In Piemonte vogliamo continuare a parlare della salute come “bene comune”
Eleonora Artesio*, 07.01.2010
Lettera dell’assessora alla sanità del Piemonte: a 30 anni di distanza il PSSR della Regione Piemonte torna a parlare della salute come “bene comune”. Per i detrattori si tratta di retorica nostalgica. E’ invece una urgenza culturale e politica contro l’insana voglia di politiche privatistiche
” Senza un linguaggio comune a tutti (medici, malati, sani, uomini, donne). Senza un modello comune di costruzione della salute, di difesa della capacità e della possibilità di vivere e senza un modello comune di malattia, l’assistenza sanitaria diventerà una torre di Babele,una costruzione sempre più costosa e sempre più inefficiente ”
Con queste parole, negli anni della riforma sanitaria, il prof. Ivar Oddone nel suo libro “Medicina preventiva e partecipazione” ammoniva sui rischi possibili e ancora prepotentemente attuali. L’antidoto suggerito consisteva in “linguaggio comune” e “modello comune”. Non stupiva né sembrava impossibile allora un percorso collettivo per ricercare equità nell’accesso alle opportunità e per condividere la selezione delle priorità: del resto le richieste di prevenzione dai rischi sul lavoro nascevano esattamente da una coscienza “comune” dei lavoratori indisponibili a scambiare ancora salute con salario; del resto la riforma sanitaria del 1978, che sancì il governo pubblico e la copertura universalistica dei servizi delle prestazioni sanitarie, scaturiva dalla cultura dei diritti fondamentali della persona definita dalla Carta Costituzionale e praticata nelle lotte delle organizzazioni sociali, dai sindacati ai comitati di quartiere.
A 30 anni di distanza il PSSR della Regione Piemonte torna a parlare della salute come “bene comune”. Per i detrattori si tratta di retorica nostalgica.
E’ invece una urgenza culturale e politica. Il diritto inalienabile della persona si è trasformato nel diritto dei cittadini che rivendicano la esigibilità delle cure in nome del prelievo fiscale col quale sostengono il servizio sanitario; la soddisfazione dei bisogni di salute è diventata equivalente al consumo di farmaci e di prestazioni; si confonde l’obbligo etico e sociale di curare con l’obbligo di guarire riducendo così a un costo le condizioni umane inguaribili, ma doverosamente curabili, come le malattie croniche.
Così accade che i cittadini non incontrino più le persone e si può legittimare la follia secondo la quale i non contribuenti, specie se stranieri o diversi, non abbiano titolo a condividere risorse di protezione sociale: a questo abbiamo assistito quando legislazioni xenofobe hanno tentato di imporre al personale sanitario l’obbligo di denuncia degli immigrati irregolari; a questo assistiamo quando – colpevolizzando le persone per le loro patologie si contestano i costi dei servizi che, accettando le fragilità e le cadute, accompagnano il disagio mentale e le diverse dipendenze; a questo ci adattiamo quando si legge o si ascolta l’invettiva scagliata contro il tempo per l’attesa nell’incuranza di codici più urgenti.
Queste tendenze non preoccupano solo per l’assenza di una etica pubblica, ma per la loro pericolosa saccenza. Sarebbe solo banale riconoscere che la condizione di ciascuno influenza il contesto comune ed è quindi, conveniente garantire il grado di salute di ciascuno per aumentare la qualità di salute dell’ambiente condiviso. Sarebbe salutare operare politicamente perché lo spazio pubblico si riappropri del tema della tutela della salute ora, non per essere chiamato a pronunciarsi come una tifoseria sull’autodeterminazione e sul fine vita – come accade ora – ma per riscrivere l’incontro più giusto tra il diritto individuale e il bene comune.
Nelle previsioni del PSSR questa sintesi è da ricercare nell’appropriatezza: offrire a ciascuno ciò che è veramente necessario in modo egualmente efficace in ogni punto del sistema. L’appropriatezza è garanzia di equità di sicurezza: l’abuso di farmaci e di prestazioni non è soltanto un danno economico, ma si traduce in effetti collaterali, in errori (falsi positivi), in incapacità di sintesi diagnostica, in sofferenza psicologica del malato. Promuovere la cultura dell’appropriatezza non esita da circolari ministeriali a regionali ma da un lungo lavoro di relazioni tra professionisti indipendenti, tra cittadini informati, tra politici programmatori: appunto quel linguaggio “comune” e quel modello “comune” da cui parte questa riflessione.
Il compito è arduo: da anni la sanità è stata sottratta alla dimensione
politica, intesa come “polis” e consegnata alla tecnica aziendalista fintamente neutra, ma ancor di più al percorso si oppongono altri interessi. All’offerta delle prestazioni sanitarie concorre non solo il pubblico, ma quel sistema misto pubblico – privato accreditato previsto dal servizio nazionale. L’imprenditoria sanitaria non è un’imprenditoria come un’altra: innanzitutto tratta un bene fondamentale, e in più ha un solo grande cliente, le Regioni che rimborsano le prestazioni.
E’ evidente che chi ha l’interesse a mantenere alti i margini delle entrate non potrà che alimentare bisogni presunti su un terreno fertile, cioè sulla più sensibile delle questioni umane, la paura delle malattie e della morte. Questo accade quanto la salute diventa una merce, mentre è un diritto e un bene collettivo. Quando la salute diventa merce allora è indifferente chi la produce e può accadere che si deleghi la gestione di interi segmenti assistenziali al privato con una conseguenza inevitabile: che il pubblico, illudendosi di mantenere il governo e la regia dal sistema, si spogli della cultura e dell’esperienza del fare, diventi incapace di incontrare le plurali condizioni di vita, ognuna con una storia clinica differente e, alla fine, subisca le logiche di coloro cui si è affidato.
I nuovi alfieri della modernità denunciano il volume, a loro dire eccessivo, del lavoro dipendente nel servizio sanitario, tentano di razionarlo con i blocchi delle assunzioni, censurano le Regioni che procedono alle stabilizzazioni del personale precario. I nuovi alfieri della modernità aspirano al mercato come regolatore del sistema e lo motivano con la libertà di scelta dei cittadini.
La Corte dei Conti, esaminando il bilancio della Regione Lombardia, ammonisce sulla diminuzione dei posti letto negli ospedali pubblici a favore di quelli privati: “Bisogna evitare il rischio che le strutture private accreditate per propria natura o per vocazione finanziaria possano perseguire un interesse meramente economico, non sempre coincidente con gli interessi di carattere generale…favorendo di fatto l’offerta di prestazioni ritenute più remunerative a discapito di altre di minore impatto sociale e di conseguente diverso ritorno economico”. Il Governatore Formigoni replica: ” la nostra riforma del 1997 equipara in maniera totale le strutture pubbliche con quelle private. L’obiettivo della riforma è che si possa scegliere tra tutte le strutture a disposizione”.
L’onorevole Casini dell’UDC interpellato sulle condizioni di alleanza con il centrosinistra in Piemonte invoca segnali di discontinuità che, in sanità si configurerebbero con la libertà di scelta dei cittadini. Spiace che parole alte come “libertà” vengano impiegate per un perimetro socialmente così mediocre come la libertà incontrollata di interessi di parte; preoccupano ancor di più le conseguenze possibili. In un sistema che moltiplicasse a quel modo l’offerta, sarebbe impossibile continuare a garantire la gratuità (o la partecipazione parziale); infatti c’è già chi dice che non si può dare tutto a tutti e che la crescita della spesa sanitaria in rapporto al PIL sia insostenibile.
Eppure i dati finora hanno raccontato un’altra storia: i Paesi con i Servizi Sanitari nazionali a finanziamento pubblico esclusivo o prevalente sono caratterizzati da livelli più bassi del rapporto spesa sanitaria/PIL e da tassi di crescita inferiori rispetto ai Paesi con più finanziatori. Tra il 1990 e il 2004 la spesa sanitaria in Italia è aumentata dal 7,7 al 8,7 del PIL; la spesa media nei Paesi U.E. dal 7,3 al 9,1; negli USA da 11,9 al 15,2; eppure in quegli anni si pubblicavano studi con proiezioni allarmistiche esattamente come ora.
Pare, quindi, che il SSN soffra di un problema di sostenibilità politica prima ancora che finanziaria: per questo occorre tornare alla centralità del suo carattere universalistico, incoraggiare la partecipazione delle organizzazioni sociali e delle professioni sanitarie, affermare la titolarità e la responsabilità pubblica in quel difficile compito di conciliazione tra diritto individuale ed interesse collettivo: per mantenere equa e sostenibile la nostra sanità. Oggi la vera discontinuità creativa è la conservazione di questi principi e di questo modo di essere: la modernità che può mantenerci in buona salute l’abbiamo già.
* Assessora alla sanità del Piemonte
Per le adesioni inviare una mail a: apetro@inwind.it
con scritto “aderisco al testo di Eleonora Artesio a difesa della sanità pubblica in Piemonte”
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13878
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Immigrati: rivolta extracomunitari 07.01.2010
Sparano su africani ed e’ guerriglia urbana in Piana Gioia Tauro
(ANSA) – ROSARNO (REGGIO CALABRIA), 7 GEN – Scene di guerriglia urbana nella Piana di Gioia Tauro, per la rivolta di alcune centinaia di lavoratori extracomunitari.
La rivolta degli uomini, impegnati in agricoltura e accampati in condizioni inumane in una vecchia fabbrica in disuso e in un’altra struttura abbandonata, e’ scoppiata a Rosarno dopo il ferimento da parte di persone non identificate di alcuni extracomunitari con un’arma ad aria compressa.
La guerriglia ha causato dannia d auoto, cassonetti ed abitazioni.
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_italia_NOTIZIA_01.php?IDNotizia=299119&IDCategoria=2685
Immigrati: rivolta a Rosarno, residenti infuriati per danni subiti
Reggio Calabria, 8 gen. (Adnkronos) – E’ infuriata la gente di Rosarno dopo la rivolta degli immigrati. Nel centro cittadino l’effetto della protesta degli stranieri e’ devastante. Lungo la via principale i cassonetti dell’immondizia sono stati rovesciati in mezzo alla carreggiata e il contenuto sparso sull’asfalto. Un capannello di cittadini ha assistito nella notte alle operazioni delle forze dell’ordine, che hanno effettuato una carica di alleggerimento contro il gruppo costituito da circa 500 immigrati.
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Middle class, donne sull’orlo della bancarotta 08.01.2010
NAOMI WOLF
Mentre il mondo lotta per uscire dal semi-collasso economico dello scorso anno, c’è un sottogruppo che è scivolato al di sotto della linea di galleggiamento: le donne che un tempo appartenevano al ceto medio. Secondo un’inchiesta recente, quest’anno in America un milione di queste donne comparirà davanti al tribunale fallimentare. Un numero superiore, dice l’economista Elizabeth Warren, a quello delle donne che «prenderanno la laurea, avranno una diagnosi di cancro o chiederanno il divorzio». La loro difficile situazione – sintomatica di una condizione comune nel mondo – contiene una lezione utile per tutte noi.
Queste donne rovinate sono più istruite dei loro omologhi maschi: la maggior parte ha fatto l’università, più della metà è proprietaria della casa dove vive. A farle cadere da uno stile di vita medio-borghese a redditi di poco al di sopra del limite di povertà sono stati verosimilmente tre fattori: due economici e uno emotivo.
In primo luogo, queste donne nuotano nei debiti. Molte hanno lavori che impongono di tuffarsi nelle linee di credito solo per stare a galla. Altre sono state bersagliate – e raggiunte – dai produttori di beni di lusso e dalle società che emettono carte di credito, che beneficiano del modo in cui la cultura di massa lega certi tipi di consumo – gli abiti all’ultima moda, la borsa-must della stagione, l’ultimo modello di auto sportivo – ai racconti di una femminilità di successo.
Questa pressione non è limitata agli Stati Uniti. Nuove classi medie stanno emergendo globalmente e riviste come Cosmopolitan e Vogue si rivolgono, con gli stessi identici beni di lusso, a donne dell’India e della Cina appena ascese socialmente – molte delle quali appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia delle loro famiglie, dispone di un suo reddito.
La seconda ragione di questa bancarotta femminile è che una legge del 2005 contrappone nei tribunali le donne – che non possono permettersi costosi pareri legali – ai gestori di carte di credito per stabilire chi venga primo nei pagamenti quando l’ex marito, mancando ai suoi doveri, nega sia l’assegno di mantenimento dei figli sia il saldo degli acquisti.
C’è poi un terzo fattore, di cui poco si parla: le attese emotive e le proiezioni sul denaro. Nel programma sulla leadership delle giovani donne cui io collaboro al Woodhull Institute, vediamo regolarmente che ragazze del ceto medio – in percentuale superiore a quelle della classe operaia – provano imbarazzo a parlare di denaro. Quando lo devono introdurre in un colloquio – per esempio con il loro datore di lavoro – si scusano con parole controproducenti. Sono restie a negoziare lo stipendio e raramente sanno come farlo.
Ritengono che chiedere del denaro in cambio del lavoro sia «poco femminile». Danno per scontato che lavorare il doppio degli altri – senza mai chiedere riconoscimenti del loro valore – porterà un aumento perché qualcuno di importante se ne accorgerà.
Queste giovani donne tendono anche ad avere un’idea poco realistica delle loro finanze. Spesso non si curano di risparmiare perché danno per scontato – ancora! – che a salvarle economicamente arriverà il matrimonio. Per loro l’acquisto di un paio di scarpe costose o un bel taglio dei capelli è un «investimento» per un futuro romantico. E non si preoccupano di fare piccoli investimenti mensili. Questo cliché è spesso vero anche per le borghesi più anziane, che non sanno gestire le finanze della famiglia, perché hanno sempre delegato ai mariti il compito di pagare contributi, mutui, tasse e assicurazioni. Così, in caso di divorzio o vedovanza, sono economicamente vulnerabili.
Paradossalmente, le donne della classe operaia (e quelle di colore) raramente si rifiutano di interessarsi alle questioni economiche. Secondo la nostra esperienza, esse tendono a padroneggiare l’abc delle finanze e imparano a negoziare il salario, perché non possono permettersi il lusso di aspettare un cavaliere su un cavallo bianco che arriva a salvarle economicamente.
Questo pragmatismo economico delle donne povere è la ragione del successo, nel mondo in via di sviluppo, del microcredito, che mette il denaro nelle mani femminili. Sarei sorpreso se le donne borghesi nel resto del mondo – cresciute considerando certe forme di ignoranza e ingenuità economica come socialmente appropriate – riuscissero, senza un duro apprendimento, a essere affidabili e accorte come quelle più povere dimostrano di essere.
«Financial intimacy», l’ultimo saggio di Jacquette Timmons, una talentuosa coach finanziaria, fornisce delle verità che sarebbero state preziose per qualunque donna della classe media ora in crisi: «Oggi molte guadagnano ben più delle generazioni precedenti. Questo però non ha prodotto un più alto grado di sicurezza economica». La colpa è del tabù di-soldi-non-si-parla. Le donne della middle class ovunque nel mondo lo supereranno quando noi tutte avremo capito che i soldi non sono mai solo soldi e che diventare economicamente preparate significa allontanarsi dal ruolo sociale assegnato alle donne: quello di persone educate, economicamente assenti, sottopagate e abbagliate dallo shopping. Tutte le altre tremende pressioni che le spingono alla rovina continueranno a esistere, ma almeno un numero crescente di loro le affronterà con gli occhi bene aperti e, si spera, con molte alternative migliori.
Copyright Project Syndicate, 2009
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Sigarette ricettacolo di batteri: uno studio USA 07.01.2009
Il fumo non solo fa male ai polmoni e al sistema cardiovascolare, ma può trasformarsi in un inaspettato veicolo di batteri e agenti patogeni.
E’ la scoperta pubblicata sulla rivista Environmental Health Perspectives e frutto di un gruppo di ricercatori della University of Maryland School of Public Health.
Lo studio è partito analizzando quattro marche di sigarette differenti: in tutti i casi è stata registrata un’elevata quantità di batteri nocivi per la salute dell’uomo, molti dei quali tra i principali responsabili di infezioni alla bocca e alle vie respiratorie.
Individuati i batteri, rimane il dubbio anche sulla loro provenienza.
Le ‘bionde che uccidono’ potrebbero essere contaminate in ogni fase della loro realizzazione: dalla coltivazione del tabacco alla raccolta, dalla lavorazione industriale all’impacchettamento.
“Per il momento abbiamo soltanto individuato le specie di batteri presenti nelle sigarette e adesso intendiamo verificare con esattezza quale sia il loro impatto sulla salute pubblica” ha dichiarato la responsabile dello studio Amy Sapkota.
Per approfondire:
Fumo: il portafoglio vuoto fa bene alla salute?
Il fumo: quali rischi per la salute?
Fonti
Environmental Health Perspectives
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Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ dell’11.01.2010
Sul Corriere della Sera, alla pagina delle Idee e Opinioni, un intervento dell’islamologo Olivier Roy, che compare sotto il titolo “Il vendicatore solitario di Al Qaeda: musulmano virtuale, terrorista reale”. Roy prova a spiegare cosa hanno in comune i terroristi che nel 2009 hanno tentato di colpire il territorio statunitense. Giovani globalizzati che si identificano con una umma musulmana virtuale e immaginaria”.
Su La Repubblica, nelle pagine dedicate alla lotta al terrorismo, si evidenziano le dichiarazioni di un’esperta della Hoover Institution, Jessica Stern: “Istruito, borghese e globale, identikit del nuovo terrorista” è il titolo dell’articolo in cui si sottolinea che la Stern evidenzia come gli Usa non capiscano la nuova Al Qaeda. I membri di questa organizzazione arrivano dai Paesi più repressivi del Medio Oriente e intendono destabilizzare gli Stati più deboli. Allo stesso modo e contemporaneamente si sottolinea che Al Qaeda recluta nei Paesi non islamici.
Su La Stampa il resoconto di una intervista, rilasciata ieri alla CNN, dal comandante in capo del CentCom (comando centrale Usa per il teatro mediorientale) in cui si parla di Iran per ipotizzare un bombardamento da parte americana degli impianti nucleari iraniani. Allo stesso modo si dà conto della precisazione del Presidente Obama, che ha sottolineato di non avere intenzione di mandare soldati americani nello Yemen e in Somalia: “Credo che in questa fase sia più efficace lavorare con partner internazionali”. Obama ha concluso ricordando che continua a pensare che il cuore della attività di Al Qaeda sia nella frontiera Afghano-Pakistana.
L’Unità intervista Benjamin Barber, già consigliere del Presidente Clinton. Il quotidiano riassume così il suo pensiero: “Su Afghanistan ed ecologia Obama sta sbagliando, ma la sanità sarà la svolta”. Bisognerebbe muovere verso il modello europeo di economia mista, secondo Barber, che sottolinea come lo Stato abbia il compito di controllare, regolare e garantire standard di giustizia sociale. Sul terrorismo dice che uno su cinque di coloro che vengono rilasciati riprendono l’attività terroristica. Se poi accetti che imputati di nazionalità saudita o yemenita vengano trasferiti nelle prigioni di casa loro, non hai più il controllo di ciò che accadrà e sai benissimo che alcuni saranno rimessi in libertà. Nulla dimostra che la presenza armata all’estero diminuisca la minaccia terroristica in casa, abbiamo migliaia di truppe a Baghdad e Kabul e stavamo per essere bombardati in casa nostra da un nigeriano. Qualunque intervento in terra stranier è un errore, perché sarai sempre visto come aggressore. Barber usa un paradosso: “Lasciamo l’Afghanistan, lasciamo che Al Qaeda diventi l’occupante e vedremo le tribù pashtun rivoltarsi contro di loro”.
Sui temi ecologici: “Siamo il Paese che ha maggiori responsabilità rispetto ai mutamenti climatici”, ma non c’è stato nemmeno il tentativo di esercitare una leadership in questo campo.
Tornando a La Stampa, si riportano le dichiarazioni del presidente yemenita Saleh, che pare abbia teso la mano ai ribelli affermando: “Il dialogo è la migliore soluzione anche con Al Qaeda e gli alawiti (sciiti del nord). Siamo pronti a parlare con loro se depongono le armi.
Sullo stesso quotidiano un articolo che continua ad occuparsi del “grande assalto ai cristiani”. Cinque chiese distrutte in Malaysia, a Kuala Lumpur continuano le violenze contro i cattolici esplose dopo una disputa sull’utilizzo della parola Allah come sinonimo di Dio anche per i non musulmani, in Egitto arrestati 28 copti, accusati di fomentare disordini. E ad Algeri sono riapparsi i barbuti islamisti, che hanno assaltato e incendiato la sede dei protestanti kabili.
L’Unità parla della Commissione di inchiesta parlamentare in Iran che ha duramente accusato l’ex procuratore generale di Teheran per i maltrattamenti subiti da 145 manifestanti in un carcere a sud della capitale, dove i giovani arrestati si sono trovati al fianco di pericolosi criminali e sono stati picchiati e umiliati dai loro carcerieri. L’ex procuratore, ricorda L’Unità, era stato destituito nell’agosto scorso dopo la chiusura dello stesso carcere per decisione della Guida Suprema.
Su L’Unità un dossier firmato da Umberto de Giovannangeli si occupa di Gaza e del muro che l’Egitto sta costruendo al confine con la striscia palestinese. “L’opera in acciaio è a pova di bombe. ‘Difendiamo la sicurezza nazionale’”. L’Onu ricorda che il 60 per cento dell’economia della Striscia dipende da Gaza”.
Da segnalare il Focus del Corriere della Sera, che si sofferma sul numero degli immigrati impiegati in lavori stagionali. La stragrande maggioranza ha contratti “informali” e retribuzioni “non sindacali”, sono almeno 170 mila, impiegati, oltre che in agricoltura, anche nella zootecni, nel settore dei fiori e nell’agriturismo. In alcune regioni (Toscana, Emilia Romagna, Piemonte) ci sono anche corsi di formazione e progetti mirati agli immigrati.
La Stampa si sofferma sul probabile arrivo negli agrumenti del sud di raccoglitori romeni o bulari, “pronti a prendere ilposto degli africani”, finora attivi nell’edilizia.
Il Sole 24 Ore ricorda in prima pagina che oggi i 26 commissari della squadra della Commissione Ue di Barroso inizieranno le audizioni al Parlamento Europeo. Un “esame” per sostenere il quale è obbligatorio presentare una tesina in cui si illustra il proprio programma. “L’interrogazione” durerà tre ore.
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Rosario ha una storia: le lotte del bracciantato nel dopoguerra 27.01.2009
ROSARNO – Rosarno ha una storia. Ed è una storia di lotte contadine. Che con le occupazioni delle terre del demanio fecero di questo poverissimo borgo una ridente cittadina nell’immediato dopoguerra. Quella storia è disegnata su un affresco sul muro della posta centrale, in piazza Valarioti. Un uomo e una donna con un neonato in braccio, seguiti da un gruppo di contadini, marciano a testa alta in mezzo a oliveti e aranceti. Due generazioni dopo, a sfruttare il lavoro nero dei braccianti stranieri, sono i figli di quegli stessi contadini. La maggior parte dei terreni infatti è di piccoli proprietari, spesso eredi dei braccianti a cui vennero redistribuite le terre nel dopoguerra.
La Guerra aveva distrutto la già fragile economia calabrese. Braccianti e contadini erano più poveri di prima. Interi paesi erano senza strade, senza luce, senza acqua corrente, senza cimiteri, medici e scuole. Le prime occupazioni iniziarono nel settembre del 1944 a Casabona, in provincia di Krotone. Le truppe alleate non intervennero. Il movimento di occupazione delle terre dei latifondi iniziò a prendere forma, soprattutto nel crotonese. Il 28 novembre 1946 cadde la prima vittima. Giuditta Levato, uccisa per mano del fattore di un agrario, a Calabricata. Il 29 ottobre 1949 durante un’occupazione a Melissa, la polizia aprì il fuoco sui contadini. Morirono tre persone: Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito. Altri 14 rimasero feriti. Due anni prima, il primo maggio 1947, si era consumata la strage di Portella della Ginestra, a Palermo, dove i banditi di Giuliano avevano ucciso 11 contadini.
E’ in questo clima che a Rosarno la cooperativa Primo Maggio di Enzo Misefari del Partito Comunista italiano, inizia le occupazioni dei circa 2.000 ettari di bosco di proprietà del demanio, intorno al borgo. I primi che occuparono le terre, furono arrestati dalla polizia di Scelba. Ma alla fine si procedette alla redistribuzione. Le terre venivano misurate con uno spago, da cui venne la misura di 6.660 metri quadrati della “cota”. Ogni bracciante aveva diritto a mezza cota. La coltivazione di arance non iniziò subito. All’inizio venivano usati per coltivare legumi e angurie.
Le famiglie contadine erano numerose, contavano sette o otto figli. Ogni mattina scendevano tutti in strada per cercare lavoro nei campi, come fanno oggi gli immigrati. Al bosco poi c’era la zona dei carcerati. “Ai carcerati” si chiamava. Erano terre che erano state riservate ai militanti finiti in carcere per le occupazioni e che vennero loro assegnate alla loro liberazione. Allora Rosarno era molto povero. Al punto che uno dei suoi quartiere veniva chiamato Corea, e i suoi abitanti coreani, perché ricordavano le immagini dei profughi coreani sotto le bombe americane in quegli anni.
Solo a metà degli anni Sessanta il Consorzio della bonifica realizzò l’irrigazione e si poté iniziare a piantare gli agrumi. Per le famiglie contadine fu una manna. Tutti i membri della famiglia lavoravano alla coltivazione. Ed era molto redditizia. Con gli incassi si riuscivano a costruire case e a sposare figli. Da cui il proverbio dialettale: “Cunna cota i giardino si izavano case e si maritavano i figghi”
Leggi il reportage su Rosarno
Cento immigrati vivono nelle baracche della vecchia fabbrica alla Rognetta
Emergenza alla cartiera: 400 braccianti immigrati in un capannone abbandonato
All’alba sulle vie di Rosarno, con gli immigrati in attesa dei caporali
La storia di Pino: l’unico rosarnese al corteo degli africani
Don Pino Varra, il parroco rosarnese che mise un Gesù nero nel presepe
http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/rosarno-ha-una-storia-le-lotte-del.html
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La città di cartone di Gianluigi Lopes
http://www.youtube.com/watch?v=pjzeg58BJu8
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Sul Delta del Niger, dove si estraggono 2,5 milioni di barili di petrolio al giorno, ci sono oltre 20 milioni di nigeriani
che vivono con un dollaro al giorno. In un posto come questo, nasce il “livello di vita dell’occidente”.
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Merkel cancelliera indecisa 11.01.2010
GIAN ENRICO RUSCONI
Che cosa fa la Cancelliera? A Berlino le voci di critica contro Angela Merkel si fanno sempre più alte e insistenti. Provengono dall’interno della litigiosa coalizione di governo cristiano-democratico e liberale e dall’esterno da parte delle Chiese. È messa in discussione la sua capacità di decidere nel ruolo di cancelliere, cui la Costituzione assegna espressamente «la competenza di dettare le linee-guida della politica e di portarne la responsabilità».
Siamo davanti a una inedita polemica anche di carattere istituzionale. Questo tipo di critica riveste grande interesse per osservatori come noi, che in Italia ci apprestiamo a una ennesima stagione di confronto sulle grandi regole di governo. Guardiamo con attenzione quanto accade al modello tedesco, che spesso è preso come buon esempio di governo che sa decidere in un sistema parlamentare senza prender la strada del presidenzialismo.
Cominciamo dalle critiche di merito fatte alla Merkel per la sua indecisione politica in tema di riduzione delle tasse, di politiche per la famiglia e in generale di cauta correzione dello Stato sociale. In realtà questa indecisione riflette i contrasti e le contraddizioni interne alla sua stessa coalizione, che la cancelliera sembra non saper governare.
Liberali e cristiano-democratici hanno vinto le elezioni dell’autunno scorso a seguito di una campagna elettorale aggressiva ma equivoca. Soprattutto i liberali si sono affermati elettoralmente con una promessa semplice e popolare/populista: abbassare le tasse subito per stimolare la crescita, anche a costo di una ulteriore riduzione della spesa sociale. La ripresa economica avrebbe rimesso tutto a posto.
I cristiano-democratici (e la Merkel stessa) non erano affatto convinti di questa semplicistica ricetta, davanti al peggioramento del mercato del lavoro e al progressivo deterioramento delle condizioni dello Stato sociale, che rimane uno dei successi storici che qualificano la Germania postbellica. Oltretutto la grave crisi finanziaria mondiale è tutt’altro che risolta.
Ma pur di vincere e liberarsi della socialdemocrazia, i democristiani hanno fatto finta di nulla e si sono affidati al carisma personale della Merkel, accumulato nella gestione della Grande Coalizione con i socialdemocratici.
Questo è il paradosso: la Merkel governava meglio con «gli avversari» socialisti di ieri che con «gli amici» liberali di oggi. Sino a ieri molti democristiani si lamentavano che la Cancelliera fosse troppo di sinistra. Oggi dichiarano che la vittoria elettorale è stato «un colpo di fortuna» dovuto allo stile «presidiale» (sic) della Cancelliera a tutto svantaggio del partito democristiano che è rimasto privo di un chiaro e forte profilo politico. In altre parole la Merkel non avrebbe promosso il partito (Cdu) di cui è presidente. Contemporaneamente però i liberali accusano i cristiano-democratici di non mantenere il patto di coalizione da loro sottoscritto, che prevedeva appunto la riduzione delle tasse. E ne chiedono conto alla Cancelliera a gran voce.
A parte altri punti controversi (impegno militare in Afghanistan, ingresso della Turchia nella Unione europea) anche il tema della famiglia è oggetto di un inatteso e pesante intervento della Chiesa cattolica. «La politica perde la bussola se fa credere alla gente che si può avere tutto allo stesso tempo: la carriera, buoni stipendi e i figli» – ha dichiarato l’autorevole arcivescovo di Monaco di Baviera. Tiriamo un bilancio. Parlavo sopra della singolare accusa rivolta retrospettivamente alla Merkel dai suoi amici di partito di avere condotto la campagna elettorale vincente con stile presidenziale. È vero. Molti osservatori esterni lo avevano subito notato. Si era creata l’impressione che si stesse per scegliere un presidente alla francese piuttosto che un partito guidato da una personalità che – a norma della Costituzione – era pronta ad assumere il ruolo di cancelliere (con le sue prerogative di competenza direttiva) dopo la piena approvazione del Parlamento. Ma i cristiano-democratici, consapevoli della debolezza del proprio partito come tale, per vincere si sono adattati a questo gioco pseudo-presidenziale, potendo disporre di una Merkel che pure notoriamente non era e non è amata dalla grande nomenclatura democristiana.
Adesso il nodo è venuto al pettine. La Merkel è stata un’ottima Cancelliera nella Grande Coalizione perché, anche grazie al suo carattere paziente ma fermo, poteva contare su una sostanziale cooperazione dei due grandi partiti popolari «condannati a stare insieme». Le sue decisioni dovevano essere accettate. Adesso i «partiti della libertà» che formano la nuova coalizione sono ipercompetitivi e chiedono alla cancelliera che decida a favore dell’uno contro l’altro. La Merkel non ha ancora trovato la forza o gli argomenti per dire che le sue decisioni possono o devono per forza scontentare l’uno o l’altro. O entrambi. Ma solo così può governare. La formula del cancellierato non funziona presidenzialisticamente con l’appello alla legittimazione popolare al di là dei partiti, ma sulla convinta e ragionevole delega dell’autorità decisionale dai partiti parlamentari al premier. Che a sua volta deve possedere e conquistare autorevolezza nella gestione della coalizione. È un circolo virtuoso difficile ma l’unico che garantisce autentica governabilità. Torniamo a Berlino. Adesso tutti chiedono una «nuova partenza» della politica. La Cancelliera pur vedendo i propri indici di popolarità in discesa, sinora è rimasta silenziosa. Ma non potrà esimersi dal prendere posizione in alcuni importanti appuntamenti istituzionali e partitici della settimana entrante. Sarà la sua prova decisiva.
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L’eruzione più profonda 05.01.2010
Ripresa la spettacolare eruzione del West Mata, un vulcano sottomarino che si trova a più di 1.200 metri di profondità
Un grande spettacolo pirotecnico nelle profondità dell’Oceano. Così appare la più profonda eruzione vulcanica sottomarina, recentemente scoperta da un gruppo di scienziati della National Science Foundation (Nsf) e della National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa). A regalarci le suggestive immagini è il vulcano West Mata, che si trova a più di 1.200 metri di profondità nell’Oceano Pacifico, in una regione compresa fra le isole Figi, le Samoa e Tonga.
Le immagini e i video dell’eruzione sono stati presentati al recente meeting autunnale dell’American Geophysical Association (Agu), svoltosi a San Francisco dal 14 al 18 dicembre. Il video dell’eruzione è stato ripreso da Jason, un robot automatizzato della Woods Hole Oceanographic Institution (Whoi). Alle profondità oceaniche del West Mata, la pressione dell’acqua è così alta da smorzare la violenza dell’eruzione, pertanto Jason ha potuto avvicinarsi molto al vulcano, un’impresa impossibile per le eruzioni sulla superficie terrestre. Un idrofono ha inoltre registrato i suoni dell’eruzione.
Ma non è solo spettacolo. Lo studio dei dati raccolti, infatti, sta aiutando a far luce su molti aspetti della dinamica della litosfera terrestre. “Abbiamo trovato un tipo di lava mai visto prima in un vulcano attivo, e per la prima volta abbiamo osservato lava fusa che scorre sul fondale marino dell’Oceano”, ha commentato Joseph Resing dell’Università di Washington, ricercatore a capo della spedizione.
Nell’eruzione del West Mata sono infatti state osservate lave di boninite, particolarmente ricche di magnesio e silicati. Queste lave, che si ritiene siano fra le più calde del pianeta, finora erano state osservate solo in antichi vulcani spenti da più di un milione di anni. Lo studio delle lave di boninite è di grande importanza per comprendere la formazione del magma nei vulcani e i meccanismi di riciclo dei materiali delle zone di subduzione (quelle in cui un lembo di crosta terrestre “sprofonda” sotto un altro). I campioni di acqua prelevati al di sopra del vulcano hanno inoltre mostrato un altissimo grado di acidità. Gli unici animali osservati in queste acque sono dei gamberetti, il cui Dna è attualmente sotto attenta analisi.
Oggi gli scienziati ritengono che circa l’80 per cento dell’attività eruttiva del pianeta avvenga nell’oceano, dove si troverebbe anche la maggior parte dei vulcani attivi. Le eruzioni profonde sono quindi un prezioso strumento per comprendere vari aspetti del trasporto di materia e calore dall’interno della Terra e per indagare come le forme di vita possano adattarsi a condizioni così estreme. (m.r.)
Riferimenti: American Geophysical Association
Credit immagine: NSF/NOAA
http://www.galileonet.it/news/12213/leruzione-piu-profonda
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NEI GHETTI D´ITALIA QUESTO NON È UN UOMO
di ADRIANO SOFRI
Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d´asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d´amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,
“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L´Uomo Nero
Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l´elemosina di un´attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera
(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all´ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra – “A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas, né
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi.
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12/1/2010 – L’ADDIO
Morta Miep, la custode del diario di Anna Frank
Si è spenta all’età di 100 anni
AMSTERDAM
Miep Gies, la donna che conservò il diario di Anna Frank, si è spenta la scorsa notte all’età di 100 anni. Lo ha reso noto il suo sito web. La Gies era l’ultima sopravvissuta del gruppo di persone che nascosero la famiglia dei Frank nel retro di una casa di Amsterdam fra il 1942 e il 1944. Poche ore dopo la cattura di tutta la famiglia di ebrei tedeschi da parte dei nazisti il 4 agosto 1944, la Gies entrò nel rifugio e raccolse il diario che aveva scritto la figlia adolescente dei Frank, Anna. Dopo la cattura, i Frank vennero portati nel lager di Auschwitz dove furono separati. Anna, la madre Edith e la sorella Margot morirono nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Solo il padre Otto sopravvisse e dopo la guerra la Gies gli consegnò il diario.
Otto Frank lo fece pubblicare e da allora la storia di Anna è diventata in tutto il mondo il simbolo della tragedia e l’orrore dell’Olocausto. Nata il 15 febbraio 1909 a Vienna, la Gies era un’impiegata di Otto Frank, ebreo tedesco trasferitosi in Olanda nel 1933 poco dopo la salita al potere di Adolf Hitler in Germania. Assieme ad altri cinque colleghi aiutò i Frank e altre quattro persone a vivere nascosti nella casa che oggi è stata trasformata in un museo. «Più di 20mila olandesi aiutarono ebrei ed altre persone bisognose di nascondersi durante quegli anni. Ho fatto soltanto quello che mi era stato chiesto e che allora mi sembrò necessario», scrisse la Gies nel suo libro «Ricordando Anna Frank».
«Ho compiuto 100 anni. È un’età ammirevole e l’ho raggiunta in buona salute – scrisse la Gies sul suo sito dopo l’ultimo compleanno- quindi è giusto dire che io sia stata fortunata e la fortuna sembra essere stata il filo rosso che ha attraversato la mia vita». La Gies è morta in una casa di riposo dopo una breve malattia, che non è stata resa nota. In tutti questi anni era diventata una sorta di ambasciatore del Diario, impegnata in campagne contro i negazionisti dell’Olocausto.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201001articoli/51166girata.asp
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Scoperto meccanismo molecolare difesa del DNA 11.01.2010
Scoperto un sistema di sicurezza molecolare che protegge le cellule umane dal DNA potenzialmente dannoso.
Lo hanno trovato i ricercatori della University of Minnesota (Stati Uniti), autori di un articolo pubblicato sulla rivista Nature Structural and Molecular Biology.
“Il DNA danneggiato, oppure quello proveniente da un organismo esterno, è potenzialmente dannoso per le cellule” ha spiegato Ruben Harris del College of Biological Sciences, ricercatore a capo dello studio.
“E’ necessario quindi un meccanismo di sicurezza per impedire a questo DNA di fare danni“.
I ricercatori hanno scoperto che un enzima del sistema immunitario, chiamato APOBEC3A, ha questo particolare compito: riconosce il DNA estraneo e trasforma le sue basi azotate.
“Le citosine (una delle quattro basi azotate tipiche del DNA) vengono cambiate in uracili, delle basi atipiche” ha detto Harris.
“Nel corso del tempo, nell’uracile si accumulano mutazioni tali da disattivare la capacità di quel frammento di DNA di codificare proteine. In seguito, altri enzimi raccolgono i frammenti di DNA contenenti uracile e li distruggono“.
La capacità delle cellule umane di distruggere il DNA dannoso era nota da tempo, e che certe cellule sanno riconoscerlo meglio, ma mancava una spiegazione molecolare alla base di questo fenomeno.
“Comprendendo come funziona questo meccanismo, possiamo aprire la strada a terapie genetiche” ha detto Harris. “Potremo sviluppare dei metodi per disabilitare alcune parti di DNA, disattivando i geni dannosi senza influenzare quelli benefici“.
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IL DECLINO DEL WEB
Cara, vecchia internet vai sul sito http://www.verità 10.01.2010
Lanier, guru di internet e dei new media, celebre firma di Wired, mette in guardia dalla deriva del Web 2.0, lamentando l’appiattimento dei contenuti online che motori di ricerca come Google e l’enciclopedia scritta dagli utenti Wikipedia importano sulla rete. Una poltiglia di informazione amorfa che rischia di distruggere le idee, il dibattito, la critica.
Quando lo conobbi a Silicon Valley negli anni ’90, Jaron Lanier era proprio come lo vedete nella foto qui accanto, con i «dreadlocks», i boccoli alla Bob Marley a cascata, e sulla mano il guanto della Virtual reality, la realtà virtuale di cui la sua azienda era pioniera. Con la sua visione e il suo guanto Jaron mutava lo schermo davanti a sé e entrava in una diversa realtà, volando su un bosco, duellando con un Cavaliere Templare, operando un paziente al cervello. Le sue simulazioni hanno poi dato vita a videogiochi, programmi di addestramento per l’aviazione, sistemi di training per ingegneri e medici.
Oggi però Lanier, guru di internet e dei new media, celebre firma della rivista Wired, è perplesso. E nel suo ultimo libro «You are not a gadget: a manifesto», mette in guardia contro la deriva del Web 2.0 con toni preoccupati che faranno applaudire i vecchi professori che si vantano «Io? Io non ho mai usato un computer!». Cosa è accaduto perché uno dei leader della rivoluzione internet denunci il Web 2010? Lanier lamenta l’appiattimento dei contenuti online, che motori di ricerca come Google e l’enciclopedia scritta dagli utenti Wikipedia, importano sulla rete. Mettere ogni giorno insieme, senza alcuna selezione, gli argomenti dei filosofi e le arrabbiature del tizio davanti al cappuccino tiepido, l’analisi economica di un Nobel e lo sfogo del qualunquista di turno, può essere celebrato dagli ingenui alla moda come «open source» e «democrazia di rete». Il pericolo è invece riassunto bene nelle parole del guru Lanier: «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video» ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter e la pasquinata firmata «Zorro» sul sito. In realtà questa poltiglia di informazione amorfa rischia di distruggere le idee, il dibattito, la critica.
Sui primi due giornali italiani, Repubblica e Corriere, i video più visti online questo sabato comprendono la ragazza che si tuffa nel lago e sbatte il sedere perché è gelato, la scema che fa la capriola e cade dal letto, il fusto che solleva 150 chili e sviene, il reporter sfiorato da un aereo e la cliente infuriata che devasta il locale perché il panino non le piace troppo.
Lamenta Lanier: «Ai tempi della rivoluzione internet io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c’è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale. Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta. Altrimenti la gente finisce nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ascolta solo chi rafforza le sue idee».
Che cosa è diventata dunque la discussione su internet nel 2010? Il pioniere Lanier, come tanti rivoluzionari del ‘900, non potrebbe essere più amaro e realista. «Ovviamente un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l’opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione».
Non saprei condensare meglio la preoccupazione e la delusione di Lanier e ho provato a sostenere le stesse tesi un anno fa, nella serie di Conferenze sul giornalismo all’Auditorium di Roma. Avendo creduto – e credendo – nella potenza sociale, culturale, economica e creativa della rete, e avendo a lungo scocciato colleghi e amici sulle sue virtù (al Corriere Paolo Mieli scherzava: ti vedo volentieri Gianni, basta che non mi parli più di internet!), è giusto che oggi mi faccia carico del dilemma: come è possibile riportare gerarchia di valori (il bene migliore del male), autorevolezza di tesi (il Nobel Amartya Sen la sa più lunga sulla crisi asiatica del suo anonimo aguzzino via blog), limpidezza di discussione (i siti e i Tersite che denunciano, a destra e a sinistra, in Italia e negli Usa, chi non è d’accordo con loro come «venduto» non sono «informazione»)?
La rete è e resterà il nostro futuro. I nostri figli ragioneranno sulla rete. L’informazione dell’opinione pubblica critica passerà sempre più dalla carta alla rete. Dunque non dobbiamo – come ci ammonisce Jaron Lanier – permettere ai teppisti di inquinarla con le loro farneticazioni e garantirne l’informazione, la cultura e l’eccellenza contro l’omogeneizzazione e il qualunquismo.
Google come aggregatore industriale di sapere, Wikipedia come aggregatore volontario di sapere, un’azienda strepitosa e un gruppo sterminato di volontari, non possono continuare a mischiare diamanti e cocci di bottiglia. Chi segue il dibattito su Wikipedia – vedi il Financial Times del 2 gennaio con l’inchiesta di Richard Waters – sa quanto questo riequilibrio sia importante: «È ormai duro controllare la qualità su Wikipedia, e interessi occulti possono fare correzioni con facilità, secondo il loro punto di vista. Andrew Lih dell’University of Southern California ci mette in guardia nel suo saggio «The Wikipedia Revolution»: «Il mio terrore è che poco a poco la verità goccioli tutta via, senza che nessuno se ne accorga».
È così, in nome di un egualitarismo che puzza di ideologia, e mettendo sullo stesso piano esperti e dilettanti, osservatori equanimi e faziosi ululanti, Wikipedia rischia di passare da invenzione geniale a piazza scalmanata (e chiunque abbia visto l’articolo a suo nome dell’enciclopedia online cambiato e ricambiato da fans e ultras sa di che parlo).
Il compito non è immane, ma è urgente. Riportare sulla rete quei canoni di serenità, autorevolezza, vivacità, impegno, buona volontà, dibattito, critica che sono da sempre trade mark della libertà, dell’onestà, della ragione. Senza perderne la ricchezza, la spontaneità, l’uguaglianza.
Per avere proposto questa discussione Lanier è già fatto a pezzi sulla rete come reazionario, traditore, snob, fallito, ferrovecchio (stessa sorte mi capitò quando il Corsera pubblicò la mia conferenza dell’Auditorium). Assurdo. In un’intervista oggi al Domenicale lo scrittore Francesco Piccolo racconta di come il suo amico Niccolò Ammaniti, giovane come lui, lo chiami inorridito per gli insulti che gli rivolgono online: prima regola, dice il saggio Piccolo, mai leggere i commenti anonimi dei blog.
Riportare sulla rete i valori della ragione, della saggezza e della buona volontà. A Wikipedia son coscienti del problema, se il grande Craig Newmark, fondatore di Craiglist, impero degli annunci pubblicitari online e consigliere della Fondazione Wikipedia, conclude «Abbiamo bisogno di esperti bilanciati dai cittadini, e viceversa». La rete 2010 deve diventare questa città ugualitaria: dove gli esperti e l’informazione di qualità parlano ai cittadini, e i cittadini fanno sentire la propria voce senza rancori e follie anonime. (Quanto alle Sturmtruppen dei siti all’arrabbiata anticipo gli insulti: questo articolo è stato imposto dal Kgb, la Spectre, la Cia e la Banda Bassotti per nascondere i mandanti dell’omicidio Kennedy, nascosti si sa in Vaticano e al Crazy Horse…).
gianni.riotta@ilsole24ore.com
twitter@riotta
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12/1/2010 – NEL 1980 NASCEVA IL PARTITO TEDESCO DEI GRÜNEN
I Verdi in politica, romantici e pagani
Perché in Germania si sono affermati più che nel resto d’Europa
MARCO BELPOLITI
Trent’anni fa nascevano i Verdi in Germania. Ma perché proprio lì? Probabilmente per diversi motivi politici, ma anche per ragioni culturali e persino religiose. Nel substrato della civiltà tedesca l’attenzione alla natura è un elemento fortemente presente. A partire dall’età preromana, dal paganesimo precristiano, la Natura è vista come qualcosa di sensibile, di vivo, di magico, e insieme di sacro. Questa idea della sacralità è ben presente nel Romanticismo tedesco, nelle sue origini, a partire dal movimento dello Sturm und Drang, e nella pittura di Caspar David Friedrich. Per quanto vista come assoluta, e insieme pericolosa, la natura è uno dei momenti attraverso cui si esplicita l’idea del Sublime. La riscoperta delle forze naturali attraversa tutto il Settecento e l’Ottocento tedesco, sino a influenzare di sé il movimento naturista e quello socialista degli anni Dieci e Venti, da cui deriva, per osmosi, la stessa passione per il mondo vegetale e minerale del nazionalsocialismo, come ricorda George Mosse in La nazionalizzazione delle masse (Edizioni il Mulino). Non è solo una battuta ricordare che Adolf Hitler era vegetariano. Nel clima dell’esoterismo dei primi decenni del Novecento la Natura è un valore assoluto, una fonte di energia, un riferimento incontrovertibile. Il culto dell’istintività e della passionalità si svolgono sempre in un ambiente agreste, tra i boschi, lontano dalla civiltà cittadina. Questa inclinazione al paganesimo, che la cultura tedesca ha coltivato negli ultimi due secoli, non confligge, poi, con la radice luterana, protestante, della civiltà tedesca, anzi ne è una componente essenziale.
Forse proprio per questo la cultura dei Verdi, l’ecologismo, non ha mai attecchito davvero nei paesi cattolici, dove la Natura non fa davvero parte del progetto di salvezza divina. Nel cattolicesimo il mondo è destinato a perire; nell’Apocalisse finale sarà distrutto con tutto ciò che contiene: animali, alberi, prati, montagne, fiumi, laghi, mari. Nella Parusia, il secondo ritorno di Cristo, è prevista la sola salvezza dell’uomo, e non quella dell’ambiente in cui vive. Inoltre, i paesi cattolici hanno conosciuto una tardiva e scarsa industrializzazione rispetto ai paesi anglosassoni, ragione per cui non è mai cresciuto quel paradossale culto per la Natura che è proprio delle civiltà industriali. Il mondo contadino vive a stretto rapporto con la Natura, vista come nemica e insieme alleata, sacralizzata nel paganesimo, ma tenuta a distanza dalla cultura controriformistica che in Italia e in Spagna ha segnato la storia degli ultimi cinque secoli, e di cui ancora se ne riconoscono le tracce. Il mondo contadino lotta con la natura, la rispetta, ma anche la sfrutta, come fa con ogni cosa, per necessità di sopravvivenza; non possiede quella distanza che è il risultato dell’industrializzazione.
Keith Thomas in un libro importante di alcuni anni fa, L’uomo e la natura (Einaudi), ha spiegato come questo culto del mondo naturale praticato in Inghilterra – rispetto verso i boschi, la passione per gli animali domestici, per le residenze di campagne, per la protezione della natura -, sia in effetti il risultato di una virulenta industrializzazione che devastò quel Paese nella seconda metà del Settecento, sviluppando così per antitesi nella nobiltà e nella borghesia inglese un’attenzione differente per l’elemento naturale, documentato dai poeti Laghisti e dai grandi pittori di paesaggio. Niente di simile in Italia, dove la cultura dei Verdi trae le sue origini da forme eterodosse di cristianesimo primitivo, alla San Francesco, o da figure eretiche della politica, come Alexander Langer, un ebreo di origini altoatesine, ma anche dai giovani provenienti dai movimenti extraparlamentari. Per identificare cosa è stato in Germania il movimento ecologista e i Verdi bisogna evocare una figura dell’arte, Joseph Beuys, con le sue performance ecologiste, le battaglie culturali, che si compendiano nel motto: «La rivoluzione siamo noi». Beuys, ex pilota della Luftwaffe nella Seconda guerra mondiale, ha posto nel 1982 7000 blocchi di pietra acuminata nella piazza di Kassel, sede di una famosa esposizione d’arte: ogni cuneo sarebbe stato eliminato ogni volta che la città avesse piantato un nuovo albero. Un gesto duro e insieme deciso, che ci ricorda quale sia il fondo romantico dell’anima verde dei tedeschi.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/201001articoli/51164girata.asp
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Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 12.01.2010
Sul Sole 24 Ore, segnaliamo una intervista al leader dei liberali all’Europarlamento, Verofhstadt, che sottolinea la necessità di un “patto di stabilità” sull’economia, poiché il fallimento dell’agenda di Lisbona dimostra che servono sanzioni. E su un Paese continua a tagliare sulla ricerca, perché insistere a destinargli i fondi UE?.
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Individuato metodo per creare biocombustibili più efficienti 10.01.2010
Di Marco Mancini
Un team di scienziati dell’Università di Sheffield ha sviluppato un dispositivo innovativo che renderà la produzione di biocombustibili l’alternativa energetica più efficiente. Il gruppo di ricerca ha adattato un bioreattore unico per la produzione di carburanti alternativi rinnovabili, per sostituire i combustibili fossili, quali benzina e gasolio. La produzione di biocarburanti attualmente richiede enormi quantità di energia e quando il processo utilizza troppa energia, è antieconomico. Questo nuovo metodo consuma molta meno energia e potrebbe rivelarsi vitale per lo sviluppo economico nella produzione di carburanti alternativi.
Il team ha elaborato un bioreattore che crea microbolle con il consumo del 18% in meno di energia. Le microbolle sono bolle di gas in miniatura di meno di 50 micron di diametro in acqua. Esse sono in grado di trasferire i materiali in un bioreattore molto più rapidamente delle grandi bolle prodotte con tecniche di produzione convenzionale, consumando molta meno energia.
In riconoscimento di questa svolta, il team è stato premiato con la Medaglia Moulton dall’Institution of Chemical Engineers, che riconosce la migliore ricerca pubblicata sulla rivista della dell’Istituto durante l’anno. Il team ha inoltre presentato il proprio progetto alla 6° Conferenza annuale sui bioProcess in Gran Bretagna, dove ha ricevuto il Best Poster Award.
L’approccio è attualmente in fase di test, con ricercatori provenienti dal Suprafilt di Rochdale, su scala industriale. Il team sta inoltre studiando l’applicazione del dispositivo nell’azienda locale dell’acqua di Yorkshire. Stanno usando i componenti del bioreattore che producono microbolle per dare una migliore efficienza nel trattamento delle acque reflue. Essi prevedono di ridurre i costi attuali dell’elettricità per il processo di un terzo.
http://www.ecologiae.com/metodo-creare-biocombustibili-efficienti/11971/
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Dalla newsletter di http://www.movisol.org/ del 12.01.2010
“Niente libbra di carne per le banche”
In un articolo datato 9 gennaio 2009, Il presidente dello Schiller Institute Helga Zepp-LaRouche ha scritto: “Quando si vede con quale spietatezza le istituzioni finanziarie internazionali sostengono che paesi come Islanda, Lettonia o Grecia devono tenere fede agli ‘obblighi internazionali’, anche se ciò significa austerità brutale e un’aspettativa di vita dimostrabilmente ridotta, viene alla mente il Mercante di Venezia di Shakespeare, con l’usuraio Shylock, che pretendeva una libbra di carne dal debitore Antonio, da tagliare ‘vicino al cuore del mercante'”.
Queste crisi evidenziano i limiti del Trattato di Lisbona e della stessa Unione Monetaria. Nel caso dell’Islanda, ad esempio, il ministro della City di Londra Lord Myners pretende che i cittadini rimborsino gli investitori di perdite che ammontano al 40% del PIL, e promette l’ingresso dell’Islanda nell’UE, che limita il deficit di bilancio al 3%!
Nel caso della Grecia, che si trova sull’orlo della bancarotta, l’economista capo della BCE Juergen Stark ha detto a Il Sole 24 Ore che i mercati non dovrebbero confidare in un salvataggio dell’UE. Oltre al fatto che sarebbero i contribuenti tedeschi ad essere chiamati a fare sacrifici, il dilemma è, come ha dichiarato Helga Zepp-LaRouche, che “se vengono concessi prestiti alla Grecia, cosa esplicitamente proibita dallo statuto della BCE, allora tutti gli altri stati membri che rischiano il default ne farebbero uso. Ma se la Grecia non viene salvata, e tenta di ridurre il deficit e il debito pubblico con tagli massicci, le tensioni sociali che da tempo agitano il paese esploderanno. Se la Grecia uscisse dall’Euro, sarebbe probabilmente seguita da altri.
“Il problema essenziale è che la burocrazia verde dell’UE continua ad aggrapparsi al dogma neoliberista, nonostante tutti i suoi fallimenti, e sta così trascinando le nazioni europee, strette nella camicia di forza di Maastricht, nella marginalizzazione storica”, scrive Zepp-LaRouche.
Ironicamente, questo è il pericolo contro cui ammonisce qualcuno che ha contribuito più di altri a imporre il corsetto dell’Unione Monetaria Europea: Jacques Attali, ex consigliere del Presidente francese Francois Mitterrand. Nella sua rubrica su L’Express, Attali si lamenta che l’Europa stia uscendo dalla storia, mentre sorgono le potenze asiatiche. Egli si rammarica che “il centro del mondo si stia spostando dall’Atlantico al Pacifico”.
L’osservazione di Attali è corretta, afferma Helga Zepp-LaRouche, ma “egli non è in grado di correggere gli errori assiomatici del proprio pensiero”. Il fatto è, ella afferma, “che ovunque nel mondo, dove vengono sviluppati il nucleare, il treno a levitazione magnetica e altri sistemi ad alta velocità, le tecnologie spaziali e quelle ad alta densità energetica, come in Asia, ci sono alti tassi di crescita a dispetto della crisi, mentre ovunque venga perseguito l’obiettivo della ‘green economy’, come negli USA e in Europa, l’economia e i livelli di vita affondano”.
Le lezioni da trarre per i paesi membri dell’UE sono ovvie.
Il sistema è più in bancarotta che mai
Nell’anno trascorso, gli economisti (compresi i banchieri centrali e quelli privati), che sono stati incapaci di accorgersi dello sviluppo della crisi, hanno sostenuto che “il peggio è passato”, che “è stato salvato il sistema” e che “la ripresa è in arrivo”. Niente è più lontano dalla verità. Il sistema non è stato salvato, la ripresa non è in vista e il peggio deve ancora arrivare. Il recente rapporto del Comptroller of the Currency degli Stati Uniti conferma che il sistema finanziario è oggi più in bancarotta di quanto lo fosse allo scoppio della crisi nel 2007. Solo gli sciocchi e gli economisti lo negano.
Secondo il rapporto, nel terzo trimestre 2009 il valore nominale dei contratti derivati delle banche americane ammontava a 204 trilioni di dollari, che è 14 volte il PIL degli Stati Uniti. Nel giugno 2007, ammontavano “solo” a 152 trilioni. Il 97% dei 204 trilioni è posseduto dalle cinque principali banche americane: JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, Citibank e Wells Fargo.
Per coloro che sostengono che il valore nozionale dei derivati è fittizio, si guardi al livello di esposizione (ciò che tradizionalmente è considerato il rischio): nel terzo trimestre del 2009, era 484 miliardi di dollari, ben più del doppio dell’ammontare del giugno 2007 (199 miliardi). L’esposizione in derivati delle quattro principali banche USA ammonta al 371% del loro capitale.
Le banche europee non navigano in acque migliori. Nel terzo trimestre 2009, il 16% del reddito delle 20 principali banche europee proveniva dal trading, mentre nello stesso periodo del 2008 era solo il 3%. E questo, mentre il credito alle imprese veniva tagliato.
Alla Goldman Sachs, il deus ex machina della politica dei salvataggi americana, il rapporto derivati/attivi era di 40 a 1,6 nel marzo 2009, e di 42 a 1,1 nel settembre dello stesso anno. Queste cifre mostrano chiaramente che il prossimo collasso finanziario è dietro l’angolo. Mentre l’economia fisica si è ridotta di un terzo dal 2007, l’economia del debito è aumentata, grazie ai trilioni di dollari dei salvataggi messi in atto dalla Federal Reserve, dalla Bank of England e dalla BCE.
Quegli stessi banchieri centrali non nascondono il nervosismo. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha convocato un conclave di tre giorni a Basilea lo scorso weekend per discutere dei “rischi eccessivi” incorsi dalle banche sui mercati finanziari. In linguaggio che più esplicito non si può per i banchieri centrali, si è constatato che “si stanno ricreando le condizioni che hanno portato allo scoppio della crisi finanziaria”. Ma anche se vedono arrivare il treno in corsa, i banchieri centrali non sono in grado di fermarlo, perché incapaci di rinunciare all’attuale sistema della globalizzazione.
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Brutte notizie da oriente per gli Usa
Domenico Moro, 11.01.2010
Il nuovo ministro delle finanze giapponese, Naoto Kan, ha annunciato l’intenzione da parte del governo del Giappone di favorire la svalutazione dello yen. La politica monetaria di Kan rappresenta un brusca sterzata non solo rispetto a quella del suo predecessore, Fujii, ma anche rispetto alla politica monetaria seguita dai governi giapponesi da decenni e fondata sul mantenimento di uno yen forte
Perché una svalutazione della valuta nipponica sarebbe una brutta notizia per gli Usa? In primo luogo perché il Giappone è, dopo la Cina, il maggior possessore di titoli di stato Usa e quindi il secondo maggior finanziatore del debito pubblico Usa, recentemente arrivato a eguagliare il livello della Seconda guerra mondiale. Gli Usa nell’ultimo periodo hanno fatto in modo di svalutare la loro valuta, il dollaro, riducendo il valore dei titoli di stato Usa in mano ai Paesi creditori, e scaricando così all’esterno i costi del salvataggio del loro sistema finanziario e industriale in forte recessione.
Sono molti anni che il Giappone svolge il ruolo di donatore di sangue agli Usa, avendo finanziato la superpotenza occidentale nel corso della “guerra fredda”. Gran parte di tale prestito e dei suoi interessi non è stato restituito e il Giappone ha subito gravi perdite proprio a causa della svalutazione operata dalle autorità monetarie Usa successivamente al 1985.
Ora, il Giappone, dopo aver pagato l’appoggio agli Usa con una stagnazione durata quindici anni, ha deciso l’abbandono della politica dello yen forte, riducendo di fatto con la svalutazione dello yen gli effetti della svalutazione del dollaro, a cui gli Usa stanno nuovamente facendo ricorso. Ma la decisione del Giappone risulta ancora più importante se inserita all’interno di quanto più in generale sta avvenendo in Asia.
Infatti, se il 2010 si è aperto con una cattiva notizia per gli Usa, il 2009 si è chiuso con due pessime notizie.
La prima è che l’Asia Orientale lancerà a marzo un suo Fondo Monetario, che costituirà un fondo di emergenza di 120 miliardi di dollari contro le crisi e a cui aderiscono i Paesi dell’Asean, tra i quali ci sono la Cina, il Giappone, Hong Kong, e la Corea del Sud. Del resto l’integrazione finanziaria asiatica segue quella commerciale: la Cina nel 2009 ha sostituito gli Usa come terzo partner commerciale dell’Asean, una posizione che gli Usa detenevano da decenni, e mentre nel 2009 sul 2008 l’export cinese verso la Ue e gli Usa è caduto rispettivamente dell’8% e dell’1,7%, quello verso l’Asean è aumentato del 20,8%, e le importazioni sono cresciute addirittura del 45%. Con il suo Fondo, l’Asia Orientale si sgancia, almeno parzialmente, dal Fondo Monetario Internazionale, controllato dagli Usa, e organizza autonomamente il proprio enorme potere finanziario. Sul piano economico si tratta di uno smacco per gli Usa, perché la massa finanziaria nelle mani dei Paesi Estremo Orientali, dovuta all’enorme surplus commerciale accumulato, può trovare così altre destinazioni alternative a quella Usa. Infatti, il nuovo Fondo monetario asiatico si lega alla precedente proposta del vice governatore della Banca centrale cinese di creare un fondo sovrano internazionale che investa nei Paesi in via di sviluppo e alla proposta dell’ex responsabile dell’ufficio delle imposte cinesi di creare un nuovo Piano Marshall per il finanziamento di progetti in Asia, Africa e America Latina. Tuttavia, il Fondo asiatico rappresenta un forte smacco anche sul piano geostrategico, perché il controllo dell’Asia da parte degli Usa si è sempre basato sulla divisione (se non sul contrasto) tra i due giganti dell’area, Cina e Giappone, che invece stanno sviluppando un atteggiamento più collaborativo.
La seconda notizia che dovrebbe preoccupare gli Usa riguarda l’inaugurazione dell’oleodotto Expo, che permetterà potenzialmente di dirigere verso la Cina (e l’Estremo Oriente) un terzo dell’attuale export di greggio petrolifero russo, aggirando il controllo da parte della flotta statunitense delle rotte petrolifere tra Golfo Persico e Giappone. Il controllo delle fonti di energia rappresenta un elemento fondamentale nella strategia Usa in Asia Orientale. Se questo controllo viene a indebolirsi in concomitanza con una maggiore integrazione asiatica, connessa ad un aumento della sua capacità di direzionare autonomamente il suo surplus, si viene ad approfondire la già evidente difficoltà da parte Usa di svolgere un ruolo guida sul piano economico, e soprattutto di attrarre il surplus mondiale.
Non è un caso che proprio nelle ultime settimane il presidente Obama abbia rispolverato l’argomento del terrorismo islamico per rinsaldare una opinione pubblica interna sempre più scettica verso la guerra in Afghanistan, la cui importanza sta invece proprio nella posizione strategica occupata al centro dell’Asia, tra Russia, Cina e India. A dimostrazione, casomai ce ne fosse bisogno, che sono le contraddizioni strutturali a fare la politica.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13906
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Fisco, una controriforma ottocentesca 11.01.2010
Con la proposta di introdurre due sole aliquote Irpef Berlusconi vuole abolire un principio cardine del nostro ordinamento costituzionale: la progressività del prelievo fiscale. Un balzo in pieno ‘800 verniciato di “modernità”.
di Emilio Carnevali
Se c’è un merito che al nostro Presidente del Consiglio possiamo riconoscere – fra i tanti demeriti che certamente i lettori di MicroMega non avranno problemi a richiamare alla memoria – è quello di riuscire spesso a divincolarsi nella confusione e nell’autoreferenzialità del dibattito politico con proposte di spiazzante semplicità e grandissimo impatto popolare.
L’idea di una riforma fiscale basata sull’introduzione di due sole aliquote Irpef sgombra il campo dalle tante chiacchiere di ministri che disquisiscono su “mercatismo” ed encicliche papali, riportando la politica alla dura semplicità di una partita che contrappone i ricchi ai poveri, “chi sta sopra contro chi sta sotto e chi verrà dopo”. Qui torniamo davvero ai “tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti”, per dirla con le parole di Francesco Guccini. Purtroppo stavolta è il “treno pieno di signori” a caricare contro il macchinista.
Berlusconi vuole sostanzialmente introdurre nel nostro Paese una flat tax al 23%, un’unica imposta sul reddito delle persone fisiche, dato che la seconda aliquota al 33% riguarderebbe solo i redditi sopra i 100.000 euro corrispondenti a circa lo 0,5% dei contribuenti.
La progressività del prelievo fiscale è stata introdotta nei Paesi europei tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nell’ambito di una serie di riforme sociali recepite sotto la spinta del movimento operaio e sindacale e variamente ispirate alla legislazione adottata nella Germania bismarckiana degli anni ’80 dell’’800. La nostra Costituzione, all’art. 53, recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La riforma fiscale varata nel 1973 prevedeva 32 (32!) scaglioni di reddito: l’intento era quello di avvicinarsi quanto più possibile alla progressività continua (scaglioni della dimensione di una unità monetaria) come modello ideale di equità. L’aliquota più alta era all’82% (82%!), poi portata al 72% nel 1975 (ricordiamo che si parla di “aliquote marginali”, da applicare dunque solo alle corrispondenti porzioni di reddito, così che l’aliquota media viene ad essere assai inferiore).
Mentre Gordon Brown innalza l’aliquota sui redditi oltre i 167 mila euro dal 40 al 50%, mentre la Merkel e Sarkozy studiano metodi per la maggiore tassazione dei bonus milionari, il governo Berlusconi promuove riforme fiscali che hanno lo stesso grado di “civiltà tributaria” dell’imposta sul macinato del 1868, quella dei primi tumulti per la farina dell’Italia unitaria. Fra l’altro non deve ingannare la patina reaganian-populista del “meno tasse per tutti” con cui si cerca di verniciare questo attacco alle ultime vestigia di equità fiscale nel nostro Paese: con un deficit oltre il 5% del Pil e un debito pubblico che veleggia verso il 120%, i 20 miliardi di euro necessari per questa riforma si inseriranno necessariamente in un piano complessivo di riassetto del sistema fiscale che renderà il nostro Paese ancora più ingiusto e diseguale (aumentando ad esempio il peso delle imposte indirette). Già prima della crisi e di queste eventuali “riforme” l’Italia aveva un indice Gini (il coefficiente di concentrazione dei redditi che indica sinteticamente il “grado di disuguaglianza” di un Paese) superiore alla media dei 24 paesi dell’Ocse e molto più vicino a quello degli Usa che a quello di nazioni di “modello europeo” come Germania e Francia.
A Pierluigi Bersani viene attribuita una battuta: “Se votassero solo i ricchi, vinceremmo sempre noi. Ci ha fregati il suffragio universale”. Di fronte a una destra che si incunea senza scrupoli nelle guerre fra ultimi e penultimi per lucrare consenso politico (vedi, da ultimo, i recenti fatti di Rosarno), il vigoroso contrasto di questo disegno di “riforma fiscale” di impronta smaccatamente regressiva potrebbe essere la prima grande iniziativa di una opposizione sociale della quale il Paese ha disperatamente bisogno. Sarebbe ora di riuscire a recuperare un po’ di quei voti popolari migrati negli ultimi anni fra Arcore e Pontida.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/fisco-una-controriforma-ottocentesca/
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In relazione all’articolo Contro la messa al bando delle coltivazioni biologiche
alla pagina: https://adrianaemaurizio.wordpress.com/mediattivismo/mediattivismo-39/ ricevo da magius@magius.info sulla lista decrescita@liste.decrescita.it il 13.01.2010:
da notizie ricevute, sembrerebbe in sostanza non essere una notizia del tutto vera.
http://motherjones.com/blue-marble/2009/04/will-hr-875-kill-organic-farming-nope
http://www.thedailygreen.com/healthy-eating/blogs/healthy-food/organic-farming-440320604
http://www.snopes.com/politics/business/organic.asp
– l’appello gira negli Stati Uniti da Marzo 2009;
– la proposta di legge esiste ma riguarda la sicurezza negli alimenti (è nato in seguito ad alcuni episodi avvenuti in USA di salmonella trasmessa da alimenti avariati);
– il marito della senatrice DeLauro non ha contatti lavorativi da almeno 10 anni con Monsanto, quindi in ogni caso non dovrebbe esserci conflitto d’interessi;
– nella proposta di legge non ci sono cenni specifici a fattorie, banche di semi e tecniche di agricoltura, tanto meno ad orti famigliari.
Allego la pagina web della DeLauro che parla della questione
http://delauro.house.gov/release.cfm?id=1469
e la smentita ufficiale della senatrice riguardo i pericoli di HR875
http://delauro.house.gov/files/HR875_Myths_Facts1.pdf
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Petro Standard
Rosario Patalano – 12.01.2010
Nell’ultima riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), il 17 dicembre scorso, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar (che controllano circa il 45% delle riserve mondiali di petrolio e il 25% di quelle di gas), a cui si è aggiunto l’arcipelago del Bahrein, hanno deciso di avviare la prima fase[1] per la costituzione di una unione monetaria che dovrebbe portare in breve tempo all’emissione di una nuova moneta, il Gulf, con l’obiettivo annunciato di sganciarsi definitivamente dall’uso del dollaro[2] per gli scambi petroliferi e costituire una nuova moneta di riserva sotto il loro diretto controllo. Tra il 2007 e il 2008, infatti, la tendenza del dollaro a svalutarsi ha colpito innanzitutto i paesi esportatori di petrolio riducendo le loro entrate in termini reali, determinando forti pressioni inflazionistiche favorite anche dal continuo incremento della domanda interna nella regione.
Se il progetto di moneta comune dei paesi del Golfo si realizzasse, il dollaro potrebbe questa volta seriamente temere di perdere il suo ruolo centrale[3]. Il Gulf si presenterebbe sul mercato con la caratteristica di una moneta di riserva molto più credibile del dollaro (e del suo concorrente euro), in quanto il suo valore sarebbe garantito, anche se indirettamente, dal petrolio, perché di fatto il fondamento fiduciario della nuova moneta andrebbe a cadere sull’unica ricchezza posseduta dai paesi della penisola arabica che è costituita dalle ingenti riserve petrolifere. Il Gulf sarebbe poi facilmente immesso nel circuito monetario internazionale attraverso le transazioni tra i paesi petroliferi e il resto del mondo. La nuova moneta diventerebbe un bene rifugio per molti paesi emergenti, che da anni si vogliono svincolare dalla divisa americana considerata da tempo non più completamente affidabile. Insomma, a differenza dell’euro e dello yen che non sono stati in grado di ridurre sensibilmente il dominio del dollaro[4], il Gulf potrebbe avere maggiori potenzialità proprio per il suo legame con le immense ricchezze petrolifere gestite dai paesi emittenti, che fornirebbero una garanzia ben più solida di quella che le politiche monetarie degli Usa e dell’area euro possono offrire[5].
Appena varato il Gulf, tutti gli ingenti surplus commerciali dei paesi del Golfo detenuti in dollari potrebbero essere rapidamente convertiti e questo determinerebbe il crollo della valuta americana sul mercato con effetti che tutti possono immaginare. Il sistema monetario troverebbe a questo punto un nuovo centro di gravità nei paesi esportatori di petrolio, a cui sarebbe affidato un potere enorme non solo come detentori delle riserve energetiche essenziali, ma anche come emittenti di una nuova moneta riserva di valore internazionale. La moneta comune del Golfo potrebbe essere addirittura utilizzata fin dall’inizio come àncora (peg) per stabilizzare il livello dei prezzi di dei paesi importatori di petrolio che hanno una dimensione trascurabile nel commercio mondiale.
L’iniziativa dei paesi del Golfo si inserisce in un progetto più ampio diretto, nonostante le diplomatiche smentite ufficiali, alla definitiva sostituzione del dollaro come moneta internazionale di riserva. In questo contesto la crisi, cronica ormai, del dollaro potrebbe consolidare il progetto, largamente condiviso soprattutto dai pesi emergenti[6], di un ritorno ad un regime monetario internazionale fondato sull’uso di monete merci.
Un disegno questo che incontra innanzitutto il favore dei paesi islamici che da tempo sostengono addirittura la necessità di un ritorno al gold standard non solo per ragioni legate alla difesa del potere d’acquisto, ma anche per questioni religiose, in quanto per la legge islamica (sharia) è immorale ogni forma di guadagno non legata direttamente alle attività produttive, come sono le entrate provenienti dall’uso speculativo delle ingenti riserve in dollari dei paesi arabi produttori di petrolio. Da più parti nel mondo islamico si preme per la reintroduzione del dinaro aureo, antica moneta araba coniata per ben 13 secoli, fino al crollo dell’Impero Ottomano. Passi concreti in questa direzione li ha già compiuti il premier della Malesia, Mahathir, con l’obiettivo di sganciarsi dalla dipendenza del dollaro e dalle restrizioni imposte dal Fondo Monetario Internazionale dopo la crisi del 1998, coniando nel 2001 una moneta aurea (Kijang Emas) e proponendola, senza successo, ai paesi della lega araba come nuovo standard.
In questa direzione si muovono da tempo anche autorevoli economisti, come il premio Nobel Robert Mundell, che ha proposto l’istituzione di una nuova moneta internazionale, l’Intor, che dovrebbe essere ancorata per il 50% del suo valore all’oro e per l’altro 50% alle monete più forti, dollaro, yen, euro in primo luogo (in prospettiva un ruolo determinante dovrebbe ricoprire la nuova moneta dei paesi del Golfo)[7]. La proposta di Mundell non è isolata: dal 1971 influenti economisti sostengono la necessità di un ritorno a regimi monetari fondati sul ruolo centrale dell’oro come ancora garante della stabilità (ricordiamo tra questi le posizioni esplicitamente favorevoli al regime aureo di Barro e di Greenspan, e la propaganda a favore dell’oro di molti esponenti della scuola austriaca del von Mises Institute). Insomma vi sono precisi segnali che indicano il disegno, più o meno consapevole, di ritornare a sistemi basati su commodity standard, considerati come lo strumento più idoneo per garantire la stabilità monetaria internazionale.
Ma non ci si ferma all’oro: il progetto di istituire una moneta internazionale garantita direttamente dalle riserve petrolifere, nella sostanza un petroleum standard (o in altri termini un energy-based currency) è stata esplicitamente avanzata al secondo South American-Arab League Summit del marzo 2009, dal presidente venezuelano Hugo Chavez. La nuova moneta, denominata Petro, dovrebbe, nelle intenzioni del presidente venezuelano, proporsi esplicitamente come una nuova commodity money internazionale garantita dalle riserve petrolifere, con l’obiettivo annunciato di superare l’instabilità sistemica che ha caratterizzato l’ultimo quarantennio di regime di moneta fiduciaria[8].
Particolare risalto ha avuto in questi anni il progetto di una nuova moneta internazionale proposto nel 2001 dall’economista belga Bernard A. Lietaer, in The Future of Money: Beyond Greed and Scarcity. La nuova moneta, che Liataer chiama Terra, dovrebbe essere basata su un paniere composto dalle dodici più importanti merci commerciate a livello mondiale e caratterizzate da una relativa stabilità di valore. La nuova moneta dovrebbe essere emessa dalla Terra Alliance, una associazione di iniziativa privata e non governativa, un ente finanziato dai paesi produttori di petrolio con l’investimento dei loro surplus e sarebbe poi immessa nel circuito monetario internazionale attraverso le transazioni tra i paesi petroliferi e il resto del mondo.
Ma chi ha un po’ di familiarità con la storia monetaria non può lasciarsi sedurre dal mito della moneta merce come meccanismo infallibile in grado di assicurare automaticamente la stabilità dei prezzi interni ed internazionali. Questa stabilità si ha solo a condizione che l’offerta di moneta merce sia sempre in proporzione con le variazioni di produttività di tutte le altre merci, sia insomma dotata di una elasticità di offerta tale da evitare sia spinte deflazionistiche (aumento del prezzo relativo della moneta merce rispetto alle altre merci e ristagno dei mezzi di pagamento), sia fiammate inflazionistiche (diminuzione del prezzo relativo della moneta merce rispetto alle altre merci). Le fluttuazioni dei prezzi sarebbero quindi sempre esogenamente determinate in base alle variazioni del prezzo mondiale della moneta merce e quindi politicamente non controllabili. Del resto il sistema del commodity standard, così come la vicenda storica ha dimostrato, tende a creare forti asimmetrie tra i paesi. Sono avvantaggiati innanzitutto i paesi che hanno un maggior peso nel commercio internazionale e che accumulano crescenti surplus, mentre sono del tutto svantaggiati i paesi in deficit o che rivestono un ruolo marginale nel commercio mondiale. La probabile tesaurizzazione delle riserve[9] porterebbe poi ad un ristagno dei mezzi di pagamento internazionale e a pressioni deflazionistiche che sopporterebbero prevalentemente i paesi in deficit, costretti ad adottare politiche di riduzione dei redditi interni per poter ristabilire il loro equilibrio esterno. La maggiore stabilità assicurata da forme di commodity money è quindi solo un’illusione.
La strada per evitare il ritorno al barbarico relitto della moneta merce passa attraverso una riforma politica del sistema monetario mondiale che sia diretta al potenziamento di strumenti di liquidità internazionale, come i diritti speciali di prelievo, sotto il controllo di una autorità sovranazionale come il Fondo Monetario Internazionale, che dovrebbe essere opportunamente riformato per dare maggior peso ai paesi emergenti. L’uso di tali strumenti insieme a meccanismi istituzionali che tendano a controllare i movimenti di capitali darebbero al sistema monetario internazionale una maggiore possibilità di governo politico degli squilibri (così come aveva intuito Keynes negli anni Quaranta e Triffin negli anni Sessanta), assicurando, attraverso forme di intervento condivise, una maggiore stabilità. E’ questa la direzione che le autorità monetarie cinesi hanno già realisticamente indicato[10] e che è stata raccolta molto limitatamente nel vertice di Pittsburg del settembre scorso. Sul tema della riforma del sistema monetario internazionale gli interessi delle forze democratiche[11], in primo luogo quelle dell’Occidente, dovrebbero convergere sulla proposta cinese di internazionalizzazione delle riserve per evitare che emergano drastiche soluzioni della crisi del dollaro che finiscano “per gettare via il bambino insieme all’acqua sporca”. Il dollaro potrebbe essere la vittima più illustre di questa crisi, ma il definitivo tramonto della divisa americana per una crisi di fiducia potrebbe facilitare il ritorno a tecnologie di pagamento basate su merci, inasprendo le asimmetrie e le rigidità del sistema dei pagamenti internazionali. Gli stessi Usa potrebbero essere spinti per difendere la loro moneta a ripristinare il dollaro convertibile[12], tentazione che nei circoli politici e finanziari di Washington e Wall Street è stata sempre molto viva.
[1] La prima fase prevede la costituzione del Gulf Monetary Council, nucleo della futura Banca centrale dell’Unione. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno aderito al protocollo di intesa per contrasti riguardo alla decisone di scegliere Ryad come sede del nuovo organismo e non Abu Dhabi, ma il loro l’ingresso nella nuova unione monetaria avverrà in una seconda fase, quando è prevista anche l’adesione dell’Oman.
[2] Dal punto di vista dei regimi di cambio, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Qatar restano ancorati al dollaro, ed il Kuwait ad un paniere composito, con un meccanismo di conventional fixed peg, il paese cioè, fissa il cambio con un’altra valuta o ad un paniere mantenendo con essi un piccolo margine di oscillazione (es. 1%). Negli ultimi tre anni, soprattutto per evitare pressioni inflazionistiche interne, l’aggiustamento automatico con il dollaro è stato più volte evitato.
[3] Del resto già si annuncia che nel prossimo decennio, Dubai è destinata, insieme a Shanghai, a superare la piazza finanziaria di Londra.
[4] Se consideriamo il dato delle riserve monetarie mondiale (dati IMF del I quadrimestre del 2009), il 65 %, è costituito da dollari, mentre l’euro si attesta al 26%, seguito dalla sterlina britannica (al 4%) e dallo yen (al 3%). Se si considera poi l’evoluzione della composizione delle riserve mondiali negli ultimi anni, la percentuale in euro sul totale è passata (fonte IMF, 2005). dal 17,9% del 1999 al 24,9% del 2004, toccando il 25,3% nel 2003 (alla fine del 1998, l’ammontare di riserve mondiali in marchi tedeschi, franchi francesi, fiorini olandesi e in ECU era pari al 14,5%). A fronte di questa ascesa dell’euro, le riserve in dollari Usa sono passate, nello stesso periodo, dal 71,0% al 65,9% , mentre le riserve mondiali in yen giapponesi sono diminuite nello stesso periodo dal 6,4% al 3,9%. Leggendo questi dati si può dire che il dollaro dopo la nascita dell’euro ha ceduto solo qualche palmo di terreno, restando ben piazzato a rappresentare quasi due terzi delle riserve mondiali, mentre la moneta unica europea si è avvantaggiata soprattutto a spese delle monete minori, yen e sterlina britannica.
[5] Il passaggio dalla egemonia della sterlina a quella del dollaro avvenne nel tempo relativamente breve di due decenni, tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ma in un contesto molto diverso da quello attuale. La sterlina e il dollaro erano in quel tempo monete formalmente convertibili in oro, e il passaggio dall’una all’altra egemonia fu determinata in primo luogo dall’accumulo di riserve auree negli Stati Uniti e rafforzato dalla posizione assunta da quest’ultimo paese come creditore netto internazionale. Tuttavia, il fatto che la convertibilità in oro del dollaro era assicurata, il passaggio dalla sterlina alla divisa americana non fu percepito come una trasformazione radicale, dato che sempre il metallo giallo permaneva, almeno formalmente, nelle sue funzioni di standard.
[6] Le autorità monetarie della Repubblica popolare cinese, che detengono in dollari circa il 65% delle loro riserve valutarie (secondo stime non ufficiali, fonte IBS-Reuters), hanno più volte manifestato in modo esplicito timori sulla stabilità del biglietto verde, e dal 2005 hanno ancorato lo yuan a un paniere composito di monete svincolandosi dal rapporto stretto ed esclusivo con la divisa Usa. Da tempo la Russia, seguita da altri paesi emergenti, è impegnata a modificare al composizione delle sue riserve a vantaggio dell’euro.
[7] L’iniziativa della moneta comune della penisola arabica è stata sempre sostenuta dal FMI, cfr. E. Jadresic, On a common currency for the GGC Countries, IMF Discussion Paper, december 2002, come un passo decisivo verso la semplificazione del sistema monetario mondiale.
[8] E il Gulf potrebbe rappresentare una prima tappa nell’attuazione di questo disegno.
[9] Per questo molte proposte contemporanee di ritorno a forme di commodity money prevedono per evitare la tesaurizzazione la definizione di regole internazionali che impongano il pagamento di costi di deposito per le riserve accumulate oltre un certo limite.
[10] Si veda il recente intervento (http://www.pbc.gov.cn/english//detail.asp?col=6500&ID=178), Zhou Xiaochuan, governatore della Banca Centrale della Repubblica Popolare Cinese (People’s Bank of China); cfr. anche R. Patalano, Keynes a Pechino.
[11] Nel recente congresso dell’Internazionale Socialista del luglio scorso neppure una tesi è stata dedicata al problema della riforma del sistema monetario internazionale, ma solo generici riferimenti alla cooperazione, alla lotta contro la speculazione e alla riforma delle quote di partecipazione del FMI a maggior vantaggio dei paesi in via di sviluppo.
[12] Del resto gli Usa sono ancora al primo posto come detentori di riserve auree (con 8133,5 tonnellate), seguiti dalla Germania (3407,6 tonnellate), dall’Italia (2451,8 tonnellate) , dalla Francia (2435,4 tonnellate) e dalla Cina (1054 tonnellate). Dati dicembre 2009.
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classi, immigrati, scuola di Fiorella Farinelli
Trenta per cento: Gelmini sbaglia i conti 12.01.2010
L’annuncio, la necessaria correzione, il pattinaggio amministrativo. Ma il messaggio del tetto del 30% agli stranieri in classe è chiaro: quelle ragazze e quei ragazzi sono un problema, un danno da ridurre. Così si ignorano i numeri reali, si calpestano le esperienze concrete e autonome delle scuole, e si impone un modello di società chiusa
Segregazione o integrazione? Quale di queste due finalità prevale nella circolare ministeriale che introduce un tetto del 30% alla presenza degli studenti stranieri nelle classi? Il testo, firmato da Mario Dutto, un direttore generale esperto della complessità del tema per aver operato a lungo in Lombardia misurandosi anche con esperimenti contrastati come quello della “scuola araba”, è indubbiamente abile. Un buon esercizio di pattinaggio amministrativo, tra norme di ispirazione inclusiva (come il DPR 394/1999) e intenzionalità politiche di tutt’altro segno. Ma l’ambiguità resta, e con essa i varchi a un utilizzo perverso della nuova regola.
Ambiguo, del resto, è il comportamento del ministro. Non sfugge la doppiezza politica e la tortuosità comunicativa di ciò che è accaduto nel giro di pochissime ore, tra l’8 e il 10 gennaio. Prima l’annuncio all’opinione pubblica dell’introduzione del tetto, con il testo della circolare ancora stranamente assente dal sito del ministero. Poi, in una trasmissione televisiva di due giorni dopo, la precisazione che il provvedimento non riguarda, perché certamente già in possesso di competenze linguistiche adeguate, i bambini e i ragazzi stranieri nati in Italia. Con l’intenzione evidente di portare a casa due risultati che difficilmente stanno insieme. Da un lato, il consenso di una Lega che in verità vorrebbe ben di più ma che al momento è rassicurata dalla recente proposta di legge Bartolini del PdL sulla cittadinanza, peggiorativa della legge Martelli del 1991 proprio per il ruolo di controllo dei requisiti di accesso che attribuisce all’istruzione. Dall’altro, un’apertura – in verità debole perché una circolare non ha certo la forza di una legge – alle posizioni di chi, anche nella maggioranza, propone il riconoscimento dello status di cittadini almeno alle seconde generazioni di chi è nato qui o ci è arrivato prima o all’inizio dell’età scolare. E infatti Sarubbi, l’onorevole PD che ha firmato con il finiano Granata una proposta di legge che va in questa direzione, oggi dalle pagine della Stampa applaude alla Gelmini che esclude dal tetto chi è nato in Italia. Un quadro in cui la scuola – le responsabilità, la scommessa e le fatiche dell’integrazione, le risorse e gli strumenti per realizzarla – rischia di restare sullo sfondo. Affidata, appunto, ai difficili equilibri del testo della circolare.
E’ comunque indubbio che il messaggio che si dà con l’introduzione del tetto conferma e incoraggia il già diffuso pregiudizio secondo cui la presenza di alunni stranieri costituirebbe un immancabile svantaggio per gli studenti italiani e un altrettanto immancabile ostacolo al buon funzionamento della scuola. Il ministro, del resto, lo dice esplicitamente (“lo sanno le mamme che vedono le classi dei loro figli procedere a due velocità, con alcuni studenti che restano indietro ed altri che vanno meglio“), offrendo il conforto dell’ufficialità a quegli stessi comportamenti di fuga delle famiglie italiane dagli istituti con “troppi” ragazzi di altra cittadinanza che si dichiara invece di voler evitare. E che altro si può fare di fronte a tale flagello, se non tentare di contenerlo o di ridurlo nei limiti del sostenibile, come si trattasse dell’inquinamento dell’aria o del surriscaldamento del pianeta? Nel testo del provvedimento e in dichiarazioni successive si precisa, è vero, che la malattia non si presenta sempre in forma acuta e che bisognerà considerare delle variabili, come la conoscenza più o meno “adeguata” della lingua italiana o il fatto che una parte consistente di questi bambini e ragazzi (sono il 37% del totale, oltre il 60% nella scuola primaria) sono già oggi nati in Italia. Ma, appunto, si tratta di variabili che dovranno essere accertate e che comunque possono solo dar luogo a deroghe: eccezioni alla regola che non sono nella potestà delle scuole ma che dovranno essere autorizzate dall’amministrazione scolastica regionale. Si prevede, anzi, la possibilità di deroghe anche in basso – quindi al di sotto del 30% – come auspicato dall’attuale neonominato direttore scolastico regionale della Lombardia che, più realista del re, sostiene non si debba oltrepassare il limite del 20%. Sebbene il ministro si sbracci a dichiarare che il problema, per carità, non è certo “il razzismo” ma al contrario l’”integrazione” e che il suo provvedimento interviene su problematiche di natura esclusivamente “didattica”, è un fatto che alle scuole – e al paese – non si manda a dire di tenere per quanto possibile conto, nella formazione delle classi, di tutte le variabili effettivamente importanti per impostare una didattica efficace. Non si dice che nella maggioranza dei casi anche i bambini che arrivano a scuola con pochissimo italiano lo imparano velocemente se sostenuti da una didattica esperta. Non si sottolinea il vantaggio per tutti del plurilinguismo, del confronto tra culture e identità diverse, e delle altre caratteristiche che le nostre scuole migliori hanno imparato a valorizzare come risorsa di un’educazione per diventare cittadini di un mondo un po’ più largo ed aperto della Brianza felix. Non si concentra l’attenzione su quali percorsi e strumenti didattici si devono attivare per misurarsi con le situazioni che, per quanto minoritarie, sono davvero problematiche, cioè i ragazzi “ricongiunti” che talora approdano nelle nostre scuole in corso d’anno scolastico senza una parola di italiano. Le nuove Linee guida, invece, incrinano la saggia regola finora vigente per cui i ragazzi dovevano essere “di norma “ inseriti in classi corrispondenti alla loro età, aprendo così ulteriori varchi a mortificazioni inutili e pericolose. Quasi un invito a generalizzare una prassi già fin troppo diffusa di eccezione a quella regola. Gli alunni stranieri in ritardo scolastico erano due anni fa attorno al 30% nella scuola primaria, oltre il 50% nella scuola media, oltre il 70% nella scuola secondaria superiore. Percentuali enormi, che parlano di pregiudizi e di timori degli insegnanti o di difficoltà e povertà delle scuole, ben più che di effettive difficoltà di apprendimento.
I limiti del provvedimento
Tra i limiti più gravi del provvedimento, in termini di politica scolastica, c’è anche la sua fisionomia rigorosamente centralistica. La regola che viene imposta è indipendente dai contesti territoriali, dalle caratteristiche ed esperienze delle scuole e della loro interazione con il territorio di appartenenza, dai diversi livelli e tipi di formazione scolastica. Mentre è evidente che solo nei contesti specifici le scuole possono valutare ciò che costituisce problema e come affrontarlo. Non solo, anche la non familiarità con l’italiano ha con tutta evidenza un significato diverso se si tratta della prima classe della primaria dove italiani e stranieri hanno tutto o quasi da imparare, o della prima classe di scuola secondaria superiore dove è necessaria una competenza linguistica più evoluta per misurarsi con un apprendimento che, nel nostro sistema scolastico, è ancora fortemente incentrato sui libri di testo e sui linguaggi formalizzati. Perfino la condizione di nativi, che solitamente si accompagna a una conoscenza della lingua di livello se non identico almeno comparabile con quello dei coetanei italiani, può avere effetti diversi per i figli delle donne arabe o asiatiche che non lavorano e restano relegate in casa: niente asilo nido per i loro figli, in questi casi, spesso neanche la scuola materna, dunque bassissimi livelli di esposizione all’ambiente linguistico esterno alla famiglia che è decisivo per l’acquisizione dell’italiano, e maggiori difficoltà nell’impatto con la scuola. Dovrebbero dunque essere le scuole a decidere – i criteri di formazione delle classi sono del resto da sempre una loro prerogativa, anche prima dell’autonomia scolastica – e non in base a un criterio quantitativo astratto quantunque derogabile, ma in base alla conoscenza delle situazioni e dei problemi specifici, alla loro stessa esperienza e capacità di intervento. E in coerenza con il principio tradizionale della “pluralità omogenea”, un principio di tipo inclusivo che impedisce che gli istituti scolastici e le classi si caratterizzino per intenzionali o artificiose omogeneità di tipo sociale, economico, culturale, di successo scolastico (e quindi, per estensione, di nazionalità e cittadinanza).
Ma tenere conto delle valutazioni delle scuole e ascoltarle non appartiene allo stile di governo del ministro Gelmini. Se la presenza dei ragazzi di provenienza straniera nelle scuole – tanti o pochi che siano – non determina automaticamente difficoltà di apprendimento degli studenti italiani e se anzi nelle scuole più esperte gli insegnanti verificano che le diversità culturali e linguistiche possono risolversi in arricchimenti educativi, preziose competenze relazionali e comunicative, maggiori capacità di problem solving, stimoli maggiori all’apprendimento delle lingue straniere, è però certo che tutto ciò obbliga a una didattica meno standardizzata, a percorsi personalizzati, a un utilizzo più variato dei diversi linguaggi dell’apprendimento. Occorrono tempi diversi, nuove flessibilità, specifiche competenze, ma dove trovarle e come formarle in una scuola sempre più povera di soldi, organici, strumentazioni tecniche? Anche i laboratori per il potenziamento dell’italiano, preliminari o contestuali alla frequenza scolastica, di mattina o pomeridiani – i quali, per rassicurare le truppe di Bossi, la Gelmini si ostina a chiamare “classi di durata limitata “ – richiedono mezzi. Che oggi vengono negati e ridotti. E’ nota l’avversione del ministro nei riguardi delle compresenze, un tempo strumento diffuso che permetteva la formazione di gruppi ridotti di alunni e l’attuazione di interventi anche individualizzati per alcune ore settimanali. Ed è accertata la tenacia con cui si stanno riducendo progressivamente gli insegnanti facilitatori per l’insegnamento dell’italiano lingua 2. In provincia di Milano, al forte aumento di alunni stranieri negli ultimi dieci anni, corrisponde una riduzione secca delle risorse professionali dedicate all’integrazione: dai circa 700 di dieci anni fa ai 90 di oggi. L’integrazione è una strategia decisiva, strategica per un paese caratterizzato da un’immigrazione insieme crescente e strutturale, ma ha i suoi costi. Se si vogliono negare, è ovvio procedere con provvedimenti di natura centralistica.
Hanno dunque ragione i dirigenti scolastici e gli insegnanti che non vedono niente di buono in questo nuovo provvedimento. Quanto poi alla pietra dello scandalo, cioè la presenza di realtà scolastiche fortemente polarizzate, istituti, plessi o classi frequentati quasi esclusivamente da migranti, a fronte di altri frequentati quasi esclusivamente da italiani, è indubbio che qui l’integrazione è messa a forte rischio e che sono opportuni, se possibili, degli interventi correttivi. In effetti, è proprio nella separazione e quindi nella negazione della possibilità di studiare, crescere, diventare cittadini insieme, l’argomento più forte contro le famose “classi-ponte” dell’onorevole Cota. Ma anche qui, bisognerebbe saper guardare ai fatti senza i pregiudizi e gli allarmismi fuori misura prodotti dai media e dalla cattiva politica. I numeri, intanto. A Milano e a Roma, due piazze entrambe fortemente connotate da indici alti di popolazione immigrata, i casi di scuole ad altissima presenza di allievi stranieri al momento si contano sulle dita più di una mano che di due, e sono molto pochi in tutto il Centro-Nord. Non solo, ci sono due diverse tipologie di situazione che richiedono interventi diversi, e di natura assai più complessa dell’imposizione di una quota.
Nel caso di scuole polarizzate in un senso e nell’altro che appartengono allo stesso territorio, c’è infatti sempre qualcosa che non va nei comportamenti di alcuni istituti scolastici – scuole che scoraggiano la presenza straniera, scuole che viceversa la incoraggiano, talora anche per banali ragioni di conservazione o incremento degli organici – a cui si intrecciano le dinamiche delle famiglie, che per motivi diversi cercano o, più spesso, rifuggono dalle scuole “troppo “ connotate da presenze straniere. Quando ciò si verifica all’interno di un contesto territoriale dotato di più scuole dello stesso tipo (quindi scuole elementari e medie: tutt’altri problemi, evidentemente, con la specificità/rarità degli indirizzi della scuola superiore, peraltro quasi sempre molto connotati dalle provenienze sociali ) è non solo possibile, ma necessaria una distribuzione più equilibrata sia dei ragazzi italiani che di quelli stranieri. A questo proposito la circolare indica alle scuole e ai loro dirigenti di lavorare per patti territoriali e accordi nella formazione delle classi con utenza straniera. Un suggerimento condivisibile, ma tutt’altro che semplice da realizzare senza una forte regia dell’amministrazione scolastica e degli Enti Locali. Si sarebbe dovuto farlo già da tempo, mettendo in campo un governo razionale e lungimirante dei processi. Il sistema educativo non può essere la somma di tante autonomie scolastiche tra loro separate e concorrenti. E’ comunque corretta la precisazione della circolare secondo cui le indicazioni “non vanno intese quali vincoli imposti ai genitori che iscrivono i loro figli, bensì quali criteri organizzativi per le scuole “: pare di capire, infatti, che a nessun genitore, italiano o straniero, può essere imposto di iscrivere “altrove” il proprio figlio. Bisognerebbe, quindi, nell’ipotesi di redistribuzione dei ragazzi per evitare scuole “polarizzate”, persuadere della bontà di scuole non polarizzate i genitori stessi.
Da Prato a Torino
Tutta diversa la situazione dei contesti territoriali – arcinota quella di Prato – in cui è la popolazione in età scolare ad essere “polarizzata”. La regola del 30%, ma anche del 40 o del 50, qui risulta del tutto inutile, ed impropria. Le scuole pubbliche, che per costituzione e norme non possono rifiutare nessuno, non sono in grado, con tutta evidenza, di cambiare i connotati degli insediamenti sociali, degli assetti produttivi, del mercato del lavoro, delle politiche abitative. E neppure l’alleanza tra scuole ed Enti Locali può determinare, per evitare le concentrazioni, irragionevoli (e costose) deportazioni dei diversi tipi di studenti da una zona all’altra. Né, tanto meno, deprivare interi territori delle loro scuole. Se ci sono “ghetti” sociali o etnici, la scuola non deve essere messa sotto accusa perché li riflette, ma aiutata a misurarsi nel modo più intelligente con le situazioni più difficili. Si può fare. Nella scuola di San Salvario di Torino lo si è fatto con successo, grazie agli insegnanti ma anche al Comune, ai teatri, alle biblioteche, ai musei, alle università della città. E oggi ci sono famiglie italiane di altre zone che si mettono in lista per iscrivere lì i loro figli. Perché l’Italia è, per fortuna, anche altro – meno tetra, meno impaurita e rancorosa, più moderna e intelligente – da quello che immaginano Gelmini e tanta politica di destra e anche di sinistra.
Ci si dovrà, del resto, prima o poi rendere conto che anche la società italiana è, e sarà sempre di più composta, stratificata, integrata di provenienze diverse. E’ una fortuna che da noi i figli degli stranieri – quasi tutti – vadano a scuola. E’ pericoloso che si vogliano mortificare, escludere, marginalizzare. Tanto più in un paese in cui è soprattutto nell’esperienza scolastica delle seconde generazioni che si gioca la partita della cittadinanza sostanziale, e dunque dell’integrazione e della convivenza. Ma ci sono anche altre sfide, non meno importanti, a cui occorrerebbe guardare. Perché dire ai ragazzi italiani che quei loro stessi coetanei con cui giocano, fanno sport, scaricano musica, chattano e amoreggiano possono stare nella loro stessa classe solo se non superano l’aurea regola di 1 a 3, di sicuro non gli fa bene. Sono già fin troppi quelli che negli stadi insultano il calciatore nero, ancorché di cittadinanza italiana.
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Trenta-per-cento-Gelmini-sbaglia-i-conti
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