Il Pd nel Governo siciliano di Lombardo 30.12.2009
I dirigenti del PD siciliano negano di appoggiare il Governo costituito da Lombardo dopo l’espulsione dalla maggioranza dei cosidetti “lealisti” cioè della fazione del PDL che fa capo al Ministro Alfano ed al Presidente del Senato Schifani. Vogliono farci credere che Lombardo è un imprudente temerario che pensa di governare la Sicilia con 31 consiglieri su 90 Sostengono che Centorrino e Russo sono “tecnici” scelti da Lombardo e non rappresentanti del PD nell’Esecutivo e che la loro politica è quella di un sostegno “tematico”. Sosterranno di volta in volta le proposte di questo governo se esse saranno ritenute soddisfacenti. Non riconoscono neppure di appoggiare dall’esterno il Governo e negano risolutamente qualsiasi trattativa o inciucio che dir si voglia.
Naturalmente questa sorprendente posizione vorrebbe maldestramente placare i forti malumori del Partito ma è come voler negare l’ evidenza. Il terzo governo Lombardo nasce sulla base di una trattativa non ufficiale ma molto impegnativa. D’Alema, il Richelieu dei Palazzi italiani si è intrattenuto a cena con Lombardo. Hanno mangiato delle orate e quindi stipulato il cosidetto Patto dell’Orata. D’Alema è famoso per i Patti a base di pesce. Ne fece uno, diventato famoso, a base di triglie, a Gallipoli con Rocco Buttiglione- Fu a cena anche con Bossi tanti anni fa , quando definì la Lega una costola della sinistra.Ma mangiarono soltanto della carne e non ci fu seguito. Poi Pierluigi Bersani è venuto in Sicilia. Si è incontrato con i suoi e poi con Lombardo ed ha piena disponibilità a sostegno di un governo delle “riforme”. La Sicilia è sempre stata una sorta di laboratorio per testare scelte o progetti politici che si svilupperanno dopo in sede nazionale. Anche stavolta non sfugge a questa sua “vocazione” anticipatrice di eventi che sono in corso di maturazione nei Palazzi Romani.
Non predica forse Napolitano la “coesione”? Che cosa è la coesione se non la riproposizione a trenta anni della dottrina Berlinguer secondo la quale non si può governare con il 51% naturalmente con tutto il degrado che il corrompimento della politica che ha subito nel tempo? Si preannunzia la stagione delle cosidette riforme volute, fortissimamente volute da Berlusconi a cui questa Costituzione sta assai stretta e vorrebbe un regime presidenzialistico magari senza contrappesi.
Il PD si sta imbarcando in questa avventura. Non arretra difronte alle voglie personali di Berlusconi ed a quelle delle destra italiana. Farà di tutto per essere della partita e non farsi tagliare fuori. Per questo sarebbe sbagliato giudicare l’appoggio in Sicilia al Governo Lombardo un fatto localistico dovuto al levantinismo ed alle stranezze della politica regionale.
E’ vero che la Giunta Lombardo nasce in contrapposizione ai cosidetti “lealisti” cioè al gruppo fedele al PDL. Ma è anche vero che Berlusconi non ha “scomunicato” Miccichè ed i sostenitori di Lombardo e finora mantiene un atteggiamento riservato.
Certo la posizione del PD permette alla destra siciliana di respirare, di chiudere una crisi profondissima esplosa da oltre sei mesi senza ricorrere alle urne, a nuove elezioni. Sostenzialmente il PD si sostituisce al blocco di circa trenta consiglieri che vengono meno al governo. Ora l’Assemblea regionale è divisa in tre gruppi di pari forza. Un gruppo che esprime il governo, un gruppo che lo sostiene ed un’altro che ne dichiara l’illegittimità dal momento che si regge con una maggioranza dfiversa da quella con cui fu eletto.
Il governo minoritario per finta di Lombardo si regge con una solida maggioranza di due terzi dell’Assemblea. Ha soltanto sostituito i trenta deputati del PDL e dell’UDC con quelli del PD.Non è cambiato niente. Lombardo non si è preso neppure la briga di dichiarare la rottura con il PDL e non dubito che continuerà a sostenere il governo Berlusconi. Una timida richiesta dei dirigenti del PD siciliano di dichiarare conclusa l’esperienza del centro-destra è rimasta senza risposta.
La crisi della politica siciliana, la sua soluzione, sei mesi di trattative e di tentativi sfociati ora nel terzo governo fatto dal capo del MPA, il movimento sicilianista e rivendicazionista della borghesia siciliana che non è più tanto soddisfatta delle mance che elargisce Roma e che vorrebbe qualcosa di più concreto del Ponte sullo Stretto (al cui banchetto sembra esclusa a favore di Impregilo ed altri volponi del Nord), non sembra interessare l’opinione pubblica siciliana stordita dal degrado crescente
e dall’involuzione della vita civile. Palermo e tanta parte della Sicilia assediata da montagne di spazzatura, bollette astronomiche per pagare l’acqua ai privati che se ne sono appropriati, la smobilitazione di Termini Imerese, il licenziamento di circa diecimila insegnanti a causa della riforma Gelmini, disoccupazione, anziani che non possono più curarsi a causa di ticket esosi……La crisi e la sua soluzione interessano soltanto a coloro che seguono “professionalmente” la politica dal momento che produce posti ben retribuiti a cominciare dai Consigli Comunali, consulenze, possibilità di ottenere in gestione qualche servizio….
Anche i quasi trentamila dipendenti “diretti” della Regione comandati da tremila dirigenti e la pletora dei pensionati superprivilegiati con età media attorno ai cinquanta anni che godono di assegni eguali a quelli dei colleghi in attività
un costo per la collettività di circa due miliardi di euro a cui aggiungere tutti i dipendenti “indiretti” della Regione, seppur beneficiari di un Ente del tutto inutile e dannoso per la Sicilia, non riescono ad entusiasmarsi, a seguire le vicende dei loro patrons. Tutto quello che la Sicilia incassa come risorse proveniente dal fisco e da tutto il resto finisce nelle fauci insaziabili di questa mostruosa burocrazia tentacolare.
Il primo atto del nuovo Governo è stato la nomina di 28 Superburocrati, managers frutto di una
intensa e meticolosa applicazione del “cencelli” siciliano. Costeranno milioni di euro ma non importa:
i soldi potranno venire anche da un ritocco dell’irpef regionale….
Tra questi superburocrati c’è anche Lucia la figlia di Paolo Borsellino e nipote di Rita eurodeputata e fino ad ieri contraria all’inciucio, Non so oggi. Ma è un classico della Oligarchia: mettere un fiore all’occhiello ad una porcata. Forse nella Giunta di Governo non c’è la magistrata Caterina Chinnici, figlia del martire della mafia Giorgio? Non c’è anche il Magistrato Massimo Russo ? Non sono questi simboli, segni di un impegno contro la Piovra?
Insomma, due magistrati nel governo e la figlia di magistrato martire della mafia tra i superburocrati.
Ma, queste presenze sembrano una sorta di machillage. Una maniera per allontanare sospetti di collusioni o di contiguità con la criminalità organizzata.
Eppure in Sicilia non si respira nei Palazzi della Politica a cominciare dal Palazzo dei Normanni un’aria di grande impegno, di grande lotta, alla dominazione mafiosa. I successi che si sono realizzati sembrano (e sono) frutto di una polizia e di un gruppo di magistrati che si sentono isolati. Non credo che la realtà percepita da Magistrati come Ingroa e Scarpinato sia di grande vicinanza della politica nei loro confronti. Credo che si sentono isolati, disperatamente isolati.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/2009/12/il-pd-nel-governo-siciliano-di-lombardo.html
www.spazioamico.it
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Auguri Urgenti d’Egitto per Gaza 31.12.2009
http://www.reset-italia.net/2009/12/31/auguri-urgenti-d-egitto-per-gaza/
Vorrei dire auguri a tutte e tutti quelli che ne hanno bisogno e sono tanti…cosa dovrei fare e cosa dire se arriva un messaggio telefonico così: URGENTISSIMO: DAL CAIRO, AGGRESSIONE ALLA GAZA FREEDOM MARCH!!!!!! 31 dicembre 2009 ore 10,33,26 messaggio telefonico da Mari Alberto, componente del gruppo italiano partecipante alla Gaza Freedom March organizzato dal Forumpalestina: <<CARICATI DAVANTI AL MUSEO EGIZIO, ALCUNI CONTUSI, RESISTIAMO IN 500 CIRCONDATI SUL MARCIAPIEDE.>> Facciamo pressione perché intervengano le autorità diplomatiche internazionali a frenare la repressione violenta del governo egiziano.Diffondete con rapidità la notizia mariano
a cui è seguito un Comunicato Stampa che vi allego con punti esclamativi, data l’urgenza ? E l’approfondimento steso nella notte dalla Rete degli Ebrei contro l’Occupazione che scrivo di seguito al comunicato? E ancora “La manifestazione indetta dalla Gaza Freedom March stava cercando di muovere i primi passi dal museo egizio del Cairo quando è stata brutalmente aggredita dagli apparati di sicurezza egiziani. “i poliziotti egiziani si sono scagliati contro di noi con bastoni e picchiando alla cieca” ci ha riferito una manifestante con la voce rotta dall’emozione. Intanto arrivano sms dai manifestanti “siamo circondati dalla polizia egiziana al museo egizio temiamo nuove cariche.Fate sentire la nostra voce telefonate a tv, giornali, politici e mobilitatevi noi vogliamo raggiungere Gaza.”. Oggi pomeriggio a Roma, alle 16.00 manifestazione all’ambasciata egiziana (via Salaria 267, villa Ada).
A questo link http://www.flickr.com/groups/gazafreedommarch/pool/show/with/4223762026/ che lascio in chiaro foto e video.
Vi chiedo dunque di far girare a tutti i vostri contatti quanto succede al Cairo, il silenzio dei Media è vergognoso e dilagante. Scusate la forma, poco curata, ma di sostanza credo ce ne sia e abbondante. Gli auguri ce li faremo poi…
Doriana Goracci
INTERNAZIONALI AL CAIRO MARCIANO VERSO GAZA PER PROTESTARE CONTRO L’ASSEDIO
(Cairo) A seguito del rifiuto Egiziano di consentire ai partecipanti alla Gaza Freedom March di entrare a Gaza, gli oltre 1.300 attivisti per la pace e la giustizia sono partiti a piedi. Nonostante i blocchi della polizia predisposti al Cairo con lo scopo di recintare i dimostranti e impedire loro di manifestare solidarietà con il popolo Palestinese, gli internazionali stanno spiegando i loro stendardi e invitano tutti i pacifisti del mondo di sostenerli e chiedere la fine dell’assedio di Gaza.
L’offerta Egiziana di lasciar entrare a Gaza solo 100 dei 1.400 partecipanti alla Marcia, è stata ritenuta dagli organizzatori della Marcia insufficiente e deliberatamente intenzionata a dividere. Nel frattempo, il Ministro degli Esteri Egiziano ha cercato di far passare questa offerta last-minute come espressione di buona intenzione nei confronti dei Palestinesi per isolare i “provocatori”. La Gaza Freedom March ha rifiutato categoricamente queste affermazioni. Gli attivisti sono al Cairo perché il governo Egiziano ha impedito loro di raggiungere Gaza. “Noi non vogliamo rimanere qui, Gaza è sempre stata la nostra destinazione finale”, afferma Max Ajl , partecipante alla Marcia.
Alcune persone hanno cercato di superare i blocchi della polizia e iniziare a marciare verso il punto di incontro a Tahreer Square al centro del Cairo. A loro si sono uniti Egiziani che volevano denunciare il ruolo del proprio governo nel sostenere l’assedio di Gaza. Le autorità hanno cercato di tenere separati gli internazionali dai locali. La polizia sta attaccando brutalmente i partecipanti , non violenti, alla Marcia. Molti poliziotti in borghese si sono infiltrati tra la folla e assaltano I partecipanti violentemente. “Sono stata sollevata dalla polizia Egiziana e sbattuta letteralmente contro le transenne” afferma Desiree Fairooz, una dimostrante. I partecipanti alla Marcia stanno cantando slogan di protesta e resistono ai tentativi di disperderli e giurano di rimanere nella piazza fino a quando non saranno autorizzati ad andare a Gaza. Lo striscione GFM è appeso ad un albero della piazza. Alcuni partecipanti alla Marcia stanno sanguinando e i celerini hanno distrutto le loro videocamere.
La Gaza Freedom March rappresenta persone da 43 nazioni con background diversi. Tra loro ci sono persone di ogni fede, leader di comunità, attivisti per la pace, dottori, artisti, studenti, politici, scrittori e molti altri. In comune hanno l’impegno alla nonviolenza e la determinazione a interrompere l’assedio di Gaza.
“L’Egitto ha provato in tutti i modi possibili ad isolarci e ad abbattere il nostro spirito” dicono gli organizzatori della Marcia. “Ma noi restiamo fedeli più che mai al nostro obiettivo di manifestare contro la tirannia e la repressione. Marceremo il più vicino possibile a Gaza, e se saremo fermati con la forza, chiederemo ai nostri sostenitori di protestare. Chiediamo a coloro che credono nella giustizia e nella pace ovunque siano nel mondo di sostenere le nostre iniziative per la libertà dei Palestinesi.”
Tra i partecipanti c’è anche Alice Walker, scrittrice e vincitrice del Premio Pulitzer, Walden Bello , membro del Parlamento Filippino, Luisa Morgantini, ex membro del Palamento Europeo per l’Italia. Più di 20 partecipanti alla marcia, tra cui l’ 85enne sopravvissuta all’Olocausto, Hedy Epstein, hanno intrapreso uno sciopero della fame contro il pesante ostruzionismo Egiziano, oggi entrano nel quarto giorno.
Gaza Freedom March: 100 delegati non possono sostituire la Marcia
E’ stata una notte di passione quella tra la terza e la quarta giornata della Gaza Freedom March: nel pomeriggio di ieri l’associazione americana Code Pink, una della capofila del comitato organizzatore, aveva infatti ottenuto un compromesso con la mediazione della first lady egiziana, stamattina sarebbero dovuti partire per Gaza 100 attivisti in rappresentanza della marcia. Nella notte la stragrande maggioranza delle altre organizzazioni coinvolte ha deciso di rifiutare l’offerta del governo egiziano e c’è stato anche il dietro front di Code Pink. Tuttavia i due pullman questa mattina sono partiti ugualmente con a bordo una settantina di persone, molti palestinesi con passaporto occidentale che cercavano di tornare a casa e qualche pacifista in dissenso con il comitato organizzatore. Al momento i pullman sono nel Sinai e a quanto pare gli attivisti potranno davvero entrare a Gaza. Domani 31 dicembre è la giornata chiave della marcia, quella in cui gli attivisti da Gaza avrebbero dovuto marciare verso il valico di Erez, quello con Israele, per ricongiungersi con decine di migliaia di altri in marcia dalla Cisgiordania e da Israele, invece ci sarà una grande manifestazione al Cairo. Gli organizzatori della GFM tengono a precisare che non era nelle loro intenzioni fare manifestazioni su territorio egiziano, il paese delle piramidi avrebbe dovuto essere di passaggio sulla strada per Gaza, tuttavia è prevedibile che domani anche il governo egiziano sia duramente contestato dai manifestanti per la sua complicità nella chiusura della Striscia di Gaza e per aver impedito la GFM. Nel frattempo le organizzazioni di Gaza che partecipano alla GFM hanno espresso la preoccupazione che l’assenza di un rilevante numero di attivisti internazionali alla marcia del 31 possa lasciar campo libero ad Hamas perché possa trasformarla in una manifestazione “governativa”, cosa ritenuta ovviamente inaccettabile. Solo in serata si avrà un quadro chiaro delle iniziative di domani.
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Scenari
Venti tesi contro l’eco-capitalismo ricevuto il 31.12.09 sulla lista neurogreen
Discussione a Bologna sulle venti tesi contro l’eco-capitalismo e su quali possibilità di un nuovo movimento?
Qualcosa si può già dire: la parola “governance” è una grande presa per il culo. Non ce ne siamo ancora accorti a livello globale e locale?Certo che se ci si aspettava qualcosa di buono da Copenhagen vuol dire che anche il movimento mostra di avere grandi patologie. Come gli Stati incapaci di trovare accordi anche in presenza di un pericolo comune.
Gli Stati hanno pensato più ai propri interessi strategici ed economici e alle loro rivalità, lasciando alla polizia, quella sì “comune ed europea” di mazzolare il movimento. Ci si può lamentare dell’Europa fortezza dopo che l’avevamo giustamente preannunciata e denunciata?
Si vedrà se il movimento a livello locale sarà capace di incidere sulla qualità della vita di tutti.
http://www.bolognacittalibera.org/profiles/blogs/venti-tesi-contro
In preparazione della giornata di studiche si terrà al Vag di Via Paolo Fabbri il 9 gennaio 2010
con la partecipazione di Alex Foti Christian Marazzi Marco Trotta Federico Montanari Sandro Mezzadrapropongo qui alla lettura un documento che proviene dalle giornate di mobilitazione che si sono svolte in occasione del summit di Copenhagen
Venti tesi contro l’eco-capitalismo
di: Tadzio Mueller and Alexis Passadakis
1. L’attuale crisi economica mondiale segna la fine della fase neoliberista del capitalismo. Business as usual (finanziarizzazione, deregulation privatizzazione) non è più una scelta possibile: i governi e le corporation dovranno trovare nuovi spazi di accumulazione e nuovi tipo di regolazione politica per far sopravvivere il capitalismo.
2 Insieme alla crisi economica politica ed energetica c’è un’altra crisi che sta attraversando il mondo: la biocrisi, risultato della contraddizione tra sistema di sostegno all’ecologia che garantisce la sopravvivenza umana e bisogno capitalista di una crescita costante.
3. Questa biocrisi è un pericolo immenso per la sopravvivenza collettiva, ma come ogni crisi presenta anche un’opportunità storica per i movimenti sociali: l’opportunità di colpire la vena giugulare del capitalismo, il suo bisogno di una crescita incessante distruttiva e folle.
4. L’unica proposta emergente dalle elites globali che promette di rispondere a queste crisi è il “Green New Deal”. Non l’amichevole capitalismo verde 1.0 dell’agricoltura dinamica e dei mulini a vento, ma la proposta di una fase verde del capitalismo che cerca di generare profitti da una modernizzazione ecologica di certe aree chiave della produzione: auto, energia eccetera.
5: Il capitalismo verde 2.0 non può risolvere la biocrisi (cambiamento climatico e altri problemi ecologici come quelli della pericolosa riduzione di biodiversità) ma piuttosto cerca di trarne profitto. Pertanto esso non modifica la rotta di collisione di umanità e biosfera provocata dall’economia di mercato.
6. Non siamo negli anni 30. Allora, sotto la pressione di potenti movimenti sociali il vecchio New Deal redistribuì potere e ricchezza verso il basso. Il Nuovo e verde New Deal proposto da Obama, e dai partiti verdi di tutto il mondo, e anche da alcune multinazionali pensa molto più all’interesse delle corporation che a quello della gente.
7. Il capitalismo verde non colpisce il potere di coloro che attualmente producono la maggior parte dei gas serra, compagnie energetiche, linee aeree, produttori di auto, e agricoltura industriale, ma farà piovere capitali su tutti costoro per aiutarli a mantenere il tasso di profitto producendo piccoli cambiamenti ecologici che saranno troppo poco e
troppo tardi.
8. Dato che globalmente I lavoratori hanno perduto il loro potere di acquisto e di ottenere diritti e salari decenti, nella prospettiva del capitalismo verde i salari continueranno a stagnare o anche declinare per affrontare I costi crescenti della modernizzazione ecologica.
9. Lo stato eco-capitalista sarà uno stato autoritario. Giustificato dalla minaccia di una crisi ecologica vorrà gestire il conflitto sociale destinato a sorgere necessariamente a causa dell’impoverimento che deriva all’aumento del costo della vita e il declino dei salari.
10 Nell’eco capitalismo i poveri dovranno essere esclusi dal consumo, spinti ai margini, mentre I ricchi manterranno il loro comportamento eco-distruttivo, cercando di consumare molto e salvare il pianeta al tempo stesso.
11. Uno stato autoritario, diseguaglianze sociali massicce, la spesa pubblica destinata alle corporation: dal punto di vista dell’emancipazione sociale e ecologica, l’eco-capitalismo sarà un disastro dal quale non ci riprenderemo. Oggi abbiamo una possibilità di superare la follia suicidaria della crescita costante. Quando saremo stati sottomessi al nuovo eco-regime quella possibilità potrebbe essere perduta.
12. Nell’eco-capitalismo c’è il pericolo che gruppi ambientalisti di potere giochino il ruolo che i sindacati svolsero nell’epoca fordista: agire come valvole di controllo per garantire che la domanda di
cambiamento sociale proveniente dalla rabbia collettiva rimanesse entro i limiti stabiliti dal capitale.
13 Albert Einstein definisce la follia con queste parole: “ripetere molte volte di seguito la stessa azione aspettandosi che possa produrre dei risultati differenti.” Nel passato decennio, nonostante Kyoto, non solo la concentrazione di gas-serra nell’atmosfera è aumentata, ma è anche aumentato di tasso di incremento. Vogliamo semplicemente ripetere la stessa cosa? Non sarebbe questo folle?
14. “Gli accordi internazionali sul clima promuovono false soluzioni che spesso riguardano piuttosto la sicurezza energetica che il cambiamento climatico. Lungi dal risolvere la crisi, accordi come quello relativo allo scambio di crediti in cambio di emissioni, funzionano come copertura per una continuazione impunita delle emissioni.
15. Per molte comunità del Sud globale, queste false soluzioni sono ormai una minaccia peggiore dello stesso cambiamento climatico.
16. vere soluzioni per il cambiamento climatico non verranno fuori dai governi o dalle multinazionali. Potranno emergere solo dal basso, da movimenti sociali collegati globalmente.
17. Queste soluzioni sono fra l’altro: limitazioni agli scambi commerciali, blocco delle privatizzazioni, e dei meccanismi flessibili. Sì alla sovranità alimentare, sì alla decrescita, sì alla democrazia radicale che lascia le risorse nel terreno.
18. In quanto movimento emergente del cambio climatico dobbiamo combattere contro due nemici: da una parte il cambio climatico e il capitalismo fossile che lo produce, dall’altro un emergente capitalismo verde che non fermerà il mutamento climatico, ma che limiterà la nostra capacità di andare in quella direzione.
19. Naturalmente il mutamento climatico e la libertà di mercato non sono la stessa cosa, ma il protocollo Copenhagen sarà un’istanza di regolazione centrale del capitalismo verde come il WTO era l’organismo centrale del capitalismo neoliberale. Il gruppo danese Klimax sostiene: un buon accordo è meglio che nessun accordo, ma nessun accordo è meglio che un accordo cattivo.
20. La possibilità che I governi escano con un buon accordo a Copenhagen è prossima allo zero. Il nostro scopo è ottenere accordi su soluzioni reali. Altrimenti dovremo dimenticare Kyoto e chiudere Copenhagen. (quale che sia la tattica)
Alexis è membro del consiglio di coordinamento di ATTAC Germania, Tadzio fa parte del gruppo redazionale di Turbulence. Entrambi sono attivi nell’emergente movimento di climate justice againstgreencapitalism (at) googlemail.com
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Buon anno Blogger
Care/i bloggers, questo post è per voi.
Escluso il sottoscritto, s’intende.
Oggi parlo da vostro lettore e come tale vorrei dirvi qualcosa.
Vorrei dirvi che avete la mia ammirazione.
Non è facile, ogni giorno, aprire il pc e mettersi davanti allo schermo per inventarsi qualcosa che sia interessante e anche originale, ma dev’essere pure attuale e accattivante, perché chi legge il post arrivi alla fine e magari legga qualcos’altro, fino addirittura ad iscriversi al feed e che lo voti, sì, lo voti e le visite sul contatore crescano, crescano fino a farlo scoppiare di gioia.
Gioia che dura al massimo sino al tramonto perché all’indomani tutto ricomincia.
Vorrei dirvi che avete la mia stima.
L’avete tutta, quando decidete di non parlare di voi e donate la vostra tastiera e il vostro tempo a qualcun altro, ai fatti che per voi contano, alle persone che pensate debbano essere ascoltate, ad ogni cosa che per voi valga e che non si tratti della vostra storia.
Non immaginate quanto questo sia importante oggi, nel nostro paese.
Vorrei dirvi che avete la mia fiducia.
Perché quando penso che in questa mia Italia i media siano ormai quasi tutti diventati dei giganteschi megafoni in mano al potere di turno, ecco che apro un blog a caso e trovo la forza di credere che non tutto è perduto, che c’è qualcuno che in maniera totalmente gratuita è lì veramente per chi legge e che anche se dirà una stronzata lui e solo lui risponderà personalmente delle sue parole.
Vorrei dirvi che avete il mio affetto.
Sì, lo so che è una parola grossa, che internet è un mondo virtuale e che la realtà è solo quella al di fuori dello schermo, eppure io so che spesso in un singolo post, di qualcuno di cui non saprò mai il vero nome, il sesso e quant’altro, posso trovare più sincerità e onestà che in mille discorsi a voce di gente di cui credo di conoscere ormai tutto.
Infine, oggi, ultimo giorno di questo 2009, vorrei dirvi che voi siete la mia speranza.
Le vostre parole, il vostri pensieri, i vostri sogni sono come messaggi in bottiglie lanciate nelle acque del web che certamente qualcuno raccoglierà, anche solo una persona.
Questa è la cosa meravigliosa che vi riguarda. Voi siete una speranza che prima o poi sarà una certezza.
Non arrendetevi, qualsiasi cosa accada, non arrendetevi.
Voi siete molto più preziosi di quanto possiate pensare.
Grazie di esserci.
Alessandro Ghebreigziabiher
http://alessandroghebreigziabiher.blogspot.com/2009/12/buon-anno-bloggers.html
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Una città italiana privata della sua identità culturale
Michael Kimmelman*, 02.01.2010
Pubblichiamo, grazie alla traduzione di Adriano Sponzilli, Giano, Ezio Bianchi, Giovanni Incorvati l’articolo del “New York Times” del 23 dicembre 2009 su L’Aquila. Esso segna una svolta ripetto all’atteggiamento molto prudente tenuto finora da tale giornale nei confronti della conduzione del post-terremoto. E’ chiaro che adesso ha deciso di rompere gli indugi e di prendere una posizione molto più netta
L’AQUILA – Le città richiedono secoli per crescere, ma possono morire in un batter d’occhio
Dopo che in aprile un terremoto ha ucciso centinaia di persone e ne ha lasciate decine di migliaia senza tetto, nel territorio di questa città medioevale e barocca, a circa 70 miglia a nord-est di Roma, gli sforzi profusi per i soccorsi di emergenza sono stati straordinari. Volontari da ogni parte d’Italia sono accorsi per offrire aiuto. Sono state rapidamente allestite tendopoli fuori dalla zona pericolosa. Sono stati organizzati concerti allo scopo di offrire continuità e speranza, mentre lavoratori edili hanno rapidamente eretto decine di complessi residenziali nei dintorni della città.
Ma ora che il governatore della regione ed il Ministro dei beni culturali si preparano a subentrare al Dipartimento per la protezione civile al fine di procedere alla ricostruzione, il futuro a lungo termine de L’Aquila è in bilico. Assenza di fondi, di coinvolgimento politico, di buon senso architettonico e di attenzione internazionale – unite alla predilezione tutta italiana per chi pensa di possedere la bacchetta magica – minacciano di fare quello che non ha fatto il terremoto.
Non sarebbe la prima città italiana a non riprendersi più da un terremoto. Dopo il sisma che colpì la Sicilia negli anni ’60 i centri storici furono abbandonati, e nel migliore dei casi sopravvivono solo di nome nelle squallide costruzioni tirate su come abitazioni provvisorie, poi diventate permanenti in mancanza di alternative e per trascuratezza. Per L’Aquila occorrerebbe investire meglio. Si stanno facendo sforzi per salvare i quasi 110.000 monumenti e manufatti che secondo il ministero dei beni culturali sono stati danneggiati dal terremoto.
Ma secondo la previsione ministeriale ufficiale occorreranno 10 o 15 anni per riportare il centro storico alla normalità, in tutti i sensi dell’espressione, e quasi tutti gli interventi di ricostruzione, inclusi quelli delle case private, dovranno essere approvati dal ministero, attraverso una procedura scrupolosa.
Prima del terremoto circa 10.000 persone abitavano nel centro della città e circa altre 60.000 fuori dal centro. Dopo un decennio o più da sfollati, coloro che una volta vivevano nel cuore de L’Aquila potrebbero non trovarsi più in zona o non voler tornare, e le case costruite per loro – fino a questo momento sono stati realizzati 150 complessi in legno, acciaio e calcestruzzo – potrebbero aver cambiato il territorio fino a renderlo irriconoscibile. L’Aquila, attraente centro storico medioevale nel quale si innestava in equilibrio precario un centro storico barocco (e questa precarietà spiega, in parte, l’entità del danno), era anche un centro commerciale e culturale ed una città universitaria. Se il centro dovesse rimanere morto, in pochi anni potrebbe finire per essere nulla più che un sito turistico di secondaria importanza, nel mezzo di un agglomerato urbano indifferenziato.
Piani di ricostruzione di qualsiasi tipo, e in particolare quelli più rapidi, richiedono miliardi di dollari (almeno 16 miliardi di dollari, secondo diverse stime), la gran parte dei quali dovrebbe arrivare dal parlamento italiano. Ma anche la piccola tassa finalizzata alla ricostruzione, recentemente proposta dal sindaco de L’Aquila e da diversi funzionari del ministero dei beni culturali, è finita nel nulla. In un Paese oberato dal debito pubblico e distratto dalle vicissitudini del Presidente del consiglio riportate dalla stampa, il successo degli aiuti nella fase dell’emergenza ha paradossalmente creato l’impressione che L’Aquila non abbia più urgenti necessità di aiuto. Come ha dichiarato qualche giorno fa Michela Santoro, una assistente del sindaco Massimo Cialente: “Il messaggio sui media è: ‘Le cose vanno bene’. Messaggio che è lungi dal corrispondere alla verità dei fatti”.
Il sindaco Cialente, da parte sua, si è affannato a ripetere ai giornalisti ed alle troupe televisive dentro e fuori dal suo ufficio di fortuna, ricavato in una ex scuola nella periferia cittadina, sempre lo stesso duro messaggio: “Se non ricostruiremo in modo adeguato – che nella sua prospettiva sta a significare riportare tutto esattamente come era, ma reso sismicamente sicuro – sarà una vergogna per l’intero Paese. Sarà una nuova Pompei”.
Si tratta di una preoccupazione tipica di qui. Gli italiani spesso sono portati a pensare che se non saranno in grado di restaurare il passato finiranno per farne parte. Ogni alternativa è difficilmente immaginabile.
Roberta Pilolli lavora per il conservatorio de L’Aquila. Dopo il terremoto ha collaborato a tirare fuori dalle macerie i pianoforti a coda. Gli aquilani sono orgogliosi di essere tenaci.
L’altro giorno, in felpa e scarpe da ginnastica, si stava preparando per l’apertura ufficiale, questa settimana, della nuova sede del conservatorio, un complesso in metallo e vetro da 8 milioni di dollari, costruito in poco più di un mese, nei quartieri periferici sviluppatisi in modo incontrollato.
“Voglio indietro la mia casa esattamente com’era”, ha detto la signora Pilolli. Stava parlando della sua piccola casa a terrazza di prima della guerra in centro città, dove la sua famiglia ha vissuto per anni – non un tesoro architettonico, ma non era questo il punto. “E’ la mia identità”, ha aggiunto. “Ora L’Aquila è morta e si preoccupano solo di chiese e monumenti, non delle nostre case. Ma l’intera città era un monumento.”
Riferendosi ai nuovi condomini costruiti dal Governo, che sono simili al nuovo conservatorio, Aldo Benedetti, professore di architettura a L’Aquila, ha spiegato: “Non si inseriscono in nessun contesto, non portano nessuna idea di architettura, ma solo l’aspetto di caserme dell’esercito buttate giù da qualche parte.”
Pier Luigi Cervellati, professore di urbanistica a Venezia, va oltre. Ha detto che la ricostruzione dovrebbe preoccuparsi in primo luogo di far rientrare più rapidamente i residenti nel centro storico, non di dargli abitazioni alternative, chiese, monumenti, grandi magazzini e attività commerciali. “Un centro lasciato vuoto per anni muore,” ha detto. “Queste case nuove che stanno costruendo in periferia sono molto costose e non hanno senso dal punto di vista urbanistico. Sono come i terminal di un aeroporto. Non hanno anima. Il rischio è che il centro diventi un non-luogo.’
Chi risiede nei nuovi appartamenti, grato in un primo tempo di avere ricevuto un posto dove stare, ora già si lamenta della mancanza di spazi, negozi, campi sportivi e di qualsiasi organizzazione sociale. Non ci vuole molto, dopo un disastro come questo qui, per passare dalla gratitudine all’impazienza e alla sfiducia. Le voci di corruzione e tangenti naturalmente dilagano e incalzano. Il conservatorio è costato quasi tre volte quello proposto, al costo di 3 milioni di dollari, da Shigeru Ban, il noto architetto giapponese, con annessa sala da concerti. Gli Aquilani, così come il professor Benedetti, da tempo si chiedono perché.
Qual è la soluzione? Anche quando le bombe cadevano su Londra durante il blitz del 1940, gli urbanisti inglesi proiettavano visioni di una nuova Londra nel dopoguerra. La disgrazia divenne la possibilità di sognare. In assenza sia di un’autorevole leadership in grado di fare da guida, sia di valide leggi sull’urbanistica, sia di luoghi di discussione pubblica dove i cittadini abbiano il potere di confrontarsi seriamente con L’Aquila del futuro, si fa viva solo la sensazione che la possibilità stia scivolando via. Ma l’opportunità ancora è data di includere forse un’architettura nuova a fianco dell’antica, come fece L’Aquila dopo il terremoto del 1703, quando divenne l’amata città barocca che ora tutti vogliono preservare, come se ci fosse sempre stata. Mai una città perfetta, ma una reale e viva. L’Aquila potrebbe perfino diventare il modello per un nuovo tipo di centro storico del 21mo secolo in Italia.
Ma il tempo vola. Di recente, visitando le rovine della chiesa parrocchiale di Santa Maria Paganica, dove il tetto è crollato e una surreale montagna di macerie all’interno si eleva verso le finestre che danno sul tetto delle navate laterali, osservavo un archeologo del Ministero dei beni culturali, che doveva catalogare ogni più minuto frammento, sprecare mezz’ora, nel freddo pungente e nella neve, a litigare con Michelangelo Saporito, un pompiere che lavora per i servizi d’emergenza.
Saporito, siciliano, è arrivato a maggio, cinque giorni dopo la nascita del suo secondo figlio. Voleva aiutare. Quella mattina stava mostrando la chiesa ad un visitatore, come aveva già fatto più volte quel giorno con altri visitatori.
Ma si era dimenticato di portare il consueto modulo di permesso. La burocrazia e le priorità sbagliate hanno bloccato il progresso.
Sembrava una metafora.
Saporito ha tirato un sospiro.
“Lei lo vede qual è il problema.” Lui l’ha messa così.
(traduzione di Adriano Sponzilli, Giano, Ezio Bianchi, Giovanni Incorvati)
di Testo originale: “New York Times” del 23 dicembre 2009
http://www.nytimes.com/2009/12/24/arts/24abroad.html?_r=1&ref=design
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13863
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4/1/2010 – ANNIVERSARIO. TRA LE POLEMICHE L’ANNIVERSARIO DEL FILOSOFO-SCRITTORE
Albert Camus, la scomoda eredità di un irregolare
Morì 50 anni fa ma riesce ancora a dividere la Francia
DOMENICO QUIRICO
L’allarme lo ha lanciato lo scrittore Olivier Todd, il suo migliore biografo: «Attenti a non trasformarlo in una icona disincarnata. Bisogna conservare Camus vivo nella sua complessità e nelle sue contraddizioni. Camus non era né esemplare né edificante. È uno che ci consente di riflettere». Sopravviverà dunque questo «Giusto», che può essere guardato al microscopio e non come molti eroi al telescopio, al suo inevitabile, mortifero anniversario? Mezzo secolo da quel 4 gennaio 1960 in cui morì in un incidente d’auto, da folgorante James Dean della letteratura.
Strano: il consenso è universale, oceanico, eppure sibilano le polemiche. I pretoriani dell’Eliseo lanciano la grande manovra per «panteonizzarlo»: perché il presidente Sarkozy, cinico assimilatore di epoche, uomini e Storie a suo uso e consumo, lo vuole a tutti i costi marmorizzare nelle tombe dei padri della patria. Ma un figlio resiste, l’operazione slitta, per ora si insabbia. In tv l’altra lama della tenaglia: gocciola infatti il Camus intimo, sentimentale, sgonnellatore di femmine del film per Antenne2 girato da Laurent Jaoui. Del Camus giornalista resistente autore-attore prolifico della vita intellettuale del Dopoguerra, frutto spinoso cresciuto nella terra arida, stenta, dura d’Algeria nulla o quasi. Si depreca già l’ennesima vittima del biografismo contemporaneo che spiega tutto con l’intimo: errore segreti infedeltà. Ha dunque ragione Finkielkraut: «Camus è consacrato da un’epoca che gli volta la schiena. Il nostro tempo non ama che se stesso ed è se stesso che celebra quando crede di commemorare i grandi uomini».
Eppure l’antidoto è nascosto in quella frase del discorso per la consegna del Nobel: «Ogni generazione si crede votata a rifare il mondo. La mia sa con certezza che non lo rifarà. Ma il suo compito è forse più grande. Consiste nell’impedire che il mondo si disfi…». Ecco: come ammoniscono coloro che disdegnano i frettolosi e interessati turiferari da anniversario, in una epoca in cui proliferano le corse folli agli estremismi, in cui non bisogna abituarsi al Male, uno scrittore così a lungo messo ai margini appare essenziale. Che parlava di «rivoluzioni ma relative», di «politica modesta». Che scriveva, nel 1943, La lettera a un amico tedesco e chiedeva la grazia per Brasillach. Immaginiamo oggi, dopo l’undici settembre, se risuonasse sui giornali la sua risposta a uno studente arabo, nel 1957 poco dopo il Nobel, che gli rimproverava il silenzio sull’Algeria: «In questo momento ad Algeri si gettano bombe sui bus. Mia madre potrebbe trovarsi su uno di questi. Se questa è la giustizia, io preferisco mia madre».
La Francia ha molto da farsi perdonare da Camus, forse per questo vuole esibirlo nel gulag marmoreo del Pantheon. Ad esempio lo ha rinchiuso come un veliero dentro la bottiglia di una etichetta, «filosofo da liceali» (come se l’esserlo fosse una colpa). Jean-Jacques Brochier continua a ristampare il suo pamphlet e a scagliarsi, trovando ascolto, contro l’angelismo promosso troppo rapidamente a modello, a ripetere causticamente e ferocemente che «la differenza tra Camus e Nietzsche è che il secondo sapeva pensare». Già: scrittore perfetto per i dettati, filosofo discount, moralista della Croce Rossa. Nel turgore delle celebrazioni il veleno corre tuttora come un fiume carsico sotto gli omaggi. Basterebbe a confutarlo il parere di François Feito, lo storico di origine ungherese appena scomparso che aveva provato le ispide delizie delle Rivoluzioni: «Camus era tutto salvo che un democratico molle. Nel suo amore della libertà c’era qualcosa di virile, di muscoloso».
Il nocciolo è, sempre e ancora, nella guerra degli atridi della Rive Gauche: Sartre contro Camus. Chi in Situationes IV lasciò cadere, sadico: «Voi detestate la difficoltà di pensare e decretate alla svelta che non c’è nulla da capire per evitare in anticipo il rimprovero di non aver capito»? Oggi citare Sartre è complicato, troppi i regimi indifendibili patrocinati dal filosofo per cui «ogni anticomunista (compreso l’autore de La peste) era un cane». Ma galleggiano un gauchisme reducistico, i salotti rachitici orfani di maestri del pensiero e di anatemi che non l’hanno perdonata allo scrittore che rifiutava «di mettere tra la vita e l’uomo un volume del Capitale». In una delle ultime interviste Camus alla domanda «ma lei è ancora di sinistra?», rispose «sì, malgrado la sinistra e me stesso». Attuale, scandalosamente attuale, no?
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Quel giorno a Parigi su un palco con Camus 04.01.2009
CLAUDIO GORLIER
Era il 13 dicembre 1948, e con Carlo Fruttero ci recammo, a Parigi, alla Salle Pleyel, dove si presentava il Rassemblement Démocratique Révolutionaire. Sul palco: Albert Camus, André Breton, Carlo Levi, Richard Wright, David Rousset, Simone de Beauvoir. Il vero dominatore della manifestazione fu, indiscutibilmente, Camus, e ci rendemmo conto del perché, da giovane, fosse stato un eccellente attore.
Non si trattava di lanciare un nuovo partito, ma un movimento che ambiziosamente, come prometteva il nome, si proponeva di rivendicare l’impegno politico dell’intellettuale. Per farsene un’idea, basta riferire la conclusione, davvero folgorante, poi pubblicata nelle Actuelles: «Non è il combattimento che fa di noi degli artisti, ma l’arte che ci costringe a essere dei combattenti. Per la sua stessa funzione, l’artista è il testimone della libertà e questa è una giustificazione che gli capiterà spesso di pagare cara».
Paradossalmente, questa appassionata e lucida professione di fede conta quale lascito definitivo, quale congedo. Mentre, da un lato, il Rassemblement ebbe vita effimera, Camus a partire dagli anni successivi smise risolutamente di occuparsi di politica, cessando le sue collaborazioni a «Combat», nome di per sé emblematico. Ma non sfugge a nessuno che la sua presa di posizione, assunta davanti a un pubblico letteralmente affascinato, era destinata a lasciare il segno, mentre di fatto una effettiva progettualità politica continuava a permeare tutta la sua opera e, sarei tentato di dire, il suo comportamento. Quanto urgente, attuale, si presenta ancora oggi la professione di fede dichiarata alla Salle Pleyel. Glielo rammentai parecchi anni dopo, quando venne a Torino e mi confessò che, appena arrivato, si era recato a visitare la casa di Nietzsche, direi a rendere omaggio a uno dei suoi modelli ideali. A mezzo secolo dalla tragica morte, risuona il grido tragico del suo Caligola, nel momento in cui viene assassinato: «Sono ancora vivo!».
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Ricevo da Daniela Degan il 03.01.2009 (degadan@hotmail.com) su decrescita@liste.decrescita.it
Contro la messa al bando delle coltivazioni biologiche
Inviate questo messaggio a tutti coloro che desiderano cibi biologici!
“La Camera e il Senato degli Stati Uniti tra meno di una settimana e mezzo voteranno un provvedimento che metterà fuori legge le coltivazioni biologiche ( il disegno di legge HR 875).
Vi è una fortissima pressione per approvare la trasformazione in legge in un tempo molto breve, prima che la popolazione si accorga di ciò che sta accadendo.
Il principale sostenitore e chi ha svolto il lavoro di lobby è la MONSANTO, la grande impresa chimica e di ingegneria genetica, accompagnata dalla CARGILL, dalla ADM (Archer, Daniels e Midland) e da altre 35 grandi imprese agroalimentari. Questa normativa obbligherà le aziende a produzione biologica a usare particolari fertilizzanti e sostanze velenose contro gli insetti, in base a decisioni prese da una Agenzia di nuova costituzione “al fine di garantire che non vi siano pericoli per l’alimentazione pubblica”. Queste norme saranno obbligatorie anche per gli orti familiari che producono alimenti solo per autoconsumo e non per la vendita.
Se questa legge sarà approvata non esisteranno più semi originali ma solo i semi geneticamente modificati della MONSANTO, che oggi stanno mostrando la loro capacità di generare malattie impreviste negli esseri umani”.
E’ disponibile un video su questo problema
http://www.youtube.com/watch?v=epXNJNjYBvw&feature=related
E un altro video
http://www.youtube.com/watch?v=eeWVkTU1s1E
Questo mostruoso piano alimentare ha un nome: Food Safety Modernization Act of 2009 (legge per la modernizzazione della sicurezza alimentare), disegno di legge HR 875.
Questa è la realtà, amici! Diffondete queste informazioni a tutte le persone impegnate che sono sulle vostre liste e inviate oggi stesso la vostra protesta al Senatore che vi rappresenta!
Segnatevi questi numeri telefonici e inondate le reti di messaggi. Contattate chiunque sia in grado di fare la stessa cosa.
La Camera e il Senato approveranno queste norme se non saranno minacciati da una massa di elettori di perdere i loro posti. Essi hanno paura solo della vostra voce e del vostro voto. La cosa migliore da fare è andare sul sito www.house.gov/writerep e tutto ciò che dovete fare è inserire il vostro messaggio, vi sarà indicato il vostro rappresentante al Congresso e il modo di entrare in contatto con lui.
Quando chiamerete il suo ufficio, qualcuno vi risponderà, e dovete solo dire (in modo educato) che state chiamando per comunicare la vostra posizione sull’HR 875.
Esprimete la vostra opinione, essi prenderanno nota anche del vostro nome e indirizzo e comunicheranno i vostri commenti ai membri del Congresso.
Di seguito trovate una lista dei senatori degli Stati Uniti e dei loro indirizzi:
http://www.senate.gov/general/contact_information/senators_cfm.cfm(read less)
(traduzione non autorizzata, 24 dicembre 2009)
e da avambardo@inventati.org su medesima lista
Sul blog ho ricevuto questo commento e penso possa interessare:
Appunti sparsi sulla proposta di legge HR875
SEC. 2. FINDINGS; PURPOSES.
a. findings
difesa dei prodotti alimentari da possibili manomissioni, prodottistranieri infetti, difesa di persone che hanno problemi alimentari(allergie, ecc) da prodotti non sani.
Vi riporto il punto 7 che mi sembra centrale e che evidenzia la necessitàdi accentrare il potere sul “Food and Drug Administration.“the Food and Drug Administration, an agency within the Department of Health and Human Services, has regulatory jurisdiction over the safetyand labeling of 80 percent of the American food supply, encompassing allfoods except meat, poultry, and egg products, as well as drugs, medical
devices, and biologics; cioè – The food and Drug Administration (di cuitanto si sente parlare n.d.r.), un’agenzia che fa parte del Dipartimentodei Servizi Socio-Sanitari, ha potere di regolamentare sulla sicurezzadel 80% della produzione americana di cibo, eccetto carne, pollame e uova, come anche droghe, prodotti farmaceutici e prodotti biologici.
Che significa in soldoni: aumentare il potere decisionale del Food andDrug Administration perchè non c’è chiarezza all’interno degli ufficigovernativi su chi fa cosa.
b. purposes
creare un’agenzia che si chiamerà “Food Safety Administration”
punto 2
to transfer to the Food Safety Administration the food safety, labeling,inspection, and enforcement functions that, as of the day before thedate of the enactment of this Act, are performed by various components of the Food and Drug Administration and the National Oceanic and Atmospheric Administration; quindi potere assoluto di controllo,ispezione, ecc
in soldoni:
chi si potrà permettere un certo standard di qualità rispetto aconservazione, rielaborazione, stoccaggio, trasporto (quella che lorochiamano “industria alimentare”) verrà “certificata”, gli altri sarannofuorilegge. E’ la stessa filosofia che i burocrati di Bruxelles stannomettendo in atto da anni!!!
Siamo alle solite.
http://selvatici.wordpress.com
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7/1/2010 – L’ECLETTICO INTELLETTUALE LUCANO
Placido, il maestro della leggerezza
E’ morto ieri a 80 anni. Ha “sdoganato” la cultura televisiva
ALESSANDRA COMAZZI
TORINO
Beniamino Placido era un giornalista. Un critico letterario. Un critico televisivo. Un intellettuale nel vero senso del termine, cioè usava al meglio l’intelletto. Era curioso, di uomini e di cose. Guardava al prossimo, e alle trasmissioni di cui scrisse per otto anni su Repubblica, con simpatia e indulgenza. Era un critico, ma non un censore; un osservatore ironico dei costumi, ma non un moralista. E adesso Beniamino Placido non c’è più. Nato a Rionero in Vulture, provincia di Potenza, nel maggio del ‘29, portava nel cuore un profondo orgoglio lucano, come ricorda il cugino, di secondo grado, Michele Placido. Se n’è andato a 80 anni, a Cambridge, dove si era trasferito per stare vicino alla figlia Barbara ed essere meglio accudito, poiché da tempo malato. Faticava a parlare: e conversare con lui, così brillante, arguto, puntuto e affettuoso, era diventato un momento di pudico dolore.
A Roma era arrivato negli Anni Cinquanta: i mestieri, allora, non si iniziavano per cooptazione, e lui aveva vinto un concorso per la carica di consigliere parlamentare alla Camera. Poi, nei Sessanta, andò negli Stati Uniti ad approfondire gli studi letterari. Tornato in Italia, ebbe la cattedra all’Università. Ma intanto la sua curiosità lo portava a esplorare nuovi orizzonti. La radio, a esempio: nel ’56 curò un programma che si chiamava «Negli archivi della polizia scientifica». Un CSI in anticipo di decenni. Per Nanni Moretti, recitò il ruolo di critico teatrale in Io sono un autarchico, e una piccola parte ebbe in Porci con le ali. Cose lievi, divertimenti.
La popolarità però gliela diede, pure se indirettamente, la tv: collaboratore di Repubblica dalla fondazione, nel 1986 intraprese l’avventura della rubrica «A parer mio», che tenne fino al 1994. Smise perché l’impegno quotidiano gli era diventato troppo pesante. Lui non registrava mai i programmi, guardava tutto in diretta. Quando lo invitavano a cena, coinvolgeva i suoi ospiti in una visione collettiva, prendere o lasciare. «Otto anni di questa vita, vi rendete conto?», disse. E smise. E scrisse un delizioso libro, La televisione col cagnolino. E fece un delizioso programma, con Indro Montanelli, Eppur si muove. E fu pure, dal ’94 al ’98, consulente del Salone del Libro di Torino, anello di congiunzione con Roma e con Walter Veltroni, allora ministro della cultura e vicepresidente del Consiglio.
La televisione col cagnolino affrontava con leggerezza la posizione, spesso ambigua, degli intellettuali nei confronti del mezzo. «Eccolo lì, quel tipo di intellettuale convenzionale, che ubbidisce al più sciocco dei riflessi condizionati. I suoi nonni parlavano male del cinema, e lui parla male della televisione. Negli stessi termini. Attribuendole gli stessi difetti. Che vanno puntualmente dalla violenza, attraverso la dannosità fisica, la superficialità culturale, fino alla scemenza». Non era una meraviglia di lucidità, questa analisi? E non avevano nemmeno inventato il Grande Fratello. Angelo Guglielmi, direttore di Raitre nella stagione felice che andò dal 1987 al 1995, racconta di averlo corteggiato perché si inventasse una rubrica culturale, ma lui resisteva. Fino a quando si decise per Il professore e la bestia, dove la bestia sarebbe stato Gianfranco Funari. «Ma a ridosso dell’esordio, Funari ebbe un contratto da 5 miliardi di lire (o almeno così ci raccontò) dalla Fininvest e il progetto saltò. Peccato».
In compenso, un programma si fece nel ’94. In Eppur si muove a Montanelli toccava il ruolo del progressista, a Placido quello del conservatore, Montanelli seduto a una vecchia cattedra, Placido in piedi, o appollaiato su una scomoda sediola. In quelle posture, discutevano di Italia e di italiani. Tipo: siamo fessi? siamo furbi? Placido punzecchiava, provocava, e Montanelli reagiva: «”Siamo seri” lo disse Garibaldi nel 1849 ai tempi della repubblica romana: era vestito da buffone, con un copricapo che sembrava un berretto da notte, la camicia rossa, il poncho e i pendagli. Un invito alla serietà fatto da un uomo conciato in quel modo mi pare un po’ stridente». Ecco, questo piaceva, a Beniamino Placido: sistemare i padri della patria e i consacrati divi, sorridere e aiutare il pubblico ad alzare le difese della mente. Però senza mai parlar male della tv.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/201001articoli/51002girata.asp
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Un enzima contro la dipendenza da cocaina 04.01.2010
Una forma mutata di cocaina esterasi diminuisce la frequenza di auto-somministrazione della sostanza nei ratti: potrebbe quindi interferire con i meccanismi di dipendenza
La cocaina esterasi (CocE) è un enzima batterico che scinde la molecola della cocaina riducendo la dipendenza da questa sostanza in chi la assume: la sua efficacia è stata finora sperimentata su modelli animali, anche se con risultati non pienamente soddisfacenti per la limitata emivita all’interno dell’organismo.
Un nuovo studio pubblicato sul “Journal of Pharmacology and Experimental Therapeutics” a firma di Friedbert Weiss membro di Faculty of 1000 Medicine dimostra che una versione più stabile di CocE, denominata doppio mutante o DM CocE, diminuisce in modo significativo il desiderio di cocaina e previene la morte da overdose per la stessa droga.
Nel corso dello studio, un gruppo di ratti è stato addestrato ad auto-somministrarsi cocaina premendo un bottone nella gabbia, riproducendo il comportamento compulsivo tipico della dipendenza da sostanza. Si è riscontrato tuttavia come i ratti trattati con la forma DM CocE cercassero la droga con minore frequenza rispetto agli altri. Ciò fa ipotizzare che la cocaina esterasi nella forma mutata sia in grado effettivamente di interferire con i meccanismi di dipendenza.
In particolare, la DM-CocE ha diminuito il bisogno di cocaina dei ratti ma non di una sostanza analoga in grado di dare dipendenza, sottolineando il grado di specificità dell’enzima.
Weiss sottolinea che l’enzima DM-CocE è in grado anche di fornire una protezione a lungo termine contro gli effetti tossici di una dose potenzialmente letale e che i risultati fanno ben sperare per un trattamento efficace sia per prevenire la tossicità dell’uso di droga sia per contrastare la dipendenza in coloro che ne fanno uso da tempo. (fc)
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Un_enzima_contro_la_dipendenza_da_cocaina/1341611
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6/1/2010 – ASTRONOMIA. LA SCOPERTA DI UN TEAM ITALIANO CHE HA STUDIATO LE IMMAGINI RIPRESE DAL TELESCOPIO ORBITANTE «HUBBLE»
Il lifting delle stelle vampiro
BARBARA GALLAVOTTI
Che cosa ci fa una ragazza in una residenza per anziane signore? Dipende… se stiamo parlando di una giovane stella in un angolo di galassia che pare un ospizio per astri, allora probabilmente la ragazza ci inganna e in realtà è coetanea delle sue compagne. Il raggiro però è raffinato, perché la stella non ha subito un lifting cosmico, che le avrebbe donato una freschezza solo apparente: la gioventù è stata davvero riconquistata, come se l’orologio della vita fosse tornato indietro.
Il meccanismo che permette questa sorta di miracolo anagrafico è stato svelato da uno studio appena pubblicato sulla rivista «Nature», opera di un gruppo di sette ricercatori italiani, affiancati da colleghi di Australia, Canada e Usa.
Anche nelle galassie esistono zone sovraffollate. Una di queste è Messier 30 ed è situata nella nostra galassia, a 28 mila anni luce da noi. Gli astronomi lo definiscono un «ammasso», termine che evoca immagini da ora di punta in una metropoli e dà l’idea di una zona di spazio dove le stelle stanno strettine. All’origine dell’affollamento sembra esserci stato un fenomeno disastroso, vale a dire il collasso di una regione già densa di stelle avvenuto 2 miliardi di anni fa: avrebbe portato gli astri ad avvicinarsi ancora di più, raggiungendo una densità pari a circa 20 mila volte quella che si registra dalle nostre parti della galassia. E, naturalmente, l’elevato traffico corrisponde alla situazione ideale per il verificarsi di incidenti, cioè – in termini cosmici – collisioni tra astri con scambio di materia o addirittura completa fusione degli oggetti celesti coinvolti.
«Da tempo si sospettava che alcune stelle presenti all’interno di ammassi di forma globulare subissero un processo di ringiovanimento in seguito a scontri e fusioni fra stelle più anziane, ma mancavano prove certe. Messier 30 era il luogo ideale dove cercarle grazie alle immagini ad altissima risoluzione catturate dal telescopio spaziale Hubble», spiega Francesco Ferraro, astrofisico all’Università di Bologna e coordinatore della ricerca. Le stelle dell’ammasso Messier 30 sono tutte più o meno coetanee e sono tutte molto anziane: hanno iniziato, infatti, la loro esistenza circa 13 miliardi di anni fa, all’epoca della formazione della nostra galassia.
E’ noto che una stella appena nata è generalmente composta in buona parte di idrogeno. Man mano che la sua vita procede, nella zona del nucleo le elevatissime pressioni e temperature fanno procedere una serie di reazioni di fusione nucleare che trasformano l’idrogeno in elio. Quando l’idrogeno è stato in buona parte consumato, se la stella ha dimensioni sufficienti, la fusione nucleare prosegue, ma stavolta il carburante è dato dai nuclei di elio che si uniscono, creando nuclei di carbonio. E così via, un elemento dopo l’altro: le stelle di maggiori dimensioni arrivano a formare nuclei di ferro, prima di esplodere come spettacolari supernove, spargendo nel cosmo i nuclei atomici prodotti durante la loro esistenza.
Tutti gli elementi che esistono si sono creati in questo modo, compresi quelli che formano il nostro corpo. L’età delle stelle è indicata quindi dagli elementi che le costituiscono e può essere dedotta dal loro aspetto, in particolare dal colore della luce che emettono. E’ significativo che, tra le 600 mila stelle mature dell’ammasso Messier 30, ne spiccano 45 che brillano di una adolescenziale luce blu. Poeticamente, vengono definite «vagabonde blu», perché in un grafico che rappresenta luminosità e temperatura se ne stanno da parte, rifiutandosi di seguire la fila dove sono allineate le sorelle.
«Le immagini di Hubble ci hanno mostrato 24 vagabonde blu con tutte le caratteristiche di stelle nate da un processo di fusione tra astri entrati in collisione, mentre altre 21 sembrerebbero originate da un trasferimento di materiale ancora in corso tra stelle che risentono di una reciproca attrazione gravitazionale», sottolinea Ferraro. In questi processi colossali i costituenti delle stelle coinvolte si rimescolerebbero e l’idrogeno, che era confinato alla periferia, verrebbe a trovarsi in posizione centrale, donando alle due signore un’identità unica, un fisico più tondetto e un cuore da ragazza.
Adesso non resta che cercare conferma a questa osservazione in altri ammassi di stelle, dove gli astri troppo giovani dovrebbero avere caratteristiche simili a quelle delle ragazze di Messier 30. «Ancora una volta sarà probabilmente Hubble a darci le informazioni che cerchiamo, perché solo un telescopio al di fuori dell’atmosfera, e che quindi non risente del suo effetto di disturbo, può darci le immagini ad altissima risoluzione di cui abbiamo bisogno», aggiunge Ferraro.
Tra l’altro, anche Hubble sembra godere di un’indomabile gioventù: lanciato nel 1990, ha beffardamente oltrepassato le date che avrebbero dovuto segnarne la pensione, regalandoci immagini sempre più straordinarie. L’ultima missione di manutenzione è avvenuta a maggio e ora Hubble, più in forma che mai, marcia verso il 2014, quando dovrebbe essere sostituito da un nuovo telescopio spaziale. Ma per quella data c’è ancora tempo, e molti misteri da svelare.
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Se il sole porta l’acqua 06.01.2010
L’uso di sistemi di irrigazione a energia solare ha migliorato il reddito e l’apporto nutrizionale delle famiglie in alcuni villaggi dell’Africa sub-sahariana
L’acqua la fornisce il sole. Lo dicono i ricercatori della Stanford University che per due anni hanno verificato l’efficacia di alcuni sistemi di irrigazione a goccia basati su pompe alimentate a energia solare. L’esperimento è stato condotto in due villaggi del distretto di Kalalé nel Benin, in collaborazione con le associazioni agricole femminili.
Lo scopo della ricerca, finanziata dalla ong Solar Electric Light Fund (Self) e pubblicata su Pnas, era di promuovere l’irrigazione per aumentare il redditto delle famiglie di agricoltori locali e ridurre il grado di povertà e fame della zona. Ogni sistema di pompaggio è stato utilizzato da una trentina di donne, ognuna delle quali ha coltivato il proprio appezzamento di 20 metri quadri.
Sorprendenti sono stati i risultati: con una media di 1,9 tonnellate di vegetali ottenuti al mese, le agricoltrici sono diventate forti produttrici e, con il reddito extra ricavato dalle vendite nei mercati locali, hanno potuto acquistare alimenti per la stagione secca. Di riflesso, il consumo di vegetali nei villaggi irrigati con i sistemi a energia solare è cresciuto anche nella stagione secca. L’incremento è stato di 500-750 grammi per persona al giorno, che equivalgono a 3-5 porzioni di verdura (la stessa razione quotidiana raccomandata dal Dipartimento dell’Agricoltura statunitense).
Nell’Africa sub-sahariana solo il 4 per cento delle terre coltivate sono irrigate. Qui, le comunità rurali contano su un’agricoltura alimentata dalla pioggia – la cui stagione generalmente dura da tre a sei mesi all’anno – e sorretta dalle braccia delle donne che trasportano l’acqua dai pozzi ai campi. Ogni anno le famiglie devono affrontare una doppia sfida: dilazionare le provviste di alimenti fino al raccolto successivo (o acquistare cibo supplementare a costi elevati) e resistere alla denutrizione durante la stagione secca.
“L’indagine indica che l’irrigazione a goccia ad energia solare può fornire notevoli benefici economici, nutrizionali e ambientali,” sostengono i ricercatori. Secondo lo studio, inoltre, nonostante i più elevati costi iniziali, utilizzare l’energia solare per pompare l’acqua può essere più economicamente sostenibile a lungo termine rispetto ai sistemi di pompaggio a base di carburanti liquidi con emissioni nocive come la benzina, il diesel o il kerosene. (a.o.)
Riferimenti: Pnas doi/10.1073/pnas.0909678107
http://www.galileonet.it/news/12218/se-il-sole-porta-lacqua
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Micro è meglio 06.01.2010
I ricercatori dei Sandia National Labs stanno lavorando a minuscole celle di silicio multicristallino esagonali, minimizzando lo spreco del costoso materiale
Microscopiche celle fotovoltaiche, con meno di un millimetro quadro di area – contro quindici centimetri di quelle convenzionali – e venti micrometri di spessore – contro cento. Le stanno mettendo a punto presso i Sandia National Labs (California), grazie a un progetto di tre anni finanziato dal Department of Energy Solar Technologies Program statunitense.
Il materiale di base è sempre il silicio multi-cristallino, l’attuale standard d’eccellenza in fatto di efficienza, che permette di convertire in energia elettrica il 14,9 per cento della luce solare che colpisce la superficie delle celle. In questo caso, però, per lo stesso “guadagno” di energia, di silicio se ne usa cento volte meno, mentre l’efficienza resta inalterata. A celle così piccole, inoltre, viene data facilmente una forma esagonale, la migliore per rivestire le superfici minimizzando lo spreco di materiale.
Per realizzare le micro-celle, che ricordano le spettacolari diatomee, non si è ricorsi ad alcuna particolare tecnologia, ma sono stati utilizzati i metodi convenzionali. Lo strato (o wafer) di silicio, trattato in modo da conferirgli le proprietà elettriche necessarie e coperto dai contatti metallici, è stato tagliato e intagliato con sostanze chimiche che “mangiano” solo determinate parti dei cristalli.
Le celle così ottenute possono essere incorporate a sistemi ottici e combinate con lenti refrattive (troppo costose per essere applicate a celle più grandi) che catturano il 90 per cento della luce, invece che l’80 per cento delle lenti utilizzate normalmente.
Cosa forse più importante, celle così piccole restano in sospensione negli inchiostri e possono essere stampate su moduli solari flessibili. Oggi, simili moduli si possono realizzare utilizzando celle organiche, la cui efficienza, però, difficilmente supera il 4 per cento. (t.m.)
Riferimento: Sandia
http://www.galileonet.it/news/12219/micro-e-meglio
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Cari sindacati, la proposta non è banale 07.01.2010
Cara Renata Polverini e cari Angeletti, Bonanni, Epifani, so bene che organizzare uno sciopero degli immigrati che lavorano nel nostro Paese è un’impresa ardua, che richiede molto tempo. E che, oltretutto, solleva una questione di unità: è giusta una mobilitazione dei soli immigrati, molti dei quali già iscritti ai sindacati? E, tuttavia, non possiamo ignorare che in Francia il primo marzo 2010, vi sarà un’iniziativa esattamente di tale natura. Lo slogan è semplice: “24h sans nous ” (un giorno senza di noi), ma tutt’altro che banale. Esso allude a una realtà a dir poco sottovalutata, ma in verità rimossa. Ovvero il ruolo che il lavoro straniero svolge nella produzione di merci, beni e servizi e, in sostanza, della ricchezza nazionale.
Finalmente, i dati relativi a tale importantissimo contributo cominciano ad affiorare: di recente ne ha evidenziato alcuni, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. E, così, si prende coscienza del fatto che quote significative del Pil e della contribuzione previdenziale, la massima parte del lavoro di cura (attività domestiche, baby-sitter, badanti, infermiere), le mansioni essenziali in alcuni settori (agropastorizia, ristorazione, pesca, ma anche edilizia e siderurgia) dipendono dal lavoro straniero. E che “un giorno senza” quel lavoro infliggerebbe un danno rilevante alla nostra economia. Insomma, gli immigrati rappresentano una parte insostituibile della forza lavoro di questo paese e degli altri Paesi europei e, dunque, la loro assimilazione a una minaccia sociale e la loro riduzione a un problema criminale, prima che un’infamia, è un’immensa sciocchezza. Autolesionistica, per giunta.
È vero, poi, che ci sono molti stranieri che delinquono, molti irregolari e molti altri che lavorano “in nero”. Mentre per i primi, è sufficiente l’attuale codice penale, per il secondo e per il terzo gruppo sono fondamentali le politiche di integrazione, capaci di sottrarre quei lavoratori alla doppia condizione di irregolarità (del soggiorno e del lavoro). Qui il ruolo del sindacato è a dir poco essenziale. Cgil, Cisl, Uil e Ugl non sono stati con le mani in mano, ma moltissimo resta da fare. Anche per evitare che i lavoratori stranieri, compresi quelli regolari, si sentano più deboli degli italiani, sotto il profilo dei diritti sindacali; e perché tra gli stranieri e gli italiani non si sviluppino forme di concorrenza. E si tratta di un pericolo di cui già si vede qualche traccia: e di cui i movimenti operai di altri paesi hanno fatto dolorosa esperienza. Per affrontare tutto ciò, non è necessario proclamare uno sciopero destinato a risultati assai esili: ma l’occasione della mobilitazione in Francia deve essere comunque colta. Per quel giorno, 1 marzo, i vostri sindacati potrebbero promuovere iniziative in tutta Italia, in particolare in quelle aree dove la convivenza tra stranieri e italiani è in atto da anni e risulta più faticosa. Assemblee, diffusione di materiale informativo, incontri aperti ai cittadini, campagne di tesseramento tra i lavoratori stranieri, “feste del lavoro”. Può apparire un piccolo passo, ma un buon inizio è già molto.
http://www.unita.it/news/italia/93404/cari_sindacati_la_proposta_non_banale
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Tsutomu Yamaguchi, l’uomo che sopravvisse al suo assassino 07.01.2010
Tsutomu Yamaguchi nacque il 16 marzo del 1916 in Giappone, a Nagasaki, una splendida città sdraiata su due valli offerte gratuitamente da altrettanti fiumi.
All’epoca Harry Truman aveva trentadue anni, ma non sapeva ancora che avrebbe cercato di ucciderlo.
Harry era un uomo come tanti, negli Stati Uniti di allora, di quelli che partirono spontaneamente per la guerra, convinti sul serio che fosse un modo per onorare la patria.
Una persona comune, finché non conobbe Tom Pendergast, il politico e la sua vita cambiò per sempre.
In quel mentre Tsutomu era solo un ragazzo.
Un ragazzo felice di vivere in una città affacciata sul mare. Sua madre glielo ripeteva quasi ogni giorno: sorridi, figlio mio, perché non è da tutti addormentarsi con la voce del mare nelle orecchie…
Il nostro avrebbe potuto ripeterle che era cosa comune, in Giappone, eppure accettava il consiglio senza fiatare perché avrebbe amato Nagasaki anche se fosse stata sul punto del mondo più lontano dall’acqua.
Semplicemente perché era la sua città.
Nel 1934 il partito democratico fece di Harry un senatore e nel 1941, l’anno in cui il Giappone bombardava Pearl Arbor, fu rieletto perché considerato un uomo onesto.
Un politico onesto…
Merce preziosa, allora come oggi, ovunque.
Tsutomu aveva preso tutt’altra strada.
Voleva essere un ingegnere, voleva progettare e costruire, lo aveva sempre desiderato, sin da adolescente, perché aveva intuito che poteva essere un modo perfetto per rendere merito alla sua terra.
Una terra impavida, capace di crescere fiera in mezzo a vulcani e alle onde del mare, consapevole che il vero coraggio è nel creare, giammai nel distruggere.
Nel 1945 fu un anno memorabile per Harry.
Prima divenne vice presidente degli Stati Uniti e non ebbe il tempo di gioire per quell’incredibile traguardo perché qualche mese dopo vide scomparire quel vice per salire sul gradino più alto del suo paese.
Disse che si sentiva come se il cielo gli fosse caduto addosso.
Non immaginava quanto quelle parole avrebbero potuto essere prese alla lettera per causa sua.
Dopo neanche quattro mesi di presidenza, l’uomo più potente del mondo condannò a morte circa duecento mila esseri umani, motivando la sua decisione con queste parole: l’abbiamo fatto per risparmiare la vita di migliaia e migliaia di giovani americani…
La mattina del 6 agosto del ’45 Tsutomu era tra quei sfortunati prossimi alla fine.
Era su un tram, tranquillo, mentre osservava le strade di Horoshima e la vita che scorreva ignara. Una bella ragazza in bicicletta, un cane randagio dallo sguardo melanconico, un signore accigliato che tornava a casa per lasciare per sempre sua moglie, i bambini che andavano a scuola, tutti contenti, tranne quella bimba dagli occhi rossi.
Perché è triste? Questo si chiese Tsutomu mentre scendeva dal tram.
Nulla di grave, era solo la conseguenza di una banale allergia.
E il cielo cadde su di loro.
Truman aveva vinto. Il Giappone si era arreso. Vittoria. Sconfitta. Mors tua vita mea.
Chi vince ha sempre ragione, si sa, e può fare ciò che vuole.
Ad esempio spedire il proprio paese ancora una volta in guerra, come nel 1950 in Corea, nonostante il parere contrario del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Tre anni dopo Harry lasciò la presidenza e per tutto il resto della sua vita continuò a credere che la via della pace fosse lastricata di atomi con la minaccia di esplodere in qualsiasi momento, se ce ne fosse stato il bisogno.
L’ex presidente Truman terminò il suo viaggio nel 1972, il giorno dopo natale.
Nel 1945 lui e il suo paese avevano vinto ed ora Harry era morto.
Nel 1945 il Giappone aveva perso.
Eppure la vita è strana, perché quando il suo assassino esalò il suo ultimo respiro, Tsutomu Yamaguchi, l’ingegnere che amava la sua città, uno degli uomini che avevano avuto la sventura di conoscere la verità sulla pace degli atomi, non sapeva che avrebbe vissuto ancora più di trent’anni.
Trent’anni in cui raccontare un’altra storia…
La Notizia: E’ morto Tsutomu Yamaguchi, l’ultimo sopravvissuto alle bombe atomiche
http://alessandroghebreigziabiher.blogspot.com/2010/01/tsutomu-yamaguchi.html
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È il primo sciopero Mediaset
di Antonio Sciotto
su Il Manifesto del 07/01/2010
L’azienda del Cavaliere lancia la protesta: «No alle esternalizzazioni». Lo stop forse domenica. Il primo a saltare è il settore trucco
I dipendenti Mediaset si preparano al primo sciopero nazionale della loro storia: la notizia ufficiale dovrebbe arrivare già questa mattina, con un comunicato di Cgil, Cisl e Uil. La data più probabile, domenica prossima: il Tg5 potrebbe non andare in onda, come sono a rischio la Domenica 5 di Barbara D’Urso e le trasmissioni Premium legate al calcio. La scintilla che ha fatto scoppiare la protesta è un fax mandato alla vigilia dell’Epifania ai sindacati: si annuncia l’esternalizzazione del settore «Sartoria, Trucco e Acconciatura» (detto più comunemente «Trucco e Parrucco»), 56 dipendenti tra Milano e Roma. Un colpo improvviso precipitato tra gli interessati, anzi tra le interessate visto che sono quasi tutte donne: la cessione a un’altra società viene vista un po’ come l’anticamera del licenziamento, o comunque come la minaccia di un futuro incerto. «Così diventiamo tutte precarie – ci spiega una delle truccatrici romane, che vuole restare anonima – Siamo tutte donne sopra i 40 anni, perlopiù separate o sole con figli: una di noi questa mattina si è messa a piangere, appena ha saputo».
La preoccupazione, però, così come tra truccatori, parrucchieri e sarti, si è diffusa in tutta l’azienda. Un po’ tutto il modello Mediaset è cambiato negli ultimi anni, e il timore dei dipendenti – tecnici, cameramen, produzione – è che questa esternalizzazione sia solo l’inizio. Trucco e acconciatura saranno ceduti alla «Pragma service srl», perché, ha spiegato l’azienda, «detti servizi non rappresentano una attività caratteristica del processo produttivo televisivo»: «Ma a questo punto – si chiede Roberto Crescentini, delegato Fistel Cisl – cosa sarà più definibile come “servizio caratteristico”? Potrà capitare lo stesso alla produzione, al montaggio, ai cameramen». E segnali che non si punti più sugli interni, ma che si preferisca affidarsi a service appaltati o a semplici precari sottocosto, arrivano ormai da tempo.
La sottoutilizzazione e marginalizzazione del personale Mediaset era già stato oggetto di un primo sciopero, fatto qualche mese fa, ma dal solo personale Videotime (riprese, tecnici sartorie, produzione): adesso, lo stop che si deciderà per i prossimi giorni, coinvolgerà invece anche Rti (redazione programmi) ed Elettronica industriale (il personale che si occupa della diffusione del segnale). In tutto, se comprendiamo anche gli addetti della Mediashopping (televendite), 3796 dipendenti.
I parrucchieri raccontano di come gli interni vengano utilizzati sempre meno, mentre per le grosse star si arrivano a impiegare «esperti di immagine» a 700 euro al giorno, oppure – all’altro estremo – giovani impiegati presso Srl o cooperative che guadagnano 6 euro l’ora. Così avviene per le troupes televisive: all’ultimo evento della Fao, la cui sede è a 200 metri dal Centro Palatino del Tg5, non è andata neppure una troupe interna, ma sono stati spediti operatori in appalto. Lavoratori che si riescono a pagare, tutto compreso, anche 50-60 euro per 8-10 ore di lavoro. Un bel risparmio.
D’altra parte, gli sprechi, raccontano i sindacati, ci sono eccome: gli appalti, in molti casi, costano di più degli interni. O affittare studi come Cinecittà, dove oltre alle scrivanie si deve pagare anche una voce per gli apparecchi telefonici, e persino le chiamate Roma su Roma non sono urbane, ma vengono spesso conteggiate come quelle fatte dagli alberghi.
Non basta: essere esternalizzati, vuol dire perdere il contratto integrativo Mediaset, dunque diritti e benefit. Addio al premio di risultato, ai fondi Unisalute (assicurazione sanitaria) e Mediafond (pensione integrativa), ma anche al diritto di passare allo straordinario dopo 7 ore e non dopo 10, come prevede il contratto nazionale, al godimento di orari migliori. «Dopo vent’anni in Mediaset, è come dire che ci stanno licenziando – spiega una delle lavoratrici – E poi questa Srl che ci assume, che garanzie ci dà? Ci fornirà i materiali per lavorare, e di che qualità? Ci pagherà i pasti?».
E dire che il presidente Fedele Confalonieri, alla vigilia delle feste di Natale, era venuto a Roma per un brindisi con i dipendenti, un saluto di fine anno. Aveva assicurato che nessuno rischia il posto, in un’azienda sana come Mediaset, nonostante la crisi. E il vicepresidente Piersilvio Berlusconi di recente ha annunciato l’acquisto di due tv in Spagna, sottolineando che il gruppo è più che in salute. «Ma a noi non fanno vedere neppure il piano industriale», protesta la Cisl, «quando li incontriamo dicono che tutto va bene, ma dei progetti non si sa nulla».
I giornalisti per il momento non scioperano, ma seguono con attenzione le vicende che coinvolgono tutti gli altri dipendenti Mediaset: anche perché il 22 dicembre scorso è stata ufficializzata la decisione di accorpare tutti i redattori del Tg4 e di Studio Aperto, oltre ai corrispondenti (anche del Tg5), in un’unica maxi-agenzia, di cui non si conoscono bene i contorni. Pure in questo settore le proteste non mancheranno.
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Pervenuto da Luigi luleonin@libero.it su Lista_di_Geopolitica@yahoogroups.com
tratto da Uomo Libero numero 62 http://www.uomo- libero.com
Mario Consoli
Al servizio del mondialismo
La paradossale vocazione del comunismo e dei governi di sinistra a favorire il potere dell’alta finanza internazionale
Il rapporto tra governi di sinistra e «poteri forti» – La truffa della guerra fredda – Possibilità di giungere ad una corretta interpretazione della storia del XX secolo – Chi volle veramente la II Guerra Mondiale? – L’autentico significato dello scontro Imprevedibilità dell’esito bellico – Il ruolo di Stalin e del regime sovietico – La battaglia di Berlino – L’Armata Rossa,gli stermini, le violenze e gli stupri – Il vero vincitore dei conflitti del XX secolo – L’ininterrotto filo di collusioni tra comunismo e mondialismo
I primi provvedimenti del governo della coalizione di sinistra presieduta da Romano Prodi confermano i timori emersi nella vigilia elettorale. Come previsto, si è già dimostrato governo dei poteri forti.
Un esempio molto significativo: il decreto Visco ha reso obbligatorio l’utilizzo della transazione bancaria per i pagamenti ai professionisti. Tutti i movimenti finanziari superiori a cento euro – sia in attivo che in passivo – che riguardano gli «esercenti arti e professioni» dovranno passare attraverso un istituto di credito.
Chi non è titolare di un conto in banca – per necessità o per scelta poco importa – e ha mal di denti, o trova un odontoiatra disposto a fare l’evasore fiscale, o ha un parente od amico pronto a soccorrerlo col suo libretto d’assegni, o si tiene il mal di denti.
Chi non è inserito nella struttura bancaria non ha più diritto d’esistere!
Il provvedimento apparentemente potrebbe sembrare ispirato al desiderio di combattere l’evasione ed incrementare gli introiti fiscali, ma nella realtà, considerando la questione da tutti i punti di vista, è più probabile che provocherà un ulteriore aumento delle attività «in nero».
Quel che invece è certo è che il numero dei conti correnti subirà un vistoso incremento. Le banche, grazie al decreto Visco, otterranno un deciso accrescimento del loro già cospicuo bottino a danno dei cittadini. E, inoltre, di fatto si delega al controllo dei contribuenti italiani una struttura che, oltre ad essere assolutamente privata, oltre ad essere ispirata esclusivamente dall’utile usurario – quindi estranea ad ogni valore morale e ad ogni vincolo etico – ha più volte, sfrontatamente, affermato la propria determinazione di porsi fuori della normale applicazione delle leggi.
Si ricordi la questione dell’anatocismo: le banche furono condannate – nei tre canonici gradi di giudizio – a restituire ai propri clienti gli interessi sugli interessi indebitamente conteggiati ed incassati. Complessivamente una cifra enorme: 120.000 miliardi delle vecchie lire. Le banche, a questo punto, proprio come in una scena del «Padrino», fecero semplicemente sapere che «non avrebbero pagato». La Comunità Europea corse subito ai ripari e rimandò la questione alla Corte di Giustizia Europea, mettendo a disposizione delle banche italiane altri due gradi di giudizio. Eravamo nel novembre del 2004; da allora nessun correntista ha ricevuto un euro di risarcimento e dell’anatocismo non si è più parlato.
È dunque a queste organizzazioni fuori legge che il governo chiede aiuto nella lotta all’evasione fiscale.
E siamo solo ai primissimi provvedimenti. Si tratta ancora di questioni sicuramente di piccolo cabotaggio, ma sufficienti a indicare quali interessi si vogliono tutelare e a quali poteri si intende ubbidire.
Da Prodi non ci si poteva aspettare nulla di diverso: uomo della Goldman Sachs, lo abbiamo visto alla guida dell’IRI quando fu l’epoca dell’indegna svendita delle aziende di Stato, fu il privatizzatore delle banche pubbliche Credito Italiano e Banca Commerciale -, fu persino chiamato e pagato da George Soros per far parte di una speciale commissione internazionale di «esperti» costituita per organizzare la vendita delle aziende di Stato in Russia; una curiosità, che potrebbe anche essere eloquente: Prodi fu l’unico non ebreo dei sette componenti di quella commissione.
Ripetutamente lo si ritrova a lavorare nella direzione indicata dai poteri forti assieme agli altri privatizzatori doc: Amato, Draghi, Ciampi e compagnia. Diversi poi sono i nomi presenti nell’ attuale governo che ci riconducono al mondo della finanza: Tommaso Padoa Schioppa (che è stato nella BCE, in Bankitalia, nel Comitato di Basilea e che è membro nel Gruppo dei Trenta e dell’ Advisary Board dell’ Institute for International Economics di Washington); Enrico Micheli (che è stato vice presidente della Banca di Roma) e Massimo Tononi (che è passato direttamente dalla Goldman Sachs al Ministero dell’Economia) . A ben guardare si riscontrano anche curiose parentele: uno dei massimi facitori della nuova super-banca, San Paolo-Intesa, Pietro Modiano, è il marito del ministro Barbara Pollastrini, chiamata da Prodi a ricoprire un prestigioso incarico di governo nonostante non fosse riuscita a farsi eleggere né al Senato, né alla Camera.
Tutti uomini delle banche, amici o diretti dipendenti dei centri finanziari internazionali. Tutti ciurma del Britannia; quei pirati che si sono trovati nel mare di Civitavecchia il 2 giugno del 1992 ad organizzare il saccheggio delle proprietà del popolo italiano.
D’altronde il governo D’Alema, seguito al primo governo Prodi nel 1998, si distinse nell’essere ancor più filo-americano – in economia e in politica internazionale – dei governi di destra e di centro che lo avevano preceduto.
Fu proprio lui, un comunista entrato a Palazzo Chigi come presidente, a portare l’Italia in guerra, a fianco degli USA, contro un paese europeo -la Serbia contravvenendo, per la prima volta dal 1947, la Costituzione che all’ art. 11 recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» . Fu lui ad autorizzare il decollo dei nostri bombardieri con destinazione Belgrado ancor prima che il dibattito su quell’intervento approdasse in Parlamento. Fu lui a consentire che gli aerei americani usassero come pattumiera per le bombe inutilizzate e altre «scorie» del genere i laghi e i mari italiani. E fu ancora lui ad americanizzare il mercato del lavoro nel nostro Paese, introducendo le assunzioni interinali, e a dare potenti colpi al già sconquassato Stato Sociale. Un compito che peraltro oggi Prodi ha già dimostrato di voler portare vigorosamente avanti.
Peraltro, proprio in queste settimane, a far da contrappeso ai sempre più diffusi dubbi sulle effettive responsabilità degli attentati dell’ 11 settembre 2001, in Italia è sceso in campo, come avvocato difensore degli USA e dei mondialisti, con la sua rivista Diario, l’ex direttore di Lotta Continua, Enrico Deaglio.
Appare dunque sempre più chiaro come le attuali dirigenze «di sinistra» non abbiano più nulla a che fare con le istanze delle masse lavoratrici, né con la grande utopia marxista, né con la rivoluzione socialista, e ormai nemmeno con quello spirito genericamente solidaristico che sembrerebbe essere l’ultimo collante rimasto per aggregare consensi elettorali. Un falso mito che aiuta a non comprendere e non accettare quel che realmente avviene. Un mito – siccome l’autocritica è sempre virtù rara – che riesce ancora a far moda e forse esprime l’insopprimibile vocazione a rimanere nostalgicamente fedeli a un sogno giovanile, anche se ormai definitivamente evaporato.
Il cantautore Giorgio Gaber, uomo che scelse l’intelligenza e la libertà come pilastri della propria esistenza e della propria produzione artistica, anche quando scomodi e controproducenti per il successo professionale, in una delle ultime canzoni ha scritto:
«La mia generazione ha visto migliaia di ragazzi pronti a tutto che stavano cercando
magari con un po’ di presunzione di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso».
In realtà, la sinistra in Italia è approdata al totale ribaltamento delle posizioni politiche, economiche e sociali che perseguiva all’inizio. Esattamente come quel certo neo-fascismo che, partito per rappresentare i valori e le proposte politiche dei combattenti della Repubblica Sociale, si è trovato ad abbracciare posizioni conservatrici, filo capitalistiche, filo americane, fino a recarsi ripetutamente aTei Aviv, col capo coperto di cenere… e di kippah, accattonando assurde legittimazioni e innaturali benedizioni.
Ma, pur non potendo in alcun modo giustificare involuzioni di tal genere, si possono almeno ricostruire le tappe storiche e le condizioni ambientali che hanno accompagnato percorsi così insensati e contraddittori.
I fascismi avevano perduto la guerra e conseguentemente il potere all’interno delle nazioni sconfitte; i loro migliori esponenti erano morti in battaglia o per mano partigiana. I sopravvissuti, sbandati, senza chiari punti di riferimento, hanno vissuto una diaspora durata decenni e costellata di pesanti difficoltà pratiche e forti disagi psicologici.
Il neo-fascismo, quello coerente ed autentico – che è andato via via discostando si da quello parlamentare, sempre più manifestamente disposto ad abiure, anche sostanziali, pur di garantirsi un maquillage democratico e una operatività elettorale – ha vissuto un lungo e difficile periodo di «ritorno alle origini»sviluppatosi soprattutto con metodi da autodidatta, agglomerazioni elitarie, collocazioni metapolitiche; testimonianze ideologiche e culturali di enorme importanza, ma sempre molto lontane dai mezzi di comunicazione. Non è mai riuscito insomma a raggiungere la pubblica opinione e, quindi, spazi di consenso popolare. Un patrimonio di analisi, valori e proposte tenuto eroicamente in vita e – consapevolmente o no – lanciato oltre le trincee del tempo, per incontrare quelle future generazioni che saranno chiamate a vivere l’epoca dell’ineluttabile, devastante crisi del sistema mondialista.
Per il comunismo e i variegati movimenti di sinistra invece le cose sono andate molto diversamente. La guerra loro l’hanno vinta e sono rimasti al potere indisturbati in tutte le nazioni già sovietizzate prima del conflitto e, in più, hanno avuto a disposizione tutta quell’ enorme area che gli accordi di Yalta hanno condannato a sottostare al tallone dell’URSS.
Poi, dopo decenni di potere incontrastato, un bel giorno, all’improvviso, un gran botto e l’impero sovietico è imploso.
Non hanno avuto la giustificazione di una guerra persa, di una carestia, di una pestilenza, di un qualsiasi accidente estraneo alla propria responsabilità : hanno fatto tutto loro.
Le nazioni del blocco orientale si sono trasformate in nuovi mercati a disposizione del consumismo e della finanza internazionale; la gran madre di tutti i proletari del mondo evaporata, il paradiso comunista sparito, il muro di Berlino abbattuto; ed ora anche in Cina si respira aria di capitalismo.
D’improvviso un gran botto. E in tutto il mondo la gran massa di marxisti è rimasta col naso all’insù, in silenzio, lo sguardo attonito, stretto tra le mani l’ultimo brandello d’utopia, incapace di comprendere cause, significato e conseguenze di quel cataclisma.
E molti comunisti sono ancora così, nello stesso stato di stordimento e di inconsapevolezza. E sarebbe ora che qualcuno riuscisse a farli ragionare e spiegasse loro molte cose che sinora si sono rifiutati di capire o di accettare. Ad esempio la guerra fredda, che è stato un enorme bluff organizzato da USA ed URSS a danno di un’Europa spezzata in due; metà soggiogata dai cingoli dei carri armati sovietici e l’altra metà convinta che, senza la protezione atlantica, l’Armata Rossa avrebbe raggiunto Roma, Parigi e Madrid.
D’altronde, quella di far arrivare i sovietici al centro dell’Europa fu una precisa scelta politica anglo-americana fatta anche in contrasto con i comandi militari.
“Avremmo dovuto sbarcare nei Balcani. A quest’ora la Russia non sarebbe a Berlino».
Affermò il generale Mark W. Clark. Privilegiando l’obiettivo greco a quello italiano; sbarcando a Salonicco invece che in Sicilia e poi a Salerno e ad Anzio, a guerra finita, l’influenza sovietica non sarebbe arrivata in Jugoslavia e nelle altre nazioni balcaniche e sicuramente molte aree dell’Europa orientale sarebbero rimaste nella sfera occidentale. L’Armata Rossa si sarebbe dovuta fermare molto più ad Est.
I sovietici invece furono fatti arrivare sino al centro dell’Europa e, per consentire che la battaglia di Berlino fosse combattuta e vinta dai rossi, Patton fu trattenuto in Cecoslovacchia.
Da allora gli americani videro nel blocco sovietico più un complice da aiutare che un concorrente da combattere. Fuori dal chiasso della propaganda, gli USA hanno fatto di tutto perché in URSS la crisi economica non scoppiasse prima del dovuto. Le derrate di grano americano destinate ai porti sovietici non si fermarono neanche nei momenti più tesi della cosiddetta guerra fredda.
In effetti si è trattato di un teatrino organizzato ai nostri danni che gran parte della pubblica opinione, non solo di sinistra, ancora non è disposta a metabolizzare. L’autocritica, torniamo a ribadirlo, è sempre virtù rara. Una pantomima che ricorda quella organizzata da Totò in un film degli anni’ 50. Facendo finta di litigare con un «compare», il comico convinceva un turista americano a comprare la Fontana di Trevi. Più che l’evidenza della finzione valeva l’abilità degli attori e il folclore della messinscena. Nella realtà, per cinquant’anni, i «compari» USA e URSS, grazie all’effetto psicologico prodotto dalla guerra fredda, la fregatura l’hanno affibbiata a noi europei. I sovietici oggi non esistono più, ma gli americani, nonostante i sessant’ anni trascorsi, sono ancora qui con «armi e bagagli» e non mostrano nessuna intenzione di andarsene.
Giacché appare chiaro che il vincitore finale di tutti gli sconvolgimenti avvenuti nel mondo, dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, sia proprio quella concentrazione di poteri forti che chiamiamo mondialismo. Banche, grande finanza internazionale, i signori del denaro che, con il loro codazzo di camerieri sparso in tutto il mondo, hanno sotteso l’operare dell’Occidente e, più particolarmente, degli Stati Uniti d’America.
Questa constatazione risulta estremamente preziosa per offrire una nuova luce alla rilettura di quegli avvenimenti storici – bellici e post-bellici – che sinora ci erano stati presentati esclusivamente attraverso la lente deformante della propaganda dei vincitori. E l’apertura di sempre più numerosi archivi storici, e la maggiore disponibilità degli studiosi, grazie al lasso di tempo trascorso, a giudicare quel periodo con maggiore libertà, possono facilitare il compito di chi vuole affrontare questi argomenti con una certa obbiettività.
E molte questioni, sia pure con una gradualità a volte esasperante – causata dal fatto che la falsa informazione dei vincitori ha tutt’ altro che smesso di circolare e risulta anzi potenziata dai sempre più sofisticati sistemi di comunicazione mediatica – cominciano a prender nuova forma, a mettersi a fuoco, e mostrano di somigliare sempre più a quella «verità» affermata da quella coraggiosa pattuglia di storici – i revisionisti – che hanno pagato, e pagano tutt’ ora, il prezzo di pesanti persecuzioni personali per la loro scelta di libertà.
Nonostante rimangano ancora in vigore in molti paesi europei leggi speciali che pretendono di incanalare entro precisi paletti la ricerca storica e colpiscono penalmente chi invece ritiene la libertà di opinione e di espressione un inalienabile diritto dell’uomo, oggi, nonostante ciò, qualcosa di diverso si comincia a intravedere e qualcosa di più si riesce a comprendere.
È un po’ come in una mattina autunnale, quando piano piano si dirada la nebbia e prima appare un panorama indefinito, ovattato, poi, con sempre maggiore chiarezza, si scorgono le linee che definiscono le figure e infine i dettagli. Solo a questo punto ci si rende conto che prima il panorama lo si era solo immaginato, fidandosi dell’interessato racconto di altri e, soprattutto, lavorando molto di fantasia.
Numerosi dubbi stanno emergendo sul fatto che sia stata proprio la Germania a volere uno scontro mondiale. Se, ad esempio, Ciano non avesse sbandierato ai quattro venti la decisione di Mussolini di non partecipare al conflitto, Gran Bretagna e Francia, il 3 settembre 1939, avrebbero presentato la dichiarazione di guerra alla Germania? Se fossero stati convinti che le forze dell’ Asse, automaticamente – come stabilito nel Patto d’Acciaio – avrebbero fatto fronte comune, inglesi e francesi avrebbero mandato i propri soldati a come si diceva allora – «morire per Danzica» ?
E poi, a lasciare perplessi ci sono parecchie cifre e la corsa agli armamenti. La Germania disponeva di un quarto delle risorse – alimentari, energetiche e di materie prime – della Gran Bretagna, un quarto di quelle statunitensi, metà di quelle sovietiche.
Nel 1939 gli inglesi avevano 26 squadriglie aeree contro le cinque dell’anno precedente; una produzione di 3.000 aerei contro i 1.600 tedeschi destinata ad assegnare alla Gran Bretagna una superiorità in progressivo aumento; 15.000 aerei contro 7.000 nel ’40 e 20.000 contro 8.000 nel ’41. Gli effettivi di terra inglesi si incrementarono dal ’39 al ‘ 40 dell’ 80%, mentre quelli tedeschi solo del 25%. La leva obbligatoria è stata introdotta in Gran Bretagna nel 1939. Nello stesso periodo in Francia la leva è portata da un anno a diciotto mesi e poi a due anni.
Per ciò che riguarda il potenziale marittimo, la sproporzione risulta ancor più evidente e significativa: tra corazzate, portaerei, incrociatori e cacciatorpediniere, nel 1939 la Germania disponeva di 33 navi contro le 85 della Francia, le 270 dell’Inghilterra e le 270 degli USA.
Quando Hitler dette il via alla campagna contro l’Unione Sovietica, la Germania riuscì a mettere in campo 3.500 carri armati e 2.000 aerei. Ebbene, nel solo 1942, gli americani costruirono 45.000 carri armati e 60.000 aerei.
Tutta l’escalation bellicista messa in atto dagli Stati Uniti in direzione antitedesca ancor prima del ’39 – nonostante fino a tutto il ’41, si fossero ufficialmente dichiarati neutrali – sta a dimostrare quali fossero gli interessi che premevano verso un conflitto mondiale contro quell’Europa che si ostinava a proporre modelli socio-politici alternativi a quelli tipici delle demoplutocrazie e riconoscersi in valori di segno opposto a quelli già dominanti negli USA, del profitto e del consumismo.
Oggi che sul campo è rimasto un solo vincitore, è più agevole riconoscere il vero significato di quell’immane scontro: una scelta di campo, di valori, di concezioni della vita. Da una parte il denaro, la ricchezza, le banche, i battitori di moneta, dall’altra lo spirito più autentico dell’Europa, i contenuti delle sue millenarie civiltà e la libertà dei suoi popoli.
Lo avevano compreso con lucidità i capi dell’Italia e della Germania; lo avevano inteso numerosi esponenti delle emergenti classi dirigenti, come, per rimanere in Italia, i Giani, i Pallotta, i Ricci, i Mezzasoma, i Pavolini.
Lo aveva visto con estrema chiarezza, nella purezza della sua intuizione poetica, Ezra Pound:
«Contro natura
Ad Eleusi han portato puttane
Carogne crapulano
ospiti d’usura»
E da questa profonda consapevolezza derivò la sua netta scelta di campo che gli procurò pesantissime, inaudite conseguenze da parte dei nuovi barbari, delle «carogne» vittoriose. L’aver compreso e denunciato con passione e chiarezza ciò che non si doveva sapere gli costò assai caro.
Quello che molti ritengono sia stato il più grande poeta del XX secolo, fu rinchiuso in una gabbia di ferro nel campo di concentramento di Coltano, tra Pisa e Livorno, esposto al sole, al freddo, alla pioggia, di notte illuminato da fari accecanti; fu poi recluso per tredici anni negli USA, in un manicomio criminale, in una cella priva di finestre. In tutto il mondo continuavano ad essere pubblicate le sue opere e ad essergli conferiti premi letterari. La Corte Suprema statunitense fu bersagliata da ricorrenti appelli per la liberazione del poeta, provenienti sia dall’Europa che dalla stessa America, presentati dai più prestigiosi nomi del mondo culturale. L’ultimo aveva, tra i primi firmatari, Thomas S. Eliot, Robert Frost, Archibald MacLeish e Ernest Heminguay. Solo il 18 aprile del 1958 la Corte decise di dar fine a questo incancellabile crimine.
Grande lucidità dunque in Pound e profonda consapevolezza del suo periodo storico. Anche se i soldati che combattevano e i cittadini che vivevano quei tempi raramente, come spesso accade, avvertivano la portata globale e il significato autentico di quegli avvenimenti.
Anche se si cantava:
«Contro Giuda, contro l’oro
sarà il sangue a far la storia»
e ancora
«Europa insorgi! Sulle tue rovine
la Patria fonderemo proletaria,
Europa non sarai più tributaria
dell’ oro, ma del popolo fedeli»
i combattenti della Repubblica Sociale mettevano in gioco la propria vita soprattutto per l’onore, la coerenza, la fedeltà a una bandiera. Il peso della finanza internazionale non lo avevano ancora conosciuto direttamente. L’America era ancora lontana.
Molti ufficiali tedeschi sopravvissuti, che ho avuto occasione d’incontrare, alle mie domande circa il significato della Seconda Guerra Mondiale hanno parlato della questione dei Sudeti, di Danzica, della lotta al bolscevismo.
Ma l’aggressione mortale lanciata dalle forze mondialiste incombeva, pur se talvolta inconsciamente, su tutti. Ne troviamo ricorrente traccia, oltre che negli inni, nei libri, nei giornali, nelle trasmissioni radiofoniche, negli studi universitari e nei manifesti di Gino Boccasile.
Oggi, dopo il crollo del muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico, i dubbi su quale fosse stato l’autentico motore scatenante il secondo conflitto mondiale si sono moltiplicati.
Inoltre, anche se le forze dell’ Asse erano impreparate a una guerra di così ampia portata, malgrado lo squilibrio delle risorse e dei mezzi, l’esito finale degli eventi risultò, quasi sino alla fine, estremamente incerto. Nonostante l’opera distruttrice dei bombardamenti anglo-americani – 2.615.000 tonnellate di esplosivo scaricate sulle città europee – non è sul piano della capacità di resistenza dei nostri popoli che la guerra si è persa.
Al contrario della potenza delle incursioni terroristiche operate dal cielo, le azioni di terra mostrarono nelle truppe anglo-americane goffaggine, scarso valore, tendenza all’insubordinazion e. Ben diversamente dalla rappresentazione che ne è stata fatta dall’industria di Hollywood, gli «alleati» non hanno certo vinto per merito dei propri soldati. E la storia ha continuato a ripetersi anche nei decenni successivi: quando si è passati dai bombardamenti alle azioni di terra sono stati sempre guai: in Vietnam, in Afghanistan, in Iraq.
Brucia ancora ai britannici la resa, a Singapore, di 138.000 loro soldati ai pochi contingenti nipponici del generale Yamashita nel febbraio del 1942. Churchill parlò, senza mezzi termini, di «scandalo militare». E che dire, pochi mesi dopo, dei 35.000 inglesi che si consegnarono, a Tobruk, nelle mani di Rommel ?
Ovviamente nessun film ha celebrato l’ammutinamento dei tremila soldati britannici che a Salerno si rifiutarono di proseguire la salita dell’Italia contro i tedeschi; riuniti sulla spiaggia, seduti sulla sabbia, presero a sassate gli ufficiali che volevano convincerli a rientrare nei ranghi.
Quando gli americani, all’alba del 22 gennaio 1944, approdarono ad Anzio, si trovarono di fronte uno schieramento di forze dell’ Asse più debole del previsto; Kesselring, che aveva a disposizione sei divisioni e quattro battaglioni di fanteria, era convinto che lo sbarco sarebbe avvenuto a Livorno e aveva spostato il grosso verso Nord. La Repubblica Sociale si era costituita da poco più di tre mesi e in fatto di truppe addestrate non poteva certo dare un gran contributo.
I numeri sono quindi a favore degli americani in un rapporto di tre a uno e il potenziale di fuoco in un rapporto di dieci a uno. Ora, per percorrere la cinquantina di chilometri che conducono da Anzio a Roma la quinta Armata americana del generale Clark ci mise più di quattro mesi, subendo perdite quantificate in 52.130 uomini.
Nel dicembre del 1944 le divisioni tedesche, ormai costituite solo da ragazzi diciassettenni della Hitlerjugend, attaccarono gli americani sul fronte delle Ardenne. Si respirava già aria di «guerra finita» e non era nemmeno più il caso di parlare di rapporto di forze. Ebbene, 9.000 uomini della 106” Divisione statunitense si arresero in blocco e, in pochi giorni, tra gli americani si contarono 16.000 caduti e 100.000 tra prigionieri e disertori; in 25.000 si procurarono ferite per non proseguire il combattimento. E questi sono solo flash scattati a caso tra i mille analoghi che si potrebbero ricordare.
No, non si può certo affermare che l’esito della guerra fosse scontato grazie al valore degli eserciti anglo-americani. E nemmeno si può parlare di un divario scientifico e tecnologico svantaggioso per il nostro continente, giacché, nonostante la sproporzione dei mezzi, in Italia e Germania si correva molto più che in America. Si è saputo dopo quanto il tanto sbandierato progresso americano fosse solo il risultato del saccheggio di scienziati e tecnici perpetrato in Europa a fine guerra. Valga ricordare, tra tutti gli esempi, la conquista dello spazio e il ruolo di Wernher von Braun; il frenetico sviluppo delle telecomunicazioni e il ruolo avuto da Guglielmo Marconi e dalla nutrita schiera di fisici e ingegneri elettromagnetici che hanno operato in Italia nei primi decenni del XX secolo.
Non poteva ritenersi decisiva nemmeno la questione della bomba atomica. Innanzitutto perché le inutili carneficine di Hiroshima e Nagasaki furono effettuate a guerra finita – i giapponesi avevano chiesto già due volte di arrendersi e l’intendimento statunitense era stato solo quello di creare a proprio vantaggio un deterrente da sfruttare in tempo di pace. Poi perché la ricerca atomica anche questa – era nata in Europa e non in Texas.
Non era quindi ineluttabile che si arrivasse a realizzare quell’ ordigno nel deserto americano anziché nel Terzo Reich. E, infine, perché gli stessi scienziati che sono considerati i padri della bomba, fino agli esperimenti pratici finali, eseguiti nel deserto di Alamogordo in New Mexico, ignoravano il potenziale di quella esplosione e le sue conseguenze; quindi la possibilità di un suo efficace impiego militare.
L’aneddoto che segue è in questo senso molto eloquente, oltre a rappresentare un preoccupante esempio dell’estremo cinismo americano ed anche della mentalità di un certo tipo di scienziati.
Fermi ed Oppenheimer, mentre si preparava la prima esplosione, fecero il giro di tutti i presenti raccogliendo un dollaro a testa per scommettere sull’esito dell’esperimento. Le opzioni erano: fallimento completo; un botto equivalente a una bomba di trecento tonnellate di tritolo; un’esplosione molto maggiore, pari a diverse migliaia di tonnellate; la distruzione totale del New Mexico; quella di tutti gli Stati Uniti d’America; l’incendio totale dell’atmosfera della terra.
No, nemmeno la questione atomica può puntellare il mito dell’ineluttabilità dell’ esito finale.
Lo stesso Fermi, giunto negli Stati Uniti dall’Italia, era convinto che le forze dell’ Asse avrebbero potuto vincere. Molti altri ebrei in fuga dall’Europa, arrivati in America, si ribellarono alla prassi di prender loro le impronte digitali: «se vinceranno i tedeschi» affermavano «useranno queste impronte per rintracciarci e ucciderci tutti». Erano dunque convinti che la sconfitta degli angloamericani fosse tutt’altro che un’ipotesi peregrina.
* * *
Diversamente da quanto affermato nel dopoguerra, Mussolini e Hitler ricevettero numerose e significative attestazioni di stima da parte degli uomini di cultura e degli statisti di allora.
Lenin e Trotzki se la presero con i socialisti italiani, rei di avere espulso quel Benito Mussolini che, secondo loro, era l’unico uomo capace di realizzare una rivoluzione in Europa. Il mondo della cultura riservò al dittatore italiano consensi entusiasti: da Ungaretti a Soffici, Prezzolini, Pirandello, Pareto, Papini, Mascagni, per non parlare di D’Annunzio e Marinetti. Ed anche all’estero, come nei casi di Le Corbusier, Stravinskij e George Bernard Shaw. Al Duce del fascismo giunsero giudizi lusinghieri da ogni parte del mondo, compresi i futuri nemici Chamberlain e Churchill. Il Mahatma Gandhi definì Mussolini un «superuomo». Un Papa, Pio XI, lo chiamò «uomo della Provvidenza» e un altro, Pio XII, «il più grande uomo da me conosciuto».
Anche il Fuehrer del nazionalsocialismo ricevette significativi apprezzamenti dagli statisti a lui contemporanei; basti ricordare il presidente americano Herbert Hoover e, in Gran Bretagna, il monarca Edoardo VIII e il primo ministro David Lloyd George.
A distanza di tempo si può affermare che tra i grandi estimatori di Hitler ci fu anche il suo acerrimo e, come vedremo, decisivo antagonista: il capo dell’Unione Sovietica, Josif Stalin.
Ben lontano dal giudicare il Flihrer un visionario o un pazzo, lo temette più di qualsiasi altro avversario e, a guerra finita, tardò molto a credere che fosse veramente morto. Ordinò numerose inchieste tendenti a verificare i particolari del suicidio e per due mesi non consentì agli anglo-americani di visitare il cortile della Cancelleria, a Berlino, dove, nei pressi dell’uscita del bunker, erano stati cremati i corpi di Hitler e di Eva Braun.
Il capo dell’Unione Sovietica era affascinato dalla personalità di quell’uomo, al punto di volerne conoscere anche i tratti meno noti. Stalin, a tal fine, fece arrestare i due uomini che più di tutti negli ultimi anni erano vissuti a strettissimo contatto con il capo del Terzo Reich: Heinz Linge e Otto Gunsche. Linge era stato al servizio di Hitler dal 1939, prima come attendente, poi come capo del personale di servizio. Gunsche era stato negli ultimi due anni aiutante personale del Fuehrer.
Furono chiusi ognuno in una cella d’isolamento, piena di cimici, senza la possibilità di vedere anima viva. Investigatori interrogavano, tutti i giorni, i due prigionieri usando spesso le stesse domande poste in ordine diverso per indurli a cadere in contraddizione e controllare la veridicità delle risposte con il metodo del riscontro incrociato. E poi, Linge e Gunsche dovevano ricordare tutto ciò che avevano affermato nella giornata, e metterlo per iscritto.
Il giorno dopo si ricominciava daccapo. Questo trattamento durò quattro anni, durante i quali i due testimoni furono anche riportati a Berlino per rispondere alle stesse domande nei posti degli avvenimenti; per indicare nuovamente, a distanza di tempo, il luogo dove avevano bruciato i cadaveri di Hitler e Eva Braun. Linge in seguito disse di essere giunto alla disperazione e di avere avuto paura di superare il confine che porta alla follia.
Furono liberati nel 1955 insieme agli ultimi prigionieri di guerra detenuti nell’Unione Sovietica.
A conclusione di queste puntigliose e interminabili indagini si ebbe un dossier ampio, dettagliato che, redatto in 413 pagine, fu consegnato a Stalin il 29 dicembre 1949. Il dittatore lo lesse e rilesse con attenzione e lo collocò nel suo studio personale. Ancora oggi è conservato nell’ archivio del Presidente della Repubblica della Russia, dove non è accessibile ai ricercatori di altre nazioni.
Ma Nikita Chruscev ne aveva fatto fare una copia che fece collocare negli archivi del partito dove, confuso tra migliaia di altri documenti, è rimasto ignorato sino a poco tempo fa quando lo ha rintracciato lo storico Matthias Uhl. In Italia, tradotto da Andrea Casalegno, è stato pubblicato l’anno scorso dall’UTET.
Documento redatto con la evidente, condizionante preoccupazione di non risultare sgradito al committente – Stalin – si rivela ugualmente ricco di dettagli, sfumature, rivelazioni ambientali e personali, precisazioni sugli incontri dei vertici tedeschi, sulle decisioni strategiche, sul come fu vissuta la sconfitta, dalle prime avvisaglie alla tragica fine. Tutto materiale prezioso per chi svolge indagini storiche e vuole continuare a farlo all’insegna della libertà di ricerca, di opinione e di espressione.
* * *
Se non furono l’efficienza, le qualità e lo spirito degli eserciti anglo-americani a segnare la differenza e determinare l’esito del conflitto, sarà opportuno focalizzare il dove e il quando gli avvenimenti presero una direzione opposta a quella dell’inizio della guerra, che era stata decisamente favorevole alle forze dell’ Asse.
Qual è stato il fronte nel quale le armate del Reich sono state fermate e le previsioni di Hitler contraddette dai fatti? È ad Est che bisogna guardare, agli esiti dell’Operazione Barbarossa e, quindi, all’ Armata Rossa.
Ma l’esercito sovietico non era certo più valoroso, o meglio addestrato di quelli anglo-americani. Anzi, le testimonianze e le ricerche storiche sinora effettuate ci descrivono una massa di impreparati, di incapaci, di disperati più votati alla morte che al combattimento. Nel luglio 1941 il capo di stato maggiore Franz Halder scrisse: «I sovietici fanno avanzare i loro uomini in contrattacco, senza il minimo appoggio di artiglieria, anche in dodici ondate una dopo l’altra. Spesso sono reclute inesperte che si prendono fra loro sottobraccio e, con i moschetti ancora a tracolla, caricano le nostre mitragliatrici, spinti dal terrore dei commissari politici e dei loro ufficiali. La superiorità numerica è sempre stata la forza dell’URSS, e adesso il comando sovietico ci sta costringendo a massacrare quei poveracci che nulla fanno per evitare la morte».
Le cifre che, col passare degli anni e con l’accesso agli archivi, divengono sempre più precise, ci indicano un rapporto di caduti in battaglia impressionante: 8-10 soldati sovietici per ogni tedesco.
Quando la XX Armata del generale Andrej Vlassov viene bloccata ad ovest del Volchov, cominciano a scarseggiare viveri e rifornimenti. Succede di tutto; i soldati dimostrano di non possedere nessuna capacità di tenuta e, in breve, dilagano casi di cannibalismo, suicidi, diserzioni; a gruppi gettano le armi e si arrendono ai tedeschi. Lo stesso Vlassov, rimasto isolato, si nasconde in una fattoria, ma il contadino si affretta a denunziarne la presenza ai tedeschi; vestito di cenci, con voce flebile e sguardo terrorizzato, il generale è condotto di fronte al comandante della XVIII Armata tedesca, generale Lindemann.
E tutto ciò non avvenne solo per merito dei soldati tedeschi; anche in Finlandia si era verificata la stessa cosa: il rapporto dei morti tra sovietici e finlandesi è anche qui di 8 a 1. La prima campagna contro quella piccola nazione – novembre 1939, marzo 1940 – costò alla Russia, secondo le varie fonti, da 400.000 a un milione di uomini. La cifra più alta è quella fornita da Nikita Chruscev nelle sue memorie.
I soldati dell’esercito sovietico scappavano, venivano colpiti e cadevano come mosche; le Armate si disperdevano, si dissolvevano, eppure i tedeschi ne incontravano sempre di nuove, altre masse di soldati a sbarrar loro la strada. Nelle memorie di un ufficiale tedesco impiegato a nord di Mosca si legge: «L’offensiva nemica che avanzava sulla neve era formata da successive ondate di immensi reparti. Le nostre mitragliatrici sparavano senza sosta, al punto che non riuscivamo neppure a udire le nostre stesse voci. Davanti a noi, sulla neve, si stendeva uno scuro e macabro tappeto di morti e di moribondi, ma quelle masse di umanità continuavano ad avanzare, sempre più vicine, come se fossero inesauribili. Gli ultimi sovietici cadevano sotto i colpi delle nostre mitragliatrici solo quando erano a portata delle bombe a mano. Ma subito dopo, mentre i nostri mitraglieri cercavano di riprendere fiato, ecco in distanza qualcosa che si muoveva, una spessa linea scura sull’orizzonte. E tutto ricominciava» .
Il generale Ferdinand Schorner, comandante del Gruppo Armate Nord scrisse a Hitler: «I bolscevichi diventano più inetti giorno dopo giorno. I prigionieri catturati recentemente vanno dai ragazzi di quattordici anni ai vecchi. E la cosa più sbalorditiva è continuare a vedere avanzare queste animalesche orde di esseri umani».
Durante lo scontro tedesco-sovietico i russi ebbero perdite medie che si aggirano sui 25.000 uomini al giorno. In totale ne morirono undici milioni. Trenta milioni furono i feriti, i congelati e i mutilati: di questi, diciassette milioni furono rimessi in servizio e rimandati al fronte.
L’Armata Rossa fu distrutta cinque volte, e cinque volte ricostituita. Alla fine i sovietici mobilitati risultarono circa trentacinque milioni. Quando cominciò a scarseggiare l’elemento umano i soldati furono rimpiazzati con i feriti, con le donne, con le reclute asiatiche prive di ogni addestramento o qualità militari.
Ad ogni battaglia vinta cresceva l’ottimismo tra i vertici tedeschi. Scriveva Goebbels nel marzo 1943: «/ russi stanno già chiamando alle armi le classi 1926, il che prova che hanno subito perdite gravissime nel loro materiale umano» .
Ma poi, puntualmente, la doccia fredda: «Le divisioni sono sempre lì: ne distruggiamo una dozzina, ne compaiono altre dodici nuove» scrive nel suo diario di guerra il maggiore generale Franz Halder. L’Armata Rossa è come l’Idra dalle mille teste, più ne tagliano più ne ricrescono. «Abbiamo cominciato la guerra affrontando 200 divisioni nemiche, siamo già a 360».
Il 2 agosto 1942 il capo dell’Est dei servizi segreti dell’esercito tedesco, colonnello Gehlen, fece sapere che nel solo mese di luglio Stalin aveva messo in campo 54 nuove divisioni di fanteria e 56 nuove divisioni corazzate.
Anche in Hitler lo stupore cresceva col passare dei mesi: «Dove prendono questa forza i russi? Secondo i miei calcoli dovrebbero essere senza fiato da un pezzo. Non lo capisco», affermò nel febbraio del 1943. Ciò nonostante era a conoscenza delle perdite sovietiche – in un documento nemico intercettato si quantificavano in 11.200.000 tra morti, dispersi e feriti – e la logica lo induceva a credere che questo ricreare armate che puntualmente venivano distrutte, prima o poi dovesse finire. «Non dobbiamo pensare che questo esercito sovietico sia una specie di gigante medioevale che diventa più forte ogni volta che cade a terra. Un giorno anche la sua forza finirà».
Ma, alla mancanza di qualità, addestramento, eroismo, faceva da contrappeso il terrore che Stalin incuteva e che, attraverso la fitta rete di commissari politici, teneva vivo e costante in ogni settore della vita civile e presso ogni reparto dell’ Armata Rossa. Un terrore presente anche a livello di vertice. L’assistente militare di Churchill, generale Ismay, che si recò a Mosca nel 1941, riferì che «quando Stalin entrava nella stanza tutti i russi si irrigidivano in silenzio e lo sguardo di belve braccate negli occhi dei generali dimostrava fin troppo chiaramente il terrore costante in cui vivevano. Era una cosa nauseante vedere degli uomini valorosi ridotti in un tale stato di asservimento» .
Per i soldati, l’essersi arresi ai tedeschi voleva dire automaticamente esser segnati sul libro nero. I reduci dai campi di prigionia erano sospettati di tradimento: alcuni venivano rimandati al fronte nei Strafnoi batal’ on, i battaglioni di punizione dell’ Armata Rossa cui erano affidate le missioni suicide; il grosso finì fucilato, altri furono mandati nei Gulag. Chi sopravvisse a quell’ inferno fu liberato solo dopo la morte di Stalin.
Accusati di non aver svolto attività partigiane durante l’occupazione tedesca, furono falcidiate intere popolazioni di caucasici, uzbeki, bielorussi, baltici, estoni, lituani, russi e ucraini. Questi ultimi, già nel biennio 1932-33, avevano subito dai bolscevichi un genocidio di sette milioni di persone e la deportazione in campo di concentramento di altri due milioni.
Il numero delle vittime delle purghe staliniane raggiunse cifre da capogiro; molte ricerche storiche sono arrivate a contarne fino a trenta milioni. Durante la conferenza di Yalta, Stalin si vantò con Churchill di aver fatto uccidere, solo tra i contadini, oltre dieci milioni di esseri umani.
Per terrorizzare le popolazioni coinvolte direttamente nella guerra, Stalin nell’àmbito della politica della terra bruciata – escogitò anche uno stratagemma di rara ferocia: costituì dei gruppi speciali che, travestiti da tedeschi, andavano a mettere a ferro e fuoco paesi vicini al fronte; le popolazioni venivano trucidate; si lasciava in vita solo qualche individuo perché facesse da testimone e propagandasse l’odio per il tedesco occupante.
Questo ordine di Stalin, sinora poco noto, che pubblichiamo integralmente nella pagina accanto, è stato rintracciato nell’archivio nazionale di Washington.
I civili poi, in generale, pagarono il clima bellico con privazioni di ogni tipo. Vi furono in molte zone casi di cannibalismo; particolarmente si ricordano quelli di Leningrado, durante l’assedio. Nel mercato di Kujbysev si vendeva carne umana, facendola passare per carne di maiale macinata.
Tra morti in guerra, morti per fame, vittime delle purghe staliniane, le conseguenze per il popolo russo furono devastanti. Circa 38 milioni è stata la sottrazione demografica accorsa alle nazioni dell’URSS, una cifra pari a quella dell’intera popolazione francese all’epoca di Napoleone III ed equivalente al 22% della popolazione sovietica del 1940.
Nei conteggi degli storici spesso si è arrivati anche a cifre più elevate. Franco Bandini, nel suo ultimo libro – pubblicato postumo nel 2005 – probabilmente grazie alla possibilità che ebbe di attingere a dati più completi e aggiornati, arriva a scrivere di un «buco reale di circa 60 milioni di russi».
La decimazione fu ovviamente, a netta prevalenza, maschile. Tra i russi, a guerra finita, si ebbe un disavanzo tra donne e uomini come non si è avuto, nella storia recente, in nessun popolo. Nel 1959 si registrava ancora un esubero di 21 milioni di donne rispetto al numero degli uomini. E questo procurò non poche conseguenze: dall’importazione di popolazioni maschili dell’Est al ripetuto tentativo di legalizzare la bigamia. Per molti aspetti la femminizzazione della popolazione russa si è cronicizzata e ha provocato profonde mutazioni nel costume e nella morale popolare.
Lo scrittore Fedor Abramov pubblicò nel 1968 un racconto nel quale riferì,piuttosto fedelmente, la storia di un villaggio del nord della Russia, lungo il fiume Pinega. Una storia simile a quella degli innumerevoli altri villaggi sparsi a nord, est e ovest di Mosca.
Durante la guerra la campagna si svuotò di uomini, dato che l’Armata Rossa era costituita soprattutto di contadini, e la mano d’opera fu sostituita con quella delle donne, dei vecchi, degli adolescenti e dei bambini. Vivere in quel posto divenne molto duro. Si mangiava di meno, ci si ammalava più spesso, sovente si moriva. La speranza era quella che, a guerra finita, le cose potessero tornare come prima. Ebbene, da quel villaggio erano partiti un centinaio di uomini: ne tornarono tre; uno mutilato, uno debilitato da una lunga prigionia e solo uno in salute.
* * *
Nelle memorie del maresciallo dell’Unione Sovietica V. D. Sokolovskij, il capitolo dedicato alla conquista della capitale del Terzo Reich comincia così: «Vincendo la tenace resistenza delle truppe tedesche, il primo fronte bielorusso avanzava verso Berlino».
Sino alla fine, dunque, la caratteristica dello scontro russo-tedesco rimane immutata. Un dispiegamento di uomini e mezzi impressionante contro un numero di soldati molto inferiore, ma ben addestrati, valorosi e determinati. Anche quando, giunti al ripiegamento totale, con scarsità di mezzi e senza più prospettive di vittoria, le potenzialità dell’esercito tedesco avrebbero dovuto essere ancor più ridotte.
Contro Berlino i sovietici si muovono con 20 armate, 150 divisioni 2.500.000 uomini (le fonti sovietiche riportano addirittura la cifra di 3.500.000) – più di 50 mila cannoni e mortai, 8.000 carri armati e pezzi d’artiglieria semoventi corredati di 7 milioni di granate, oltre 4 armate aeree: 8.400 apparecchi.
Berlino, città martoriata di giorno e di notte dai bombardamenti aerei – il centro era distrutto dal 50 al 75% – era irriconoscibile; molte strade erano sparite. Ci si muoveva lungo stretti camminamenti ricavati tra le montagne di macerie. Delle case rimanevano spezzoni, scheletri di muri sinistramente illuminati dagli incendi che divampavano senza sosta. Una colonna di fumo, densa, scura, enorme, si ergeva sopra la città, ondeggiando come un lugubre drappo visibile ad oltre cento chilometri di distanza.
Berlino era difesa da 300.000 uomini di cui solo 90.000 all’interno della città. Molti di costoro erano ultrasettantenni o giovani tra i 12 e i 15 anni. La popolazione si era ridotta a 2.700.000 abitanti, di cui 2.000.000 donne.
Nonostante tutto, incredibilmente, era ancora una città viva: funzionavano i mezzi pubblici, la metropolitana, la posta, la nettezza urbana, erano aperti cinema, teatri e ristoranti. I giornali uscivano, il 65% delle imprese funzionavano e 600.000 berlinesi andavano al lavoro ogni mattina. Nelle officine di Spandau uno dei dodici quartieri di Berlino – si fabbricavano a pieno ritmo granate e munizioni. La Siemens di Siemensstadt continuava a produrre materiale elettrico; nelle fabbriche di Marienfelde, da Weissensee ed Erkner uscivano ancora grandi quantità di cuscinetti a sfere e macchine utensili; la Rheinmetall- Borsig di Tegel fabbricava bocche da fuoco e affusti di cannone; carri armati, autocarri e semoventi uscivano dalle catene di montaggio di Alkett e Ruhleben.
Il 16 aprile 1945 si scatenò l’offensiva finale. Il generale Konev spingeva da sud; il generale Zukov da nord-est: come un «leone inferocito» – così lo definì il generale Popiel- urlò agli ufficiali e a quei soldati che gli stavano più vicino: «Prendete Berlino!».
Ma, nonostante la macroscopica differenza di mezzi, di uomini e di munizioni, l’avanzata dei russi stenta a procedere. Ci vogliono due interi giorni d’inferno, d’ininterrotta pioggia di granate e proiettili, di fiumi di fuoco, per riuscire a forare le prime due linee di resistenza tedesca fuori Berlino.
«Siamo bloccati!» esclamò il generale Ivan Yushchuk al colonnello generale Mikhail Katukov, comandante della prima armata corazzata che, rivolto ai propri ufficiali si sfogò: «Questi diavoli di hitleriani! Non ho mai visto una resistenza simile in tutta la guerra».
Lo storico sovietico A. Jerusalimskij nel suo diario di guerra, il 26 aprile, dopo dieci giorni di offensiva, scrisse: «Le truppe tedesche continuano a resistere furiosamente» .
Goebbels, nel suo ultimo messaggio ai berlinesi e ai soldati posti alla difesa della capitale, trasmesso attraverso l’organo ufficiale del partito – Volkischer Beobachter – incitava: «Stringete i denti! Combattete come diavoli! Non cedete un palmo di terreno! L’ora decisiva esige l’ultimo e più grande sforzo!».
I tedeschi ubbidirono. Nonostante la guerra fosse palesemente arrivata a conclusione, nonostante la vita nelle ultime settimane si fosse svolta all’insegna delle più pesanti privazioni, nonostante la distruzione delle case, nonostante lo sconforto, i tedeschi ubbidirono.
Il rapporto di perdite sovietiche per ogni combattente germanico caduto a Berlino fu ancor più pesante di quello riscontrato nel corso dell’Operazione Barbarossa.
I difensori della capitale – molti i volontari giunti da tutta Europa – prendono velocemente dimestichezza con i lanciarazzi controcarro Panzer-faust; i carri armati che tentano di affacciarsi sulla Kurfurstendamm sono colpiti e vanno in mille pezzi. L’Alexanderplatz per diversi giorni continua ad essere imprendibile. Ad Hallensee cinque carri T-34 vengono distrutti da ragazzi in pantaloni corti, che poi vanno al contrattacco riconquistando il quartiere, casa dopo casa, piano dopo piano, stanza dopo stanza.
Ovunque ci sono focolai di resistenza. Lo Hochbunker, la torre di difesa antiaerea dello Zoo, rimane inespugnabile sino alla fine. Un soldato che vi si era rifugiato poi riferì: «Avevo tre anni di fronte sul groppone, tuttavia rimasi terrorizzato dal rimbombo dei pezzi da 88 nella cassa di risonanza del cemento armato. I civili invece non battevano ciglio».
Due milioni e mezzo, e forse più, di uomini armati fino ai denti, per entrare in una città distrutta e difesa da 90.000 combattenti: furono obbligati a procedere passo passo e impiegarono due lunghe settimane. La bandiera rossa fu issata sul Reichstag solo la notte del 10 maggio. Hitler si uccise nel bunker della Cancelleria il 30 aprile. Ciò nonostante, i berlinesi continuarono a combattere per altri due giorni.
Diverse città resisterono ancora più a lungo. I russi riuscirono a entrare a Breslavia solo il 6 maggio, lasciando sul terreno, tra morti e feriti, 60.000 loro soldati.
L’Armata Rossa pagò per l’operazione Berlino un prezzo enorme. Le truppe che entrarono nella capitale tedesca avevano lasciato alle proprie spalle perdite che sono state complessivamente quantificate nella cifra di 304.887 uomini.
Il maresciallo Zukov aveva aizzato i propri uomini a scatenare ogni istinto violento: «Soldato sovietico vendicati! Comportati in modo tale che non soltanto i tedeschi di oggi, ma i loro lontani discendenti tremino ricordandosi di te. Tutto ciò che appartiene al sottouomo germanico è tuo. Soldato sovietico, chiudi il tuo cuore a ogni pietà».
E i rossi si scatenarono: solo dentro Berlino 100.000 donne furono violentate; 10.000 fino alla morte. I berlinesi furono aggrediti, derubati, uccisi; 6.400 sono risultati i suicidi per disperazione.
A guerra finita, quando le popolazioni non ebbero più uomini in armi a difenderle, i popoli vinti subirono massacri e violenze senza precedenti.
Tre milioni furono i morti, prevalentemente donne, vecchi e bambini – il triplo di quelli che erano stati uccisi dai bombardamenti anglo-americani – nelle popolazioni costrette all’esodo dalle regioni orientali dopo l’8 maggio 1945. Un esodo di 16.500.000 tedeschi; una cifra equivalente a quella degli abitanti di Norvegia, Svezia e Finlandia messi assieme.
La sorte dei soldati tedeschi sopravvissuti alla guerra non fu migliore. In 3.242.000 morirono nei campi di concentramento; due milioni in quelli sovietici, un milione in quelli americani, 242.000 in quelli francesi, jugoslavi, polacchi e cechi.
Otto milioni di persone abbandonarono le loro case in Prussia, Pomeriana e Slesia per fuggire dall’ Armata Rossa e rifugiarsi nei territori occupati dalle truppe anglo-americane.
Il terrore suscitato nelle popolazioni civili dai soldati sovietici era ben motivato. Ovunque erano passati avevano lasciato il segno: devastazioni, fucilazioni in massa e, sempre, stupri di ogni tipo. Complessivamente due milioni di donne tedesche furono violentate, di cui più della metà in gruppo. Un dirigente sovietico si vantò che in Germania, a guerra finita, erano nati quasi due milioni di bambini figli degli stupratori.
Esistono innumerevoli raccapriccianti testimonianze: un’ amica di Ursula von Kardorff, la spia sovietica Schulze-Boysen, «venne violentata da 23 soldati», uno dopo l’altro, e all’ospedale dovettero applicarle punti di sutura.
«l nostri ragazzi erano così affamati di sesso che spesso violentarono donne di sessanta, settanta e addirittura di ottant’anni».
«Sembrava che i soldati sovietici avessero bisogno di farsi coraggio con l’alcool per aggredire una donna. Ma poi, fin troppo spesso, eccedevano nel bere e, nell ‘incapacità di raggiungere l’orgasmo si servivano della bottiglia, con risultati spaventosi. Numerose vittime venivano mutilate in modo osceno».
«I soldati dell’Armata Rossa non credono ai legami individuali con le donne tedesche» scrisse il giornalista Zachar Agranenko nel suo diario «nove, dieci, dodici uomini alla volta, le violentano su base collettiva».
A Dahlem, suor Kunigunde, madre superiora di una clinica per la maternità e di un orfanotrofio, riferì che «all’arrivo dei sovietici, suore, ragazze, vecchie, donne incinte e madri che avevano appena partorito furono tutte violentate senza pietà». Ma c’era anche chi non si accontentava di «pescare nel mucchio», come era avvenuto nella Prussia orientale: i soldati dell’ Armata Rossa si aggirarono a lungo nei rifugi di Berlino, armati di torce elettriche, per scegliere le loro prede.
Il corrispondente di guerra Vasilij Grossman riportò che: «l’orrore domina negli occhi delle donne e delle ragazze. Cose terribili stanno succedendo alle donne tedesche. Un tedesco istruito spiega con gesti espressivi e poche parole di russo che sua moglie quel giorno è stata violentata da dieci uomini […] anche le ragazze sovietiche che sono state liberate dai campi soffrono molto. La scorsa notte alcune si sono nascoste nella stanza assegnata ai corrispondenti di guerra. Nella notte siamo stati ridestati da forti urla. Uno dei corrispondenti non aveva saputo trattenersi». E ancora: «una giovane madre tedesca veniva violentata di continuo in un capannone di una fattoria. I parenti andarono al capannone e chiesero ai soldati di lasciarle il tempo di allattare il bambino, perché non smetteva di piangere. Tutto questo succedeva nelle vicinanze di un comando e sotto gli occhi degli ufficiali».
E, dunque, non solo le tedesche furono vittime della brutalità dell’ esercito di Stalin: in Polonia i soldati sovietici violentarono, dopo averle «liberate» dai campi di lavoro tedeschi, donne e ragazze ucraine, russe e bielorusse, anche di 16, 15 e 14 anni. La testimonianza di una di loro, tal Maria Sapoval: «Ho atteso per giorni e notti l’Armata Rossa. Ho atteso la mia liberazione e ora i nostri soldati ci trattano peggio di quanto facessero i tedeschi. Non sono contenta di essere viva». Lasciò scritto Klaudia Malascenko: «È stato molto duro stare sotto i tedeschi, ma ora qui non c’è felicità. Questa non è una liberazione. Ci trattano in modo terribile. Ci fanno cose terribili».
Milovan Djilas, che era stato il capo della missione militare jugoslava a Mosca, in una sua famosa intervista a Stalin si lamentò per gli stupri e le atrocità commesse dai soldati dell’ Armata Rossa nei Balcani. Il dittatore rispose: «Lei non riesce a capire che un soldato che ha fatto migliaia di chilometri fra il sangue e il fuoco possa divertirsi con una donna o fare qualche altra sciocchezza?» .
Peraltro, barbarie di questo tipo non furono appannaggio esclusivo delle armate sovietiche. Soldati americani dal 1942 al 1945 si dilettarono in questo «sport» oltre che in Germania, in Giappone, in Francia e addirittura nel territorio della loro alleata Inghilterra.
Ovviamente le indagini storiche su questi avvenimenti sono state sabotate in ogni modo, quindi i dati numerici che si possono documentare sono solo parziali e limitati ai casi nei quali le vittime si sono rivolte ad autorità di polizia, per denunciare l’accaduto, o sono state ricoverate in ospedali per ricevere le cure necessarie. Ebbene, in Occidente, si arriva già alla considerevole cifra di 17.080 casi di stupri, tra singoli e di gruppo, di cui 11.040 in Germania, 3.620 in Francia e 2.420 in Gran Bretagna.
Peraltro noi, nell’Italia del centro-sud, fummo vittime delle barbare azioni delle truppe marocchine al seguito dell’esercito francese.
Anche qui le autorità militari occupanti hanno impedito ogni accertamento e ogni precisa quantificazione. Ciò nonostante recenti studi storici sono riusciti a mettere a fuoco molti di questi avvenimenti, offrendocene un triste resoconto. Ci riferisce Tommaso Baris nel suo recente «Tra due fuochi»: «Per circa due settimane, dal 15 maggio all’inizio di giugno, le truppe francesi si abbandonarono a una serie impressionante di saccheggi, omicidi e stupri in tutti i paesi conquistati, soprattutto contro gruppi ristretti di persone o individui isolati, finché non fu ordinato loro di arrestare la marcia a Val Montone».
Una nota del 25 giugno del 1944 del Comando generale dell’ Arma dei carabinieri dell’Italia liberata alla Presidenza del Consiglio segnalava nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno), 418 violenze sessuali, di cui tre su uomini, 29 omicidi, 517 furti compiuti da soldati marocchini, i quali «infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzando le. Numerosissime donne, ragazze e bambine […] vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate ed incendiate.»
Ad Esperia, altro paese del centro Italia teatro delle scorribande di quella soldataglia, ci riferisce ancora Baris: «furono violentati anche gli uomini, lo stesso parroco e molte donne anziane». Il medico condotto del paese riferì di oltre 700 casi di stupro.
Migliaia e migliaia furono le donne «marocchinate» in Italia. Fecero il giro del mondo la canzone napoletana che raccontava la nascita di Ciro, un bambino «niru, niru» e il film di Vittorio De Sica, con Sofia Loren, «La Ciociara».
Ovunque, insomma, queste nazioni di «liberatori», i cui rappresentanti a Norimberga non esitarono a sedersi sul banco dei giudici, si macchiarono di ignominia e barbarie.
* * *
In conclusione, è legittimo porsi una domanda: se all’inizio degli anni Quaranta, al posto del regime sovietico in Russia ci fosse stato qualcos’ altro, un sistema politico più morbido, tollerante e pluralista; se al posto di Stalin ci fosse stato un normale presidente della repubblica o un monarca, o anche un dittatore, ma con meno «pelo sullo stomaco», non disposto cioè a mandare al macello a cuor leggero milioni di soldati e a fucilarne altrettanti, per essere sicuro di essere ubbidito, le cose come sarebbero andate a finire?
E, senza Stalin e i suoi sistemi, se l’Operazione Barbarossa non fosse stata fermata, i combattimenti nei vari fronti – a nord, in Africa, nei Balcani – che piega avrebbero preso, e quale sarebbe stato l’atteggiamento degli Stati Uniti; quale il loro impegno militare, quale la loro partecipazione nei vari teatri di guerra?
Insomma, la Seconda Guerra Mondiale come sarebbe finita? Con una pace contrattata, o addirittura con il prevalere delle forze dell’ Asse?
Sicuramente si sarebbe giunti ad un assetto internazionale profondamente diverso da quello stabilito a Yalta e il ruolo dell’alta finanza e dei centri di potere mondialisti che la sottendono oggi non sarebbe quello di dominio planetario. Perché, dopo 60 anni, il volto del vincitore finale di tutti gli scontri del XX secolo si è svelato senza possibili equivoci: è proprio quello del mondialismo usurario. Un potere che va al di là del proprio attuale santuario, gli Stati Uniti d’America, giacché quando questo non fosse più funzionale ai propri disegni di prevaricazione globale – se ne è già avuta qualche piccola avvisaglia – non esiterebbe ad abbandonarlo per far vela verso lidi più propizi.
Il dollaro potrebbe essere sostituito da altra moneta o da una nuova forma di moneta; l’ «onore» di svolgere la funzione di braccio armato del mondialismo potrebbe toccare a un’altra nazione o ad una nuova formula di esercito, espressione di coalizioni controllate da un potere internazionale.
Ha vinto il mondialismo. Ad opporsi a questo potere globale è rimasto qualche paese arabo, quelli che ci vengono presentati come «canaglie» e verso i quali USA e Sionisti continuano ad aizzare tutte le altre nazioni; qualche paese latino-americano reso inoffensivo dalla costante minaccia di un colpo di stato organizzato dalla CIA o di uno sbarco di marines; qualche piccolo paese asiatico che si illude di disporre ancora di una impunità derivatagli da importanti protezioni internazionali; ma anche la Cina, ormai, ha dimostrato di essere disponibile a diventare mercato consumistico e terra per capitalisti e speculatori finanziari.
Ha vinto il mondialismo; a questo quindi sono serviti i milioni di morti europei, la distruzione delle nostre città, le persecuzioni, la perdita di sovranità delle nostre nazioni. A questo è servita la carneficina di 38 – o 60? – milioni di sovietici ordinata da Stalin, giacché l’URSS oggi non c’è più ed è ragionevole ritenere che senza questo immane massacro l’esito della Seconda Guerra Mondiale e tutta la storia successiva sarebbero stati molto differenti.
L’esercito dell’ Asse è stato battuto da quel poderoso muro di gomma che ha fermato l’Operazione Barbarossa. Un muro fatto di un numero infinito di corpi umani, di disperazione e di terrore; un muro che poteva essere realizzato solo da un regime come quello comunista e da un dittatore sanguinario come Josif Stalin.
Anche se può apparire paradossale, quindi, l’apporto determinante al dominio mondiale del capitalismo e dell’usurocrazia è stato fornito proprio da quelle masse che si erano poste dietro le bandiere rosse in nome di una rivoluzione proletaria, socialista e anticapitalista e dai regimi che erano sorti grazie alla loro spinta.
I giganti della finanza internazionale, i paperoni che decidono il destino di interi popoli spostando moneta virtuale, o creandone dal nulla quantità incontrollate, gli intoccabili nuovi padroni del mondo poggiano i loro piedi sui liquami sanguino lenti lasciati dallo stalinismo così come dagli stermini operati da tutti i loro eserciti e da tutti i loro bombardieri.
Un fiume di sangue che non si è più fermato: che ha riempito le città dell’America latina e le foreste dell’lndocina, le savane africane, e poi la Palestina, il Libano, i Balcani, l’Afghanistan, l’Iraq; ovunque ci fosse un anelito di libertà da reprimere.
Sfoggiando un’ ineffabile ipocrisia, la fantasiosa propaganda mondialista continua incessantemente, nonostante siano passati oltre sei decenni, a presentare i vinti come il «male assoluto», il demone, l’origine di ogni sopruso e sopraffazione. Il resto – cioè le violenze perpetrate dal variopinto mondo dei vincitori – deve essere metabolizzato.
Si può cioè condannare Stalin, ma deve essere accettato per «buono» il giudizio da dare sull’assetto del mondo che è derivato dalla collaborazione con quel dittatore. Si può condannare Mao Tzetung – è proprio di queste settimane un serrato dibattito negli ambienti di sinistra su questi giudizi – ma la Cina dove si è appena recato Romano Prodi con il suo codazzo di speculatori e di capitalisti in cerca di affari e di favori, è il risultato storico della costruzione del «Grande Timoniere». Senza la sanguinosa repressione di piazza Tien An Men la Cina di oggi sarebbe un mondo assolutamente diverso. E, in ogni caso, in quella parte del mondo, i metodi repressivi non sono per nulla cambiati.
* * *
Nel 1937, mentre in Germania si nazionalizzava la Banca centrale e lo Stato, a nome del popolo, riacquistava la proprietà della moneta, nell’URSS, patria della rivoluzione proletaria, socialista e anticapitalista, la Gosbank, l’istituto di emissione sovietico, veniva privatizzata.
Tra i massimi realizzatori di questa – in verità ben poco propagandata riforma ci fu l’ebreo Armand Hammer – originariamente Heimann – nato in Russia nel 1898, ma cresciuto negli Stati Uniti dove il padre Julius si era trasferito e aveva fondato il Partito Comunista americano. Il nonno, un ricco costruttore di navi di Odessa, era noto per vantarsi di essere un diretto discendente dei Maccabei.
Armand Hammer entrò nel mondo degli affari grazie all’amicizia con Mortimer Schiff, figlio di Jacob Schiff, socio della Banca d’Affari Kuhn & Loeb (che oggi si chiama Shearson Lehman) e ritornò in Russia recando come cadeau per Lenin, un ingente quantitativo di grano. In seguito accumulò una fortuna grazie al contrabbando di alcool durante il Proibizionismo americano.
Divenuto per tutti il «miliardario rosso», Hammer divenne amico personale di Lenin, poi di Stalin e fino al 1989, anno in cui morì, di tutti i segretari del PCUS. Fu lui il giocoliere della finanza che convinse Stalin ad adeguarsi a tutte le altre banche di emissione del mondo mettendo nelle mani degli speculatori internazionali la proprietà e il controllo della moneta sovietica.
Questa vicenda, unita al determinante contributo che il regime stalinista ha dato all’esito del secondo conflitto mondiale, mette in evidenza la paradossale vocazione del comunismo e, via via sino ai nostri giorni, di ogni governo di sinistra, a favorire concretamente, nei fatti di ogni giorno, il dominio dei «poteri forti».
Entrando, insomma, in uno dei santuari del mondialismo, nella sede centrale di una grande Banca di emissione o d’affari, magari la Federal Reserve, se ci si imbattesse in un busto del «compagno» Josif Vissarionovic Stalin non sarebbe né anacronistico né disdicevole; anzi sarebbe giusto: un doveroso segno di riconoscenza per i benefici ricevuti.
Mario Consoli
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Ordine di Stalin, N. 0428 del 17 novembre 1941
La Stavka del Comando Supremo ordina quanto segue:
1. Tutti gli insediamentiin prossimità dei quali si trovano truppe tedesche e per una profondità variante da 40 a 60 chilometri dalla linea del fronte devono essere distrutti e dati alle fiamme. Lo stesso vale per quelli situati nella fascia di 20-30 chilometri delle direttrici dell’invasione nemica. Per la distruzione degli insediamenti nel raggio indicato deve utilizzarsi l’arma aerea, oltre che l’artiglieria ed i lanciagranate. Si devono altresì impiegare unità speciali esploranti, unità di sciatori e gruppi di partigiani, appositamente armati di ordigni incendiari.
I gruppi speciali devono condurre le azioni di annientamento indossando divise dell’esercito tedesco e delle Waffen-SS. Tale comportamento deve suscitare l’odio nei confronti degli occupanti fascisti e favorire il reclutamento di partigiani alle spalle dei fascisti. Bisogna fare particolare attenzione a risparmiare alcuni abitanti affinché, sopravvivendo, possano riferire e diffondere le notizie di atrocità commesse dai Tedeschi.
2. A tal fine in ogni reggimento saranno costituiti gruppi speciali di venti, massimo trenta, unità col compito di annientare e incel1diare gli insediamenti suddetti. Devono essere scelti combattenti che abbiano dato prova di coraggio. In particolare quelli che avranno agito con divise tedesche dietro le linee nemiche saranno proposti per una decorazione al valor militare.
Occorre diffondere nella popolazione la voce che i Tedeschi mettono a ferro e fuoco località e villaggi per punire i partigiani.
Archivio Nazionale di Washington, Stati Uniti
(Serie d’archivio 429, Sezione 461,Stato Maggiore dell’esercito, sezione Fremde Heere Ost Il, H 3/70 Fr 6439568)
da: J. Nolywaika – La Wehrmacht- Ritter, 2003
http://www.biopolit ica.it
http://www.dirittid elluomo.com
http://www.uomo- libero.com
“Il dominio di gente trista è dovuto unicamente alla viltà di chi si lascia soggiogare”
Plotino
“non esiste né Destra né Sinistra, ma solo il Sistema e chi è contro il Sistema”(Eduard Limonov)
“Imporre ad un popolo una religione che gli sia estranea è il modo migliore per fargli abbandonare, prima o poi, qualunque religione.
Il principale rimprovero che si possa fare al cristianesimo è aver creato le condizioni per l’ateismo.”
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