La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 14.01.2010
Le aperture
“Haiti è diventata un cimitero” è il titolo di apertura del Corriere della Sera. Il terremoto del settimo grado della scala Richter ha “spazzato via i palazzi di Port-au-Prince, dal parlamento alla cattedrale”, che è “rasa al suolo”. “Il governo: i morti sono più di centomila” (c’è anche chi dice che possano essere oltre 500.000). L’editoriale di Sergio Romano è titolato “L’isola degli ultimi”, sulla prima pagina del quotidiano ci sono anche testimonianze su Haiti, come quella di Ettore Mo (“Lì ho visto la miseria e la fame che uccide”). In prima pagina c’è spazio anche per un riquadro sulla politica interna (“Giustizia, niente decreto. Berlusconi contro i pm. Il premier frena sul fisco: le tasse non calano”) e per Google, che ha deciso di eliminare ogni filtro politico dai suoi siti in Cina, e si è detta pronta a lasciare il Paese se Pechino non rinuncerà alla censura: “Google e la ribellione al muro digitale cinese”, il titolo dell’articolo.
La Repubblica: “Apocalisse ad Haiti, centomila morti”. “Terremoto devasta l’isola, migliaia sotto le macerie. Forse anche italiani tra le vittime”. La politica occupa un riquadro. “Giustizia, salta il decreto blocca processi. Tasse, il premier ci ripensa. Minzolini al Tg1: ‘Craxi uno statista’. E’ polemica”. In prima le firme di Giuseppe D’Avanzo (“Il vero asso nella manica del Cavaliere”), e di Edmondo Berselli (“Promesse fiscali e politica artificiale”, il titolo). La decisione del premie di non procedere con un decreto sarebbe stata “apprezzata” dal Quirinale, come spiega tra gli altri un articolo del Sole 24 Ore.
La Stampa: “Haiti, il giorno dell’Apocalisse”, con commento di Lucia Annunziata. In prima anche uno spazio sulla politica interna. Oltre alle dichiarazioni del premier, anche le regionali in Piemonte: “Chiamparino capolista Pd. Il sindaco di Torino farà da traino alla Bresso. Puglia: sì alle primarie”.
Anche su Il Foglio grande evidenza al terremoto di Haiti, “l’isola che non c’è più”, e per Google, che “minaccia il ritiro dalla licca contro la lotta del regime a Internet”.
Il Sole 24 Ore: “Tagli fiscali sì, ma dopo la crisi. Premier e Tremonti: fisco iniquo e inefficiente, riforma rinviata”.
Per Il Riformista il governo è in “Stato confusionale. Berlusconi dietrofront su taglio delle tasse e decreto blocca-processi. Bersani: è la destra a non volere le riforme, ma io non rinuncio”. Nelle pagine interne il segretario del Pd è protagonista di una lunga intervista: “Col badile contro le leggine, ma sulle riforme vere pronto da domani”, il titolo.
Il Giornale: “Il pasticcio delle tasse. Per il momento non si taglia. Il premier annuncia: non è possibile ridurre le aliquote quest’anno. La crisi ce lo impedisce. Vero. Ma perché nei giorni scorsi ci aveva illusi parlando di riforma fiscale imminente?”: Vittorio Feltri sviluppa la domanda nel suo editoriale.
Anche Libero è severo con il premier: “Caro Silvio, non ci stiamo. Berlusconi dice che le tasse non si possono abbassare. Questa volta pensiamo che sbagli. Il Fisco è una giungla di 1834 tributi. C’è un balzello anche sull’aria. Ecco i primi cento”.
Elezioni
“Il popolo nero non esiste. Le tessere dell’Ugl? Facciamo come gli altri”. É il titolo di una intervista a Renata Polverini, su Il Riformista, in cui la candidata del centrodestra replica alle accuse di questi giorni e anticipa le priorità del programma della sua coalizione che sarà pronto a fine mese. “Sgravi per famiglie e imprese subito, ma anche l’impegno a ripianare il deficit di bilancio negoziando il piano di rientro e tagliando le spese”.
Sulla Puglia il Pdl ha deciso: si faranno le primarie per scegliere il candidato, tra Vendola e Boccia. “Pressing di D’Alema, anche Casini dà il via libera”.
Sulla Calabria, scrive Repubblica che Bersani sarebbe tentato dal lasciare la scelta del candidato presidente all’Udc. “E Pierluigi gela i suoi candidati: diamo la Calabria all’Udc”.
Su L’Unità si fa il punto sui rapporti del Pd con Prc e gli altri partiti della Federazione della sinistra. “Accordi difficile in almeno 4 regioni. In una regione su tre la sinistra radicale sosterrà candidati alternativi a quelli del Pd”.
Su Libero una intervista a Enzo Carra, ex dc e oggi anche ex Pd: “Il Pd è un ogm politico, adesso me ne vado. Il caso Bonino è la conferma della mutazione del partito, una sigla di sinistra senza pluralismo”.
Su Il Giornale intervista a Isabella Rauti, “lady Alemanno”, che forse si candida nella lista del Pdl che sostiene la Polverini.
Craxi
Su La Repubblica Diario pagine dedicate a Craxi e al “craxismo”, con articoli di Miriam Mafai, Giorgio Ruffolo, Filippo Ceccarelli”. Sullo stesso quotidiano spazio anche alle polemiche in vista della celebrazione del decennale della morte: l’editoriale del Tg1 viene commentato da Curzio Maltese (“Un comizio in diretta per la prima Repubblica”), e un retroscena parla del convegno che si terrà in Parlamento: “Alla fine il Quirinale sceglie un gesto privato verso la signora Anna, che continua a vivere in Tunisia. Sarà un telegramma alla vedova di Bettino il messaggio di Napolitano per il decennale”.
Il Corriere offre un ritratto di Anna Craxi e una conversazione firmata da Aldo Cazzullo: “Tra me e Bettino una promessa. Il suo corpo non tornerà mai in Italia”. “Non tutti ci credettero quando sissi che sarei rimasta ad Hammamet. Ora sono una cittadina tunisina”.
La Stampa offre un articolo di Giuseppe Culicchia che torna sul tema “che Italia sarebbe senza immigrati”. “Il mercato non c’era più e all’edicola mancavano i quotidiani. L’edicolante mi ha detto: il corriere che li porta è rumeno, e lui preferisce i romeni”. “Scomparsa la domesticaperuviana e mia madre non ha più l’aiutante russa. Mancano le arance perché adesso nessuno le raccoglie”.
E poi
Su La Stampa una intervista a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, in vista della visita del Papa in Sinagoga: “Col Papa dialogo complicato ma non si ferma”, il titolo.
Su La Repubblica una intervista allo storico Saul Driedlander, che “ribalta la tesi di Hanna Arendt” sulla “banalità del male”. “Non è stata una macchina burocratica a portare avanti lo sterminio”, ma l’antisemitismo “redentivo, apocalittico” di Hitler, “una ossessione pseudoreligiosa che fa molto pensare al fondamentalismo di oggi”, scrive Susanna Nirenstein.
La Repubblica offre una intervista di Die Zeit a Condoleezza Rice: “L’America continuerà a guidare il mondo. Sbaglia chi dice che siamo in declino”. Gli Usa hanno dalla loro “una idea della storia, della direzione in cui muoversi, cosa che aveva anche l’Unione Sovietica. Nel nostro caso è una idea democratica, l’idea della libertà, che va al di là della classica politica basata sugli interessi nazionali e che sviluppa una forza di attrazione universale. Nonostante gli straordinari risultati economici la Cina non ha nulla di simile da offrire. Persegue interessi nazionali, mercantilistici. Non sembra disposta a portare avanti anche una politica di responsabilità o a investire nelle istituzioni globali”.
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Da carlovisintini@gmail.com sulla lista neurogreen@liste.rekombinant.org
Libero e assolto Luca Tornatore! domani grande festa di ben tornato alla Casa delle Culture, a Trieste!
un grande grazie a tutt* per la mobilitazione straordinaria per la sua libertà!
intervista a Luca:
http://www.globalproject.info/public/resources/mp3/lucatornatore_global.mp3
l’ultima lettera di Luca dal carcere:
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/Reclamare-lindipendenza-e-la-sovranita-di-tutti-e-ognuno/3501
evento fb: http://www.facebook.com/event.php?eid=259828760784&index=1
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Addio, imprescindibile Daniel
Salvatore Cannavò, 13.01.2010
Bensaid, filosofo e militante politico dell’Npa francese si è spento il 12 mattina a Parigi. Scompare una delle menti migliori d’Europa, un’immensa perdita per il pensiero critico e il marxismo internazionale
Abbiamo perso una delle menti migliori di questa Europa sconfitta e depressa. Daniel Bensaid ha saputo irradiare con la sua immensa capacità di scrittura e di riflessione diverse generazioni politiche e militanti e non è un caso se oggi lo piangono quelli della sua generazione, la generazione post-sessantotto e anche i più giovani. Quelli che lo hanno conosciuto ai campi della Quarta internazionale dove è sempre stato presente per tenere un meeting sul senso della rivoluzione oggi, oppure per animare la scuola di base o ancora semplicemente per stare al bar, attorno a una tenda, seduti per terra cercando di inventare iniziative nuove, progetti, collegamenti internazionali tra paesi differenti e tra generazioni lontane. E’ stato il miglior intellettuale di frontiera e di collegamento che abbia conosciuto. Amatissimo dentro la Quarta internazionale per il contributo di pensiero che è stato in grado di offrire, come prova la sua straordinaria bibliografia, e per lo stile gioviale, sincero, amabile con cui ha tessuto le sue relazioni. Nella sua biografia, la Lente impatience, pubblicata in Francia qualche anno fa e che pubblicheremo a breve con Alegre, la genesi di questo amore è narrata con semplice linearità senza alcun compiacimento. A ventidue anni nel ’68, Daniel era a fianco di Alain Krivine e Henri Weber (ma anche di Pierre Rousset) ad animare le occupazioni studentesche ma soprattutto a chiedersi come scuotere la società francese e la sua sinistra. Lui, il giovane accanto ai due più grandi, Krivine e Weber, ma con una capacità di scrittura e di pensiero che subito si cristallizza nel Mai 68, Une répétition générale, edito da Maspero e scritto in collaborazione con Weber (il quale finirà nel partito socialista dopo aver contribuito a fondare la Lcr).
Lo sforzo riesce perché dopo il ’68 l’allora Junesse communiste revolutionnaire fonda la Lcr, la mitica Ligue, un’organizzazione che ha fatto, ad esempio, la differenza tra l’estrema sinistra francese e quella italiana. Un’organizzazione che ha resistito per quarant’anni e che quando si è sciolta, nel febbraio del 2009, lo ha fatto solo per far nascere un nuovo partito, l’Npa, tre volte più grande e in grado di catturare il 5% dei consensi. Una success story, risultato di un lavoro paziente e certosimo, a differenza dell’Italia dove l’estrema sinistra si è via via autoconsumata nel corso degli anni, con una dispersione micidiale di energie, anche intellettuali, e una desertificazione del dibattito da far paura. Se oggi possiamo registrare questa differenza lo dobbiamo anche alla mente lucida e curiosa di Bensaid e soprattutto a una qualità rara per un intellettuale della sua levatura: costruire pensiero e strategia e guidare organizzazioni politiche, stare in prima linea, costruire progetti anche dal basso, magari solo nella sua facoltà. Negli ultimi dieci anni ci ha permesso di formare Projet K, la rete europea di riviste marxiste che a lui doveva la nascita e soprattutto la capacità, per un breve periodo purtroppo, di mettere in rete esperienze tra loro diverse animando diversi dibattiti che si sono proiettati dentro il flusso dei Forum sociali mondiali. Senza Daniel questa esperienza militante internazionale non sarebbe mai nata, lui garantiva il collante e la credibilità necessari anche verso le aree politiche esterne alla storia della Quarta internazionale. Nel passaggio dalla Lcr al Npa si era molto impegnato per far nascere la Fondazione Louise Michel, centro di studi e ricerca non a caso dedicato alla memoria di una storica libertaria francese, a testimonianza della sua ricerca per un marxismo aperto, creativo, per nulla dogmatico. In questo senso, la sua opera più grande resta forse Marx l’intempestivo, dove coglie un Marx in anticipo sui tempi, intempestivo appunto, e ne ripercorre con un respiro inusitato i tre cicli di pensiero: quello storico, quello filosofico e quello economico. A Marx ha continuato a dedicarsi anche nel dettaglio: pochi in Italia conoscono una bellissima ricostruzione della vita di Marx – Passion Marx, edito da Textuel – del tutto estranea se non avversa alla santificazione del personaggio, in cui si ripercorrono i passi della vita del filosofo di Treviri attraverso la sua fitta corrispondenza con Engels. E sempre su questa linea, una delle ultime produzioni di Bensaid sarà di nuovo la ricostruzione del pensiero marxiano illustrato stavolta dalle vignette di Charb. «Un modo – spiegava – per rendere Marx ancora più accessibile e popolare di quanto in genere sia». E poi potremmo citare ancora gli Spossessati (Ombre corte) in cui si applica all’annosa questione del furto di legna nei boschi con cui Marx inizia a polemizzare con la struttura hegeliana e l’approfondimento del Marx politico realizzato in Inventer l’inconnu, un lungo saggio a corredo del carteggio tra Marx e Engels sulla Comune di Parigi. Così come è altamente formativo, per noi lo è stato, le Sourire du Spectre in cui si diverte a rimotivare, nel 2000, alla vigilia del nuovo movimento antiglobalizzazione, gli assi fondanti del comunismo marxiano nella società moderna.
Il movimento di Seattle e Porto Alegre non lo prende assolutamente alla sprovvista. Filosoficamente lo aveva già presentito e elaborato e nondimeno l’esperienza dei Social Forum è fondativa proprio per motivare il filo rosso del suo pensiero e della sua ricerca: attualizzare Marx e il marxismo, non ossificarlo, non lasciarlo carne morta in attesa di adorazione ma soggetto vivo, operante nell’immanente e strumento ineludibile di comprensione del ritmo, del divenire, dell’imprevedibilità della lotta di classe. Era stato già pronto nel 1995 in Francia, all’epoca del grande sciopero generale che cambia la storia recente francese, quando insieme a Christophe Aguiton scrive Le retour de la question sociale e lo è di nuovo nel primo decennio degli anni 2000. La sua produzione libraria da qui in avanti è impressionante, complice anche la presenza di una malattia difficile con la quale convive con caparbietà e determinazione ma che lo spinge a dare il massimo per liberare tutte le sue energie. Scrive testi di polemica francese – contro Henri Levy, ad esempio – produce ricerca marxista, scrive la sua biografia più completa, il cui titolo, la lenta impazienza, costituisce il programma politico del nostro tempo e accompagna la nascita del Npa con Penser Agir, pour une gauche anticapitaliste e Prenons parti – Pour un socialisme du XXIe siècle, scritto con Olivier Besancenot. E poi articoli su articoli, organizza e partecipa a convegni.
L’ultima volta che l’ho incontrato è stato l’estate scorsa a Port Leucat nella Catalogna francese, a Perpignan, dove l’Npa ha organizzato la sua prima Università estiva, con circa 1500 partecipanti. Abbiamo discusso a lungo nonostante fosse già malato e avesse una miriade di impegni. Abbiamo discusso dell’opportunità di pubblicare in Italia i suoi scritti su Walter Benjamin – eventualità ancora più necessaria, ora – altro autore caro a Bensaid proprio per la sua “eterodossia” mentre era già preso nell’organizzazione di un grande convegno a Parigi sull’attualità del comunismo. Era a sua agio in quell’ambiente, l’ambiente della sua vita a cui non ha mai fatto mancare il suo apporto, nemmeno nei momenti più difficili della sua lunga malattia.
L’ambiente che ha contribuito a creare e rafforzare quando, alla fine degli anni 70, al termine di quel decennio in cui “la storia ci mordeva la nuca” come ha scritto nella Lente impatience, prese la direzione della Quarta Internazionale e lavorò attivamente per aiutare nella costruzione della sezione brasiliana – quella di Porto Alegre dove Daniel è stato uno dei personaggi internazionali più riveriti – o di quella spagnola, l’analoga Lcr che all’inizio degli anni 80 costituiva una delle realtà più dinamiche e vivaci della sinistra europea. Per più di un decennio Bensaid è stato un dirigente politico a tutto tondo, costruendo il passaggio dagli anni 70, gli anni del grande balzo in avanti del movimento trotzkysta, alla depressione e al riflusso degli anni 80. Il libricino Chi sono questi trotzkysti, è in questo senso amabile e completo perché restituisce una vicenda complicata, intricata che Daniel riesce a collocare storicamente, a inquadrare nel difficile corso storico del movimento operaio.
Da dirigente politico, Bensaid era particolarmente “gauchiste”, termine traducibile con estremista anche se nell’accezione francese ha un sapore più complesso. E’ tra coloro che dirige l’assalto della Lcr nel ’71 contro i fascisti di Ordine nuovo, in seguito al quale la Ligue verrà messa fuorilegge. Quando lo racconta nella sua biografia ricorda divertito il ruolo che in quell’azione svolsero personaggi in seguito divenuti famosi non certo per la loro bellicosità come Aguiton, leader del movimento altermondialista, ma soprattutto Edwy Plenel, storico caporedattore, e poi direttore, di Le Monde. Con gli anni, e nel corso dei Novanta, diventa più completo e il lavoro intellettuale si riversa nell’elaborazione politica conferendola uno spessore nuovo. E un’autorità morale innegabile.
Dirigente politico e intellettuale, militante modesto e pensatore. In Italia non ne abbiamo conosciuti molti. E al nostro paese un intellettuale pensiamo che sia mancato molto. Un intellettuale tenace, resistente, in grado di mantenere per oltre quarant’anni, senza cedimenti, senza abiure, senza tentennamenti, il filo rosso del progetto rivoluzionario. Un intellettuale in grado di “sporcarsi le mani” e di dare ancora un volantino a 60 anni, in grado di stare in mezzo ai giovani come se fosse ancora ventenne, di indicare la strada, di restare imprescindibile, per usare l’espressione celebre di Che Guevara.
Imprescindibile, è così che vogliamo ricordare Daniel Bensaid, la cui amicizia ci ha onorato, la cui presenza ci ha dato una grande forza e un grande slancio e la cui assenza non sappiamo proprio come possa essere colmata.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13922
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Corsi di scienze sociali in salsa chili 13.01.2010
Gli americani si considerano e sono considerati dai loro vassalli sparsi in giro per il mondo, per indiscutibile definizione, veri e unici depositari dei principi democratici. Conseguentemente a questo giudizio (quasi dogmatico) deriva che, essendo loro la sintesi massima di quanto di meglio l’umanità sia riuscita a sviluppare dal punto di vista delle istituzioni, della rappresentanza e dell’amministrazione della giustizia, essi detengano il diritto di affibbiare o meno a tutti gli altri paesi del mondo la patente di “paese democratico”.
Una democrazia non può definirsi, quindi, compiuta se non é riconosciuta come tale da un presidente a stelle e strisce.
Gli americani sono talmente convinti di questo che, coerentemente, si permettono di insegnare agli altri, organizzando veri e propri corsi scolastici, i propri concetti (che a questo punto intendono universali) riguardo la creazione e la gestione delle libere istituzioni.
A tal proposito vi segnaliamo il lavoro che si compie presso l’ ”Istituto di cooperazione e sicurezza dell’emisfero occidentale”dove viene spiegato cosa significhi la democrazia e come i principi sacri legati al concetto di libertà debbano essere trasmessi al mondo intero.
Tale istituzione, meglio nota come “La escuela de las Americas”, si trova in Georgia, ma, causa incomprensioni con i locali gruppi di difesa dei diritti umani, il presidente Obama sta pensando, non certo di interrompere l’ottimo lavoro che in quelle aule nel corso degli anni si è riusciti a produrre, ma di trasferire, baracca e burattini, nella più comprensiva Haiti (paese che da anni ormai è occupato arbitrariamente dalle forze Usa).
Curiosamente la scuola è un’emanazione diretta della Cia, che altrettanto stranamente, ha definito, tra i vari compiti che la scuola si è data, quello della lotta al comunismo come prioritario.
A noi questa definizione pare un po’ riduttiva rispetto ai meriti che la scuola può vantare; in effetti, come si fa sintetizzare in maniera così estrema il completo piano di studi che i frequentatori dei vari corsi sono tenuti a seguire?
Uno studente, un diplomato alla fine del suo percorso, oltre a ricevere la “medaglia dell’anticomunismo”, potrà vantarsi di padroneggiare le più raffinate tecniche di dissuasione, repressione, interrogatorio e di conoscere le più sofisticate tecniche di tortura (equivale o no ad un corso di scienze sociali con, in più, l’esperienza diretta, non già di laboratorio, direttamente sul campo?).
Tra gli studenti modello che tale scuola può vantare tra i suoi frequentatori vi sono:
– i generali Effrain Vazquez e Ramirez Povera che nel 2002 furono protagonisti del fallito golpe contro Chavez
– il generale Neuman, diplomatosi a pieni voti nel 1965 e che a capo della Dina (servizi segreti cileni) partecipò al golpe del 1973
– il generale Alvarado che organizzò il golpe in Perù nel 1968
– i membri del “gruppo collina” che, sempre in Perù risultano essere i responsabili di decine di omicidi durante il governo Fujimori
– alcuni capi delle organizzazioni paramilitari attive in Colombia
– i protagonisti del golpe in Bolivia del 1971
– sicuramente un membro (ma forse più) della giunta militare argentina come il generale Galtieri.
Insomma per ogni golpe, tentato o riuscito, in America latina c’è lo zampino della scuola. Legittimamente, quindi, il presidente Obama non rinuncerà a questa istituzione emerita.
M.R.
http://www.ilbuio.org/index.php?articolo=9_168.txt
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Il paese sudamericano lascia i progressisti e sposa gli eredi «liberal» del generale
Cile a destra, 20 anni dopo Pinochet 17-18.01.2010
L’imprenditore Sebastian Pinera batte all’ex presidente Frei, candidato della concertación di centrosinistra
SANTIAGO (Cile) – Il candidato della destra, l’imprenditore Sebastian Piñera, è il nuovo inquilino della Moneda, la sede presidenziale cilena. Dopo un primo turno che lo aveva visto in netto vantaggio, nel ballottaggio di domenica ha sentito il fiato sul collo dell’ex presidente Eduardo Frei, riuscito a recuperare buona parte dello scarto. Ma a un paio d’ore dalla chiusura dei seggi, lo spoglio delle schede ha dimostrato senza ogni dubbio che tra i due restava uno scarto di alcuni punti ma assolutamente incolmabile. Lo stesso Frei, con il procedere dello scrutinio, ha riconosciuto la vittoria del suo avversario: «Nella vita bisogna guardare con la stessa faccia la vittoria e la sconfitta», ha detto davanti ai suoi simpatizzanti.
SCARTO INCOLMABILE – I primi dati ufficiali a spoglio non ancora ultimato assegnano a Piñera il 51,87% dei voti, a fronte del 48,12% ottenuto da Frei. Circa quattro punti percentuali di distanza, insomma, che hanno reso evidente l’impossibilità di un recupero. Senza aspettare la chiusura ufficiale dei conteggi, dunque, Frei ha preso atto della battaglia persa e ha dato atto del passaggio di consegne tra il centrosinistra della «concertación», che guidava il Paese con Michelle Bachelet, e la nuova destra liberal erede di quella del generale Pinochet. Un risultato che si era prospettato già al primo turno, lo scorso 13 dicembre, quando Piñera aveva ottenuto una valanga di consensi: il 44% a fronte del 29,6% andato al 67enne Frei, che aveva pagato pegno ad un altro candidato, il dissidente socialista Enriquez-Ominami.
SVOLTA A DESTRA – Si tratta dunque di una vera e propria svolta. Era dal 1989 che il fronte progressista vinceva ininterrottamente le elezioni in Cile. La destra, dunque, torna al potere, anche se si tratta di una destra di orientamento liberal, per quanto erede del «post-pinochetismo». Un evento che va ad influire sulla geografia politica sudamericana che, malgrado l’attenzione alle notizie provenienti da Haiti, ha guardato con grande attenzione alla tornata elettorale cilena. Il Paese, del resto, ha nell’area un peso specifico (politico, economico e sociale) molto superiore alle sue dimensioni geografiche. Piñera incarna la nuova destra cilena, non molto lontana dalle ricette pro-mercato, ma con un ruolo attivo dello Stato, portate avanti in questi anni dal centro sinistra. Gli interrogativi di queste ore su Piñera riguardano quanto si lascerà influenzare dagli ambienti ex pinochetisti, anche per quel che riguarda la nomina dei ministri o di uomini chiave nel suo esecutivo.
Il candidato della “Concertacion” è quindi in rimonta, anche se per poter vincere affronta, almeno sulla carta, una missione quasi impossibile: essere votato della maggior quantità possibile di persone, incamerare cioè quasi tutti i voti che al primo turno sono andati al nuovo enfant prodige della politica cilena, Enriquez-Ominami.
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Lo “scandalo” Craxi. 15.01.2010
A molti anni dalla sua scomparsa, c’e’ ancora una vasta polemica su Craxi. A parte il fatto che la famiglia ha gia’ detto che la salma non tornera’ mai in Italia perche’ Craxi stesso non voleva che succedesse, il problema e’ che Craxi rappresenta un pochino la coscienza sporca di una parte del paese. E non mi riferisco ai socialisti.
Per prima cosa, affermare come fa Di Pietro che Craxi fosse “un condannato e basta” significa dare alle sentenze ordinarie di un tribunale il valore di giudice storico e politico. Mi spiace per Di Pietro, ma un tribunale non fa tanto. Indubbiamente a Di Pietro sarebbe piaciuto perseguitarlo di piu’, avendo il pensiero di Di Pietro la forma mentis dello sbirro piu’ che quella del giudice; in fondo le sue dimissioni dalla magistratura sono state una cosa buona per il paese.
Craxi fu uno dei politici piu’ importanti del dopoguerra, di cose per il paese ne ha fatte, e pretendere che una sentenza dello sbirro di turno le cancelli e’ impossibile, sarebbe come dire “Mah, alla fine Churchill era un alcoolizzato di merda, o che Patton fosse uno sciroccato newage convinto di essere la reincarnazione di un ufficiale cartaginese morto per difendere Tunisi.
Entrambe le cose sono vere, ma Churchill oltre che alcoolizzato era uno statista, e Patton oltre che un vanaglorioso idiota e un probabile criminale di guerra era anche un ottimo generale. Cosi’, Craxi era sicuramente un condannato per tangenti, e fu uno dei piu’ grandi statisti del dopoguerra. (1)
Quella di Craxi fu l’unica politica internazionale che non nascesse dai dossier di Washington, e lo dimostro’ con la vicenda di Sigonella, con la vicenda di Tripoli , e con la progressiva espansione dell’area di interesse politico e commerciale italiana nel mediterraneo, mediante una politica di distensione filoaraba.
L’italia pre-Craxi era un paese di patetici mandolinisti con le pezze al culo. Un’inflazione a due cifre divorava le imprese, che licenziavano a piu’ non posso: se lo stipendio dei lavoratori aumentava con la scala mobile, questo non succedeva alla loro liquidita’, che veniva erosa rapidamente. Le banche, per non rimetterci nell’inflazione, prestavano denaro a condizioni impossibili, ed era praticamente inutile risparmiare soldi perche’ venivano erosi in pochissimo tempo.
NON esisteva per questo alcun ceto medio, visto che il ceto medio e’ una combinazione di piccolo risparmio e piccola imprenditoria: ma avere credito era impossibile , risparmiare anche, e un’azienda che accumulasse liquidi per un investimento arrivava vicina alla fine del ciclo senza nulla da investire perche’ era eroso.
Cosa dobbiamo a Craxi?
Lo scontrino fiscale e il registratore di cassa. Prima, i negozi evadevano quanto volevano. Semplicemente. Era difficile trovare i soldi per mettere su un negozio, quindi erano tutti negozi di famiglia, ma se riuscivate, eravate borghesi, o giu’ di li’. Curioso particolare, per chi lo accusa di essere il patrono degli evasori. Indovinate chi scese in piazza contro?
L’inflazione scese dal 16% al 4%, grazie al fatto che si mise contro la CGIL e il PCI , e riusci’ a fermare il meccanismo della scala mobile, che persino gli elettori capivano essere deleterio, tantevvero che la battaglia fu vinta con un referendum.
Rese facoltativo l’insegnamento della religione nelle scuole, colpo durissimo per la chiesa, mettendoseli contro un bel pochino. Indovinate con quale governo ha smesso di esserlo?
L’italia avanzo’ dal tredicesimo posto sino al quinto posto tra i paesi a PIL piu’ alto del mondo.
Senza la sua politica nei confronti dei paesi mediterranei, non sarebbe stata possibile la metanizzazione del paese, e oggi saremmo a bruciare gasolio per scaldarsi, o carbone. Esattamente come si faceva all’epoca. C’era anche il Kerosene, e’ vero.
Ora, questo non significa che le sentenze siano nulle. Significa solo qualcosa che Di Pietro non puo’ capire: che la vita di una persona, e di un politico, non si esauriscono con la fedina penale.
Di Pietro, certo, e’ incensurato: ma puo’ dire di aver fatto altrettanto per il paese? Di essersi opposto alla Chiesa Cattolica al punto da rendere facoltativa l’ora di religione. Da aver ridotto all’estremo uno dei fenomeni di evasione fiscale piu’ radicati del paese introducendo il registratore di cassa? Puo’ dire di aver sollevato il paese sino a farlo entrare nel G8 e poi nel G7? No.
Ed e’ qui il problema: finche’ paragoniamo le fedine penali, e solo se ci fermiamo qui, Di Pietro vince su Craxi. Il problema viene quando ci chiediamo quanto abbiano dato al paese. Eh, perche’ il problema diventa piu’ grosso, e Di Pietro non ha grandi imprese da raccontare.
Oggi ci si lamenta per una posizione prona rispetto alla Chiesa. Beh, vista la performance dei governi di Prodi (I e II) , D’Alema e Amato, direi che l’unico capo di stato italiano che si sia messo di fronte a loro e a ridurre i loro privilegi. La religione cattolica fini’ di essere ufficialmente “religione di stato”, l’ora di religione divenne facoltativa, venne abolita la congrua, cioe’ il fatto che all’epoca era lo stato a pagare lo stipendio a preti dal bilancio del ministero della giustizia.
Ci si lamenta dei condoni ? Beh, nel provvedimento di Nicolazzi,veniva istituito l’obbligo dei piani regolatori e la responsabilita’ penale dei comuni quali organi di controllo. La speculazione edilizia riprese quando si cambiarono le leggi a riguardo.
Adesso vi lamentate delle banche ? Bene, Cuccia fu costretto alle dimissioni proprio da Craxi, che se lo mise contro un bel pochino. Con confindustria ando’ d’accordo sino ad un certo punto, finche’ all’ennesima richiesta degli industriali di soldi di stato li accuso’ di “voler lucrare senza pagare”, cosa che inizio’ un certo “gelo”. Non che coi sindacati andasse piu’ d’accordo, visto che si scontro’ con CGIL sia sulla scala mobile che sulla redistribuzione dei redditi.
Insomma, dopo di lui , di politici con quel tipo di palle, quelle di opporsi a banche e chiesa, di opporsi a CGIL e a Confindustria, non ce ne sono stati, nemmeno nei due famosi governi di centrosinistra.
E cosi’, giocoforza quando si parla di Craxi bisogna per forza di cose misurarsi con la fedina penale: nessuno dei politici attuali puo’ vantare di aver fatto cosi’ tanto per il paese. Nessuno.
L’italia che abbiamo oggi ha componenti moderne e forti componenti di arretratezza. Beh, quelle moderne le dovete tutte a Craxi, che traghetto’ il paese da miserabile branco di straccioni provinciali dei primi anni ‘70 ad economia del G7.
E dopo Craxi, molte di queste cose sono morte. Prodi ha legiferato sulle scuole private dando soldi ai preti: tutt’altra musica rispetto ad uno che rese facoltativa la religione cattolica.(2) Prodi creo’ quelle mostruosita’ fuori controllo che sono le fondazioni bancarie, cui i governi sono a tutt’oggi chini. Craxi avviso’ Gheddafi dei bombardamenti americani e nego’ a Reagan le basi per gli aerei , mentre D’Alema si piego’ supino e presto’ le basi a Clinton. Contro l’evasione fiscale Visco non fece quanto fece Visentini istituendo il registratore di cassa obbligatorio, che stoppo’ il piu’ diffuso fenomeno di evasione del tempo.
Non ce ne sono. Se non guardiamo alle fedine penali, non ci sono nel dopoguerra italiano politici con quel coraggio.
Ci furono indubbiamente altri buoni politici, ma quanto a coraggio delle proprie opinioni di fronte ai vari potentati (Chiesa, Confindustria, Banche , Sindacati, Commercianti, Washington) non ne troverete uno, uno solo, che abbia tenuto il polso fermo come lui. Potete fare a meno di cercarli.
Questa e’ la grossa colpa del paese. Perche’ sappiamo in fondo che aveva ragione anche su una cosa diversa, e cioe’ che le accuse rivolte a lui potevano essere rivolte a chiunque. (3) E quindi ci chiediamo: ma davvero e’ valsa la pena? Che cosa ci ha dato, alla fine, questa “Mani Pulite”.
Ci ha dato un paese migliore? Al contrario, proprio in quegli anni e’ iniziato il declino. Una classe politica migliore? Non la vedo, ne’ a destra ne’ a sinistra. Non ci ha dato una destra migliore della DC ne’ una sinistra migliore del PCI. Ci ha dato solo due nuovi estremismi, la Lega e Di Pietro. Fantastico.
Mani Pulite ci ha dato un’economia migliore? No.
Mani Pulite ci ha dato un paese piu’ laico? No.
Mani Pulite ci ha dato una politica estera piu’ attenta agli interessi nazionali? No.
La verita’ e’ che Mani Pulite, al paese, ha dato solo la libidine della condanna. E basta.
Nominare Craxi oggi, ovviamente, solleva questo problema. Qualcuno potrebbe andare a dire chi sia stato Craxi. Che cosa ha fatto per il paese. E la differenza di statura politica si nota. L’estrema sinistra si ritiene terzomondista? Craxi fu rappresentante del segretario generale dell’ONU Peréz de Cuéllar per i problemi dell’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo (1989); successivamente svolse l’incarico di consigliere speciale per i problemi dello sviluppo e del consolidamento della pace e della sicurezza (rinnovatogli nel marzo 1992 da Boutros Ghali). Che vi piaccia o no, la moratoria dei debiti del terzo mondo fu un’idea sua, non di Bono Vox o di Bertinotti.
Perche’ ai politici venuti dietro non viene riconosciuto niente di simile? Perche’ sono delle mezze seghe. Tutto qui.
Allora cosa si fa? Si va a prendere la fedina penale. L’unico campo possibile.
Si parla di Craxi e del debito pubblico; vero. Ma il debito crebbe ugualmente anche dopo, ed era in forte crescita anche prima di Craxi, il ritmo non cambio’ di molto. E’ solo che Craxi governo’ a lungo, e per questo il debito crebbe molto sotto di lui. Tantevvero che il rischio di default lo abbiamo avuto con uno dei “governi tecnici” venuti dopo Mani Pulite. Per tutta l’era Craxi nessuno parlava di pericolo default. Ne’ di declino.
Questo e’ lo scandalo Craxi: per batterlo potete usare SOLO la fedina penale. Perche’ sul piano politico, sia interno che estero, nessuna delle ridicole scimmie al potere oggi , e neanche le patetiche scimmie che lo sono state da Mani Pulite in poi, gli arrivano alle ginocchia.
Ovviamente, un politico come Di Pietro non puo’ sperare altro che questo: che tutti si ricordino solo della fedina penale. Che tutti considerino le sue condanne e solo quelle. Perche’ in nessun altro campo hanno chances di competere con quei politici di quei tempi.
Perche’ lo scandalo e’ che dopo Mani Pulite non solo non e’ cambiato nulla in Italia, ma e’ peggiorato tutto.
Ed e’ peggiorato tutto, lo sappiamo bene , perche’ quella classe politica abbattuta dalle inchieste era si’ poco onesta (quanto la media degli italiani) , ma come politici sono stati i migliori uomini politici del dopoguerra.
E questo non gli va giu’.
Lo scandalo di Craxi e’ dovuto a questo.
Ci si incazza perche’ gli si vogliono intitolare delle vie. Ah, si? Beh, a Bologna ho vissuto in Via Togliatti, ed esiste via Lenin. Posso sapere, per favore, perche’ non Via Craxi? Che cosa ha fatto Lenin per l’ Italia? E Togliatti? E Vittorio Emanuele?
Ma specialmente, che cosa ha fatto Di Pietro?
Perche’ ancora, io, gli effetti positivi di Mani Pulite non li ho visti. Ne’ sul paese, ne’ sulla mia vita materiale.
Uriel
(1) Non cagate il cazzo con Berlinguer, perche’ non mi sovvengono le sue eroiche imprese. E se mi dite che non ne fece perche’ non vinse mai le elezioni, la risposta e’ che una di queste eroiche imprese che non mi sovvengono e’ proprio quella di non essere mai riuscito ad andare al governo del paese.
(2) Nell’emilia comunista, io fui l’unico della classe a dire di no alla religione cattolica alle superiori. I signorini dell’ FGCI dell’epoca pensavano che “un amico in piu’ nel consiglio dei professori fosse piu’ nell’interesse degli studenti” e lasciarono “liberta’ di coscienza”. Non per nulla, col Prodi I….
(3) Ripeto: da un giurista mi aspetto la lettura di massime latine. Non l’ Italiano di Di Pietro. In che modo si vincano i concorsi lo sappiamo, e non pensiamo che quelli per diventare magistrati a Milano siano molto diversi. O in Italia si salva solo un tipo di concorso, quello che ha fatto Di Pietro? Se sentissi una persona parlare come Tonino e dovessi scommettere per la sua vittoria ad un concorso con una prova scritta, diciamo che non lo darei vincente.
http://www.wolfstep.cc/2701/lo-scandalo-craxi/
Non dobbiamo dimenticare l’8 per 1000 e la legge Mammì…
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L’H1N1? Una truffa colossale (ufficiale) 14.01.2010
L’influenza A, le cui conseguenze per settimane hanno tenuto in allarme milioni di persone, in realtà era una “falsa pandemia” orchestrata dalle case farmaceutiche pronte a fare miliardi di euro con la vendita del vaccino: l’accusa arriva da Wolfang Wodarg, il presidente tedesco della commissione Sanità del Consiglio d’Europa.
Wodarg ha anche accusato esplicitamente le industrie farmaceutiche di aver influenzato la decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di dichiarare la pandemia. Pesante il j’accuse di Wodarg, ex membro dell’Spd, medico ed epidemiologo, secondo cui le multinazionali del farmaco hanno accumulato “enormi guadagni” senza alcun rischio finanziario, mentre i governi di tutto il mondo prosciugavano i magri bilanci sanitari spendendo milioni nell’acquisto di vaccini contro un’infezione che in realtà era poco aggressiva.
Wodarg ha fatto approvare una risoluzione nel Consiglio d’Europa che chiede un’inchiesta sul ruolo delle case farmaceutiche; e sulla questione il Consiglio d’Europa terrà un dibattito a fine mese. La denuncia, riportata con grande evidenza dal Daily Mail, arriva qualche giorno dopo quella secondo cui i governi di mezzo mondo stanno cercando di sbarazzarsi delle milioni di dosi di vaccino, ordinate all’apice della crisi. Il Mail ricorda che, in Gran Bretagna, il ministero della salute aveva previsto 65.000 decessi, creato una linea-verde e un sito web per dare consigli, sospeso la regola che vieta di vendere anti-virali senza prescrizione medica; furono allertati gli obitori e persino l’esercito, che doveva essere pronto a entrare in campo qualora si fossero verificati tumulti tra la popolazione a caccia dei farmaci.
Secondo Wodarg, il caso dell’influenza suina è stato “uno dei più grandi scandali sanitari” del secolo. Le maggiori aziende farmaceutiche, secondo Wodarg, sono riuscite a piazzare “i propri uomini” negli “ingranaggi” dell’Oms e di altre influenti organizzazioni; e in tal modo potrebbero aver persino convinto l’organizzazione Onu ad ammorbidire la definizione di pandemia, il che poi portò, nel giugno scorso, alla dichiarazione di pandemia in tutto il mondo.
“Per promuovere i loro farmaci brevettati e i vaccini contro l’influenza, le case farmaceutiche hanno influenzato scienziati e organismi ufficiali, competenti in materia sanitaria, e così allarmato i governi di tutto il mondo: li hanno spinti a sperperare le ristrette risorse finanziari per strategie di vaccinazione inefficaci e hanno esposto inutilmente milioni di persone al rischio di effetti collaterali sconosciuti per vaccini non sufficientemente testati”.
Wodarg non fa alcun nome esplicito di persona in conflitto di interessi; ma lo scorso anno il Daily Mail aveva rivelato che Sir Roy Anderson, uno scienziato consulente del governo britannico sull’influenza suina, fa parte del consiglio d’amministrazione della GlaxoSmithKline. L’azienda farmaceutica, che produce antinfluenzali e vaccini, ha immediatamente replicato alle accuse, definendole “sbagliate e infondate”.
Fonte: AGI
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Morire nel deserto 14.01.2010
di Fabrizio Gatti
Un filmato documenta la tragica fine degli immigrati espulsi dalla Libia. Così come prevede l’accordo siglato tra Berlusconi e Gheddafi
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/morire-nel-deserto/2119367//0
Le mani nere sollevate ad afferrare l’aria. Pochi passi oltre, il vento sulla camicia anima la smorfia dell’ultimo respiro di una donna. E subito accanto, il corpo di un ragazzo ancora chino nella preghiera da cui non si è mai rialzato. Muoiono così gli immigrati. Così finiscono gli uomini e le donne che non sbarcano più a Lampedusa. Bloccati in Libia dall’accordo Roma-Tripoli e riconsegnati al deserto. Abbandonati sulla sabbia appena oltre il confine. A volte sono obbligati a proseguire a piedi: fino al fortino militare di Madama, piccolo avamposto dell’esercito del Niger, 80 chilometri più a Sud. Altre volte si perdono. Cadono a faccia in giù sfiniti, affamati, assetati senza che nessuno trovi più i loro cadaveri. Un filmato però rivela una di queste stragi. Un breve video che ‘L’espresso’ è riuscito a fare uscire dalla Libia e poi dal Niger. Un’operazione di rimpatrio andata male. Undici morti. Sette uomini e quattro donne, da quanto è possibile vedere nelle immagini.
Il video è stato girato con un telefonino da una persona in viaggio dalla Libia al Niger lungo la rotta che da Al Gatrun, ultima oasi libica, porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari della Repubblica nigerina. È la rotta degli schiavi. La stessa percorsa dal 2003 da decine di migliaia di emigranti africani. Uomini e donne in cerca di lavoro in Libia, per poi pagarsi il viaggio in barca fino a Lampedusa. Secondo la data di creazione del file, il video è stato girato il 16 marzo 2009 alle 12.31. L’ora centrale della giornata è confermata dall’assenza di ombre nelle immagini. L’uomo che filma è accompagnato da una pattuglia militare. Per una breve sequenza, si vede un fuoristrada pick-up con una mitragliatrice. Le 11 persone morte di sete sarebbero arrivate fino a quel punto a piedi. Si sono raccolte vicino a una collina di rocce e sabbia. Forse speravano di avvistare da quell’altura un convoglio di passaggio e chiedere aiuto. Addosso o accanto ai cadaveri, scarpe e pantaloni di marche che si comprano in Libia. Intorno non ci sono altri fuoristrada o camion. Non ci sono strade né piste battute. È una regione del Sahara in cui ci si orienta solo con il sole e le stelle.
In quei giorni migliaia di emigranti dell’Africa subsahariana salgono in Libia da Agadez, l’ultima città del Niger, ancora isolata dal mondo per la guerra civile tra l’esercito e una fazione di tuareg. Dalla fine del 2008 si contano almeno 10 mila emigranti in partenza ogni mese, dopo una lunga interruzione del traffico di clandestini. I passatori del Sahara riaprono gli affari sfruttando la ribellione tuareg, sostenuta dalla Francia per ottenere lo sfruttamento del secondo giacimento al mondo di uranio, a Imouraren, vicino ad Agadez. Il 2 marzo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è invece in Libia per siglare l’ennesimo accordo con il colonnello Muhammar Gheddafi. È la visita in cui Berlusconi porge le scuse per l’occupazione coloniale. Quella in cui i governi di Roma e Tripoli mettono le basi per la collaborazione nei pattugliamenti sottocosta, contro le partenze per Lampedusa. Nel 2008 il regime di Gheddafi aveva lasciato salpare verso l’Italia più di 30 mila immigrati, un record che ha richiamato in Libia migliaia di persone fino a quel momento bloccate ad Agadez.
Nell’incontro Berlusconi e Gheddafi non parlano solo di immigrazione. Discutono di affari personali, dei 5 miliardi di dollari in vent’anni a carico dell’Eni per il risarcimento dei danni di guerra, di contratti per il petrolio e il gas. Tripoli offre subito un segnale di buona volontà e rispedisce verso il Niger centinaia di migranti rinchiusi nel campo di detenzione della base militare di Al Gatrun. Forse i cadaveri filmati con il telefonino sono la tragica conclusione di una di quelle operazioni. Al Gatrun e Agadez sono separate da 1.490 chilometri di deserto. Dieci giorni di viaggio e in mezzo una sola oasi, Dirkou. Fino a quando non si entra ad Agadez non si può dire di essere sopravvissuti al Sahara. Ma la polizia e l’esercito libici di Al Gatrun non si sono mai preoccupati della sorte degli stranieri una volta lasciati al di là del confine con il Niger. Gli immigrati espulsi vengono scaricati dai camion militari e costretti a proseguire a piedi. Oppure sono affidati ai trafficanti che spesso li abbandonano molto prima di arrivare a destinazione. Dalla linea di frontiera tratteggiata sulla carta geografica, la prima postazione militare del Niger è solo Madama, a 80 chilometri di colline e avvallamenti senza pozzi. Non c’è altro. Ottanta chilometri in cui, persa la rotta e abbandonato il bidone d’acqua per camminare leggeri, si è destinati a morire. Già nel 2005 ‘L’espresso’ aveva scoperto che le operazioni di rimpatrio verso il Niger, dopo il primo accordo tra Berlusconi e Gheddafi, avevano provocato 106 morti in quattro mesi. Ed erano soltanto le cifre ufficiali. Come i 50 schiacciati da un camion sovraccarico che si è rovesciato. Oppure il ragazzo del Ghana mai identificato, sbranato da un branco di cani selvatici durante una sosta a Madama. E le tre ragazze nigeriane morte di sete o le15 raccolte in fin di vita con quattro uomini da un convoglio umanitario francese, dopo essere state abbandonate. Tutti condannati a morte da chi aveva organizzato il loro rimpatrio.
La notizia del filmato arriva a ‘L’espresso’ nella primavera 2009 durante la preparazione del documentario ‘Sulla via di Agadez’. L’uomo con il telefonino però non è più nella città di fango rosso: “È tornato in Libia”, sostiene una fonte: “Lo stesso giorno del filmato, a molti chilometri da quei cadaveri, hanno soccorso due ragazzi ancora vivi. I due hanno detto che erano stati costretti dai militari a partire da Al Gatrun. Arrivati nella zona del confine hanno dovuto proseguire a piedi”. Nel Sahara i passaparola richiedono molto tempo. Ma di solito vanno a destinazione. Il 16 luglio il dvd con il filmato viene recapitato in redazione. Mancano altre conferme. Bisogna aspettare che l’uomo con il telefonino torni ad Agadez e passano cinque mesi. È il 9 gennaio di quest’anno quando finalmente arrivano le risposte. Nel frattempo il video finisce anche in altre mani. Il 13 dicembre qualcuno lo carica su YouTube dagli Stati Uniti. Dice di averlo ricevuto da Augustine, ospite di un campo di rifugiati a Malta. Augustine però non conosce la storia delle espulsioni a piedi.
Palazzo Chigi sa ufficialmente dal 3 marzo 2004 che gli immigrati bloccati in Libia subiscono maltrattamenti. È la data stampata su un rapporto riservato della presidenza del Consiglio che ‘L’espresso’ ha potuto leggere. La relazione viene consegnata allo staff di Berlusconi, dopo la visita nel Sahara della delegazione della Protezione civile che deve progettare la costruzione dei centri di detenzione libici: “Si ritiene di dover scegliere, per motivi di opportunità e per una fluidità delle operazioni, la via che impegna il governo italiano in misura ridotta”, dice il rapporto: “Tale soluzione ci farebbe calare meno nella configurazione dei centri, in considerazione anche del trattamento che riservano i libici ai cittadini extracomunitari trattenuti nei loro centri, di cui si allega documentazione fotografica”. Il governo invece si cala, eccome. Fino a chiedere a Gheddafi di proteggere i nostri confini meridionali. Costi quel che costi. Incuranti che in Italia esiste ancora l’articolo 40 del codice penale. Dice così: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/morire-nel-deserto/2119367//0
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L’eleganza del Quanto 12.01.2010
Indagando gli effetti della meccanica quantistica su scala atomica, un gruppo di ricercatori europei ha scoperto una simmetria nascosta. Fra i numeri compare la sezione aurea
Esiste un’armonia anche nel nanomondo governato dalla leggi della meccanica quantistica. O, quanto meno, esiste una simmetria dovuta agli effetti quantistici che agiscono sugli atomi di un cristallo. E fra i numeri che la descrivono compare anche la sezione aurea: il classico “1,618”, ben noto in geometria, nell’arte e nell’architettura. La scoperta, riportata su Science, è di un gruppo di ricercatori europei coordinato da Radu Coldea dell’Università di Oxford.
Su scale atomiche i fenomeni fisici obbediscono alle leggi quantistiche, fra cui il famoso Principio di Indeterminazione di Heisenberg in base al quale è impossibile conoscere con precisione (arbitrariamente) alta il valore di certe coppie di grandezze fisiche, per esempio impulso e posizione di una particella. Per studiare gli effetti quantistici su scale nanometriche, i ricercatori hanno utilizzato un materiale chiamato niobato di cobalto (CoNb2O6). Portando il materiale a temperature poco superiori allo zero assoluto, gli atomi si dispongono in lunghe catene, formando sottilissimi magneti larghi appena un atomo, che si comportano come corde di uno strumento musicale.
Applicando un intenso campo magnetico (perpendicolare agli spin degli elettroni nelle catene atomiche), il sistema raggiunge uno “stato quantistico critico” in cui è possibile misurare i “modi di vibrazione” del sistema. I ricercatori hanno evidenziato che i modi possibili obbediscono a relazioni matematiche tipiche di una simmetria chiamata E8, ben nota agli scienziati, poiché è molto usata in fisica teorica nella formulazione della teoria delle Stringhe e nelle teorie di Supergravità.
Analogamente alla corda di una chitarra, che possiede certe note caratteristiche, anche queste catene atomiche hanno modi di eccitazione ben determinati. Studiandoli in dettaglio, gli scienziati hanno trovato che il rapporto fra le frequenze delle prime due “note” vale circa 1,618, il numero della sezione aurea, l’ideale classico di bellezza e armonia. Secondo Coldea non si tratta di una coincidenza, ma il rapporto riflette una bellissima proprietà di un sistema quantistico, cioè una simmetria nascosta. Che ha stupito tutti facendo la sua prima comparsa nella fisica dello stato solido. (m.r.)
Riferimento: DOI: 1180085/JEC/PHYSICS
Immagine: Il campo magnetico è utilizzato per portare il sistema in uno stato critico quantistico. Usando la diffusione di neutroni si possono misurare i modi caratteristici di vibrazione del sistema.
Credits: Helmolz-Zentrum Berlin fur Materialen un Energie (HZB)
http://www.galileonet.it/news/12236/leleganza-del-quanto
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Tabacco, la legge delle lobby 13.01.2010
Le industrie del tabacco influenzano le scelte politiche dell’Europa per accrescere i propri guadagni. Ne fa le spese la salute pubblica
In uno studio pubblicato su PloS Medicine, i ricercatori dimostrano che le grandi industrie del tabacco influenzano le scelte politiche europee favorendo una logica del profitto a danno della tutela della salute. La ricerca, coordinata da Katherine Smith dell’Università di Bath, in Gran Bretagna, ha mostrato che, nel valutare le politiche da adottare, l’Unione Europea non sempre agisce in modo libero e indipendente. Singole corporazioni, infatti, possono influenzare la scelta dei criteri di valutazione delle nuove leggi, agendo in modo da tutelare i propri interessi a discapito dei diritti dei cittadini.
In Europa, ogni nuova decisione dovrebbe essere soggetta per legge a un “giudizio d’impatto” (IA). Si tratta di una procedura mirata a stimare costi e benefici di una determinata scelta politica, in modo da analizzare la proposta legislativa alla luce delle sue potenziali conseguenze economiche, sociali, ambientali e sanitarie. Naturalmente, il risultato di tale giudizio dipende dal peso che si attribuisce ai singoli aspetti. “Alcuni studi indipendenti sul meccanismo dell’IA, suggeriscono che nel giudizio d’impatto le considerazioni di tipo economico hanno sempre più valore delle altre”, hanno raccontato i ricercatori: “ Per esempio una revisione dei giudizi di impatto effettuati dalla Commissione Europea nel 2005-2006 ha mostrato che nel 50 per cento delle valutazioni la parola ‘salute’ non era mai nominata.
Per capire se e in quale modo le industrie intervengano nel determinare le scelte politiche europee, i ricercatori hanno intervistato politici e lobbisti ed analizzato ben 5.677 documenti interni della British American Tobacco (Bat), la seconda multinazionale del tabacco più potente al mondo. Tra tutti i documenti studiati, i ricercatori ne hanno identificati 714 che indicavano un tentativo da parte della Bat di influenzare le riforme normative europee. Ne è emerso che la Bat, promuovendo un’ampia alleanza con altre potenti industrie, soprattutto del settore chimico e farmaceutico, è riuscita ad “assicurarsi” un emendamento al Trattato europeo (documento che regola la politica comunitaria dell’Europa) che favorisce un meccanismo di valutazione d’impatto orientato al solo business. In questo modo, le multinazionali hanno alterato il processo decisionale europeo piegandolo ad una logica puramente economica, che non tutela adeguatamente gli interessi dei cittadini.
“Per proteggere la salute pubblica”, concludono i ricercatori, “bisogna innanzitutto che i politici europei ammettano l’esistenza del problema, troppo spesso ignorato. Poi, è necessario rivedere attentamente il meccanismo del giudizio d’impatto, così da garantire trasparenza e credibilità”. (m.s.)
Riferimenti: PLoS Medicine doi:10.1371/journal.pmed.1000202
http://www.galileonet.it/news/12240/tabacco-la-legge-delle-lobby
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Verso una rete verde 14.01.2010
Presentato Green Touch, un consorzio organizzato dai laboratori Bell dell’Alcatel-Lucent con lo scopo di sviluppare tecnologie di rete che permettano la riduzione del consumo energetico
Un passo verso una comunicazione più ecologica è stato compiuto. L’11 gennaio i laboratori Bell dell’Alcatel-Lucent hanno presentato a Londra Green Touch, un consorzio tecnologico globale con l’obiettivo di sviluppare reti di comunicazione con un’efficienza energetica mille volte superiore a quella attuale. All’iniziativa, che partirà a febbraio contando su un investimento di dieci milioni di euro, partecipano diverse compagnie leader del settore (AT&T, China Mobile, Samsung), istituzioni accademiche di diversi paesi (Massachusetts Institute of Technology, Stanford Univesity e University of Melbourne) ed enti governativi.
La maggiore efficienza delle reti si rifletterebbe in una consistente riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Il settore delle Tecnologie dell’Informazione e delle Comunicazioni (Ict) emette giornalmente trecento tonnellate di diossido di carbonio. “Con l’uso della banda larga, il consumo di energia delle Ict sta crescendo rapidamente, perció è necessario adottare misure immediate”, ha spiegato Vernon Turner, vicepresidente della IDC. In questo senso, una riduzione del consumo energetico a una millesima parte equivarrebbe ad alimentare per tre anni le reti di comunicazioni di tutto il mondo – compresa la rete Internet – con la stessa quantità di energia impiegata attualmente in un solo giorno.
Secondo le indagini realizzate sulle proprietà fondamentali di sistemi ottici, inalambrici, elettronici, di processamento, di routing e architettura, le reti delle Ict potrebbero addirittura essere 10mila volte più efficienti delle reti operative usate oggi. “Per raggiungere il nostro obiettivo, è necessario reinventare tutti gli elementi della rete di comunicazioni. La rete di oggi è ottimizzata per migliorare le sue prestazioni, pertanto richiede moltissima energia per operare. La rete di domani avrà un alto livello di prestazioni ma un basso consumo di energia”, ha dichiarato Gee Rittenhouse, direttore della ricerca nei laboratori Bell.
Per aumentare le probaiblità di successo, Green Touch ha invitato apertamente tutti i membri della comunità delle Ict ad unire gli sforzi: “è sempre stata data una migliore risposta alle sfide globali integrando le persone più brillanti in un ambiente creativo e senza restrizioni. È questo l’approccio che dobbiamo applicare per rispondere alla crisi climatica globale”, ha commentato Steven Chu, segretario all’Energia degli Stati Uniti. (a.o.)
Riferimenti: GreenWire
http://www.galileonet.it/news/12242/verso-una-rete-verde
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Piano B per salvare la nuova sanità americana 19.01.2010
NEW YORK – Sarebbe davvero drammatico per i democratici se la riforma sanitaria dovesse affondare per la perdita del seggio di Ted Kennedy in Massachusetts. Eppure proprio ieri sera, a campagna chiusa per l’elezione speciale che vede sfidarsi la democratica Martha Coakley e il repubblicano Scott Brown (che ha visto allargarsi il vantaggio a nove punti secondo un nuovo sondaggio InsiderAdvantage), gli strateghi della Casa Bianca non pensavano più all’elezione, ma a come salvare il progetto di riforma sanitaria in caso di sconfitta. E c’è già un piano B: portare al voto della Camera la proposta già approvata dal Senato senza nessun cambiamento. Farla votare e portarla al più presto alla firma del presidente Obama, che ieri ha rotto gli indugi e annunciato anche che terrà il discorso sullo stato dell’Unione il 27 gennaio.
Le due proposte sono praticamente identiche, con due importanti eccezioni. La Camera ha approvato un progetto per l’opzione pubblica, che prevede un’offerta di assicurazione direttamente da parte dello stato in concorrenza con quella privata, il Senato l’ha respinto. È proprio attorno a questa e ad altre differenze minori che la settimana scorsa si è cercato di negoziare con la mediazione diretta di Obama. Negoziato inutile se la Coakley dovesse perdere. A quel punto i democratici non avranno più la maggioranza blindata di 60 voti in Senato, che consente di superare l’ostruzionismo repubblicano. Fra i deputati ci sono molte resistenze, ma la promessa è che qualche modifica sarà possibile in futuro, in sede di riconciliazione di bilancio, un negoziato parallelo che potrebbe includere la riforma. Un’altra ipotesi è quella di accelerare il negoziato e forzare il voto di riconciliazione per il testo unico al Senato prima dell’insediamento di Brown. Ma questa tattica avrebbe un impatto negativo sul piano politico: i repubblicani denuncerebbero un vero e proprio scippo, con conseguenze ancora peggiori per le elezioni del prossimo novembre.
L’ipotesi resta per ora da ultima spiaggia: anche se Brown ha accumulato un vantaggio nei confronti della Coakley in numerosi sondaggi e corre con il vento in poppa, i democratici sanno di avere nello stato una maggioranza di tre a uno. E dunque sperano che alla fine la solidarietà di partito prevalga. Una speranza sottile: un sondaggio privato ha dimostrato che coloro che oggi appoggiano Barack Obama non se la sentono di appoggiare la Coakley, che ha sviluppato un’ondata di antipatia insospettabile. Un altro problema è che solo il 36% della popolazione del Masschusetts è favorevole al progetto di riforma sanitaria messo a punto alla Camera e al Senato. E i repubblicani appoggiati dalle lobby contrarie al progetto hanno trasformato l’elezione in un referendum sulla riforma e sull’operato di Barack Obama.
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FBI, fotoritocco in barba al politico 18.01.2010
Per ricreare un’immagine attualizzata di Bin Laden l’agenzia statunitense ha utilizzato la foto di un parlamentare spagnolo
Roma – Finire sulle foto segnaletiche spesso vuol dire che la si è fatta grossa, ma se a finirci ci sono soltanto i propri capelli e la fronte, mentre il resto del viso ricalca i tratti somatici di un Osama Bin Laden invecchiato secondo la visione di un artista ingaggiato dalla FBI, c’è qualcosa che non va. Gaspar Llamazares, parlamentare spagnolo che si è trovato suo malgrado a fare da “base” per questo lavoro di forensic art, si è accorto grazie ad un amico dell’eccessiva somiglianza con quell’immagine che nei giorni scorsi aveva iniziato a circolare insieme ad altre foto modificate di membri di Al-Qaeda.
“Sono rimasto sorpreso, oltre che sconcertato, dell’utilizzo senza vergogna dei tratti di una persona reale per ritrarre l’immagine di un terrorista” ha dichiarato Llamazares. Un imbarazzato portavoce dell’FBI ha spiegato che le tecniche in loro possesso necessitano quasi sempre di un volto reale su cui poi intervenire modificandone i caratteri somatici. In ogni caso l’autore dell’immagine non era al corrente dell’identità di Llamazares, il quale però ha rincarato la dose spiegando che fatti del genere non fanno altro che dimostrare il basso livello dei servizi di sicurezza statunitensi.
La stessa FBI avrebbe ammesso che i suoi sistemi non sono molto efficaci nel ricreare alcuni segni particolari come barba e capelli: da qui la necessità di prendere in prestito il volto di Llamazares per avere qualche speranza in più di acciuffare il capo di Al-Qaeda. Oltre a suscitare dubbi circa l’efficacia di una macchina governativa da diversi milioni di dollari, come fanno notare alcuni, questa singolare vicenda ha avuto per ora l’unico effetto di rendere meno sereni i viaggi di Llamazares.
Attualmente la foto incriminata non è più presente negli archivi USA ma è facilmente rintracciabile sul Web. Digitando infatti le iniziale del politico spagnolo compaiono anche diverse versioni del contestato fotomontaggio.
Giorgio Pontico
http://punto-informatico.it/2789498/PI/News/fbi-fotoritocco-barba-al-politico.aspx
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I Disegni spazzatura di Jane Perkins 19.01.2010
L’arte è arte, a prescindere dai mezzi utilizzati.
Abbiamo visto come un artista italiano sia balzato agli onori della cronaca per i suoi disegni nel grano, oggi vediamo come un quadro può essere realizzato con il materiale più povero del mondo, la spazzatura.
Queste sono le opere di Jane Perkins, l’artista inglese che fa ritratti utilizzando accessori da golf, coltelli di plastica e chi più ne ha più ne metta
I quadri di questa eco artista hanno come protagonisti Barack Obama, sua moglie Michelle, la Regina d’Inghilterra, David Beckham, Nelson Mandela, Madonna, e sono tutti realizzati con prodotti presi nei negozi di usato, bottoni, giocattoli guasti, gioielli e tutto quello che le capita sottomano.
Dichiara l’artista “Amo l’arte con elementi divertenti e inusuali, e prendo ispirazione tra gli oggetti che trovo ogni giorno pensandoli in modo nuovo.”
http://www.ecozoom.tv/blog/area/2010/01/i-disegni-spazzatura-di-jane-perkins/
Dove poter vedere altri lavori:
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Il Cile va alla destra dura e pura 19.01.2010
Il Cile va alla destra dura e pura, sia pur mascherata con la paccottiglia mediatica, l’aberrazione dell’invocazione continua di dio (e il terzo comandamento?) e i cotillon dell’american dream, di . Il Berlusconi cileno per semplificare attenendosi al libretto, rappresenta quella concentrazione di potere economico, mediatico, perversione e capacità di corruttela e menzogna per la quale il modello neoliberale, l’informalizzazione di ogni rapporto di lavoro, l’azzeramento dello Stato come strumento di difesa dei deboli e il favorire senza limiti la concentrazione della ricchezza, sarebbe tuttora il destino naturale dell’uomo. Ciò nella presunzione che tale destino naturale rappresenti il “cambio” necessario per il paese a vent’anni dalla fine della dittatura e nonostante vent’anni di centro-sinistra non si siano mai discostati dal modello neanche quando sono stati a guida socialista, con Ricardo Lagos e Michelle Bachelet.
La storia della Concertazione è finita così in un caldissimo pomeriggio di gennaio in un hotel a cinque stelle di Santiago, un buon posto per una coalizione che ha da tempo smarrito la sua storia. Poche facce ricordano quelle dell’88, quando donne e uomini feriti, mutilati e umiliati dalla dittatura ma non sconfitti, pensavano che ci fosse finalmente l’opportunità di costruire, sia pure con l’ipoteca della Costituzione pinochetista, un paese e una democrazia nuova. In pochi oggi ascoltano le parole di circostanza del candidato sconfitto, il bolso democristiano Eduardo Frei, una minestra riscaldata (era stato già grigio presidente negli anni ’90), che ha rappresentato il tentativo suicida di far passare equilibri di partito come necessità del paese. Una militante, mostrando rara capacità di sintesi, gli grida inascoltata: “abbiamo perso per la nostra superbia e la nostra incapacità”.
Adesso, con Piñera che alla Moneda prenderà il posto di Salvador Allende e di Augusto Pinochet (e non ci sono dubbi su di chi si consideri erede) tutte le illusioni sono cadute. A partire da quella puerile e consolatoria che già rilancia la campagna per riportare Michelle Bachelet alla Moneda nel 2014. Come se il prestigio personale potesse controllare fino ad allora una coalizione da anni in corso di esplosione e piena di fazioni e interessi privati che difficilmente potranno essere superati in peggio da quelli della destra.
La Concertazione in Cile, l’alleanza tra la Democrazia Cristiana (che in parte fu complice della dittatura fondomonetarista di Augusto Pinochet) e il Partito Socialista rinnovato, riconvertito dall’esilio (complice Bettino Craxi) si basava sulla svendita di un patrimonio storico che risaliva da ben prima di Salvador Allende a Luís Emilio Recabarren. La riconversione al secolarismo neoliberale significava, e lo hanno scoperto amaramente i cileni negli ultimi vent’anni, che non si apriranno mai più “le grandi alamedas dove passa l’uomo libero”. Certo, oggi sarebbe totalmente illusorio in un paese socialmente frammentato come pochi dal modello economico ripensare a Recabarren o Allende ma la menzogna sulla quale per vent’anni si è basata la Concertazione è purtroppo caduta.
Molti cileni democratici, soprattutto tra le classi medio-alte e intellettuali, e spesso con un passato cristallino di militanza e spesso di esilio, fino alle ultime ore prima della chiusura dei seggi e l’apertura delle urne si erano continuati ad illudere che Piñera non potesse vincere. Sono tra quelli che in questi anni hanno trovato buone maniere per sopravvivere agiatamente ed approfittare delle virtù del modello, per esempio pagando impiegate domestiche a tempo pieno meno di quanto spendono per fumare, ma continuando a sproloquiare da sinistra e senza mai mettere piede nelle “comunas popolari” da dove quelle impiegate domestiche licenziabili su due piedi provengono arrivando ogni mattina all’alba nelle loro case borghesi a Vitacura o a Las Condes. Si sono continuati ad illudere che quel limbo ventennale nel quale la Concertazione aveva rinchiuso il Cile, un neoliberismo funzionante nel bene e nel male con qualche spuntatura delle peggiori brutalità, associato alla comoda illusione che quella fosse l’unica democrazia possibile, la migliore delle democrazie possibili nel paese di Pinochet, potesse continuare a governare il Cile sia pure nella burocratizzazione più bieca dell’esistente.
Adesso il disastro è compiuto e vedremo se e come una Concertazione arriverà al prossimo appuntamento elettorale e con quali programmi. Difficilmente la unirà Marco Enríquez-Ominami, il giovane uscito dal partito socialista. Al primo turno, raccogliando un voto su cinque, ha messo a nudo che un’epoca stava arrivando al capolinea. Marco al ballottaggio ha appoggiato Frei senza neanche nominarlo, una dimostrazione di freddezza che testimonia quanto post-politica fosse la sua candidatura e vago il suo appellarsi al cambio da sinistra in quanto giovane, in un paese dove oltre la metà dei giovani non si sono neanche presi il fastidio di registrarsi per votare. Così non sorprende che un terzo dei suoi votanti, soprattutto uomini tra i 25 e i 45, al ballottaggio abbia optato per Piñera. Cambio che invece potrebbe essere rappresentato da una battaglia di lunga durata per una Assemblea Costituente che superi la Costituzione escludente pinochetista. Jorge Arrate, anche lui ex-socialista e candidato delle sinistre, sia pur fermo al 6% al primo turno, ha detto parole interessanti in merito. Parole che qualunque opposizione, nella quale Ricardo Lagos è al massimo un padre nobile e Michelle Bachelet solo una possibile risorsa alla quale dare contenuti nuovi, dovrebbe prendere in serio conto per ricominciare a sperare.
È innegabile infine che la sconfitta della Concertazione rappresenti un pericolo politico, economico e militare per l’America latina integrazionista e in particolare per la Bolivia. Il Cile neoliberale ha costruito un’efficiente economia ancillare di quella statunitense ma ha agito, soprattutto con Michelle Bachelet, come un attore neutro rispetto ai grandi movimenti politici, sociali ed economici del continente. Adesso dal colombiano Àlvaro Uribe passando per il peruviano Alan García fino a Piñera, sulla costa pacifica del Sud America (senza dimenticare il Messico di Felipe Calderón) si salda un poderoso fronte politico di destra filostatunitense e che si mette di traverso ai progetti d’integrazione del Continente. Vengono tempi duri in America latina e la faccia di plastica di Sebastián Piñera non promette nulla di buono.
Gennaro Carotenuto
http://www.giannimina-latinoamerica.it/archivio-notizie/521-il-cile-va-alla-destra-dura-e-pura
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Il dossier – Le stime del Centro di documentazione sull’infanzia
In Italia 2 mila spose bambine ogni anno
E molte sono costrette a rimpatriare 20.01.2010
Nozze imposte soprattutto tra indiani e pachistani. «Salvata» una giovane a Novara
MILANO — «Viviamo con il cervello a metà. Una parte nel Paese della nostra famiglia. Una parte con i nostri amici. Che ci dicono di restare qui, di inserirci in questa società». La vita spezzata delle adolescenti straniere inizia a tredici, quattordici anni. È a quell’età che (secondo i sociologi che hanno intervistato queste ragazze) si vedono i primi segni di conflitto. Fino all’anno prima potevano portare i loro compagni in casa. Poi, diventa proibito. Oppure: non vanno in gita con la classe. E iniziano le liti sui vestiti, il trucco, le magliette troppo corte. Situazioni comuni, a Milano, Roma, Brescia. Le ragazze con il «cervello a metà» crescono su due binari, senza sapere quale seguire. Dicono: «Per noi è impossibile progettare il futuro». Si trovano in mezzo a due forze. E non sanno come metterle in equilibrio. «Poi ogni tanto qualcuna sparisce dalle scuole superiori — racconta Mara Tognetti, docente di Politiche dell’immigrazione all’università di Milano Bicocca— oppure non rientra dalle vacanze. Le famiglie le hanno riportate nel loro Paese, per farle sposare». In un solo anno, nella città inglese di Bradford, sono «scomparse» 200 ragazzine tra i 13 e i 16 anni, figlie di immigrati. In Italia non esistono statistiche dettagliate. L’unica stima è del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia, Secondo cui le «spose bambine» nel nostro Paese sarebbero 2 mila all’anno.
MATRIMONI SOMMERSI – In Italia i minorenni non possono sposarsi. Esiste però una deroga. Per «gravi motivi», dai 16 anni in poi il tribunale per i minori può autorizzare le nozze. Il Centro di documentazione per l’infanzia registra da anni questi casi: nel 1994 erano 1.173, poi sono via via diminuiti, fino ai 209 del 2006 e i 156 del 2007 (ultimo dato disponibile). La Campania è la regione in cui ne avvengono di più, 77. Per la maggior parte si tratta di matrimoni tra stranieri, con in testa le comunità di immigrati da Pakistan, India e Marocco.
Questi numeri descrivono però solo l’aspetto legale, che secondo gli esperti è minimo rispetto a tutti i legami imposti all’interno delle famiglie, a volte suggellati con un rito in qualche moschea, più spesso con unioni celebrate nei Paesi d’origine. «Le seconde generazioni delle ragazze sono e saranno una vera emergenza— spiega Mara Tognetti —. Se non si interviene con politiche più incisive, i contrasti tra l’idea di famiglia imposta dai genitori e il modello delle adolescenti diventerà inconciliabile».
CONFLITTI LATENTI – Altri dati definiscono questa situazione di rischio potenziale. Le ragazze immigrate di seconda generazione nel nostro Paese sono circa 175 mila. «Il matrimonio combinato — racconta la ricercatrice — riguarda però solo alcune comunità, quella indiana e quella pakistana più delle altre, in misura minore la marocchina e l’egiziana». Le nozze imposte sono il male estremo. Il pericolo dei prossimi dieci anni rischia di essere la «conflittualità latente», incarnata da ragazze che studiano e si integrano, ma che vivono in famiglie attaccate alle tradizioni. «Molti genitori non hanno un grado di istruzione elevato— racconta Fihan Elbataa, della sezione bresciana dei Giovani musulmani d’Italia — e quindi di fronte a situazioni in cui vedono un pericolo non sanno come reagire. Si chiudono, diventano severi e impongono le regole con l’aggressività. Noi cerchiamo di spingerli al dialogo, a lasciare spazi di libertà».
A Brescia alcuni ragazzi sono scappati, o si sono allontanati da casa per qualche tempo, proprio per sfuggire alle «leggi» dei genitori: «Sono convinta che le famiglie cerchino il bene dei propri figli— conclude Fihan Elbataa—. Le intenzioni sono buone, ma purtroppo rispetto alla loro educazione si trovano in un contesto nuovo, e quindi devono cambiare i loro metodi».
RICERCA DI AUTONOMIA – Venerdì scorso, su segnalazione dell’associazione Donne marocchine in Italia, è stata salvata una ragazza a Novara. Diciassette anni, una figlia di 4 mesi, moglie maltrattata di un «matrimonio combinato». Ora si trova in una comunità di Roma. A denunciare la situazione è stata una vicina di casa. Lei non era riuscita, non sapeva neppure a chi rivolgersi. La ribellione è complicata. E allora, per trovare un equilibrio, le promesse mogli adolescenti cercano uno «spazio di negoziato». È un rimedio estremo, scoperto dalla ricerca che la sociologa Tognetti pubblicherà il prossimo mese. Contiene interviste a ragazze che hanno cercato di trattare sulla loro condanna. Queste sono le loro voci.
Una giovane marocchina che vive aMilano: «Ho accettato la richiesta di mio padre, sposerò un uomo del mio Paese. Ma ho chiesto di poter scegliere tra più di un possibile marito, di vederne almeno tre o quattro». Ragazze che non possono, o non vogliono, scardinare il sistema di regole della famiglia. Ma cercano di ricavare spazi minimali si sopravvivenza. Altro racconto, di un’adolescente egiziana, anche lei studentessa «milanese» : «Hanno scelto l’uomo per me, non mi oppongo. Ma ho chiesto due cose. Prima del matrimonio volevo vederlo. E poi ho ottenuto una garanzia, una specie di “contratto” non scritto: dopo il matrimonio potrò continuare la scuola e poi andare all’università, per laurearmi».
Gianni Santucci
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La Cina blocca Avatar: «Istiga alla ribellione» 20.01.2010
MARCO DEL CORONA PER IL CORRIERE DELLA SERA –
I più pronti avevano sussultato già al cinema. Gli altri hanno cominciato a parlarne dopo, in casa, tra amici, con i colleghi. Il grosso è arrivato però quasi subito, su Internet. Più che un bisbiglio, un coro: Avatar parla (anche) della Cina. E il tam tam si è propagato inarrestabile: nella pellicola di James Cameron — si è letto per giorni su forum e blog — il destino degli alieni di Pandora minacciati dagli umani ricorda quello di tanti cittadini cinesi, sfrattati a forza delle loro case che dovranno essere demolite, per far posto a grattacieli innalzati da palazzinari senza scrupoli, magari con l’ok di funzionari corrotti. Così, quando è arrivato l’ordine di anticipare di oltre un mese la fine della programmazione della versione non tridimensionale di Avatar (2D), il sospetto che si trattasse di una decisione politica è parso fondato.
Il quotidiano di Hong Kong Apple Daily, che spesso azzecca i suoi dietro le quinte, ha scritto che sono stati i vertici della propaganda a decretare che il tempo degli extraterrestri in Cina dovesse concludersi. Un no politico, troppe le possibili allusioni alla Repubblica popolare, con i suoi problemi di armonia etnica (Tibet, uiguri del Xinjiang), con le sperequazioni economiche alimentate del boom. Avatar, uscito il 4 gennaio, rimarrà in programmazione fino al 28 febbraio solo nella versione in 3D, circa 700 sale, ma quella in 2D è la più diffusa e la sua sparizione dai cinema il 22 gennaio significa un siluramento del kolossal. Al suo posto, gli spettatori cinesi potranno corroborare la loro adesione ai valori della nazione assistendo alle due ore del film biografico su Confucio, produzione honkonghese della regista Hu Mei, con Chow Yun-fat protagonista.
La fantascienza come la Cina, il pianeta Pandora come le sue metropoli, il film Avatar come metafora del dramma degli sfratti forzati. Il giornalista sportivo Li Xhengpeng ha paragonato esplicitamente gli umani ai «chengguan», gli sgherri che intimidiscono i proprietari e procedono agli sgomberi. « Resistiamo, prendiamo l’esempio dagli extraterrestri», aveva scritto un netizen sul web nei primissimi giorni di programmazione. Confucio, invece, dovrebbe ristabilire una linea ufficiale che il successo di Avatar (53 milioni di euro incassati, record assoluto per la Cina) ha appannato. L’epopea del filosofo che i leader di Pechino hanno deciso di (ri)abbracciare ha un intento edificante, oltre che spettacolare, ma dopo le anteprime ha già raccolto la freddezza e le critiche degli studiosi.
Incongruenze, inesattezze. L’accademico Bao Pengshan ha notato che il nome del figlio è sbagliato, che le battaglie sono troppo affollate, che titoli e appellativi nei dialoghi non sono corretti. C’è poi una storia d’amore trattata senza fedeltà. E – affronto per i custodi dell’ortodossia storica – il filosofo pare reinterpretato secondo la rilettura di Yu Dan, giovane divulgatrice che ha fatto di Confucio un contemporaneo e della sua interpretazione un bestseller (tradotto anche in Italia). Il filmone di Hu Mei si inserisce sulla scia delle pellicole patriottiche fiorite intorno al sessantennale della Cina comunista dello scorso 1° ottobre. La mossa ai danni di Avatar, tuttavia, rimanda suo malgrado al tema — costato un verdetto sfavorevole da parte del Wto lo scorso agosto— dei vincoli che la Cina impone ai prodotti culturali e multimediali stranieri sul proprio territorio. Ma soprattutto — una beffa— sembra essere più vicina alla Cina di oggi la saga fantascientifica anziché il polpettone edificante che più cinese di così non si può.
http://altrimondi.gazzetta.it/2010/01/la-cina-blocca-avatar-istiga-a.html
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Fonte Unicredit 20.01.2010: Cina: banca centrale limita credito
In Cina, le autorità bancarie cinesi hanno dato istruzione ad alcuni dei principali istituti del Paese di limitare la concessione di crediti nella seconda parte di gennaio, dopo un iniziale boom degli affidamenti. Lo affermano organi di stampa ufficiali, con conferme giunte da fonti bancarie. La Banca centrale ha inoltre chiesto ad alcuni specifici istituti, tra cui Citic e Everbright Bank di alzare i loro coefficienti di riserva obbligatoria dello 0,5%, secondo quanto riferito a Reuters da fonti bancarie. Si tratta di un’ulteriore misura adottata dalla autorità cinesi per tenere sotto controllo la crescita del credito. Un’esigenza dettata dai dati che hanno mostrato una forte espansione dei prestiti nelle primissime settimane dell’anno e che già aveva spinto Pechino nei giorni scorsi ad alzare i coefficienti di riserva delle banche commerciali.
(Evidentemente per scongiurare i danni provenienti da prestiti/bolla immobiliare).
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L’arcivescovo: «Le cause sono più etniche che religiose» 20.01.2010
Rabbia per la costruzione di una moschea in un quartiere cristiano. Il vicepresidente: «Una minaccia per il Paese»
JOS (Nigeria) – Trecento morti: suona quasi assurdo il bilancio degli scontri tra cristiani e musulmani iniziati domenica a Jos, in Nigeria. Nella capitale dello Stato di Plateau le autorità hanno imposto il coprifuoco e il governo ha mandato truppe dell’esercito per cercare di riportare la calma. I feriti sarebbero 800, decine gli arrestati.
I PRECEDENTI – «Gli attacchi continuano nelle zone sud della città, a Kuru Karama, Bisiji, Sabongidan e Kanar» ha detto un testimone. Altri hanno riferito che nelle strade ci sono rivoltosi vestiti con uniformi militari. Il motivo scatenante delle violenze è la decisione di costruire una moschea nel quartiere a maggioranza cristiana di Nassarawa Gwom. Jos, 500 mila abitanti, è situata in un punto cruciale: tra il nord del Paese, musulmano, e il sud, cristiano e animista. Le violenze sembrano non avere fine: nel novembre 2008 le vittime degli scontri erano state centinaia e nuove drammatiche recrudescenze del conflitto risalgono a luglio e dicembre dello scorso anno, ma già a settembre del 2001 erano state incendiate chiese e moschee, con un bilancio di oltre 900 morti.
MINACCIA PER IL PAESE – «Il governo è determinato a trovare una soluzione permanente alla crisi di Jos – ha promesso il vicepresidente nigeriano Goodluck Jonathan, che ha assunto da due settimane la guida ad interim del Paese al posto del presidente Umaru Yar’Adua, ricoverato da novembre in Arabia Saudita per problemi cardiaci -. Questa è una crisi di troppo. Il governo valuta che essa è assolutamente inaccettabile, reazionaria ed è una minaccia per l’unità del Paese».
L’ARCIVESCOVO: SCONTRO ETNICO – Secondo monsignor Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Jos, «le versioni che sono state finora pubblicate sull’origine degli scontri non sono corrette. In particolare non è vero che sia stata attaccata e bruciata una chiesa – ha detto Kaigama all’agenzia cattolica Fides -. Un’altra versione riportata dalla stampa afferma che la scintilla che ha provocato gli scontri sarebbe stata l’assalto al cantiere di una casa in costruzione di un musulmano. Ma anche questo fatto va accertato». Secondo l’arcivescovo le cause delle violenze sono da ricercarsi in fattori etnici e politici più che religiosi: «All’origine degli scontri odierni, come quelli del novembre 2008, vi sono i contrasti tra gli hausa, di religione musulmana, e le popolazioni indigene, in gran parte cristiane, per il controllo politico della città».
«SITUAZIONE FUORI CONTROLLO» – «La situazione sembra essere totalmente fuori controllo – racconta Leonello Fani, capoprogetto della ong Apurimac, a Radio 24 -. Hanno messo un coprifuoco di 24 ore, cosa che non era mai successa prima, nemmeno durante la crisi del 2008. Nessuna crisi era mai durata più di due giorni, qui siamo al terzo giorno di combattimenti, con spari che si sentono ancora. Ci arrivano notizie che hanno appena dato fuoco alla più importante fabbrica di Jos, la Nasco. Sentiamo spari, sappiamo di uccisioni e finti soldati in giro, tutti elementi che non fanno ben sperare. Vedremo se nelle prossime ore si potrà lasciare la città, che al momento è letteralmente sigillata: non si entra e non si esce». Secondo il cooperante italiano «i combattimenti sono tra indigeni e coloni. Gli indigeni sono di religione cristiana mentre i coloni fanno riferimento agli hausa musulmani. Gli indigeni spingono fuori gli hausa con qualsiasi mezzo e si arriva a questa situazione di scontro. Ma i pretesti per conquistare questo Stato cruciale sono i più vari. Le ragioni sono in realtà come sempre politiche». (Leggesi petrolio).
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ambiente, energia, risparmio di Andrea Molocchi
Il risparmio di energia, virtù dimenticata 17/01/2010
Bocciata sulle emissioni di Co2, l’Italia ha invece buoni risultati sull’efficienza energetica. Ma non valorizza il suo patrimonio virtuoso. Ecco come potrebbe farlo
E’ noto il fatto che l’Italia è in grave ritardo nel rispetto degli obiettivi della politica climatica europea, sia con riferimento a quelli di Kyoto per il periodo 2008-2012, sia in relazione agli obiettivi nazionali al 2020 impliciti del pacchetto energia e clima, pubblicato dall’Ue nel giugno 2009. Meno noto è invece il fatto che, sia pure in tale contesto negativo, abbiamo anche alcuni primati nel campo dell’efficienza energetica (a partire dalla bassa intensità energetica totale e negli usi finali dell’energia) che spesso il paese non conosce e che, dunque, non valorizza in termini politici e di sistema (1).
Tale risultato si deve, in linea generale, alla rendita di posizione che deriva dai miglioramenti di efficienza ottenuti in seguito alla crisi petrolifera del 1973, che si è assottigliata nel tempo (non si registrano miglioramenti del livello di intensità energetica finale dal 1986) ma che rappresenta tutt’oggi un patrimonio – innanzitutto industriale – di grande valore (i materiali, le tecnologie e i sistemi per l’efficienza energetica sono offerti praticamente da tutti i settori dell’industria italiana). E’ proprio su questo patrimonio che occorre oggi puntare con convinzione, non solo per raggiungere gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni ma soprattutto per incrementare la competitività dei nostri beni e servizi su mercati globali che dovranno necessariamente fare i conti con prezzi dell’energia elevati e con la riduzione delle emissioni di CO2. La rilevanza di quest’opportunità è dimostrata dal recente accordo strategico della Fiat negli Stati Uniti, reso possibile dalla sua posizione di primato nel settore auto in termini di emissioni di CO2/km del venduto europeo, un primato che è probabilmente globale, visto che gli standard europei sono diventati – col nuovo regolamento CE 443/2009 per la riduzione della CO2 delle auto nuove – i più stringenti a livello mondiale. Dall’analisi più dettagliata della situazione attuale dell’Italia emergono con chiarezza, accanto ad alcune eccellenze in termini di efficienza come il settore termoelettrico, i settori relativamente più arretrati che costituiscono la priorità d’intervento, come il riscaldamento del settore residenziale e i trasporti merci e passeggeri.
Come mai se siamo tra i primi per efficienza, siamo fra gli ultimi nel rispetto degli obiettivi di CO2? In valore assoluto consumiamo molta energia e produciamo molte emissioni ma – semplificando – consumiamo tanta energia e produciamo tanta CO2 perché produciamo molti prodotti per l’esportazione, ospitiamo molti turisti e ci piace muoverci in autonomia. Non certo perché siamo spreconi quando facciamo queste cose, anzi: molti indicatori dimostrano che siamo relativamente più attenti degli altri paesi europei e molto più attenti rispetto agli altri paesi del globo. Il problema è che invece di cercare di individuare i nostri punti di forza e scommettere su di essi, abbiamo peccato di un eccesso di provincialismo e ci siamo seduti a guardare con invidia gli altri che innovavano in base ai loro punti di forza. Non abbiamo capito che i nostri primati nell’efficienza non sono dovuti al caso, ma sono strettamente legati al patrimonio produttivo, tecnologico, di imprenditorialità diffusa del nostro paese – oltre che ad una nostra vocazione sociale al risparmio nei consumi, alla prudenza e all’eleganza, che non è mai fatta di eccessi. A quella domanda avremmo dovuto dare tempestive risposte da molto tempo, ancor prima di Kyoto e, più recentemente, in occasione dell’ultimo burden sharing comunitario cioè quello del pacchetto energia e clima di gennaio 2008 che ha imposto al nostro Paese obiettivi molto ambiziosi e con costi assai superiori relativamente ad altri stati membri ben più ricchi di noi (cfr. articolo “La strategia europea nel contesto globale e le sue implicazioni per l’Italia”, rivista Efea, n. 4 2009). Invece di fare dell’efficienza un obiettivo comune, in Europa e fra i paesi industrializzati innanzitutto, abbiamo accettato impegni di riduzione delle emissioni basati su criteri vantaggiosi per gli Stati più spreconi e con Pil procapite più elevato. E’ ben noto, infatti, che i costi incrementali della riduzione dei consumi di energia sono maggiori per i paesi più efficienti e che uguali riduzioni percentuali delle emissioni degli stati possono nascondere profonde iniquità sotto il profilo economico, soprattutto se gli stati relativamente più spreconi di energia sono anche gli stati relativamente più ricchi per capacità economica individuale (Pil procapite).
Inutile piangere sul passato. Se l’Italia si è fermata e se ci sono ancora opportunità – come sembrerebbe dai dati comparativi – deve ripartire. Dobbiamo individuare gli ostacoli che stanno frenando la ripresa del miglioramento dell’efficienza energetica nel nostro paese. Dobbiamo moltiplicare lo sforzo di valutazione delle politiche, degli strumenti, dei punti di forza e di debolezza, ricordando che, per poter intervenire in maniera efficace, la politica ha innanzitutto bisogno di un supporto conoscitivo adeguato. Ad esempio, la valutazione dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) sugli investimenti previsti al 2050 per ridurre le emissioni del 50% a livello globale, afferma una direzione ben precisa: il 53% della riduzione delle emissioni rispetto allo scenario tendenziale sarà dato da interventi di efficienza energetica, sopravanzando il contributo delle fonti rinnovabili (21%), della cattura e sequestro del carbonio (19%) e del nucleare (6%). Inoltre, i corrispondenti investimenti in tecnologie di efficienza energetica assommeranno, con 950 miliardi di dollari l’anno sui 1300 circa previsti nello scenario Blue Map, al 73% degli investimenti complessivi, superando ampiamente lo sforzo richiesto nelle tecnologie low carbon.
Volgiamo ora il nostro pensiero alle attuali direzioni d’investimento dell’Italia: combaciano? La risposta è ovvia: stiamo investendo su priorità diametralmente opposte. Si noti che la maggior parte degli investimenti previsti dall’Aie riguarda le nuove tecnologie di trasporto: nuove navi innovative, nuovi veicoli per il trasporto delle merci, mezzi di trasporto di massa dei passeggeri, nuovi modelli di autovetture e di aerei. Chi, se non il nostro paese, con Fincantieri e gli altri cantieri navali, con Fiat, Iveco e la filiera dell’industria meccanica ed elettro-tecnica, con Ansaldo leader dell’alta tecnologia per il trasporto ferroviario e metropolitano, con le sue grandi e piccole imprese di costruzioni che realizzano opere civili utili in tutto il mondo, dovrebbe realizzare queste innovazioni e realizzare queste opportunità di investimento?
Perché in Italia non si investe nell’efficienza energetica? E’ un problema economico? In teoria no. Le misure di efficienza energetica sono molto convenienti per la collettività. A fronte di un investimento iniziale, consentono a medio e lungo termine ingenti risparmi sui costi e sulle bollette delle varie forme di energia, aumentando la produttività delle imprese e liberando risorse per altre forme di spesa dello stato e delle famiglie. Disponiamo poi di una vasta gamma di strumenti di incentivazione, sicuramente migliorabili, ma intanto ci sono. Anche le banche stanno predisponendo strumenti ad hoc, per grandi e piccoli utenti. Il problema dell’efficienza è quindi un problema di politiche. Di priorità e convinzione nelle politiche di governo. In termini di potenziale quantitativo, gli interventi di efficienza energetica economicamente convenienti, con le tecnologie già oggi disponibili, riguardano tutti i settori di trasformazione e di uso finale dell’energia. L’efficienza energetica rappresenta quindi un’area di investimento imprescindibile per uscire dalla crisi economica.Una recente valutazione dell’Enea del potenziale di abbattimento delle emissioni in Italia e dei relativi costi in uno scenario di accelerazione tecnologica al 2020 (un’elaborazione preziosissima per l’impostazione delle politiche su energia e clima a medio e lungo termine, che per la sua delicatezza andrebbe curata in maniera indipendente, motivata in maniera trasparente e aggiornata con periodicità) conferma che, fra le varie opzioni per la riduzione della CO2, gli interventi di efficienza energetica sono quelli che offrono il maggior potenziale e sono gli unici a non avere costi sociali netti per tonnellata di CO2 ridotta poiché nella maggior parte dei casi presentano un vantaggio economico netto per la collettività. Diversamente dagli investimenti nel nucleare (circa 75 euro/tonnCO2), nelle fonti rinnovabili (30-230 euro/tonnCO2), e nelle tecnologie di cattura e sequestro del carbonio (25-30 euro/tonnCO2): per i loro extracosti rispetto alle forme convenzionali di produzione di energia, tutte queste tipologie di riduzione della CO2 richiedono regimi di incentivazione economica il cui allestimento è a carico dello Stato oppure a carico degli utenti di energia, in quest’ultimo caso con effetti di impoverimento delle fasce di utenti più deboli. Secondo l’ENEA, il potenziale complessivo nazionale di riduzione della CO2 delle misure di efficienza energetica al 2020 (nei trasporti, nell’industria e negli altri settori) è di 60 Mt. C’è poi un ulteriore potenziale di circa 16 Mt di CO2, dato dalle forme “strutturali” di risparmio energetico, misure che comportano il cambiamento di comportamenti di consumo o l’abbandono di produzioni non più competitive, il cui costo sociale è di circa 80 euro/tonn. CO2, un livello comparabile ai costi attualmente previsti per il nucleare e per alcune fonti rinnovabili come le biomasse e l’eolico (particolarmente oneroso nel nostro paese a causa di condizioni di ventosità e localizzazione poco vantaggiose).
Se è sull’efficienza energetica che l’Italia deve scommettere, qual è il suo contributo alla realizzazione dei nuovi obiettivi comunitari al 2020? Basandoci sul nuovo scenario tendenziale formulato dall’Enea nel luglio del 2009 (rapporto Energia e Ambiente) che tiene conto degli effetti della crisi economico-finanziaria, i 60 Mt di CO2 risparmiati nel 2020 mediante interventi di efficienza energetica equivalgono a circa il 12% delle emissioni dell’Italia. Rispetto allo scenario tendenziale, che sconta un’uscita lenta e graduale dalla crisi (emissioni di CO2 2020: -5% rispetto al 2005), l’apporto delle misure di efficienza consente una riduzione della CO2 del 17% nel 2020 rispetto al 2005 che, in base alle stime in nostro possesso, è esattamente l’obiettivo complessivo dell’Italia implicito nei provvedimenti del pacchetto su energia e clima (come noto, il pacchetto stabilisce un obiettivo europeo per i settori ETS del -21% nel periodo 2005-2020 e un obiettivo nazionale per i settori non ETS del -13% nel periodo 2005-2020: l’obiettivo complessivo nazionale degli Stati Membri in tutti i settori (ETS e non-ETS) è quantificabile solo mediante stima). Si noti inoltre che, sempre in base alle stime in nostro possesso (EkoInstitute, 2008), l’obiettivo di riduzione delle emissioni dell’Italia del -17% nel periodo 2005-2020 corrisponde al -3% circa nel periodo 1990-2020, in quanto le emissioni dell’Italia sono cresciute nel primo quindicennio 1990-2005.
Ovviamente, questo non significa affatto che per puntare sull’efficienza energetica dobbiamo abbandonare tutte le altre opzioni di riduzione dei gas serra, ma è solo la dimostrazione che le politiche di efficienza dovrebbero godere di una priorità rispetto alle altre opzioni, una priorità che è invece smentita nei fatti dall’attuale politica di governo, concentrata sul rilancio del nucleare e sospinta a promuovere le fonti rinnovabili con interventi puntuali o parziali, senza un approccio complessivo. Senza pretendere di avventurarmi in un dibattito sul nucleare, vorrei solo mettere in rilevo le cifre del potenziale di risparmio al 2020 negli usi finali di elettricità, che è il settore dove il nucleare può fornire un contributo. Prendendo come riferimento il potenziale stimato dall’Enea – su cui concordano anche altre autorevoli stime – entro il 2020 si potrebbero evitare consumi finali di elettricità per 73 TWh l’anno, cioè il 22% circa dei consumi finali lordi del 2008. Questo enorme potenziale di risparmio energetico al 2020 corrisponde alla produzione di 6-7 grandi centrali nucleari della taglia ipotizzata dal governo (1600 MW), ammesso che siano realizzabili entro il 2020. E’ infatti questa la prerogativa che fa la differenza fra l’efficienza energetica e le altre opzioni basate su innovazioni radicali, siano esse soluzioni hard come il nucleare o soft come le rinnovabili. Le misure di efficienza energetica sono a portata di mano, sono immediatamente realizzabili oggi, consentono di prender tempo laddove le innovazioni radicali non siano ancora mature in termini di prestazioni e di costi.
(1) Si sintetizzano qui i risultati della recente indagine degli Amici della Terra sul posizionamento dell’Italia negli indicatori su energia e clima (“Il posizionamento del sistema Italia su Energia e Clima: eccellenze, ritardi, omissioni”, www.amicidellaterra.it)
In allegato la tabella con “La Pagella dell’Italia”.
tabella_molocchi.pdf 84,05 kB
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Il-risparmio-di-energia-virtu-dimenticata
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20/1/2010 – INTERVISTA. “LA RIVOLUZIONE DEL XXI SECOLO E’ INTERNET: LA LOGICA DELLA CANOA STA SOSTITUENDO QUELLA DEL KAYAK” “Le idee per cambiare il mondo”
Brockman: gli scienziati pensano, gli altri sono costretti a inseguirli
GABRIELE BECCARIA
Si chiama John Brockman ed è un tipo speciale: interroga gli scienziati migliori, li obbliga a sorbirsi domande impegnative, li fa incontrare sul suo sito edge.org per parlare di tutto e a volte li riunisce anche in carne e ossa, in California o a Parigi. Spesso li convince a scrivere saggi visionari che diventano best-seller. Brockman è molto più di un impresario editoriale e culturale. E’ un «unicum», al momento non replicabile, in un universo – la scienza – che fa della replicabilità e della falsificabilità regole notoriamente irrinunciabili.
Ecco perché proporre domande a chi è abituato a farne, come un ragazzino petulante e geniale, è disorientante. Ospite del Festival delle Scienze di Roma, ha disseminato anche lì le sue provocazioni, cominciando da Alan Turing, lo sfortunato e mitico ragazzo inglese considerato uno dei creatori del mondo digitale, ed è approdato al nuovo «domandone» del 2010, sul quale sta impegnando un gruppo di cervelloni d’America: «Come cambia Internet il modo in cui tu pensi?». Spiega: «E sottolineo il “tu”, anziché il “noi”. Dopo aver oscillato a lungo tra l’uno e l’altro, ho scelto il “tu” perché il sito edge è una grande conversazione. Il “noi” avrebbe invece suggerito un tono pubblico, da esperti sul palco».
«L’interrogativo – aggiunge – si basa su un’intuizione del mio amico ed ex collaboratore collaboratore James Lee Byars».
Prima di scoprire se le risposte che stanno arrivando sono abbastanza genialoidi, che cosa fece Byars?
«Nel 1971 andò nella piazzetta di Harvard e lì fondò il “World question center”: si era convinto che per arrivare al confine della conoscenza – l’edge, appunto – non occorresse leggersi i 6 milioni di volumi della biblioteca dell’università: pensò che bastasse raccogliere in un solo luogo le menti più sofisticate e le avrebbe chiuse dentro finché si sarebbero fatte l’un l’altra le domande che ponevano a se stessi. Questa idea è in perfetta sintonia con la logica digitale di oggi, in cui tutto può essere assemblato con il potere degli algoritmi: è la realtà della Rivoluzione Petabyte».
Spieghi di che cosa si tratta.
«L’accumularsi dei dati è tale che, invece di partire da una tesi per poi testarla con una serie di esperimenti, si indagano i dati già ammassati per scoprire che cosa nascondono».
Significa che il metodo scientifico, quello sacrosanto, è destinato a cambiare?
«In alcuni casi sì e c’è chi ha già avanzato questa ipotesi. Penso a Craig Venter, il decifratore del Genoma: è lui il maggiore cliente privato al mondo di un potere computazionale in crescita continua. Raccoglie miliardi di informazioni genetiche da fonti diverse, compresi gli oceani, e li processa nei propri computer: è una massa di informazioni mai vista prima».
E le risposte al «domandone»? Qual è al momento quella che l’ha intrigata di più?
«Quella di George Dyson: “kayak contro canoe”. Si riferisce a due approcci opposti per lo stesso risultato, la costruzione di barche. Uno si basa sul montaggio di uno scheletro a partire da pezzi e frammenti, mentre l’altro sullo scavo, selezionando alberi interi. Internet ha prodotto una divaricazione simile: eravamo costruttori di kayak, abituati a cercare ogni elemento utile che potesse tenerci a galla, e adesso, invece, dobbiamo imparare a modellare le canoe, eliminando tutto ciò che non è necessario e portando alla luce il nocciolo nascosto della conoscenza. Chi non acquisirà le nuove capacità resterà indietro e sarà costretto a remare su tronchi rozzamente scolpiti».
Lei non si stanca mai di pungolare gli scienziati: il suo ultimo libro – «This will change everything» – è dedicato alle idee che modelleranno il futuro. E’ sicuro di avere scoperto le migliori?
«Anche stavolta ho fatto l’impresario, il tizio che sta dietro le quinte del teatro e fa scrivere gli altri. E’ questo il mio compito e in questo caso il concetto di fondo è che i nuovi mezzi generano nuove percezioni: la scienza crea la tecnologia e nell’utilizzarla noi ricreiamo noi stessi. Fino a tempi recenti nessuno aveva mai pensato di governare un simile processo. Nessuno ha votato su stampa, elettricità, radio, tv, auto, aerei. Nessuno su penicillina, energia nucleare, viaggi spaziali. Nessuno su computer, Internet, email, Google, clonazione. Ora ci muoviamo verso una nuova definizione della vita e in una condizione in cui la scienza non è l’unica notizia, ma La Notizia. I politici sono in ritardo e tutto ciò che possono fare è inseguire, mentre James Watson, l’uomo che scoprì la doppia elica del Dna e che oggi è l’unico ad avere diffuso su Internet il proprio codice genetico, si dice contrario a qualunque interferenza governativa e Craig Venter si prepara a generare la vita artificiale: significa che il tuo cane potrà diventare un gatto. Il risultato è che tutto cambierà e quindi, stavolta, la domanda per il nuovo libro è stata: a quale rivoluzione ti aspetti di assistere?».
Ha avuto 151 risposte: sveli il suo responso.
«Mi ha impressionato Kevin Kelley: ha parlato di un nuovo tipo di mente, amplificata da Internet, in continua evoluzione, e capace di iniziare una nuova fase evolutiva al di fuori dei corpi. E poi tanti altri… Ed Riges e il “molecular manufacturing”, la produzione di nuove molecole che è una delle frontiere delle nanotecnologie. William Calvin e le nostre vulnerabilità di fronte al clima e le nostre capacità intellettuali di reazione. Nicholas Humprey e gli impulsi ribelli della natura umana: per quanto ci trasformiamo restiamo sempre gli stessi, distratti dalla violenza e dalla politica. Freeman Dyson e la telepatia, con l’ipotesi di comunicazioni dirette da un cervello a un altro. E infine un romanziere, Ian McEwan. Mi ha confessato di voler vivere abbastanza per assistere al trionfo definitivo delle tecnologie solari».
Chi è John Brockman Divulgatore
RUOLO: E’ AGENTE LETTERARIO E AUTORE DI SAGGI SCIENTIFICI
IL LIBRO: «THIS WILL CHANGE EVERYTHING. IDEAS THAT WILL SHAPE THE FUTURE» HARPERCOLLINS
IL SITO: WWW.EDGE.ORG
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