è stata riportata dai giornali ungheresi: Még mindig kísérti a haláltábor. La traduzione americana è questa: Auschwitz Survivor Claims Elie Wiesel is an Impostor.
Cosa pensare? Elie Wiese il Nobel dice di sè di essere romeno e non ungherese, di aver studiato alla Sorbona, e di essere stato collaboratore di Francois Mauriac. C’è dunque qualche ragionevole dubbio sulla sua identità.
Miklos Gruner e Wiesel compaiono nella più celebre foto sull’olocausto, quella presa dagli americani appena entrati nel lager di Buchenwald, il 16 aprile 1945. Gruner è il ragazzo all’estrema sinistra nella fila in basso, mentre Wiesel è il settimo da sinistra nella fila mediana. Così almeno sostiene Elie Wiesel. Gruner però sostiene che quell’uomo non è nè Lazar, nè Eli Wiesel. Chiunque sia, appare un idividuo sulla trentina, un po’ troppo vecchio per essere Eli Wiesel, che dice di essere nato nel 1928 e dunque, all’epoca aveva 17 anni. Basta fare il confronto con Miklos Gruner, il vero internato, che allora era sedicenne.
Allora, chi è l’Elie Wiesel ascoltato con compunzione da Gianfranco Fini? Piacerebbe chiedere anche: quanto ha voluto essere pagato «Elie Wiesel» per rendere la sua veridica testimonianza?
Sappiamo che «Elie Wiesel» aveva affidato tutti i suoi risparmi, 10 milioni di dollari raggranellati coi suoi libri e una vita di conferenze, al finanziere Bernie Madoff: ed ha dunque perso tutto. Deve rifarsi il gruzzolo?
E soprattutto: dov’è finito il vero Wiesel, Lazar, ungherese, numero di matricola A -7713?
di Maurizio Blondet
FONTE : http://www.effedieffe.com
31.01.2010
http://www.valianti.it/cgi-bin/bp.pl?pagina=mostra&articolo=5324
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Chi vuole eliminare la geografia?
Maurizio Tiriticco, 31.01.2010
Geografia sì, geografia no, geografia così così! Se ne sta discutendo in questi giorni e non so quanto a proposito! Resta o non resta nei programmi di studio? Facciamo un po’ d’ordine. Ci sono due questioni di fondo da cui occorre partire. La prima riguarda la geografia come “materia” di studio scolastico, perché di questo si sta oggi discutendo. La seconda questione riguarda le strategie e le modalità con cui un soggetto in età evolutiva cresce, si sviluppa e apprende, interiorizza le dinamiche spaziali, interagisce con esse e le utilizza ai fini della sua personale “sopravvivenza” nell’ambiente vicino/lontano in cui si trova ad operare e a vivere
Per quanto riguarda la prima questione, va ricordato che una “disciplina” è, in quanto tale, sempre aperta e mai conclusa. Ciò che ieri era o sembrava certo, oggi è messo in seria discussione. In materia geografica, o meglio in materia dei corpi celesti, Tolomeo ha occupato per secoli una scena che Copernico ha poi letteralmente capovolto. Com’è noto, il sole non sorge e non tramonta, anche se ancora oggi i due verbi, pur se scientificamente scorretti, fanno parte del linguaggio comune. Una “materia”, invece, proprio perché destinata all’insegnamento/apprendimento scolastico è qualcosa di definito, di concluso, in quanto a chi cresce e apprende occorre dare elementi semplici ma precisi per quanto concerne l’acquisizione di quei dati su cui il soggetto è tenuto a costruire le sue prime certezze. Di qui discendono i programmi con le indicazioni dei contenuti da trattare e i libri di testo che vi si conformano. Va, comunque, ricordato che oggi l’insegnare per programmi è in crisi, a fronte dell’insegnare per competenze, ma questo è un altro discorso. Torniamo alla “materia” che, quindi, costituisce una necessaria riduzione della disciplina, certamente non un suo impoverimento. Ciò comporta che chi insegna è pur sempre tenuto a sollecitare in chi apprende il gusto e la pratica della ricerca e della scoperta, soprattutto in situazioni laboratoriali e di gruppo: il che rinvia alle strategie dell’insegnare/apprendere e, nella fattispecie, alla didattica della geografia.
Ma la geografia, in quanto materia, deve fare i conti con il soggetto che apprende. Di qui, il passaggio alla seconda questione, più ampia della precedente perché rinvia alle strategie e ai modi del conoscere e dell’apprendere, che sono assolutamente diversi a seconda delle diverse fasce d’età.
Prendiamo in considerazione ciò che accade in un soggetto che cresce e apprende nella prima fase dell’età evolutiva, in cui di fatto si replica nel giro di un tempo relativamente breve ciò che si è verificato nella nostra specie umana in tempi molto lunghi. Il nostro lontano progenitore ha cominciato a “costruire” la sua intelligenza al fine di organizzare ed asservire la realtà circostante in funzione di suoi primari bisogni di sopravvivenza e di riproduzione. E le prime coordinate del Sé attivo e intelligente sono state quelle che riguardano le due dimensioni dello spazio e del tempo. Per quest’uomo non esiste la geografia, non esiste la storia! Esistono, invece, lo “spazio” che lo circonda e che deve riconoscere, organizzare, piegare alle sue necessità, ed il “tempo” con cui memorizzare dati e informazioni del “prima” per prevedere e progettare il “dopo”.
Nel soggetto che nasce, cresce e apprende nella nostra epoca, la costruzione del Sé e le operazioni intellettive ripercorrono la strada di allora, che non dura secoli ma solo i primi anni di vita. Anche le sollecitazioni esterne sono assolutamente diverse: lo spazio naturale è in larga misura sostituito da quello artificializzato, e il tempo è scandito da orologi e calendari. Ma le modalità di costruzione del “prima” e del “dopo”, del “qui” e del “là” non sono diverse da quelle che la nostra specie ha faticosamente imparato a coordinare e organizzare. Il bambino che cresce costruisce la sua identità personale proprio operando sull’incrocio di queste due coordinate, l’asse verticale del tempo (ieri, oggi, domani…) e l’asse orizzontale dello spazio (qui, là, avanti, dietro…). Sull’asse verticale memorizza, archivia ed elabora dati, costruisce concetti, principi, procedure e strategie per agire. Sull’asse orizzontale costruisce concreti rapporti con gli oggetti che lo circondano e con gli altri del gruppo di cui deve condividere tecniche di sopravvivenza e norme e valori di convivenza.
Il susseguirsi degli eventi implementa costantemente l’incrocio dei due assi: l’ hic et nunc e l’illic et tunc si succedono in un divenire continuo ed irripetibile fino a costituire le condizioni stesse del Sè. I fatti sono condizionati e prodotti dallo e nello spazio/tempo. Pertanto, se spazio e tempo sono concettualmente distinguibili – un cronometro non è una carta geografica – operativamente non sono separabili. Ne consegue che la geografia e la storia si condizionano a vicenda; l’una non può fare a meno dell’altra. Cancellare lo studio della geografia significa rendere monco, se non impossibile, anche lo studio della storia.
Stando a queste considerazioni, discende che la distinzione dello spazio e del tempo e della loro organizzazione concettuale in geografia e storia, come materie o come discipline diverse, se non addirittura separate, non ha assolutamente senso, perché chi cresce e apprende le percorre e le costruisce contestualmente né potrebbe avvenire diversamente.
Tornando all’assunto iniziale, se la geografia possa essere penalizzata, in funzione del fatto che si risparmierebbero ore, cattedre e, soprattutto, soldi, va detto con forza che si tratta di un assunto che non sta assolutamente in piedi! La giustificazione didattica consisterebbe nel fatto che oggi, con un mondo globalizzato, con le comunicazioni fisiche e simboliche sempre più intensificate (i trasporti, i media, il web), lo spazio non è più quello di una volta! Si spende meno tempo, e meno soldi, per arrivare da Piazza Venezia a Parigi che per raggiungere un quartiere periferico! Mappe e carte geografiche sono ormai in tutte le edicole e così via! Pertanto, la geografia si apprenderebbe pressoché spontaneamente nel contesto sociale.
Ma non è così! Il problema non è quello della disponibilità “oggettiva” di ciò che un tempo era il lontano, ma della indisponibilità “soggettiva” dei nuovi nati a saper costruire correttamente da soli e senza input corretti le coordinate spaziali. Queste, di fatto, in chi cresce e apprende non si sviluppano e non si implementano se non intrecciandosi con quelle temporali. Nel nuovo nato che cresce e apprende lo spazio non può fare a meno del tempo! E l’educatore avveduto, soprattutto nella scuola dell’infanzia e nella primaria, sa come agire su ambedue le coordinate.
Ne consegue che nella scuola organizzata per materie la geografia non può fare a meno della storia! Chi propone di ridurre o di cancellare la geografia nella scuola dimostra di non conoscere questa circostanza. E’ come se si proponesse di insegnare a leggere e non a scrivere! E non è un caso che ciò è effettivamente avvenuto, quando una volta alle fanciulle delle famiglie bene i precettori insegnavano solo a leggere, ovviamente i libri sacri e quelli di galateo e di buona creanza! Ma non si insegnava a scrivere, perché la scrittura avrebbe sollecitato il pensiero produttivo, e questo è sempre pericoloso, soprattutto quando chi è deputato a pensare è solo e sempre il maschio!
Insomma, oggi, in una scuola orientata a sviluppare competenze, è già difficile parlare di materie distinte l’una dall’altra da ore, cattedre e campanelle, in forza del fatto che solo proposte e progettazioni pluridisciplinari sono in grado di rispondere alle nuove esigenze di un processo di istruzione. E pensare addirittura di cancellare la geografia è da irresponsabili ignoranti!
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14059
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La rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 03.02.2010, particolarmente succosa.
Le aperture
Il Corriere della sera apre con il disegno di legge che prevede il legittimo impedimento: “Giustizia, opposizione divisa. Pd e Idv contro la linea morbida di Casini sul legittimo impedimento”.
“Di Pietro: io con Contrada? Non ho venduto Mani pulita”, il leader dell’Idv risponde alla foto pubblicata ieri in cui, nel ’92, appare a tavola con l’allora funzionario del Sisde arrestato poi per associazione esterna mafiosa.
In prima pagina anche una foto del leader tibetano ed il caso Usa-Cina: “Obama: vedrò il Dalai Lama. L’annuncio e la crisi diplomatica con la Cina”. Ancora: “Berlusconi sull’Iran: chiedo sanzioni forti”; ieri il premier ha paragonato Ahmadinejad ad Hitler e ha ricordato che l’Italia ha sensibilmente tagliato l’interscambio commerciale con l’Iran.
La Repubblica dedica il titolo più grande alle parole del Presidente del consiglio: “Iran, Berlusconi con Israele ‘Servono sanzioni forti’”. In primo piano anche il caso diplomatico internazionale del giorno: “Obama: incontrerò il Dalai Lama. Pechino minaccia la rottura con gli Usa”.
La politica interna: “Dietrofront sulla legge-antipentiti”, Alfano è contrario al ddl che svuota le dichiarazioni dei pentiti. L’economia: “Telecom-Telefonica, il governo frena ma la Borsa ci crede”, da Palazzo Chigi Scajola annuncia che vedrà nei prossimo giorni l’A.D. Bernabè, intanto ieri le azioni Telecom hanno avuto un rialzo del 6%.
In prima pagina anche l’analisi di D’Avanzo “Il Cavaliere, il Vaticano e la congiura contro Boffo”.
La Stampa apre con il titolo “Berlusconi contro Ahmadinejad. Il premier: ricorda personaggi nefasti, per l’Iran servono sanzioni forti”. Anche il quotidiano di Torino mette in primo piano il caso diplomatico Usa-Cina: “Sfida alla Cina. Obama vedrà il Dalai Lama. Il leader tibetano negli Usa a metà febbraio”.
Lo sport con Alonso che in un’intervista dice “Finalmente guido un mito”. La politica interna: Opposizione divisa sulla Giustizia. Legittimo impedimento Casini sceglie l’astensione. Pd e Idv contestano l’Udc”.
Anche oggi il quotidiano dedica spazio al caso del giovane romeno ucciso in strada sabato per una sigaretta negata: “Sgozzato a 15 anni. Presi due fratelli”, hanno 26 e 17 anni e sono anche loro di origine romena.
A fondo pagina “Mal di Morgan”, pezzo sulle dichiarazioni secondo cui il cantante e giurato di X-Factor farebbe uso quotidiano di cocaina.
Il Giornale mette in prima pagina una foto di Morgan e titola: “Morgan choc: <<fumo cocaina ogni giorno>>. Titolo grande per il “caso” Di Pietro: “Fotografato con contrada e 007 Usa. Di Pietro colto sul fatto: ora parli. Perché negò l’incontro? Perché quegli scatti sono stati occultati per anni? Perché non avverti il suo capo, Borrelli? E ancora: perché Tonino fu salvato dall’attentato e Borsellino invece no? Che cosa è stato davvero Mani pulite?”. In prima pagina anche le parole del Presidente del Consiglio: “Berlusconi in Israele: Ahmadinejad come Hitler”. E ancora: “Sotto inchiesta il giudice che decapitò i Mastella”, il pm Mariano Maffei rinviato a giudizio dalla procura di Roma per abuso d’ufficio e calunnia”. Libero dedica l’apertura al “caso” Di Pietro: “Le carte che spaventano Tonino. Il dossier su di Pietro. Foto riservate, assegni, viaggi aerei e dazioni all’Idv: i documenti sul tavolo degli 007”. Belpietro dedica il suo editoriale alle dichiarazioni in tribunale di Massimo Ciancimino: “L’odore dei soldi di don Vito”. In primo piano anche una vignetta con veronica Lario dal titolo “Ma quante belle case, Veronica”, in cui si analizza il patrimonio immobiliare della quasi ex moglie di Berlusconi. Infine un articolo di Socci: “Il killer di Boffo è in Vaticano”.Sulla prima pagina de Il Riformista campeggia una grande foto di Marcello Dell’Utri dal titolo “Don Vito (parte II)”, in riferimento alle dichiarazioni rilasciate ieri in aula da Ciancimino Jr, che accusa il senatore di aver avuto rapporti con la mafia. In prima pagina anche l’economia con le voci di un accordo tra Telecom e Telefonica: “Che male c’è se habla espanol?”. Lo spettacolo: “Così Morgan si fuma Sanremo”, dopo le (presunte?) dichiarazioni del cantante sulle sue esperienze quotidiane con la cocaina, a rischio la sua presenza sul palco dell’Ariston.
Ciancimino.
Ampio spazio su tutti i quotidiani, come abbiamo visto, alle dichiarazioni di Ciancimino junior nel processo Mori, per la mancata cattura del boss Provenzano. Altre accuse a Dell’Utri, scrive La Repubblica: “Teneva contatti con Provenzano”. Sul quotidiano le notizie vengono in qualche modo accostate alla polemica scatenata dalle proposte del senatore pdl Valentino, da cui pure il governo ha preso le distanze per bocca del ministro della Giustizia Alfano: in un’intervista il procuratore aggiunto Ingroia dice: “Il progetto pdl colpo di grazia ai processi su Cosa Nostra”.Il Corriere intervista Marcello Dell’Utri, chiamato in causa da Ciancimino, secondo cui il senatore aveva contattti diretti con Provenzano: “Teorema inesistemte, falsità per guastare il processo”, risponde nell’inntervista Dell’Utri.
Israele, Iran.
La visita di Berlusconi in Israele continua ad essere seguita dai quotidiani.“Berlusconi: sanzioni forti all’Iran”, titola Il Sole 24 Ore.
L’Eni ha annunciato a malincuore a nuovi investimenti in Iran per estrarre petrolio, scrive La Repubblica in un dossier intitolato: “Stop agli investimenti in gas e petrolio, così gli affari si piegano alla politica”. Per la prima volta -scrive ancora il quotidiano- Berlusconi, oltre a paragonare il presidente Ahmadinejad ad Hitler, ha dichiarato apertamente che “è nostro dovere sostenere e aiutare l’opposizione in Iran”.E ad uno dei leader dell’Onda verde, il candidato Mousavi, dedica attenzione Il Sole 24 Ore dando conto delle sue dichiarazioni: “Rivoluzione fallita, Teheran come ai tempi dello shah”.Anche su La Stampa: “Mousavi: ‘Oggi è dittatura. La rivoluzione è finita’”. “Un Cav. Tutto israeliano”: così viene intitolata una intera pagina de Il Foglio dedicata alla visita del presidente del Consiglio. Tre articoli da segnalare: “Cosa c’è scritto nel dossier che Gerusalemme presenta agli alleati. Berlusconi vuole ‘sanzioni forti’ contro Teheran e fa il tifo per l’opposizione al regime. La visita di Panetta e il punto debole iraniano”; “Ecco il lauto giro d’affari Italia-Iran, ma si intravede il calo. Dall’Eni alla Sace, ci sono segnali di disinvestimento a Teheran. I timori israeliani per le nostre forniture ‘non civili’ ai pasdaran”; “Il regime iraniano accusa gli oppositori di essere ‘come gli ebrei’. A Teheran l’ayatollah teologo dei Guardiani rispolvera l’antisemitismo islamico medievale per condannare e impiccare i manifestanti”.
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Telecom-Telefonica, più che un matrimonio una svendita
Red, 02.02.2010
Il governo si affretta a smentire le indiscrezioni che parlano di un sostanziale accordo. Giovedì 4 febbraio, il ministro dello Sviluppo Economico incontrerà l’amministratore delegato Telecom, Franco Bernabé. Bersani: quella di Palazzo Chigi non è una smentita, vigiliamo. Le voci di fusione fanno decollare il titolo del gruppo italiano in borsa. Consob accende i riflettori
Matrimonio alle porte tra Telecom e Telefonica. La voce che gli spagnoli stiano per mettere l’anello al dito all’ex Sip in vista della nascita di un colosso europeo delle tlc rimbalza da prima di Natale. Ma in queste ore, complice le indiscrezioni di stampa, sembra che il dossier (che prevederebbe la proprietà iberica e il mantenimento della governance italiana) stia davvero per arrivare sui tavoli del Palazzo.
Giovedì 4 febbraio, intanto, il ministro dello Sviluppo Economico incontrerà l’amministratore delegato Telecom, Franco Bernabé, per avere lumi e soprattutto chiedere garanzie. E fino ad allora rispedisce al mittente le voci di una fusione “non più evitabile” Telecom-Telefonica con il benestare di Palazzo Chigi in cambio di “condizioni e paletti”. “Non c’è nessun parere favorevole del Governo. Solo molte parole, molte dichiarazioni, troppe” ha chiosato Scajola. “Nessun incontro, nessun contatto, nessun paletto”, la presa di distanza ufficiale da parte dell’esecutivo.
Prese di distanza che però non convincono l’opposizione. Il responsabile Comunicazioni del Pd, Paolo Gentiloni, ha presentato stamane un’interrogazione ai ministri Tremonti e Scajola proprio sull’affaire Telecom. Pierluigi Bersani promette un Pd “in attesa vigile”: “Le ipotesi che girano non garantiscono il radicamento nazionale di una struttura delicatissima come la rete Telecom, non danno garanzie sul quel profilo lì” spiega il segretario democratico conversando con i giornalisti e poi aggiunge: “E’ difficile pensare che uno paga per comprare una cosa, ma poi comanda un altro…”.
Per Jacopo Venier, responsabile Comunicazione del PdCI – Federazione della sinistra, la smentita di Palazzo Chigi in realtà “è la conferma del via libera del Governo Berlusconi alla svendita a multinazionali straniere di un altro pilastro strategico della nostra economia”. “Dopo aver regalato Alitalia ad AirFrance ora si preparano a consegnare Telecom nelle mani degli spagnoli di Telefonica – accusa l’esponente della sinistra -. L’Italia è diventata terra di conquista di quei settori strategici che un tempo erano nelle mani dello Stato e che garantivano l’autonomia economica e tecnologica del nostro Paese. Siamo di fronte al fallimento di quelle privatizzazioni che dovevano servire ai consumatori e che invece sono state solo lo strumento per enormi speculazioni con il benestare della politica. E’ inutile abbaiare alla luna, servirebbe un piano per riportare lo Stato nel controllo reale dei settori economici fondamentali, a partire proprio da quello delle telecomunicazioni”.
E anche dai banchi del centrodestra c’è chi mette le mani avanti. “La gestione della rete e il suo sviluppo restino italiane”, chiede Maurizio Gasparri. “Nessun contatto” ribadisce il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani. “Siamo preoccupati che una governance non italiana possa decidere di non investire sulla Rete, su questo il governo sta facendo e farà un grosso sforzo”.
Eppure la Borsa festeggia il matrimonio (titolo guadagna oltre il 5 per cento a 1,13 euro con il 10 per cento del capitale ordinario passato di mano), gli azionisti sono in fibrillazione, la Consob si cautela: oltre a interpellare l’esecutivo, che ha prontamente diffuso la sua nota, la Commissione di controllo sulla Borsa ha avviato tutti gli accertamenti a 360 gradi, in primo luogo sull’operatività sul titolo, a cominciare ovviamente da chi ha comprato e chi ha venduto, o su chi sono gli intermediari più attivi e per conto di chi operano. Già due volte nelle settimane passate, in presenza di indiscrezioni di stampa che indicavano per Telecom un futuro nelle mani di Telefonica, la Commissione era intervenuta sugli azionisti italiani di Telco (il 5 gennaio e 22 gennaio) e (sempre il 22 gennaio) attraverso la Cnmv (la Consob spagnola, ndr) anche su Telefonica.
Intanto gli analisti spagnoli – soprattutto guardando ai tanti nodi politici che verrebbero al pettine del nuovo colosso tlc – si dicono scettici.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14079
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Telecom Italia in cinque atti 02.02.2010
Atto primo: Telecom Italia patteggia per le intercettazioni eseguite su migliaia di italiani sotto la gestione Tronchetti. Un obolo, solo 7 milioni. Negli Stati Uniti Telecom avrebbe fatto causa a Tronchetti e a Buora che sarebbero in galera con Tavaroli e Cipriani.
Atto secondo: il tronchetto diventa presidente di Mediobanca, la più importante banca d’affari del Paese. Per uno che ha ridotto la Telecom in cenere è il posto giusto per finire il lavoro. Consigliere di amministrazione di Mediobanca rimane sempre Marina Berlusconi, presidente di Mondadori, ottenuta dal padre grazie alla corruzione dei giudici.
Atto terzo: il plurimputato Cesare Geronzi diventa presidente delle Assicurazioni Generali con il supporto di Berlusconi. Le Assicurazioni Generali sono una potenza economica, la prima assicurazione italiana con partecipazioni nazionali e internazionali ovunque.
Atto quarto: Telecom viene venduta a Telefonica, la società di telecomunicazioni spagnola. Tecnicamente è una fusione, in pratica è una cessione. Prima della svendita del merchant banker D’Alema ai capitani coraggiosi Colaninno e Gnutti, che acquistarono l’azienda a debito, era Telecom che poteva comprare Telefonica. 10 anni dopo il Paese è andato a puttane e il rapporto Telecom/Telefonica si è invertito anche grazie al tronchetto che vendette parti strategiche e assett di Telecom uno dopo l’altro, persino a sé stesso come avvenne con gli immobili ceduti a Pirelli Re Estate e invece di usare i dividendi per ridurre il debito e fare investimenti, li incassò insieme ai soci uniti a favolose stock options. Telecom ha oggi una capitalizzazione di 14,5 miliardi contro gli 83 di Telefonica. Il suo titolo è precipitato negli ultimi 8 anni e ha debiti per 35 miliardi di euro, quasi pari al fatturato. Insomma deve vendere per non fallire.
Atto quinto: Telefonica non potrà disconoscere il patteggiamento di Telecom per le intercettazioni (arrivato un istante prima dell’annuncio della fusione…) e il tronchetto non avrà più nulla da temere.
Tutto previsto, i cialtroni hanno questo di bello: sono prevedibili. Anticipai la vendita a Telefonica il 4 agosto 2008. Era l’unico possibile salvagente per non mettere in liquidazione l’azienda e sulla strada 70.000 persone.
Lo scrissi anche a Franco Bernabè il 16 dicembre 2008 : “Lei sa bene chi ha distrutto il valore della Telecom. Conosce i nomi dei responsabili, dei politici e degli imprenditori con le pezze al culo. Non completi la loro opera. Li denunci, chieda loro un cospicuo risarcimento in qualità di amministratore (le carte le ha), venda a Telefonica (tanto prima o poi succederà) e si ritiri nella sua Vipiteno.”
Bernabè rispose il 23 dicembre 2008 in una lettera in cui diceva: “Il mio obiettivo è di fare di Telecom Italia quello che avrebbe già dovuto essere dopo 10 anni di liberalizzazione: l’asse portante della modernizzazione di questo Paese. Il resto lo lascio alla Magistratura, per ciò di cui è competente, e agli Azionisti, che stanno supportando questo sforzo anche loro non senza sacrifici. Quindi mi spiace deluderla, non venderò a nessuno, e soprattutto voglio ritirarmi a Vipiteno, o magari altrove se lei me lo consente, solo quando avrò finito il mio lavoro.”
Ecco, ora che ha finito il suo lavoro (quale?), che i precedenti amministratori sono liberi, ricchi, impuniti e promossi e che Telecom sarà venduta (guarda caso) a Telefonica, è veramente giunto il momento di ritirarsi a Vipiteno.
http://www.beppegrillo.it/2010/02/telecom_italia_in_cinque_atti/index.html?s=n2010-02-02
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Firma la petizione per l’impedimento della chiusura delle sedi Rai di Beirut, il Cairo, Nairobi, Nuova Delhi e Buenos Aires e il canale Rai Med!
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3/2/2010 – TECNOLOGIA. DOPO L’ASTRONAVE “SPACESHIP TWO” PER ANDARE IN ORBITA IL TYCOON INVENTA IL TURISMO DEGLI ABISSI
L’aereo per scoprire gli oceani
Il nuovo sottomarino jet di Branson: così agile da inseguire i delfini
MAURIZIO MOLINARI
Un aereo sottomarino per inseguire balene e delfini, immergendosi nelle profondità degli abissi descritti da Jules Verne, ma con in più i comfort del XXI secolo: è questo l’ultimo gioiello di Richard Branson.
Il miliardario britannico che ha già inventato i voli Upper Class di Virgin Atlantic, dove tutti i posti sono di business, e che nel 2009 ha testato nel deserto californiano del Mojave la «SpaceShipTwo», destinata a portare nel cosmo turisti in grado di pagare biglietti da 200 mila dollari, adesso offre ai più ricchi del Pianeta un altro avvincente svago da guinness. L’aereo sottomarino si chiama «Necker Nymph», il prototipo è costato 664 mila dollari ed è destinato ad essere posizionato nella Necker Island, l’isolotto nell’arcipelago delle Virgin Islands che Branson possiede integralmente e dove ha costruito un complesso di ville dove il lusso sconfina nella fantasia. L’idea di Branson è di offrire ai suoi clienti vip un pacchetto così composto: 88 mila dollari per sette notti sul catamarano «Necker Belle», attraccato nel porticciolo dell’isola, oppure 300 mila per una settimana nelle ville sull’isola per poter avere la possibilità di pagarne altri 25 mila per ogni immersione della durata di 120 minuti con l’aereo sottomarino, sul quale possono prendere posto due persone accanto al pilota.
La «Ninfa di Necker» al momento è in grado di immergersi per un massimo di 40 metri sotto la superficie, ma Branson assicura che l’obiettivo è perfezionare motori, propulsione, velocità e pressurizzazione dell’abitacolo per poter scendere fino a migliaia di metri di profondità. Riuscendoci, i passeggeri potrebbero osservare con i loro occhi alcune delle creature più misteriose della fauna marina. Se «SpaceShipTwo» consentirà di guardare la Terra dal di fuori, «Necker Nymph», invece, offrirà la visione dalle profondità del Mar dei Caraibi e dell’Oceano Atlantico.
L’aereo è realizzato in fibre ottiche, dispone della tecnologia-base che distingue i jet militari di ultima generazione e ciò di cui gli ingegneri di Virgin vanno più fieri è il sistema di immersione basato su due «ascensori verso il basso», posizionati sotto le piccole ali laterali che ricordano la tecnica degli aerei a decollo e atterraggio, verticale. Ciò significa che chi vi salirà a bordo avrà la sensazione di essere su un aereo da caccia, soltanto che il volo avverrà sott’acqua ad una velocità compresa fra 2 e 5 miglia nautiche, con il pilota che «decollerà verso il basso, adoperando la superficie dell’acqua come una pista d’aeroporto e controllando i comandi con un joystick come quello delle comuni Playstation», si legge in un comunicato del costruttore.
Inoltre i due posti per i turisti – a destra e sinistra del pilota – sono attrezzati per consentirgli di sentirsi come se fossero seduti su una poltrona di business di Virgin Atlantic: potranno distendersi, fare fotografie e ci saranno anche degli schermi digitali per avere una visione a tutto tondo di quanto avviene attorno al velivolo, ripreso da alcune microtelecamere digitali. Dovranno solo indossare delle normali maschere da sub e a bordo della «Ninfa» ci saranno le bombole d’ossigeno. «The Nymph è un veicolo di tipo completamente nuovo – spiega al londinese “Daily Mail” Karen Hawkes, portavoce dell’americana Hawkes Ocean Techologies che lo ha realizzato – perché è stato ideato per immergersi nelle acque tropicali. Non si tratta di un sottomarino tradizionale, ma di un vero e proprio aereo che, muovendosi, è agile al punto da poter inseguire le balene, modificando con grande rapidità la rotta e offrendo ai passeggeri una visione a 360 gradi». L’unica condizione da rispettare per i passeggeri sarà quella di sottoporsi ad un breve corso da sub per essere in grado di lasciare in fretta il «Necker Nynph», se qualcosa dovesse andare storto.
Branson assicura che a partire dal 20 febbraio sarà possibile per gli ospiti del suo resort di prenotare i primi «voli sottomarini» e promette «visioni uniche» di flora e fauna, nonché dei «relitti di galeoni» che abbondano sui fondali dei Caraibi, a qualsiasi profondità. Il tutto ovviamente – assicura Branson – «sarà eco-compatibile, perchè il basso livello di luce e di emissioni acustiche è stato realizzato per assicurare il minimo impatto ambientale». L’aereo-sub, inoltre, è progettato per sfiorare e «non poter atterrare sulle barriere coralline».
I costruttori californiani ritengono che il turismo di lusso sarà però solo il trampolino di lancio dell’aereo-sottomarino, le cui caratteristiche «lo rendono idoneo anche a girare film, contribuire a ricerche scientifiche e a progetti industriali».
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Il punto di vista (!) di Lyndon LaRouche, la newsletter di http://www.movisol.org/ del 02.02.2010
LaRouche espone l’agenda in vista della “fine dell’amministrazione Obama”
Nella sua teleconferenza (webcast) del 30 gennaio da Washington, Lyndon LaRouche ha esposto la prospettiva per evitare al mondo la minaccia di una Nuova Epoca Buia, dopo la “fine dell’amministrazione Obama”. Sia nell’intervento introduttivo che nel dialogo con i partecipanti, egli ha ripetutamente sottolineato la necessità di rimuovere gli ostacoli, tra cui il Presidente Obama, per condurre gli Stati Uniti, con le sue uniche caratteristiche storiche positive, nell’alleanza che si sta formando tra Russia, Cina e India, verso un futuro orientato allo sviluppo ad alta tecnologia.
Nella sua esposizione, LaRouche si è avvalso di una mappa mondiale divisa in tre aree evidenziate con diversi colori, a mostrare la divergenza di orientamento economico, soprattutto per quanto riguarda la politica energetica, tra le nazioni dell’Asia-Pacifico e le nazioni Atlantiche, in particolare l’Europa occidentale. Ha descritto così il concetto:
“Ora, ho disegnato tre aree caratteristiche, con tre tipi di direzione politica. Una è in Asia. L’Asia si muove con investimenti pesanti e accelerati nell’energia nucleare – sia i reattori comuni a uranio, che quelli a plutonio e torio, e i derivati di queste tecnologie, compresi i reattori autofertilizzanti. C’è un’accelerazione di energia ad alta densità di flusso in tutto il mondo.
“Il gruppo opposto, quello del nucleo duro verde, ha ripudiato l’alta tecnologia per la propria popolazione [sulla carta, l’Europa centrale e occidentale colorata in verde]. Queste nazioni hanno scelto come energia i mulini a vento e i pannelli solari, che è la dottrina degli idioti, come spiegherò”.
“Poi c’è un’area intermedia, quella marrone [Nordamerica, Africa e Medio Oriente, Australia e parti del Sudamerica], in cui la situazione, in termini della politica e delle tendenze attuali, è senza speranza”.
“In altre parole, la sorte dell’Europa occidentale, all’incirca a occidente del confine con la Bielorussia, è attualmente segnata. E la fine sta arrivando oggi! Per esempio, l’Unione Europa è una colonia dell’Impero Britannico. Cioè, ogni nazione membro dell’Unione Europea è un fantoccio e una semplice colonia dell’Impero Britannico, del sistema britannico. Non vi è libertà e non vi è sovranità.”
Il problema è che il blocco “rosso” non ha abbastanza potere per condurre il mondo fuori dalla sua crisi terminale. Perché accada, gli Stati Uniti devono essere portati ad aderire ad una missione mondiale, che LaRouche ha descritto nel modo seguente:
“Dobbiamo condurre gli Stati Uniti attraverso il Pacifico verso le nazioni dell’Asia – dimenticate l’Atlantico, che ora è un’area problematica – in Siberia, Cina, Corea del Sud, Giappone, India e così via, e sulla sponda africana dell’Oceano Indiano. Una volta fatto ciò, possiamo muoverci! Possiamo costruire una rete internazionale di sistemi ferroviari a levitazione magnetica che collegheranno tutti i continenti tranne l’Australia. E questa è la via che volevano percorrere John Quincy Adams e i suoi seguaci nella traduzione americana.”
La crisi del debito sovrano si allarga
Nonostante l’intervento della “mano invisibile” della BCE per salvare i titoli di stato greci il 25 gennaio, attraverso un acquisto da parte di banche private, la crisi del debito sovrano nell’Eurozona continua ad allargarsi. Un’ondata massiccia di speculazione investe i titoli greci, spagnoli, portoghesi e irlandesi, provocando un aumento quotidiano nel loro spread, considerato in relazione al rendimento delle obbligazioni di stato tedesche. Questo significa che aumenta il costo del rifinanziamento di quel debito. La Grecia è riuscita a collocare l’ultima emissione, ma solo offrendo un rendimento annuale del 6,2%. Il paese non può sostenere a lungo quei costi del debito.
Come nel 1992, quando George Soros guidò l’attacco speculativo contro la sterlina inglese e la lira italiana, gli speculatori scommettono al ribasso sulle obbligazioni greche, spagnole, portoghesi, irlandesi e italiane (il gruppo di paesi che i razzisti britannici chiamano “PIIGS”). Tutti questi paesi, salvo l’Italia, hanno un deficit tra 6 e 10 punti sopra il limite del 3% imposto dal trattato di Lisbona. È praticamente impossibile ridurre questi livelli, come viene invece richiesto dall’Unione Europea; farlo significherebbe ricorrere a prestiti dall’esterno, la cui emissione è vietata in condizioni normali per gli Stati Membri e per la BCE.
Tuttavia, l’UE ha deciso che, per salvare l’euro, questi paesi devono essere distrutti. Francia e Germania stanno preparando un pacchetto di salvataggio, da essere varato a condizione che la Grecia distrugga la propria economia. La prossima della serie è la Spagna. Con un deficit dell’11,4%, per la prima volta lo spread sulle obbligazioni di stato spagnole ha superato quello sulle obbligazioni italiane la scorsa settimana.
Anche i titoli di stato triennali italiani hanno sofferto la scorsa settimana, e il governo ha deciso di venderne una quantità leggermente minore per evitare di pagare un sovrapprezzo. Il deficit italiano è relativamente basso, circa il 5%, ma il debito è il terzo nel mondo, 115% del PIL. Il deficit del Portogallo è al 9,3%, quello dell’Irlanda all’11,5%. La decisione folle di perseguire la riduzione del deficit nella tempistica dettata dall’UE – entro il 2011-2013 – fornisce agli speculatori un parametro di riferimento, e potendo utilizzare i derivati dispongono di una leva finanziaria superiore a quella degli stati sotto attacco. Ironicamente, le munizioni stesse vengono fornite dalla BCE, che accetta i titoli di stato come garanzia per le emissioni di contanti!
Cina e India puntano alla Luna e da lì su Marte
La dinamica di progresso economico e tecnologico che è venuta a caratterizzare la regione Asia-Pacifico, in forte contrasto con le fantasie da “green economy” che dominano le nazioni deindustrializzande della regione Atlantica, si riflette negli ambiziosi programmi di esplorazione dello spazio perseguiti da Cina e India.
Il programma di esplorazione lunare della Cina è stato presentato l’11 gennaio dallo scienziato capo del progetto, Ouyang Ziyuan, alla consegna del premio della Scienza e Tecnologia nazionale per il “Progetto Sonda Lunare”. La sonda Chang’ e-2, che sarà lanciata alla fine dell’anno, è il preludio a una serie di voli che comprendono anche prove di allunaggio e la localizzazione della zona dove alluneranno le future navicelle.
“Non solo l’astronave cinese può raggiungere la luna, ma può anche allunare, gettando una solida base per le future missioni di andata e ritorno e per il volo umano”, ha detto Ouyang Ziyuan. La costruzione di basi sulla luna sarà orientata verso l’esplorazione di altri pianeti, ma queste basi serviranno anche ad assicurare le forniture di energia per la terra nel futuro. Infatti, mentre sulla terra c’è poco più di 10 tonnellate di Elio-3, ha spiegato Ouyang, la superficie lunare nel contiene circa un milione di tonnellate. L’Elio potrebbe essere estratto e usato come combustibile per gli attuali reattori nucleari, ma anche per i futuri reattori a fusione. Per soddisfare l’attuale fabbisogno energetico della Cina occorrerebbero solo 8 tonnellate di Elio-3, mentre per ottenere l’equivalente di energia col petrolio ne occorrerebbero 220 milioni di tonnellate e col carbone un miliardo! “Il carbone, il petrolio e il gas naturale prima o poi si esauriranno, per cui vale la pena considerare lo sfruttamento delle risorse sulla luna per sostenere lo sviluppo sulla terra”, ha detto Ouyang.
La base lunare è considerata come centro per l’esplorazione dello spazio, e quindi pullulerà di ingegneri, geologi, astronomi e biologi. Il terreno è stato già preparato dalla sonda indiana Chandrayaan-1, che ha compiuto numerosi esperimenti di mineralogia. L’ex presidente dell’ente spaziale indiano, l’ISRO, Madhavan Nair, ha dichiarato che la base lunare “sarà la frontiera per l’esplorazione dell’universo”.
La prossima sonda lunare, Chandrayaan-2, che sarà lanciata nel 2013, è prevista allunare e sbarcare un veicolo telecomandato sulla superficie. L’ISRO sta pianificando anche una missione umana. L’attuale capo dell’ISRO, K. Radhakrishnan, ha dichiarato che gli scienziati di tutto il mondo parlano di missioni e colonie umane sulla luna entro il 2030, suggerendo che l’India non si trova indietro. “Il primo programma spaziale umano dell’India, che prevede di lanciare due astronauti in orbita terrestre, dovrebbe essere pronto tra circa sei anni”.
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Internet-bavaglio? No, grazie! Stoppiamo il decreto del Governo sugli audiovisivi
PckNews del 04.02.2010
Appello di PeaceLink ai parlamentari e ai cittadini della Rete
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Rischia di entrare in vigore una normativa che sta allarmando i gestoridei siti web e gli stessi Internet provider che potrebbero essereincaricati di doveri di controllo preventivo e di rettifica dei contenutiaudiovisivi, non previsti dalla direttiva europea.
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Siamo preoccupati per l’imminente varo del decreto legislativo con cui ilgoverno intende dettare nuove norme sulla comunicazione audiovisiva sulweb.
Tali norme, così come sono attualmente formulate, rischiano di porre“sotto tutela” questo settore strategico per la libertà di espressionemultimediale.
Il governo coglie infatti l’occasione del “dovere di recepimento” di unadirettiva europea (la 2007/65/CE) per sconfinare su questioni cheattengono alla libertà di comunicazione su Internet e per varare norme assai discutibili di “controllo preventivo” sui contenuti, norme chedebordano dai fini della direttiva europea stessa.
Lo schema di decreto legislativo di attuazione è stato approvato dalConsiglio dei ministri ed è stato inviato alle Camere nel mese didicembre. E’ ora al vaglio delle commissioni competenti della camera dei deputati e del senato, che stanno per esprimere il loro parere.
In pochi giorni rischia così di entrare in vigore una normativa che staallarmando i gestori dei siti web e gli stessi Internet provider chepotrebbero essere incaricati di doveri di controllo preventivo e di
rettifica dei contenuti audiovisivi, non previsti dalla direttiva europea.
Le nuove norme del governo prevedono un futuro regolamento collegato ainuovi limiti e divieti relativi al diritto d’autore (e quindi sarannopreviste nuove sanzioni). Ma già lo stesso schema stabilisce sanzioni
pecuniarie fino a 150 mila euro nel caso in cui non si dia seguito aordini amministrativi sul punto (art. 6).
Non è difficile vedere in tutto ciò un sottinteso intento di controllorestrittivo delle nuove potenzialità audiovisive del web con cui icittadini stanno gestendo la comunicazione su Internet. I cittadini che
montano, elaborano e condividono immagini, filmati, suoni, informazioniper finalità sociali e anche didattiche, rischiano di diventare oggetto dicontrollo preventivo da parte degli stessi siti web e dei fornitori di servizi Internet, che finiscono per assumere responsabilità di garanzia everifica che non competono loro ad esempio nel campo del diritto d’autore.
Ecco perché PeaceLink fa appello ai parlamentari e al “popolo di Internet”affinché:
a) sia fermato l’iter del decreto legislativo al fine di compiere unadiscussione più attenta e allargata;
b) sia “depurato” il decreto da quelle norme restrittive e di controllodella comunicazione audiovisiva via web che non sono attuazione delladirettiva 2007/65/CE;
c) in particolare sia rivisto l’articolo 6 sulla “protezione del dirittod’autore” che si applica “indipendentemente dalla piattaforma utilizzataper la trasmissione dei contenuti audiovisivi”.
Lanciamo un appello a tutti i parlamentari in difesa della Costituzioneperché sia scongiurato il rischio che il decreto del governo sicaratterizzi per un eccesso di poteri. Non si può’ legiferare, infatti, in assenza del consenso del parlamento, che ha delegato solo l’attuazione dinorme previste dalla direttiva sui media audiovisivi. Introdurre conquesto decreto legislativo norme che la direttiva e il parlamento non
hanno previsto, modificando in pochi giorni sistemi normativi cosìcomplessi (sulla televisione, sul cinema, sul diritto d’autore) sarebbeincostituzionale.
Se il governo intende legiferare con questo strumento – introducendo normerestrittive e di controllo che la direttiva europea esplicitamente escludeper i siti web – agirà quindi contro la Costituzione.
Se invece questo non è l’intento del governo, chiediamo che scriva achiare lettere nello schema del decreto legislativo che i siti web e i fornitori di servizi Internet non sono in alcun modo toccati dalle nuove
norme sulla comunicazione audiovisiva e dalla revisione del testo unico della radiotelevisione che il decreto legislativo va a modificare inserendo nuove definizioni tecniche e terminologiche (come “piattaforma per la trasmissione dei contenuti audiovisivi”) all’interno delle quali è facile contemplare anche i servizi Internet in qualche modo collegati almondo audiovisivo.
E’ auspicabile pertanto una revisione e condivisione democratica dellenuove norme sulla comunicazione audiovisiva mediante le nuove tecnologie, e ciò deve avvenire con il consenso e non “contro” quella società civile che utilizza il web per la comunicazione audiovisiva.
— PICCOLA FAQ PER INQUADRARE IL PROBLEMA –
Ma da cosa nasce e cosa prevede la nuova direttiva europea?
L’avvento di nuove tecnologie che affiancano la TV tradizionale ha spinto
le autorità europee a definire, tramite un’apposita direttiva, uncomplesso minimo di norme coordinate da applicare a tutti i servizi di media audiovisivi. Tale direttiva è la 2007/65/CE che modifica la precedente direttiva comunitaria 89/552/CEE.
Perché e su che basi sta intervenendo il governo?
Il Parlamento (con una legge che ogni anno si occupa delle direttiveeuropee da recepire) ha delegato l’attuazione di questa direttiva al governo, che quindi in questi casi recepisce i criteri fissati dal parlamento e prepara un decreto legislativo, il cui iter prevede l’esame del testo in sede consultiva (l’espressione di pareri) da parte di alcune commissioni parlamentari e poi la definitiva approvazione.
– Cosa prevede lo schema di decreto legislativo del governo?
Questo schema modifica a fondo il sistema di norme (testo unico) sulla televisione, che in sostanza (compresi gli obblighi e la necessità di chiedere alcune autorizzazioni) verrebbe a riferirsi d’ora in poi non più
all’assetto del sistema radiotelevisivo e alle trasmissioni televisive, ma alla prestazione di servizi di media audiovisivi e di radiofonia – lineari e a richiesta – “su qualsiasi piattaforma di diffusione”. L’art. 6 dello
schema del decreto legislativo si occupa di protezione del diritto d’autore: i fornitori di servizi di media audiovisivi si devono astenere dal trasmettere o ritrasmettere, o mettere comunque a disposizione degli
utenti, su qualsiasi piattaforma programmi o parti di tali programmi senza il consenso dei titolari.
– Perché questo schema rischia di debordare dalla normativa europea?
La direttiva 2007/65/CE specifica testualmente che essa “non dovrebbe comprendere le attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di
contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio
nell’ambito di comunità di interesse”. La direttiva intende inoltre “escludere tutti i servizi la cui finalità
principale non è la fornitura di programmi, vale a dire i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale. È il caso, ad esempio, dei siti internet che contengono elementi audiovisivi a titolo puramente accessorio, quali elementi grafici animati, brevi spot pubblicitari o
informazioni relative a un prodotto o a un servizio non audiovisivo”. La direttiva specifica ancora che nessuna sua disposizione “dovrebbe obbligare o incoraggiare gli Stati membri a imporre nuovi sistemi di
concessione di licenze o di autorizzazioni amministrative per alcun tipo di servizi di media audiovisivi”.
In queste dichiarazioni è chiarissima la finalità di evitare conseguenze quali quelle che si stanno delineando.
– A parte i problemi di compatibilità con la direttiva 2007/65/CE, lo Stato italiano è libero di intervenire su Internet?
Lo schema del decreto legislativo del governo non solo entra in contrasto con la direttiva 2007/65/CE che intende attuare, ma sembra in contrasto anche con la direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico e altri
servizi della società dell’informazione (e con il decreto di attuazione, ossia il D.Lgs. 70/2003, in particolare artt. da 14 a 17) che vieta di introdurre un obbligo di vigilanza – attraverso la previsione di
responsabilità – da parte di soggetti che non forniscono contenuti ma li veicolano (era già chiaro nel 2000 che sarebbe stato impensabile imporre un tale obbligo). La nuova normativa obbligherebbe alla preventiva
rimozione di contenuti che si ritiene violino le normative sul diritto d’autore, con rischi di sanzioni che, per ora, possono arrivare a 150.000 euro. Sorgerebbero anche numerosi problemi d’interpretazione e
contenziosi.
Non è superfluo sottolineare che, si legge nella 2007/65/CE, “ai fini della presente direttiva, la definizione di fornitore di servizi di media dovrebbe escludere le persone fisiche o giuridiche che si occupano solo
della trasmissione di programmi per i quali la responsabilità editoriale incombe a terzi”.
– Quali sono le preoccupazioni del mondo Internet?
Secondo AIIP (Associazione Italiana Internet Provider) il testo proposto alle Camere non sarebbe conforme alle disposizioni della Direttiva europea perché estendendo alla totalità di Internet alcuni principi della
comunicazione televisiva, supera nei fatti le intenzioni del Legislatore comunitario che non intendeva certo mettere “sotto tutela” l’intera Rete né, tantomeno, negare l’applicazione della Direttiva Commercio
Elettronico.
Non solo. Persino Google, per esempio, teme di essere considerata, sulla base del nuovo decreto legislativo del governo, alla stregua di una “emittente televisiva”, come hanno spiegato i suoi consulenti italiani
dichiarando la loro preoccupazione.
Ma problemi, dubbi e confusione toccherebbero infine ogni utente di Internet, inserendo nello spazio Internet elementi e fattori di diffidenza e litigiosità.
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Pancho Pardi: “L’8 per mille ai disoccupati” 01.02.2010
Un operaio di 35 anni in cassa integrazione prende l’auto e si allontana da casa. In una piazzola di sosta si ferma, si rovescia addosso una tanica di benzina, la rimette in auto e poi si dà fuoco. Muore dopo poche ore tra le sofferenze atroci che toccano agli ustionati. Alla moglie, che avrà condiviso lo smarrimento per la sicurezza svanita, tocca di colpo e senza preavviso il peso della scelta suicida.
In Francia sono ormai svariate decine i suicidi tra i licenziati di France Telecom. Ognuno avrà avuto la sua motivazione personale.
Ma in tutti i suicidi per mancanza di lavoro e reddito si impone un elemento comune, a dispetto di tutte le differenze individuali. A chi lo sceglie il suicidio appare come l’unica forma possibile di rivolta individuale contro l’ingiustizia.
La precarietà è già all’origine il prodotto della solitudine. Proprio perché ognuno è ridotto fin dall’inizio alla sua singolarità, il mercato può imporgli l’assenza predeterminata della lotta collettiva. Il precario non potrà essere un soggetto singolo che arricchisce una forza comune, da dividere e irrobustire insieme con altri. Il precario è privato per definizione delle risorse che scaturiscono dalla solidarietà consapevole e militante. Gli resta dunque la rivolta estrema.
Così, come quasi nessuna delle vittime dell’usura decide di uccidere l’usuraio e finisce per uccidere sé stessa e, magari, la propria intera famiglia, allo stesso modo la vittima della mancanza di lavoro e reddito rivolge con le proprie mani contro di sé la violenza immanente che l’aveva già condannato all’impotenza.
Consigliare alle vittime una speranza impossibile è retorica ipocrita. Chi vuole incoraggiare la speranza indichi obbiettivi realistici.
Proponiamo l’8 per mille a favore dei disoccupati.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/pancho-pardi-l8-per-mille-ai-disoccupati/
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Perché la Cina vincerà la Quarta Guerra Mondiale (!Mah) 27.01.2010
Di Michele Santini
La seconda “lunga marcia”, questa volta della Cina in quanto potenza, ovvero la sua partecipazione alla grande contesa mondiale che decide quali saranno i futuri assetti ed equilibri mondiali, se disturba il sonno degli americani, occupa oramai un grande spazio negli scaffali delle librerie di ogni angolo del mondo. Esistono oramai, soprattutto in lingua inglese, centinaia di pubblicazioni che tentano di decifrare l’enigma cinese e di prevederne il futuro. Due sono le grandi scuole di pensiero. La prima ritiene che la Cina sia destinata a diventare, in un paio di decenni, la prima super-potenza mondiale, prendendo il posto degli USA; la seconda, al contrario, considerando insanabili i contrasti interni al gigante asiatico, ne prevede un crollo, con tanto di esplosione sociale cataclismatica, prima o poi.
Santini appartiene alla prima scuola. Non solo questo, egli si spinge ad auspicare questo sorpasso cinese come salvifico per il mondo intero, considerando dal punto di vista geo-politico “l’imperialismo” cinese come “progressivo”. Un punto di vista controverso, che come antimperialisti non condividiamo. Tre sono le questioni. Anzitutto: siamo sicuri che l’impero americano accetti la sua retrocessione? Sarebbe la prima volta che una potenza imperialista lascia lo scettro del predomino ad un’altra senza ricorrere al redde rationem della guerra. In secondo luogo: siamo proprio sicuri, nel caso la Cina diventi in futuro il perno di un nuovo ordine mondiale, che questo avrà natura imperialistica e non dischiuda invece qualcosa completamente nuovo? In terzo luogo, ove la Cina non facesse che cambiare il colore del predominio, per noi vale il principio che non esistono imperialismi buoni. Se davvero si hanno a cuore le sorti dell’umanità è lo stesso modo capitalistico di produzione che la Cina ha impugnato da ricusare ad substantiam. Pubblichiamo il denso contributo del Santini aprendo su questo sito un vero e proprio forum sulla Cina, con l’augurio che altri vogliano intervenire. Non solo specialisti.
Perché la Cina vincerà la Quarta Guerra Mondiale
di Michele Santini
«Siamo noi che decidiamo se dare o non dare battaglia»
Sunzi
«Mio padre, invece, camminava avanti e indietro, pensieroso.
Non era preoccupato per le difficoltà della vita quotidiana e neanche per il suo destino politico, ma pensava agli ultimi decenni della rivoluzione cinese, alla strada percorsa dal partito e dalla Repubblica popolare, alle vittorie ottenute, alle sconfitte subite, alle speranze disilluse e alle lezioni dolorose. Pensava al passato, al presente e al futuro della Nazione Cinese. Giorno dopo giorno, i suoi passi disegnarono nella terra rossa e sabbiosa del cortile un vero e proprio sentiero».
Deng Rong, figlia di Deng Xiaoping, così descrive lo stato d’animo del padre, durante il periodo della persecuzione politica e dell’isolamento umano.
Gli eventi di questi giorni – come in particolare l’affondo di Hillary Clinton verso la Cina – se riletti alla luce degli scossoni finanziari, economici e politici dell’ultimo periodo, danno ormai chiaramente la dimensione manifesta e ben visibile, per chi vuol vedere naturalmente, di un confronto strategico definitivo tra Cina e Usa. Confronto strategico, che potrà certamente avere differenti sbocchi immediati o epifenomenici. Ma che si tratti di un confronto strategico, contrassegnato da un bipolarismo planetario, è del tutto evidente.
China Daily (22-01-2010) ha denunciato i tentativi della CIA e della Casa Bianca di usare la Rete per innescare “rivoluzioni a colori” negli Stati liberi dal dominio americanista. Il giornale ha citato, in particolare, il caso internazionale dell’assedio anti-persiano da quando il Presidente Ahmadinejad ha legittimamente trionfato nel corso delle normali elezioni.
Coloro che pensavano che internet avrebbe cambiato la Cina si stanno ricredendo. Il contrario. Se il caso Google doveva essere un test sulla “voglia di democrazia” della web generation cinese, il risultato è stato invece un trionfo interno dell’orgoglio nazionale cinese e della fiducia pressoché generale verso lo Stato e verso il Presidente Hu Jintao.
Dobbiamo essere concisi e sintetici, pur essendo assai difficile, data la natura delicatissima dell’argomento. Ebbene, ci proviamo!
Il centro strategico della seconda guerra mondiale: l’Asia
La seconda guerra mondiale, di cui la storiografia attuale, in tutte le sue svariate correnti, è ben lontana dal cogliere la autentica essenza, ebbe il suo reale centro strategico nel conflitto tra America ed Asia. L’Europa, nella visione delle elites strategico-politiche americaniste più avvedute, che avevano fatto tesoro della brillante sintesi di messianismo e pragmatismo, lasciata in eredità da Wilson, diventava gradualmente una sorta di retrovia di profondità tattica, niente affatto strategica.
L’essenza della partita strategica, negli anni quaranta, venne combattuta tra America e Giappone prima. Per concludersi poi, definitivamente, con la “guerra di Corea”.
La partita con il Giappone si poteva dire parzialmente chiusa, per le elites americaniste, e ricordiamo che per la vittoria, strategicamente fondamentale appunto, veniva dispiegato l’uso di un terrore atomico, che ben esemplificava, da solo, l’eccezionalità dell’evento.
Si aprivano però – subito a ridosso della sconfitta dell’esercito imperiale nipponico, sconfitta peraltro meramente politica, non militare, in quanto fu l’Imperatore, contro la volontà dell’aristocrazia militare, ad alzare bandiera bianca – e si sarebbero gradualmente aperti fronti nazionali e “nazionalisti” molto più che marxisti, si deve convenire!, (cinese, coreano, vietnamita, cambogiano), rispetto ai quali le “lotte sociali” del proletariato occidentale facevano appena sorridere gli strateghi d’oltreoceano. Han Suyin, nel saggio fondamentale Le siècle di Zhou Enlai, ricorda che dopo l’intesa concordata da Zhoun Enlai con Mosca – febbraio 1950 – riguardo la restituzione alla Cina dei territori occupati dalle truppe russe in Manciuria, Mao commenta: “Siamo riusciti a togliere qualche boccone dalla bocca della tigre”, per concludere che il Partito comunista era sostanzialmente una forza di ancor maggiore nazionalismo grande-cinese rispetto allo stesso modello patriottico di Chiang Kai-shek.
La terza guerra mondiale
La terza guerra mondiale, (USA-URSS), a nostro avviso non era inizialmente prevista. E’ innegabile che l’appoggio americano aiutò comunque la Russia ad uscire vittoriosa dalla seconda guerra mondiale. Ma è altrettanto indubbio il fatto che la virtù strategica e la grandiosa tattica della ragion di Stato, di cui sapeva dare prova Iosif Stalin, in modo particolare dal 1941 sino alla misteriosa morte, assieme ad una radicale, impressionante, presa di coscienza del grande popolo russo, della sua assoluta missione storica e politica (non più soltanto astrattamente metafisica ed escatologica) nella competizione verso una politica di potenza mondiale, ponevano di fatto la Russia nella sfida strategica globale tra superpotenze. Il fatto che talvolta, Stalin, continuò ad attardarsi nel pesante dogmatismo ideologico che ereditò, al punto da pensare che vi sarebbe stato “un confronto inter-imperialistico” e non un assedio strategico antisovietico, pose chiaramente le fondamenta della vittoria “di civiltà” americanista.
Ma nonostante tutto, occorse agli USA, a tal punto, l’apertura tattica cinese, che si rivelerà fondamentale, in funzione essenzialmente antirussa, per avere ragione del Patto di Varsavia. Dobbiamo ora avere presente cosa fu la terza guerra mondiale o “guerra fredda”, per comprendere la quarta. Fu una guerra assolutamente asimmetrica. I russi, in fondo impreparati ad una simile sfida, dettero alla stessa, sia prima sia dopo Stalin, un significato ideologico-militare con mere diversioni tattiche: fallendo completamente. Gli americani, viceversa, seppur imbevuti di ideologia messianico-americanista, seppero sostanzialmente continuare la grandiosa lezione wilsoniana e dando prova di abilissimo pragmatismo politico, si meritarono l’ennesima vittoria strategica. Ma Zhou Enlai e Deng Xiaoping, la cosiddetta “linea nera” o linea destra del Partito Comunista Cinese, che noi chiamiamo “nuova destra”,[1] nella privilegiata posizione di osservatori – apparentemente passivi – durante la guerra fredda, sapranno fare di più. Teorizzeranno che il pragmatismo politico per essere realmente pragmatico, non deve essere solo abile: deve essere fluido. Quando gli americani potevano celebrare la vittoria strategica sull’URSS, la nuova Cina di Deng Xiaoping aveva già preso, sul piano della diplomazia (che in un orizzonte di guerra asimmetrica è politica di potenza), almeno dieci anni di vantaggio sull’Occidente.
La quarta guerra mondiale: il risveglio imperialista cinese
Siamo dunque consapevoli che ormai, ancor più che durante la guerra fredda, le precedenti definizioni ed immagini di guerra che avevamo in mente vanno assolutamente scartate, in quanto non solo inattuali ma addirittura del tutto improprie per comprendere il fenomeno. In base alla visione strategica cinese, in modo particolare quella denghista, la vera guerra, il vero conflitto strategico si ha durante la fase apparentemente morta, inerte, della non guerra. Si tratta di uno spostamento strategico portato sul piano tattico, o meglio di un completo occultamento della strategia nella tattica. E’ il principio taoista dell’agire senza azione (wu-wei-wu) condotto sul piano della politica internazionale o “grande politica”.
Colui che aggredisce in modo scoperto e manifesto, sul piano in cui i nemici si aspettano tra l’altro l’aggressione (ad esempio quello militare), parte già con il piede sbagliato. Ha grandissime possibilità di venire sconfitto in senso strategico. Questo tralasciando il fatto che nell’era nucleare, le possibilità di confronto militare convenzionale tra superpotenze sono ridotte al minimo.
Nel momento in cui ci rendiamo conto che tutte queste azioni di non guerra possono essere i nuovi fattori costitutivi dello scenario di guerra del futuro, dobbiamo inevitabilmente trovare un nuovo nome per questa nuova forma di guerra, uno scenario che trascende qualsiasi confine e limite. In poche parole: una guerra senza limiti. [2]
Da Deng in poi, la Cina ha portato la guerra politica totale all’Occidente, esasperando e radicalizzando il concetto d’asimmetria del conflitto, concentrando le proprie forze dove il nemico era più debole ed occultandole dove il nemico era più forte: integrando questa visione strategica, altresì, nel quadro planetario della guerra illimitata, con la usuale tattica della guerra non ortodossa. I piani tattici omnidirezionali, sincronici, contrassegnati da obbiettivi limitati e misure potenzialmente illimitate, nel gioco strategico di un coordinamento unitario multidimensionale nel quale le azioni militari si identificano e sintetizzano con quelle svolte nel campo non militare, che finisce dunque per estendere il principio della cooperazione civile-militare della “guerra rivoluzionaria”, sono stati gradualmente praticati e sperimentati in modo più intenso in tutti i settori cosiddetti “scoperti” (economico, tecnologico, diplomatico, culturale nel senso più amplio del termine) piuttosto che in quelli nei quali il nemico, ancora attardato al momento essenzialmente ideologico della guerra fredda, si attendeva.
Significativo, ad esempio, quanto avvenuto alla fine del novembre 2007, quando il direttore generale del MI5, il servizio controspionistico anglosassone, inviava una lettera a 300 tra amministratori delegati e responsabili per la sicurezza di banche, imprese di revisione e studi legali per avvisarli che erano sotto attacco diretto da parte dello Stato cinese. Era la prima volta che il governo anglosassone accusava direttamente Pechino di cyberspionaggio.[3]
In questo senso, attualmente la diplomazia cinese ha decenni di vantaggio su quella americana e su quella occidentale in genere.. Altro enorme vantaggio strategico cinese è caratterizzato dal fatto che il gruppo dirigente cinese attuale, essendo culturalmente indipendente da influenze messianiche di natura dogmatica ed ideologica, nella comprensione fondamentale dello “spirito del tempo” riesce a volgere a vantaggio della ragion di Stato (come già abbiamo rilevato nel nostro precedente articolo pubblicato su questo sito) anche fondamentali strumenti di mercato, che rendono improponibile l’incondizionato dominio – che si verifica invece in USA – da parte di capitalisti antinazionali e finanzieri usurocrati. Questo significa che la Cina è dogmaticamente comunista, come vorrebbero molti estremosinistri occidentali? O che la Cina è fascista, come vorrebbero molti analisti peraltro acuti, come Bruce Gilley o Federico Rampini? No, no, niente di questo. La Cina ha un tipo di gestione e di approccio al mondo politico ed economico, incomprensibile con le lenti euro-occidentali. La Cina sta attualmente sperimentando una prassi politico-economica, che non ha precedenti nella storia. Certamente alla base, a nostro avviso, vi è “l’ideologia” ( ma nel senso di strategia politica non di dogma pietrificato) della pura ragion di Stato ed “un nazionalismo morale ed etico” grande Han, pragmaticamente combinati con un socialismo di mercato, ma ciò non ci autorizza a scomodare categorie della dottrina politica europea, in quanto sarebbe già assai arduo mostrare che le lotte di “liberazione nazionale” di Mao e dello stesso Ho Chi Minh siano ortodossamente “comuniste” invece che nazionaliste, progressive e rivoluzionarie in senso lato, per quanto, soprattutto nel caso del maoismo, influenzate da certe correnti filosofiche occidentali “materialiste”; ancora più arduo sarebbe identificare con categorie politiche europee il “nuovo corso” denghista, ben proseguito da Jiang Zemin e Hu Jintao.
Tutti questi elementi brevemente sintetizzati, che presuppongono che il lettore abbia minimamente chiaro il panorama geopolitico internazionale, che vede la Cina all’offensiva totale in Africa, Europa, saldata strategicamente ad una potenza regionale di primo piano del Vicino Oriente come l’Iran ma al tempo stesso anche con settori politico-militari centrali del Pakistan, sempre più vicina ad un accordo strategico di lunghissimo respiro – dalle conseguenze internazionali decisive – con il Giappone, in buone relazioni diplomatiche, che non vuole assolutamente far degenerare con Russia ed India, in continua avanzata tatticistica in Sud-America (Brasile, Venezuela, Bolivia), tentano di mostrare come la grande Cina si avvii a passi da gigante verso il primato mondiale. Inoltre, la Cina, contemporaneamente alla campagna militare intrapresa da Bush in seguito all’11 settembre 2001, si è attivata nella costruzione di basi e porti navali lungo le rotte marittime del Medio Oriente, del Pakistan, dello Sri Lanka, di Myanmar, per proiettare oltre oceano la sua potenza e proteggere le forniture petrolifere, dando anche in tal caso dimostrazione di lucidità sperimentalistica rispetto all’aggressività militarista americana in Iraq ed Afghanistan.
Giustamente il lettore informato potrà obiettare che sul piano della tecnologia militare, sembra esservi ancora un notevole divario tra USA e CINA. Prescindendo ora dal fatto che difficilmente osservatori che si trovano al di fuori del giro strategico quali siamo noi, possono conoscere realmente lo stato attuale della potenza nucleare e convenzionale cinese, pensiamo in fondo che la Cina – oltre ad avere tutte le armi di deterrenza strategica necessarie a sconsigliare chicchessia ad un’aggressione diretta – abbia progettato la sua espansione strategica planetaria – il consenso di Pechino – in netta antitesi all’aggressività militarista ideocratica americanista la quale, per quanto mascherata dal fondamentalismo dirittoumanitarista democraticista ed edonista, ha sostanzialmente contrassegnato, da sempre, il consenso di Washington, gettandone anche, del resto, una sinistra luce.
Oscar Weggel, prestigioso studioso tedesco che ha analizzato lo sviluppo e la recente riorganizzazione dell’ELP – i cui fondamentali studi strategici, naturalmente!, in Italia sono passati completamente inosservati, prescindendo dal valente studioso marxista Roberto Casella – [4] ha diviso in tre fasi la sua storia. La prima fase, “miglio e fucile”, è sostanzialmente all’insegna dello spirito di Yan’an, dal nome della capitale della Cina della “lunga marcia”, la seconda fase, “ferro ed acciaio”, è all’insegna della modernizzazione sotto la supervisione russa, in cui abbiamo la fanteria quale forza integrata con gli altri sistemi d’arma, la terza fase è quella in cui predomina la reale strategia denghista. Quest’ultima supera completamente le precedenti fasi, soprattutto quella ortodossa maoista di “miglio e fucile”, a vantaggio di una visione militare sintetizzata dal concetto di “difesa attiva” e “deterrenza flessibile” con la formulazione esplicita del principio “guerra di popolo più deterrenza nucleare” che contiene la seguente triade: all’inizio guerra convenzionale, poi deterrenza nucleare e in ultimo guerra di popolo. In tale fase viene abbandonata la concezione maoista della “ineluttabilità della guerra” sostituita da quella della necessità per il procedere delle “modernizzazioni” di operare in un sistema internazionale pacifico. [5]
Aviazione, Marina e “seconda artiglieria” sono il fiore all’occhiello della strategia denghista. Il rafforzamento della Marina è visto con preoccupazione dalle altre potenze mondiali, in quanto la Marina è chiaramente una forza d’attacco. In vari casi, riviste specializzate, come Schiffart, hanno annunciato l’acquisto di portaerei dalla Russia o dall’Ucraina, o la costruzione in proprio, e ciò ha suscitato l’allarme mondiale, ma la dirigenza militare cinese ha sempre mantenuto al riguardo il massimo riserbo. He Zhanxiu (membro dell’Accademia cinese per le scienze, per lunghi anni assistente del “padre dell’atomica e dei missili cinesi” Qian Xuesen) ha spiegato negli anni novanta che l’obiettivo della Cina non è quello di diventare una superpotenza nucleare, ma quello di avere un potenziale di armi limitato ma adatto ad una credibile dissuasione. La Cina, come ci spiega Roberto Casella, [6] pratica la politica di potenza con una dottrina nucleare che riecheggia la concezione gollista della “Force de frappe”.
Il fortissimo regionalismo interno, che ha fatto parlare taluni della necessità di un federalismo cinese, lo sviluppo ineguale della Cina Blu (la Cina costiera) con la Cina Gialla (la Cina interna), non debbono però trarre in inganno. Siamo d’accordo con Casella che l’ascesa politica ed economica mondiale della Grande Cina faccia di questa già, di fatto, “una potenza imperialista mondiale”, ma non daremmo, di contro al Nostro, eccessivo peso alle spinte centrifughe periferiche, fino a ventilare la prospettiva della democraticizzazione e del puro liberismo economico.
Siamo invece con Gerard Segal, con il suo concetto di Grande Cina. Ossia, nell’Impero di Mezzo, il nazionalismo Han è il principio spirituale morale organizzatore, il centro strategico sia della fase politica interna sia di quella esterna. E’ un “nazionalismo della porta aperta”, certamente, come lo ha chiamato la Bergère nel suo studio su Sun Yat Sen, ma siamo certi che il conflitto planetario si stia già giocando sul piano della visione nazionale della globalizzazione. Su questo piano, falliscono e falliranno tutti coloro che parlano e parleranno di una corrispondenza ed omogeneità tra i funzionari del capitale cinesi ed americani, tra l’imperialismo americano e quello cinese, tra un “proletariato cinese” e le masse salariate americane. Il “nazionalismo della porta aperta” Han, per quanto abbia conquistato il mondo mediante la tattica della rivoluzione economica, ha una forza interna morale e spirituale che il nazionalismo imperialista americanista ha certamente perduto. Sun, padre di questo nazionalismo aperto, direbbe: “Noi ci appoggiamo sui valori morali e sul
desiderio di pace che ci sono particolari per unificare il mondo e fondare il governo della Grande Armonia”.
Centralità della prassi politica come eticizzazione universale
“Tutto sotto il cielo”: la dirigenza strategica cinese vuole appunto modernizzare ed attualizzare questo principio antico di tremila anni, appartenente alla dinastia Zhou. “Ripartendo” da qui, affermandosi anzitutto portando armonia, pace, benessere, nelle zone economicamente conquistate, curando e conservando le differenze in base al principio di cooperazione nel segno del reciproco vantaggio, Pechino ha impostato così la sua sfida strategica all’imperialismo esclusivamente militarista unilateralista nordamericano. La visione geostrategica cinese non conosce – a differenza di quella angloamericana – il concetto di “lotta decisiva”, “scontro di civiltà”, “sfida finale” per il trionfo cosmico di Dio, ossia della democrazia mercatista. No, Pechino lavora sotto traccia – asimmetricamente – cercando in tutti i modi di rendere il nemico di oggi amico di domani, concretizzando il principio confuciano dell’armonia, universalizzando, come Deng insegnò, la missione dello “spirito di popolo” cinese. Se il mondo fino ad oggi sì è progressivamente americanizzato, in quanto si è imposto il dominio unipolare americanista, Pechino vuole impostare una sfida strategica mondo-centrica, non sino-centrica. E’ ben evidente, d’altra parte, che pur considerando il confronto militare diretto come ultima ed estrema istanza, la Cina sarà senz’altro pronta anche su quel piano.
La forza della cultura tradizionale della Cina, la sua impressionante capacità di assimilare e sviluppare le scienze fisiche e tecnologiche, sbigottiscono quell’America che già si credeva padrone del mondo, e che ora scopre di non sapere più cosa fare per mettere il bastone tra le ruote di un carro che marcia in modo inarrestabile. Non può pensare di aggredire direttamente Pechino, magari con il concorso del Giappone o di Taiwan, perché sa di non disporre di forze adeguate e di dover mettere in conto un intervento diretto di Mosca.
Consapevole delle limitazioni politico-culturali dei governi americani, Pechino a sua volta gestisce i rapporti con Washington con l’accortezza e l’intelligenza con cui lo psichiatra si confronta con il pazzo. [7]
Come già è stato detto, sotto la spinta del grande-nazionalismo denghista, la Cina ha riportato all’ordine del giorno il nomos dello Stato politico che non è una mera macchina burocratica, ma una vera e propria entità spirituale forte di una tradizione ultrasecolare. La Grande Cina ha quindi restaurato, su un piano globale, la centralità spirituale della retta prassi politica.
Rivoluzione, controrivoluzione, ogni chiusura ideologica dogmatica sparisce e resta assorbita nello sforzo violento dello Spirito che raggiunge le vette dell’eticità universale, ove l’agire umano è realmente libero. La Politica dunque si fa autentica creazione morale. Sembra inconcepibile in quest’Europa….
Su tal piano, puramente spirituale, si ha la buona tirannia, nel senso hegeliano del termine, ove il processo autocosciente sembra giunto finalmente a compimento.
Deng non ha ceduto, infatti, sul piano fondamentale: la certezza americanista che l’unico destino imperialista potesse svilupparsi sotto il segno di una democrazia fortemente imbevuta di un astratto oggettivismo economicista annientatrice di una superiore Forza trattenitrice (katekhon). Deng non ha ceduto al fondamentalismo fanatico e astratto dirittoumanitarista. Deng non ha ceduto alla democrazia in salsa ideocratico-americanista. Sfidando asimmetricamente il nemico sul suo stesso privilegiato piano, quello economico, Egli ha esortato il popolo Han a “marciare verso il mondo”, ha messo in moto un nuovo pluralismo mandarino, ha dinamizzato su scala universale le esigenze dello Spirito di popolo, ma si è guardato dal cedere all’Occidente sul piano politico, quello fondamentale: proprio ciò che quest’ultimo avrebbe voluto. In realtà l’autentica rivoluzione denghista non è stata economica, ma si è svolta sul piano dello Stato. Deng ha grandiosamente abbattuto senza scrupolo alcuno i reazionari di destra, gli astratti utopisti dell’estrema sinistra, i democratici libertari in tutte le loro farneticanti varianti relativistiche e nichilistiche. Tutti considerati i “nemici principali” dello sviluppo cinese e delle modernizzazioni. Deng non ha perso il suo tempo con i riformismi “made in Washington”, ma ha chiamato il suo popolo a quello che è stato probabilmente lo sforzo più duro, la marcia sacrificale per antonomasia della sua pur grande storia.
La marcia verso il mondo esigeva l’unità assoluto del popolo con lo Stato, l’autentico centro totale della vita politica, occorreva dunque eliminare ogni pur minima opposizione ideologica. Egli ha riacceso infatti la grandiosa fiaccola della millenaria diplomazia mandarina, quando gli sconvolgimenti fanatici dell’anarchismo teppistico da Rivoluzione culturale avevano fatto regredire di decenni la vita civile e mostrato la fragilità dello Stato maoista. Diplomazia e modernizzazione economica da grande potenza: questo è stato il vero balzo in avanti, imperialista, della Grande Cina, come dirà anni dopo Jiang Zemin, il “presidente dell’high tech”, facendo l’apologia di Deng.
La “politica di apertura” di Deng, nel 1978, fu all’insegna della cosiddetta “liberazione del pensiero”: “siamo realisti e liberiamo la mente” significava che la eterna tradizione spirituale politica mandarina non doveva essere abbattuta o astrattamente sovvertita, ma doveva solamente prendere coscienza del piano empirico, sensibile, ossia della coscienza tecnologica occidentale e forte della sua millenaria spiritualità “giocare” con l’Occidente, che sembrava non conoscere altra spiritualità che quella dell’astratta materia, sul suo stesso terreno. Dal 1978 al 1999 vi furono poco più di venti anni, che furono sufficienti a realizzare la “prima liberazione del pensiero”. Fu uno sforzo magnifico del popolo HAN che rimanda alle costruzioni ciclopiche dell’antichità.
La “seconda liberazione del pensiero” vi è stata nel 1999 quando la Cina entrava nel WTO. Il nazionalismo morale della Grande Cina si proiettava ormai su scala globale mediante il tatticismo della rivoluzione economica. Il gatto aveva acciuffato il topo, con tempi ben più rapidi di quelli prospettati da Deng. La via denghista avrebbe risvegliato e portato all’autocoscienza spiriti assopiti da centinaia e centinaia di anni. Nuova Delhi, che non è mai riuscita a praticare una coerente linea Deng, una verace rivoluzione culturale dall’alto, che unificasse tutte le frazioni dell’avanguardia politica e economica, ci riprova oggi con Sonia Gandhi. E questa volta, quasi sicuramente, ci riuscirà. In Asia, torna a soffiare il vento dello spirito di Bandung, solo che questa volta non ha nessuna utopia ideologica da proporre, ma traccia la linea della potenza politica imperiale, del nazionalcapitalismo, della modernizzazione per il primato mondiale. L’Unione Asiatica, sul modello formale dell’Unione Europea, ma dotata, a differenza di quest’ultima, di una strategia politica dove Cina, Giappone, India arrivino ad una unificazione economica tattica, fu già teorizzata dalla linea di Aiyar (Ministro dell’energia del governo indiano Singh) ed oggi sta tornando al centro del dibattito politico asiatico. Senza parlare del blocco Teheran-Pechino, che sembra ormai una vera e propria alleanza strategica.
La gioventù asiatica, inoltre, è radicalmente nazionalista. Milioni e milioni di giovani cinesi vengono sin dalla più tenera infanzia educati al culto patriottico di Sun e di Mao quale “eroi della liberazione nazionale”. Lo stesso avviene in India ed in Vietnam.
E’ stato – in conclusione – Deng Xiaoping, il Politico, il sovrano, naturalmente, a fare scacco matto. L’uomo, su cui si rispecchiava l’anima del mondo, trionfava ancora sulla necessità che appariva ineluttabile.
Ancora, il mondo che crede di essere libero, non ha minimamente preso coscienza della rivoluzionaria attualità strategico-politica denghista. Ma a breve dovrà farlo: suo malgrado. In quanta la marcia cinese è ben lungi dall’arrestarsi.
D’altronde, proprio Deng, quando era Capo della commissione militare centrale, teorizzò una “strategia dei 24 caratteri” nella quale si diceva, tra l’altro, di “celare le nostre capacità”…
Il “sentiero” che Egli decenni fa tracciò, nell’estrema solitudine dell’infamia ingiustamente subita, nella persecuzione politica ovunque diffusa e nella delegittimazione morale, entra ora nel pieno della sua folgorante illuminazione strategica. L’asse spirituale della storia, che si credeva arrestato alla pura sovversione mercatista, al puro democraticismo astratto, è rimesso violentemente in moto.
Il mondo realmente libero, Gliene sarà grato in eterno.
Note
[1] Noi, chiaramente, non andiamo particolarmente dietro le varie “linee nere” o “linee rosse” (peraltro Deng Xiaoping, nel 1980, ricordava che il partito comunista cinese era stato travagliato da almeno 10 lotte per la linea!), né ci lasciamo irretire dai “diavoli-buoi” o dai “demoni serpenti” che si sarebbero fatti la guerra dalla Grande Muraglia alle rive dello Yangtze, ma nonostante ciò usiamo tali categorie per meglio delineare al lettore lo scontro in atto all’interno della dirigenza cinese. Il termine esatto, a nostro avviso, è “nuova destra cinese” in quanto, durante e ancor più dopo la Grande rivoluzione culturale proletaria, la tradizionale linea nera o linea destra, facente capo a Liu Shao Chi, tradizionalmente filosovietica, venne del tutto seppellita nel corso di quelle lotte intestine.
[2] QIAO LANG – WANG XIANGSUI, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Gorizia 2001, pag. 47.
[3] A. Spaventa – S. Monni, Al largo di Okinawa. Petrolio, armi, spie e affari nella sfida tra Cina e Usa, Roma-Bari 2009.
[4] R. Casella, I giganti dell’Asia, Edizioni LOTTA COMUNISTA, Milano 2005, pp. 14-17.
[5] Ivi, pag. 16.
[6] Ivi, pag. 21.
[7] L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, Bari 2007, pag. 123.
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