L’estinzione del pensiero 21.12.2009
GUIDO CERONETTI Da un fisico, Luigi Sertorio, viene – anche su questa superflua e nodale parata ecologica di Copenaghen – una luce. Se trovi un pensiero che vale férmati, ricordati che non sei un bruto!
Il libretto di Sertorio da cercare e da meditare, se si abbia qualche inclinazione a riflettere, s’intitola La Natura e le macchine, l’editore (SEB 27) non è certo tra i noti. L’autore è torinese e ha anche insegnato a Torino.
Ne stralcio qualche punto luminoso: «Da bambino, la notte, Torino era buia e guardavo dalla finestra le stelle e le Alpi lontane.
Ora dalla casa in collina guardo laggiù Torino tutta illuminata di lampadine, ci saranno molti megawatt di fotoni spediti nel cosmo, e non mi danno nessun senso di benessere». Quanto a me, mi domando a quale ingordo Moloch sacrifichino le città tanti inferociti megawatt e tanti torrenti di denaro per inondare di accecanti illuminazioni artificiali un flusso ormai quasi ininterrotto di partite notturne! Attenzione, quello spreco insensato di energia, non cessa di far male col fischio finale dell’arbitro: va a nutrire un oscuro cannibale che un giorno, ad un segnale, sgranocchierà i vostri figli. Come il minotauro di Creta e il lupo di Perrault – evocabili con profitto anche in un dopocena danese decembrino.
Il libretto è tutto aureo. Nella prefazione, Nanni Salio ricorda la profezia gandhiana: che se l’India (che allora contava trecento milioni: oggi, col Pakistan, tocca il miliardo e mezzo) si fosse industrializzata al modo dell’Occidente «avrebbe denudato il mondo come le locuste».
Conclude Sertorio (per forza ne limito le citazioni): «Ciò che scarseggia non è l’energia ma il pensiero, la futura vittima non è la Terra, ma è la mente umana, il consumo produce denaro, ma genera povertà (aggiungo: mentale) nelle nazioni». Sottolineo: la mente umana, con lacrime e rabbia. Nient’altro che pensiero atrofico o non-pensiero leggi nelle ceneri anche di questa eco-adunata mondiale. Ripiglio dall’India, tritagonista di questa scena tragica smisurata, insieme a Cina e America (le Americhe, bisogna dire: un unico personaggio policefalo). Ma la Russia, l’Europa, l’Iran, dove li metti? Tuttavia la demografia miliardaria è la più incosciente nel delirio industrialista, e ha uno specifico accecamento arrivistico – mostruosità psicologica che su scala di impero demografico (raggiungere-imitare-superare in potere-che-dà-potenza) oggi non culmina in traguardi stolti, ma in miserabile, scellerata distruttività del vivente, vicino e lontano, presente e futuro. La via dello Sviluppo è la via della morte.
Paradosso dei paradossi: la sovrapopolazione planetaria, che affligge gli enormi spazi del sud-est asiatico, Cina e India in testa, e anche gli Stati Uniti – le regioni più responsabili dell’Inquinamento – e che altresì affligge l’Africa e Gaza e il Cairo… neppure stavolta la si è vista nell’agenda dei lavori!! Magicamente rimossa…
Misteriosamente tenuta fuori… Perché manca il gradimento del Papa? Dei paesi islamici? Per paura dell’Insolubile? Ma se non osiamo confessare la nostra impotenza, allora perché stendere relazioni e fingere di avere a cuore un problema di essere o non essere, di vita e di morte? Perché incontrarsi e tenere discorsi su soluzioni possibili la cui caratteristica essenziale è l’impossibilità a coagularsi in una catena antincendio di severe e punibili concordanze?
Non ci sono percentuali in meno o in più che valgano. Esiste soltanto il convergere di tutte le strade verso la distruttività crescente, nella folle idea fissa del tempo lineare e della sua conseguente Crescita illimitata, col suo sterminio di risorse per contrastare le grandi povertà che vengono, le catastrofi finali che nessuna filosofia politica è in grado di fermare.
Perché la storia umana è iscritta in un ciclo sansarico, è parte di una ruota che la fa, nella luce e nell’ombra, ora essere ora non essere; perché nel Divenire in perpetuo qualsiasi vivere perde il suo stesso nome.
Come misura di Ragione Pratica puoi fare la raccolta differenziata e l’orticello biologico in Piazza Navona o alla Casa Bianca: una condotta etica è bene per chi la tenga – ma non commuoverà mai la maschera di pietra di quel che è predestinato, di quel che è, da sempre e per sempre, Destino.
E anche il Destino abbiamo visto tenuto fuori, malvisto cane sciolto, da questa conferenza di percentuali tristi e di egoismi irriducibili. Il clima out of joint può aiutare, per quanto cosa ahi molto dura, a capire. Può essere una freccia per andare, a occhi aperti almeno, incontro allo sguardo della testa inguardabile di Medusa.
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accordo, clima, Copenhagen di Alberto Zoratti
Un accordo di pochi che colpisce tutti
19/12/2009
Copenhagen, ultimo atto. Quello che ha chiuso il vertice non è un accordo, ma una truffa. Scritto in sedi ristrette, il testo finale non prevede impegni quantificati, dà pochi spiccioli e nasconde giochi poco chiari sui finanziamenti. Il pianeta può attendere
“Non è quello che tutti speravamo” ma “abbiamo un accordo che avrà comunque un effetto operativo”. Dev’essere persona ottimista, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, considerate le sue dichiarazioni davanti al non-accordo di Copenhagen. Per una persona che, come lui, diversi mesi fa s’è persino spostata alle Isole Svalbard, in pieno Oceano artico, per denunciare la realtà del cambiamento climatico, non dev’essere semplice arrampicarsi sugli specchi.
Perché questo non è un accordo. E’ una truffa. Deciso da pochi, in un incontro con tanti esclusi giusto la notte prima, e con molti esclusi a partire da quei Paesi africani e quegli Stati insulari che hanno chiesto interventi urgenti per evitare il disastro ambientale, che si trasformerà in disastro economico e sociale. Un gentleman agreement che ha visto la presa d’atto dei membri della Conferenza, ma non una sua approvazione visto che non c’e n’erano le condizioni, talmente tanti e diffusi erano i dissensi.
Sul testo conclusivo non esistono impegni quantificati di taglio da parte dei Paesi industrializzati, si continua a parlare di 2°C di aumento della temperatura media, senza tenere in considerazione gli appelli a diminuire questo “tetto” a 1,5°C, se non in una possibile ed eventuale revisione dell’accordo nel 2015.
Altro scandalo. I finanziamenti. Si parla di due tranche, una di breve medio termine, di 30 miliardi di dollari all’anno per il triennio 2010-2012 per sostenere interventi di mitigazione ed adattamento in Paesi terzi. Meno di un decimo di quello richiesto dai Paesi del G77 solo che alcuni giorni fa. Con la nascita di un nuovo gruppo di Paesi, quello dei Paesi in via di sviluppo più vulnerabili, di cui non se ne capisce quali siano i confini e le caratteristiche.
Negli stanziamenti di lungo termine, i Paesi industrializzati si impegnano a mobilizzare 100 miliardi di dollari nel 2020 provenienti dalle più disparate fonti: pubbliche, private e, perché no, di finanza creativa.
Secondo il coordinamento Climate Justice Now! però le cifre proposte nasconderebbero manipolazioni, visto che una parte delle risorse potrebbero provenire dalla riallocazione di stanziamenti per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (quindi soldi già esistenti e non nuovi), dai meccanismi di Carbon trading di cui abbiamo potuto osservare la relativa inefficacia nell’abbattere le emissioni di gas serra. E da crediti concessi sotto forma di prestito.
E i precedenti certamente non aiutano, se pensiamo al fondo su Aids, Tubercolosi e Malaria promosso nell’indimenticabile G8 del 2001 o gli impegni costantemente disattesi sul famoso ed irraggiungibile 0.7% di APS. Per non parlare degli Obiettivi del Millennio, oramai una favola.
A Copenhagen si è quindi consumato un brutto atto della commedia COP15, in cui si sono viste dinamiche molto più simili a quelle notate all’Organizzazione Mondiale del Commercio, come i gruppi informali di pochi che decidono a nome di tutti, che non in un ambito Nazioni Unite. O come i Paesi industrializzati che prendono impegni che puntualmente disattendono.
Nel momento in cui il non accordo veniva sostanzialmente sdoganato, il Congresso degli Stati Uniti approvava lo stanziamento di 626 miliardi di dollari per il Pentagono, 128 dei quali per finanziare le guerra ancora in atto, Iraq e Afghanistan e 2,5 miliardi per acquistare 10 nuovi Boeing C17 per il trasporto truppe, richiesti dal Pentagono.
* In diretta da Copenhagen www.faircoop.net/faircoop
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Un-accordo-di-pochi-che-colpisce-tutti
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Palestina: Dopo quello israeliano, arriva anche il Muro dell’Egitto 10.12.2009
Dopo aver subito la “barriera di sicurezza” costruita da Israele in Cisgiordania, presto i palestinesi dovranno fare i conti con un altro Muro.
Questa volta non si tratta di una struttura di cemento, ma di una barriera di acciaio super-resistente, che l’Egitto sta già costruendo lungo il confine meridionale della striscia di Gaza.
La notizia è stata diffusa oggi dalla Bbc, che cita funzionari anonimi dell’intelligence del Cairo.
Secondo questa fonte, la nuova infrastruttura è stata progettata con l’assistenza di ingegneri dell’esercito degli Stati Uniti. Il suo scopo è di porre fine al contrabbando di beni che ogni giorno avviene attraverso i tunnel illegali che uniscono l’Egitto al territorio palestinese per ovviare all’embargo imposto da Israele.
La parte del muro a nord dell’attraversamento di Rafah, lunga quattro chilometri, è già stata completata e a breve inizieranno i lavori a sud, che proseguiranno lungo il confine, sul tracciato di una recinzione già esistente.
Al termine dell’opera, tra un anno e mezzo, il muro si estenderà per oltre dieci chilometri di lunghezza e penetrerà sotto terra per 18 metri.
Sempre secondo le indiscrezioni apprese dal network britannico, la barriera è fatta di acciaio super-resistente. I blocchi, di fabbricazione statunitense, vengono assemblati sul posto e sono testati per resistere a ogni tipo di forzatura, compresi gli esplosivi.
Per il momento i lavori proseguono in segreto e non esistono conferme ufficiali da parte del governo del Cairo.
Fino ad oggi vi erano state solo le segnalazioni degli abitanti della zona, che avevano notato attività insolite lungo il confine, tra cui l’abbattimento di numerosi alberi.
[c.m.m.]
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8596
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Il regime perde il suo antagonista ma l´onda verde continua a crescere
Il grand ayatollah era considerato la coscienza critica del khomeinismo e l´ispiratore del dissenso
Il movimento tiene testa alla repressione anche se perde la guida spirituale
di BIJAN ZARMANDILI
Veniva trattato come il principe Myskin, l´Idiota dostoevskiano. Dicevano che assomigliava a un «gorbe nar», a un gatto maschio: tarchiato, con la testa fuori misura e la voce stridula di un gatto in amore. L´intervistatore della Bbc che recentemente aveva parlato con il grand ayatollah Hussein Ali Montazeri, ricordava le troppe barzellette raccontate su di lui in patria e il vecchio mullah sciita, divertito, aveva sorriso bonario, abituato a ben altri dileggi. Ieri Ali Montazeri, l´ayatollah del dissenso, la coscienza critica del khomeinismo, è stato sepolto a Qom, accanto al mausoleo di una santa, Masumé, e con lui finisce una lunga e tormentata fase della trentennale storia della Repubblica islamica. Uscito di scena di Montazeri, se ne apre ora un´altra, forse ancora più travagliata della prima, comunque colma di incertezze.
Qualcuno diceva ieri che, morto Montazeri, la suprema guida Khamenei, il presidente Ahmadinejad e i capi Pasdaran tireranno un sospiro di sollievo, perché il movimento verde rimane privo di un punto di riferimento autorevole e centinaia di migliaia di aspiranti mullah delle scuole coraniche di Qom e Mashad perdono il loro «mergia», cioè la loro “fonte di imitazione”. «Che Allah lo perdoni», ha detto Khamenei alla notizia della morte del grand ayatollah, come se volesse in fretta e furia consegnare finalmente la sorte di Montazeri al supremo giudizio di Dio.
Ma i più avvertiti osservatori hanno interpretato le reazioni ipocrite e ambigue delle autorità iraniane come una ennesima prova dei dubbi e delle incertezze che caratterizzano il comportamento di un regime che poggia su tre architravi vacillanti: la Guida della rivoluzione, il potere esecutivo e i Pasdaran. Questi tre punti di forza di fatto non riescono a coordinarsi per dare una risposta definitiva al vasto movimento nato all´indomani delle elezioni presidenziali dello scorso giugno. La piazza gremita di popolo a lutto per Montazeri era riempita ieri da centinaia di migliaia di iraniani, come era accaduto ancora pochi giorni fa, il 7 dicembre, in occasione della Giornata dello studente, e come sarà tra pochi giorni nella ricorrenza del martirio del terzo imam sciita, Hussein.
Nulla fin qui – fa presente Said Razavi Faghih, giornalista ed esponente riformista legato a Khatami – ha scalfito la solidità del movimento di protesta, malgrado la brutale repressione e le minacce nei confronti dei leader dell´opposizione, Moussavi, Karrubi e Mohammad Khatami. Ma anche verso Rafsanjani, considerato, a torto o a ragione, lo stratega dell´odierna protesta. Razavi Faghih sostiene che vige un precario equilibrio tra la forza del regime e quella dell´opposizione. In altre parole, il regime non ha la forza sufficiente, la necessaria coesione e neppure il coraggio di dar seguito ai suoi intenti repressivi. E teme la reazione della piazza.
A sua volta, il movimento verde mantiene la propria forza d´urto perché riesce a calcolare molto bene quando deve scendere in piazza (nelle ricorrenze stabilite dal calendario nazionale e islamico); perché sa tener conto del malcontento popolare per la pessima gestione dell´economia da parte del governo; e perché amplifica l´isolamento internazionale in cui l´Iran si trova a causa dell´avventuristica politica estera e nucleare del regime.
Il regime è dunque sostanzialmente debole e alle prese con un movimento d´opposizione potenzialmente in ascesa. È incapace di aprire un dialogo con esso, ma anche di schiacciarlo, come fecero invece i cinesi in piazza Tienanmen: ecco il motivo di quel sorriso beffardo che si credeva di cogliere sul volto del grand ayatollah Montazeri, disteso nella sua bara e coperto da un velo nero.
La Repubblica, 22.12.2009
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Difesa Servizi spa
Claudio Bellavita, 21.12.2009
Tra le pieghe della finanziaria, un provvedimento esplosivo, che faccendieri di tutta Italia anticipavano da un anno. Ignazio La Russa è riuscito a privatizzare il suo ministero, creando una spa, al 100% nelle sue mani, che gestirà con criteri di diritto privato le forniture e gli acquisti della Difesa, e pure le aree del demanio militare, un patrimonio immenso
Diritto privato vuol dire niente gare, niente corte dei conti, e se qualcuno ruba, è appropriazione indebita e i pm non possono intervenire d’ufficio.
Ma le aree del demanio militare restano protette dal segreto militare, anche nei confronti degli enti locali. Quindi se i militari, ormai spa, ci vogliono fare un termovalorizzatore, una centrale nucleare, un grattacielo, così, tanto per far fronte fuori bilancio alle spedizioni estere o a chissà cosa, non devono chiedere il permesso a nessuno, che tanto nessuno non autorizzato da loro può entrare.
In pratica, un colpo di stato. Ne ha parlato un solo giornale, l’Espresso di venerdì 18. Di Pietro manco se ne è accorto. Il PD ha fatto fare una blanda protesta d’ufficio da due esponenti minori, la vedova Calipari e il sen.Scanu.
Certo, il momento per l’operazione è ben scelto, perchè offre un immediato impiego ai capitali che stanno rientrando grazie allo scudo: una grandiosa speculazione immobiliare che è sempre stato l’affare più gradito per i nostri “capitani coraggiosi”, insieme alla possibilità di contrattare forniture militari con una burocrazia amica, in condizione di quasi monopolio.
Economicamente potrebbe essere una operazione grasndiosa, in grado di farci uscire dalla crisi, e di consolidare un nuovo ceto economico (quelli che riportano i soldi dall’estero) con un nuovo ceto politico: gli uomini di AN che non a caso stanno dialogando sul futuro del nostro sistema politico dopo Berlusconi con gli uomini del PD. Che a questa operazione devono assicurare la tolleranza in parlamento e negli enti locali.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13823
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La dottoressa dei migranti 21.12.2009
La ginecologa indiana Shashikala si occupa, gratuitamente, degli immigrati di Dubai
di Elisabetta Norzi e Christian Elia
Il sole si è da poco alzato su Dubai. In un cortile di Karama, un quartiere popolare della città abitato in maggioranza da migranti indiani, cuociono sul fuoco grandi pentole di riso, curry, spinaci e lenticchie. Comincia da qui, ogni mattina all’alba, la giornata della dottoressa Shashikala. Un sari clorato le avvolge il corpo minuto, i suoi movimenti sono veloci: riempie quattro bidoni di plastica con il cibo e ci chiede di aiutarla a caricare tutto sulla macchina. Col sorriso sulle labbra, spiega che da tre anni, tutti i giorni, questa è la sua vita: distribuisce pasti e medicine agli illegal workers, i lavoratori migranti che hanno perso il lavoro e non hanno più il permesso di soggiorno. La prima tappa è Sonapur, alle porte di Dubai. In hindi significa “città d’oro”, ma a ricordare il colore dell’oro c’è solamente la sabbia, che ricopre tutto e si infila ovunque: Sonapur è un’immensa città dormitorio che per chilometri e chilometri si fa spazio nel deserto. In angusti edifici di cemento tutti uguali, vivono migliaia di lavoratori: indiani, pakistani, bengalesi, cinesi. Da dietro un cumulo di detriti, un gruppo di ragazzi va incontro a Shashikala appena la sua automobile si ferma: dormono su cartoni e materassi sotto l’ombra di un albero. Non possono pagare un posto letto, non hanno i soldi per tornare a casa e alcuni non hanno più neppure il passaporto. Shashikala distribuisce il riso e li ascolta, uno ad uno: qualcuno spiega che non si sente bene, altri chiedono come possono tornare in India, altri ancora dicono che hanno lavorato per alcune settimane, in nero, ma non sono stati pagati. La scorsa estate in due sono morti per il caldo e da pochi giorni Shashikala è stata chiamata per rimpatriare altre sei salme: uno di loro è caduto da un’impalcatura in un cantiere, gli altri sono morti di malattie per la mancanza di assistenza e di cure.
Dottoressa Shashikala, come ha cominciato ad occuparsi dei lavoratori migranti?
Sono arrivata a Dubai nel 2007 e ho aperto un centro medico, a Karama. Sia io che mio marito siamo dottori e vedendo le condizioni dei lavoratori migranti, soprattutto di chi lavora nell’edilizia, non ho potuto fare a meno di occuparmi di loro: parlano la mia stessa lingua, vengono dalla mia stessa terra. La mia attività principale, oltre a ricevere i pazienti nel centro medico, è distribuire cibo e farmaci ai lavoratori migranti rimasti senza lavoro, specialmente a chi è malato e illegale nel paese. Riusciamo a sfamare in media 100-200 persone ogni giorno, ma in alcuni periodi arriviamo anche a 800. Distribuisco il cibo a Sonapur e a Sharjah, e in quest’occasione i lavoratori mi parlano dei loro problemi, fisici e non solo. Se non stanno bene, li porto con me al centro medico per visitarli. Recentemente ho incontrato diversi di loro che volevano togliersi la vita, e in due lo hanno fatto: sono morti, si sono suicidati. Io cerco di fare il possibile, quando stanno così male mi fermo a parlare con loro per ore, ma certe volte non basta. Veniamo qui a dare il cibo, conosciamo tutti, ma capita che il giorno dopo ci chiamino per dirci che qualcuno è morto. E’ terribile. Quanti di questi uomini vengono da me e cominciano a piangere perché non sanno più che cosa fare. Il loro pianto mi penetra nel cuore, io non posso fare a meno di occuparmi di loro. In questi due anni e mezzo, abbiamo sostenuto oltre 10mila persone in diversi modi: li abbiamo aiutati a tornare a casa comperando centinaia di biglietti aerei per l’India, abbiamo distribuito cibo, medicine, vestiti.
Quali sono i problemi di salute più diffusi?
Le malattie più comuni sono la tubercolosi, la bronchite, la tosse cronica, le infezioni intestinali e la disidratazione. Qualche volta anche l’Aids, ma in questi casi porto i malati immediatamente in ospedale e cerco di farli tornare a casa. Ci sono poi tutti i problemi legati agli incidenti sul lavoro: soprattutto le fratture alle gambe e alle braccia, che molto spesso richiedono operazioni. Infine ci sono le patologie psichiche: in tanti soffrono di depressione e di altri disturbi mentali legati alle condizioni di vita, di lavoro, alla lontananza da casa. Nei giorni scorsi sono stata chiamata a Sonapur per un ragazzo che stava male, aveva la febbre alta ed era magrissimo: mi ha detto che è a Dubai da 11 anni e che in tutto questo periodo è tornato in India una volta sola. Sono otto anni che non vede la sua famiglia.
Per i lavoratori illegali ci sono forme di sostegno sanitario da parte del Governo?
Nei casi di emergenza i trattamenti sono gratuiti, ma se i pazienti devono seguire qualche terapia o se hanno bisogno di essere operati devono pagare di tasca loro. La questione centrale è che non è stabilito dal Governo chi si debba occupare dei lavoratori illegali. Esiste un Dipartimento per i Diritti umani, ma hanno tutti paura a chiedere aiuto perché in genere si va incontro a problemi anziché ricevere aiuto, anche perché per accedervi bisogna passare dalla polizia. Il problema è che ci sono migliaia di persone che hanno bisogno. Anche se qualcuno viene aiutato, ce ne sono continuamente di nuovi che arrivano. Recentemente ho seguito due lavoratori che si sono rotti una gamba e hanno dovuto essere operati. A uno hanno chiesto 6600 dirham, all’altro 3500. Abbiamo pagato tutto di tasca nostra, ho dato il mio passaporto e la mia carta di lavoro come garanzia, e poi abbiamo raccolto i soldi, chiedendo aiuto a tutte le persone che conoscevamo.
E le donne migranti, cura anche loro?
Sono specializzata in ginecologia, quindi mi occupo anche delle donne. La maggior parte di loro hanno permessi di soggiorno come domestiche e sono qui sole. Le curo per tutti i problemi ginecologici, ma mi occupo soprattutto dei casi di gravidanza illecita, fuori dal matrimonio, che negli Emirati è illegale. A me però non interessa se sono illegali oppure no, come dottore ho il dovere di aiutarle tutte. Una ragazza è arrivata da me quando stava quasi per partorire, abbiamo chiamato l’ambulanza, ma non è stata portata in ospedale perché non aveva i documenti in regola. Nessuna struttura voleva farla partorire. Così ho dato i miei documenti, perché ci voleva qualcuno che garantisse per lei: abbiamo trovato uno sponsor che le desse il permesso di soggiorno e ci hanno chiesto 5mila dirham per il parto; in tre giorni siamo riusciti a raccogliere i soldi. Ora la mamma lavora e il bimbo sta bene. Se non avessimo pagato il conto delle cure mediche, mamma e figlio sarebbero stati arrestati. In genere per i casi simili c’è il carcere per 3 o 4 mesi e poi la Corte decide. Molte donne vengono da me anche perché vogliono interrompere la gravidanza. Se decidono di proseguire, mi occupo di loro, gratuitamente: le aiuto con i biglietti aerei per tornare a casa, ho un posto dove farle dormire, organizzo il parto se necessario. Ognuna di loro può scegliere se prendersi cura del bambino oppure no. Chi non riesce a farlo, per motivi finanziari o sociali, ha il nostro supporto per la cura del figlio, che torna poi con la mamma appena lei riesce ad occuparsene di nuovo. Prima del parto sono spaventate, pensano di non farcela, ma alla fine il senso di maternità prevale, e quasi tutte riescono a prendersi cura dei piccoli.
In India le persone sanno come è la situazione qui a Dubai?
Magari ne hanno sentito parlare, ma nei villaggi c’è talmente tanta povertà che i ragazzi partono lo stesso. In più a tutti viene promesso di guadagnare più di quello che poi ricevono una volta arrivati qui. Molti devono pagare anche le società di reclutamento in cambio di un lavoro, si indebitano, e poi si ritrovano in queste condizioni. Lo stipendio medio per chi lavora nell’edilizia è di circa 500-600 dirham al mese (100-120 euro), ma spesso devono pagarsi anche una stanza per dormire, il cibo e quello che rimane in tasca sono 300 dirham al massimo (60 euro). Se poi devono pagare anche le compagnie di reclutamento, per i debiti che hanno contratto, il lavoro non basta più. Così decidono di lasciare e iniziano a lavorare in nero, a giornata, per provare a guadagnare di più. Ma il risultato è ancora peggiore: si ritrovano illegali, senza permesso di soggiorno e molto spesso non vengono neppure pagati per le ore che fanno.
Che supporto hanno dalla polizia o dalle Ambasciate?
Nessuno, nemmeno il Consolato, l’Ambasciata, il Tribunale del lavoro li aiuta. Se ti rivolgi a loro dicono sempre e solo “vedremo quello che si può fare”. Abbiamo provato a sollevare l’attenzione dei media, ma anche loro non hanno fatto nulla alla fine. Alcuni giornalisti sono venuti a vedere come è la situazione, ma poi non ne hanno scritto: sono entrati a Sonapur con l’autorizzazione della polizia, perché questi lavoratori sono illegali, ma poi non gli è stato dato il permesso di pubblicare. Non essendo intervenuta la polizia, avrebbe voluto dire che i poliziotti non fanno rispettare la legge che punisce chi è irregolare nel paese. I poliziotti però sono musulmani e per la loro religione bisogna avere pietà per la povera gente. Così non intervengono, non cacciano gli irregolari, ma il risultato è che dei migranti illegali non ne parla nessuno.
In questi anni c’è stata qualche forma di protesta, di sciopero?
Qui non è possibile scioperare, non è permesso, è illegale. E poi questi ragazzi non hanno nessun argomento legale, sono irregolari, contro chi protestano? Dal 2007 la legge prevede l’espulsione immediata per chi non ha un lavoro e uno sponsor che garantisca per loro. E’ difficile anche che si auto organizzino, perché sono molto poveri, non hanno nulla. Ed è altrettanto difficile che qualcuno li aiuti: nessuno vuole prendersi il rischio di avere a che fare con chi è illegale nel paese. Io riesco a farlo, però: sono più al sicuro perché sono un medico e sono donna. La polizia sa quello che faccio e anche se qualche volta mi ferma e mi controlla, mi lascia continuare a lavorare.
http://it.peacereporter.net/articolo/19380/La+dottoressa+dei+migranti
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Cassazione sconfessa studi di settore 21.12.2009
Standard per misurare evasione da soli non provano nulla
ROMA – Gli studi di settore – spauracchio dei contribuenti che hanno un’attività in proprio – non sono più un parametro certo in base al quale l’Agenzia delle entrate può inoltrare la cartella di accertamento fiscale sulla presunzione che lo scostamento, dai parametri di reddito introdotti dalla legge finanziaria del 1996, nasconda l’elusione dell’imposta dovuta. Lo sottolineano le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 26635 destinata a rivoluzionare – a favore del contribuente – la formazione della prova nelle cause con il fisco.
D’ora in poi – questo il senso della decisione della Suprema Corte – gli studi di settore, anche se frutto della diretta collaborazione con le categorie interessate, sono da considerare solo “una elaborazione statistica, il cui frutto é una ipotesi probabilistica che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice”. D’ora in poi – quindi – sono da considerarsi nulli gli accertamenti fiscali che si poggiano solo sulle indicazioni provenienti dagli studi di settore.
Anche nelle cause con il fisco la prova si forma in dibattimento e il contribuente “ha la più ampia facoltà di prova” per contestare “l’applicabilità degli standard al caso concreto”. Così è stato respinto il ricorso con il quale l’Agenzia delle entrate sosteneva che gli studi del settore ‘parrucchiere da uomo’ fossero applicabili – tout-court – anche nel caso del gestore di un piccolo salone dell’entroterra lucano che già da anni aveva ammortizzato i costi riferiti a minime quantità di beni e servizi, acquistati in tempi remoti, e ormai obsoleti.
– ”La sentenza della Cassazione ribadisce quello che la Confesercenti ha sempre sostenuto, valea dire che gli studi di settore sono un punto riferimento ma chenon vanno considerati esaustivi riguardo alla fedeltà delcontribuente rispetto ai suoi impegni con il fisco”. Così Mauro Bussoni, vicedirettore generale della Confesercenti,commenta il pronunciamento della Corte di Cassazione sugli studidi settore, giudicandolo “un passaggio importante”.
“Certo, ora bisognerà capire bene il contenuto dellasentenza e vedere il caso nello specifico ma comunque lasentenza ribadisce un concetto importante, cioé – prosegueBussoni – che lo scostamento dagli studi di settore non vuoldire che il contribuente sia in dolo, e comunque vi è per ilcontribuente o l’azienda la possibilità di un contraddittorio,indicando i motivi di tali scostamento. Una sentenza insomma -conclude – che non può che migliorare il rapporto tracontribuente e fisco”.
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2009/12/21/visualizza_new.html_1648147760.html
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23/12/2009 – AUTO- IL RISIKO MONDIALE
Ford vende Volvo alla cinese Geely
Accordo da circa 2 miliardi di dollarimeno di un terzo di quando pagatodal colosso americano dieci anni fa
ROMA
Somiglia a un ex impero l’industria dell’auto americana. Un impero che continua a perdere pezzi. La devastante crisi che ha colpito il mondo dell’auto è arrivata in una fase di debolezza per l’industria a stelle e strisce, finora salvata solo dal massiccio intervento del contribuente, dopo aver accusato perdite di quasi 100 miliardi di dollari tra il 2004 e il 2008. E’ di oggi la notizia che la Ford, l’unico tra i costruttori americani a non ricorrere agli aiuti pubblici, ha definito l’accordo di massima per la cessione della Volvo al gruppo cinese Geely. Acquistata dieci anni fa superando la concorrenza della Fiat e sborsando la cifra di 6, 4 miliardi di dollari, la Ford ha deciso di dismettere la casa svedese anche per via delle scarse sinergie, oggi di fondamentale importanza per la sopravvivenza.
L’annuncio della Ford arriva a pochi giorni da quello di Gm che non è riuscita a vendere la Saab a conferma di una ritirata degli ormai ex big di Detroit. Contestualmente cerca di ritagliarsi un ruolo di primo piano l’industria dell’auto cinese. La Beijing automotive industry ha pagato 200 milioni di dollari per acquistare la tecnologia Saab. Proprio Baic e Geely sono tra i costruttori cinesi più attivi sullo scacchiere mondiale per ridurre la dipendenza dalle joint venture con Hyundai motor e Daimler nella consapevolezza che la Cina già nel 2010 diventerà il primo mercato mondiale dell’auto ed è necessario scalare la classifica rapidamente. Sempre in mani cinese è finito il mitico marchio Hummer della Gm, che per anni ne ha garantito i profitti. La tengzhong ha acquistato la Hummer garantendo il mantenimento di 3 mila posti di lavoro negli Stati Uniti.
La Cina è stata ipotizzata anche per Termini Imerese ma la Chery ha smentito l’interesse confermando però l’intenzione di espandersi all’estero con 15 stabilimenti produttivi. Pechino inoltre punta a razionalizzare l’industria domestica. Nella primavera scorsa era trapelato il disegno di ridurre il numero dei costruttori d’auto cinesi, oggi un centinaio, procedendo alla fusione tra i principali 15-20 per creare 5-6 poli industriali con massa critica sufficiente a fronteggiare i big mondiali. Un disegno che sembra al momento accantonato a causa delle riserve delle autorità periferiche che non vogliono rischiare di sacrificare l’industria della rispettiva provincia. Tornando all’ex impero americano, alla Gm resta la Opel dopo un clamoroso ripensamento ma sarà il tempo a dire se Detroit potrà sostenere le attività europee che perdono oltre un miliardo di euro l’anno.
Con la Chrysler entrata nella sfera della Fiat, la concorrenza di Volkswagen e Toyota su tutti sui mercati emergenti, per Gm e Ford c’è poco da stare allegri anche se sono riuscite ad evitare di sprofondare nell’abisso.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/200912articoli/50644girata.asp
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Generali: accordo con Qatar Islamic Bank per polizze “takaful”
Balbinot: verso creazione operatore leader nel Golfo (Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 22 dic – L’intesa preliminare, si legge in una nota, mira alla creazione di una partnership fondata sull’apporto tecnico assicurativo del gruppo Generali, associato alla conoscenza del mercato ed alla capacita’ distributiva della Qatar Islamic Bank, e alle competenze specialistiche in ambito takaful che saranno fornite da Beema compagnia di assicurazione con licenza per l’assicurazione takaful, partecipata da Qatar Islamic Bank, la prima banca islamica in Qatar e tra i primi cinque istituti di credito al mondo “Sharia- compliant”. Il settore takaful presenta un significativo potenziale di crescita: si stima nel 2015 un volume premi a livello di mercato mondiale di circa 20 miliardi di dollari, di cui il 30% dovrebbe essere sottoscritto nel mercato GCC (Gulf Cooperation Council) che comprenede Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, UAE ed Arabia Saudita. Inoltre i paesi islamici producono il 23% della ricchezza generata nelle aree emergenti del pianeta ma presentano degli indici di diffusione assicurativa ancora contenuti. Secondo Balbinot “la combinazione di Qatar Islamic Bank, una delle principali banche islamiche del mondo, e Generali, assieme all’importante esperienza locale di Beema, possa preludere alla creazione di un operatore leader per la sottoscrizione di affari takaful nella regione del Golfo ed al successivo sfruttamento delle opportunita’ presentate da questo settore sia in Europa che in Asia”. Il Presidente di Qatar Islamic Bank, Sheikh Jassim bin Hamad bin Jassim bin Jabr Al Thani, ha commentato: “La banca e’ molto lieta della possibilita’ di stringere un accordo strategico nel business delle polizze Takaful nell’ottica di creare un player leader nel settore. I nostri piani sono, in primo luogo, di lanciare i prodotti Takaful nei Paesi del Golfo, dando priorita’ ai nostri mercati regionali e locali, per poi porre particolare attenzione sulle aree geografiche rilevanti per questi prodotti”.
http://archivio-radiocor.ilsole24ore.com/articolo-769316/generali-accordo-qatar-islamic/
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Pace in trincea
E’ Natale del 1914 e tedeschi e britannici, che si affrontano a Ypres, decidono di uscire dalle trincee e di festeggiare insieme la festività (Matteo Liberti per Focus Storia 38, dicembre 2009)
Molti la considerano la più bella favola di Natale, paragonandola a un miracolo. Nei libri di Storia non ce n’è quasi traccia, tuttavia se ne parla in film e romanzi, nonché in una struggente canzone folk dell’artista inglese Mike Harding, dal titolo Christmas 1914.
Eccone alcuni versi: “I fucili rimasero in silenzio […] senza disturbare la notte. Parlammo, cantammo, ridemmo […] e a Natale giocammo a calcio insieme, nel fango della terra di nessuno”. La partita in questione si svolse realmente, e fu giocata il 25 dicembre 1914 nei pressi della cittadina belga di Ypres. Campo di gioco: la no man’s land (“terra di nessuno”), lo spazio che divideva le trincee inglesi da quelle tedesche. Fu il momento culminante di quella che passerà alla Storia come “tregua di Natale”.
Nell’estate del 1914 l’Europa era divenuta teatro di una guerra che vedeva opposti due grandi schieramenti: Gran Bretagna, Francia e Russia da una parte; Germania, Austria-Ungheria e Turchia dall’altra. Più tardi sarebbero entrati nel conflitto anche Bulgaria, Giappone, Italia, Stati Uniti e una serie di Paesi “minori”, trasformando così la contesa nella prima guerra su scala globale dell’umanità.
All’inizio il fronte più caldo fu proprio quello occidentale (tra il Belgio e il Nord della Francia) dove inglesi, francesi e belgi dovettero contrastare l’avanzata tedesca. Dopo una sanguinosa battaglia nei pressi di Ypres, a fine autunno gli eserciti si ritrovarono però impantanati (qui e altrove) in un’estenuante guerra di logoramento tutta combattuta intorno alle trincee. Da questi fossati profondi un paio di metri e rinforzati alla buona con tavole di legno, i soldati si lanciavano quotidianamente all’assalto del nemico, guadagnando o cedendo ogni volta pochi metri di terreno e trascorrendo il resto della giornata tra fango, pioggia e cadaveri in decomposizione. Queste condizioni riguardavano tutti e il “mal comune” provocò presto il verificarsi di episodi di solidarietà tra nemici (che si trovavano peraltro a pochi passi di distanza gli uni dagli altri). I soldati dei due eserciti cominciarono a scambiarsi alcuni “favori”, come non aprire il fuoco durante i pasti. Quel che contava era salvare le apparenze con i superiori (si rischiava l’accusa di tradimento) e portare a casa la pelle.
http://www.focus.it/Storia/speciali/pace-in-trincea.aspx
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Internet
Maroni: l’autoregolamentazione può bastare 22.12.2009
Dopo aver minacciato di legiferare contro le istigazioni alla violenza mediate dalla rete, il Ministro si lascia convincere dagli operatori. Si prevede un grande accordo, si sogna una policy globale
Roma – No alle leggi che regolamentino Internet come se fosse un mondo diverso da quello abbracciato dall’ordinario quadro normativo, ma una linea di condotta comune da adottare per fronteggiare e prevenire situazioni in cui la libertà di espressione sconfina massicciamente in quello che potrebbe essere giudicato un reato. I rappresentanti degli operatori della rete, Facebook in primis, si erano rivolti direttamente ai rappresentanti del governo dopo che, a seguito dell’aggressione al Premier e del polverone sollevato fra bacheche e profili, si era brandita la minaccia di leggi ad hoc che punissero cittadini e piattaforme, responsabili di certe sortite e intermediari della rete.
Si punterà invece su un codice di autoregolamentazione: così è stato stabilito nel corso dell’incontro che si è svolto nel pomeriggio presso il Viminale, incontro che ha messo a confronto prospettive e competenze del vice ministro delle Comunicazioni Paolo Romani, del capo della polizia Antonio Manganelli, del consigliere ministeriale con delega alla sicurezza informatica Domenico Vulpiani, del capo della polizia postale Antonio Apruzzese, dei rappresentanti del ministero delle Politiche Giovanili, ma anche delle aziende, fra cui Confindustria, Assotelecomunicazioni, Associazione italiana internet provider, British Telecom, Fastweb, H3g, Vodafone, Wind, Telecom, Facebook, Google e Microsoft.
Il ministro Maroni, che aveva minacciato repressione a mezzo chiusure e oscuramenti imposti dalle autorità per le pagine che ospitassero incitazioni alla violenza, sembra aver cambiato punto di vista: “Abbiamo affrontato il tema di come impedire la commissione di gravi reati su Internet e come rimuoverne i contenuti – ha spiegato Maroni – La strada da seguire è quella di un accordo fra tutti definendo un codice di autoregolamentazione che coinvolga tutti i soggetti interessati, evitando interventi di autorità”. È possibile che il Ministro sia stato informato dell’impossibilità di agire in maniera chirurgica nelle rimozioni, è possibile che abbia compreso le dinamiche del ruolo svolto dagli intermediari della rete, costretti a confrontarsi con un’enorme mole di contenuti caricati dai netizen: per questo non fa più riferimento alla soluzione finale dell’intervento delle autorità ma invita gli operatori della rete alla collaborazione, affinché le segnalazioni relative a un contenuto inadatto vengano elaborate in maniera tempestiva e coerente, in modo da agire più che prontamente qualora i contenuti violassero la legge.
Non sarebbe dunque necessario l’avvento di alcuna legge repressiva come l’emendamento D’Alia che gravi sugli intermediari attribuendo loro responsabilità mai descritte dalla legge, né di alcuna legge come il DDL Lauro, che attribuisca delle pene particolarmente pesanti ai cittadini che si macchino di reati commessi a mezzo comunicazione telefonica o telematica. Sarebbe sufficiente quello che Maroni definisce un accordo, un codice di autoregolamentazione che coinvolga tutti gli operatori della rete – in Italia e all’estero, auspica il Ministro – che tracci delle linee guida per l’intervento qualora attraverso le piattaforme in rete i cittadini si intrattengano in condotte sospettate di essere illegali. Sarebbe a parer di Maroni “il primo caso al mondo” in cui si potrebbe realizzare “un grande accordo di responsabilità fra tutti gli operatori” capace di bilanciare le esigenze della “libertà di espressione del pensiero e quella di rimuovere contenuti che integrino gravi reati”.
Non bastano dunque le policy adottate finora dagli intermediari della rete, basate sulle rimozioni sollecitate dalle segnalazioni degli utenti. Le loro proposte verranno vagliate e confluiranno nel prossimo incontro previsto per metà gennaio.
Gaia Bottà
http://punto-informatico.it/2777014/PI/News/maroni-autoregolamentazione-puo-bastare.aspx
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Requiem per Termini Imprese 22.12.2009
Di Red
Il lavoro è in trincea. Ogni giorno si aprono nuovi problemi o si conferma la gravità di casi irrisolti. Per quanto riguarda la Fiat c’è la conferma dell’abbandono della produzione automobilistica a Termini Imerese nel dicembre 2011.Per quanto riguarda Eutelia si continuano a perdere commesse, a partire da quelle pubbliche della Rai, nonostante le promesse avvenute al tavolo della presidenza del consiglio. Per quanto riguarda Yamaha si è ancora in attesa di una risposta dell’azienda sull’utilizzo della cassa integrazione per impedire un licenziamento traumatico ai lavoratori
“Nei prossimi due anni gli investimenti della Fiat in Italia ammonteranno a 8 miliardi”. Lo ha detto l’ad del Lingotto Sergio Marchionne nel corso dell’incontro con governo e sindacati che si e’ svolto a Palazzo Chigi, durante il quale ha presentato il piano industriale della casa automobilistica torinese. Presenti per il governo i ministri dello Sviluppo economico Claudio Scajola, del Lavoro Maurizio Sacconi, dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, degli Affari regionali Raffaele Fitto e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta; per i sindacati sono intervenuti Raffaele Bonanni (Cisl), Guglielmo Epifani (Cgil) e Luigi Angeletti (Uil). Hanno partecipato alla riunione anche i governatori Raffaele Lombardo (Sicilia), Antonio Bassolino (Campania) e Esterino Montino (vicepresidente della regione Lazio). Una riunione accompagnata dalle proteste dei lavoratori della Fiat – provenienti soprattutto da Termini Imerese e Pomigliano d’Arco – che hanno manifestato prima a Piazza Colonna e poi sotto Palazzo Chigi, dove hanno intonato cori di protesta contro l’azienda. Va ricordato infatti che i due stabilimenti sono quelli più a rischio chiusura.
“Vogliamo che l’incontro di oggi sia tutt’altro che rituale – ha continuato Marchionne – ma occorre conciliare i costi industriali con la responsabilità sociale”. Infatti “il solo calcolo economico avrebbe conseguenze dolorose che nessuno si augura ma un’attenzione esclusiva al sociale condurrebbe alla scomparsa dell’azienda”. Tant’è vero, ha poi annunciato il numero uno della casa torinese, che lo stabilimento Fiat di Termini Imerese non produrrà più auto dalla fine di dicembre 2011.
“Ci sono condizioni di svantaggio competitivo – ha detto – difficoltà strutturali e costi eccessivi. Lo stabilimento è in perdita e noi non possiamo più permettercelo”. D’altra parte però “siamo disposti a discutere proposte di riconversione con la regione Sicilia e gruppi privati – ha aggiunto l’ad – mettendo a disposizione lo stabilimento”. Il contesto per il mercato dell’auto “continua a essere sfavorevole” ha quindi dichiarato l’ad di Fiat. In particolare, ha spiegato, “in Europa continua la sovracapacità produttiva” mentre negli Usa “il problema è stato affrontato con coraggio”. Ma c’è anche “una forte disparità dei livelli di utilizzo della manodopera tra gli stabilimenti auto di Fiat italiani ed esteri” ed è un problema che “dobbiamo affrontare di petto” perché anche da questo “dipende anche il nostro futuro. Se non lo facciamo sarebbe una rovina”.
L’ad di Fiat ha poi confermato la produzione dei modelli attuali nello stabilimento di Torino Mirafiori per il prossimo biennio. Stessa conferma arriva per lo stabilimento di Melfi che “sta lavorando bene”, Nel sito di Cassino, invece, si aggiungerà la produzione della nuova Giulietta. Quanto a Pomigliano d’Arco, ha detto Marchionne, “è l’impianto più penalizzato per l’assenza di incentivi. Così com’è non può reggere, abbiamo già investito 100 milioni di euro”. A Pomigliano, ha ricordato però Marchionne, verrà prodotta la nuova Panda. Quanto alla ex Bertone, acquisita di recente da Fiat, produrrà due nuovi modelli per la Chrysler. Infine, tra i nuovo modelli che Torino produrrà nel bienno 2010-2011, la nuova “Y” sarà realizzata in Polonia mentre “una nuova famiglia basata sulla piattaforma small”, ha concluso Marchionne, sarà realizzata in Serbia.
Marchionne ha iniziato il suo intervento annunciando “un piano ambizioso per la Fiat, soprattutto per l’Italia”. In particolare entro il 2012 la Fiat sarebbe disponibile a produrre fra 800 mila e 1 milione di vetture all’anno, dalle 650 mila attuali. Il numero uno del Lingotto ha anche annunciato la possibilità di aumentare il numero dei veicoli commerciali leggeri da 150 mila a 220 mila.
Non è vero, ha poi incalzato, “che siamo un’azienda assistita dallo stato”. Secondo Marchionne, infatti, “gli incentivi sono stati finanziati dalla Fiat e il credito accumulato dal gruppo è di circa 800 milioni di euro”. Per il futuro la Fiat non vuole chiedere “un euro allo Stato” neppure sulla proroga degli eco-incentivi. “Si tratta di una decisione che non ci compete – ha commentato Marchionne – e una scelta che spetta a chi ha il compito di disegnare la politica industriale di questo paese. Noi siamo pronti a gestire qualunque situazione, vorrei solo che si smettesse di fare demagogia sulla pelle della Fiat. Se si vuole una grande industria dell’auto in questo paese – ha concluso Marchionne – è necessario comportarsi di conseguenza e solo una decisa politica di sviluppo può creare le condizioni perché il tessuto industriale italiano si rafforzi”.
“Già da oggi dobbiamo tutti prende impegni per il polo industriale di Termini Imerese” ha detto il ministro dello Sviluppo economico a commento dell’annunciata intenzione del Lingotto di confermare la riconversione industriale di Termini Imerese dal 2012. “La criticità del gruppo Fiat “è Termini Imerese ma l’azienda è disposta a collaborare – ha aggiunto Scajola -. Non possiamo perdere quel polo industriale e abbiamo il tempo di mettere insieme le risorse della Regione siciliana e quello che il governo può dare per uno sviluppo diverso del sito” in provincia di Palermo. Secondo il ministro “servono uno sforzo congiunto di Fiat, Enti locali e governo per individuare soluzioni industriali che garantiscano l’occupazione”. “Fiat – avrebbe evidenziato tuttavia il titolare dello Sviluppo economico – pone al centro l’Italia con una crescita della produzione a un milione di vetture”.
Dura la posizione dei sindacati. “Pomigliano d’Arco è salvo ma Termini Imerese no”. Nelle parole di Cgil, Cisl e Uil è forte la delusione per la scelta della Fiat. Le parti hanno apprezzato alcuni punti della relazione dell’ad Sergio Marchionne, ma il “piano ambizioso” dell’ad del Lingotto è passato in secondo piano quando il costruttore ha confermato lo stop della produzione auto a Termini Imerese. “Il consolidamento dell’accordo Fiat-Chrysler è un fatto importante per l’Italia”, ha detto il leader della Cisl Raffaele Bonanni e anche la soluzione per Pomigliano d’Arco”, ma “il vero problema rimane Termine Imerese”. Ora, “ci vuole un tavolo immediato per il futuro” del sito siciliano, ha continuato Bonanni: “Non possiamo lasciare i lavoratori nell’incertezza a Natale e dobbiamo capire cosa può fare la Regione, lo Stato e che impegni prende Fiat. Dobbiamo muoverci tutti perché si salvi – ha concluso il leader Cisl – quella realtà industriale. Termini deve restare un sito attivo”.
Sulla stessa linea il numero uno della Cgil Guglielmo Epifani, che pur confermando la positività dell’operazione Chrysler e le decisioni in merito al sito campano della Fiat, ha ribadito che “il cuore del problema è Termini. Bisogna sciogliere il nodo perché se si perde un centro produttivo nel Mezzogiorno, difficilmente lo si potrà sostituire”.
“Marchionne ha mostrato tutta la sua arroganza, ha usato toni molto gravi su Termini Imerese.
Avrà pure salvato la Fiat, ma non si può permettere di mortificare la dignità di 3 mila persone che hanno contribuito a fare grande questa azienda che ha avuto tanto dai governi ma non ha avuto niente in cambio. La nostra risposta sarà decisa”. Lo dice il segretario della Fiom di Termini Imerese, Roberto Mastrosimone, presente all’incontro a Palazzo Chigi per la presentazione del piano industriale della Fiat.
“Marchionne ha detto che la Fiat è un gruppo privato e che il problema sociale di Termini Imerese riguarda il governo – aggiunge Matrosimone – Anche a queste parole i lavoratori sapranno dare risposte”.
Per il segretario generale della Uil Luigi Angeletti il confronto su Fiat deve partire dal fatto che “la presenza industriale in Italia non deve venire meno” e la sfida “resta far sì che aumenti la produzione di auto”, quindi, ha concluso Angeletti, “non ci possiamo rassegnare a un tragitto che sembra già segnato”.
E mentre si fa sempre più vicina l’ipotesi di un tavolo solo sulla situazione di Temini Imerese, il presidente della Regione siciliana Raffaele Lombardo ha commentato a margine dell’incontro la notizia della chiusura confermata del polo palermitano annunciando battaglia: “Il piano industriale della Fiat va rivisto” ha dichiarato il governatore. “Sia il governo sia tutti i sindacati sia la Regione hanno opposto un fiero no a una impostazione che discrimina Termini Imerese. Si fa fronte alle difficoltà di tante stabilimenti e Termini viene trattata come una sorta di vittima sacrificale di un rito pagano”. Ecco perché ha concluso Lombardo, “ora ci aspettiamo un fronte unico perché il piano Fiat venga rivisto”.
“Il Sud e la Sicilia hanno già dato al Nord e alla Fiat, con un esodo biblico durato oltre un secolo, braccia e cervelli, contribuendo alla costruzione di enormi fortune e di incommensurabile ricchezza. Non possiamo permettere quindi a mister Marchionne di calpestare con cinica ironia la nostra dignità”, continua il presidente della Regione siciliana. “Dinanzi a questo atteggiamento – ha proseguito Lombardo – mi aspetto dal Governo nazionale e dai sindacati una coerente reazione, in linea con quanto già ampiamente annunciato: il taglio di qualsiasi incentivo a favore della Fiat e delle sue consociate. Ai lavoratori dico che con le risorse che abbiamo destinato a Termini, sono certo che riusciremo a trovare una soluzione con buona pace di mister Marchionne. Il Governo nazionale – conclude Lombardo – sia consequenziale e stacchi un biglietto di sola andata per il canadese Marchionne”.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13847
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Chiquita Connection 21.12.2009
La Colombia ha chiesto l’estradizione dei vertici di Chiquita, accusata di aver pagato squadre di paramilitari colpevoli di 11mila omicidi
“Il caso di terrorismo più grande della storia recente, con tre volte il numero delle vittime dell’attacco alle Torri Gemelle di New York”. Terry Colling Sworth, esperto Usa in diritto internazionale, definisce così la storiaccia che sta dietro al processo che vede quale imputata la multinazionale delle banane Chiquita, accusata di aver assoldato tra gli anni Ottanta e Novanta orde di paramilitari per perseguire i propri interessi in Colombia. Risultato: 11mila vittime nella sola regione dell’Urabá, costa nord del paese.
Ci risiamo. Difesa e accusa torneranno a colpi di documenti e tesi contrapposte in una causa legale che va avanti da anni, e che prima è stata trattata negli Usa e adesso è sfociata in un processo in Colombia che sta per entrare nel vivo, mettendo fine all’impunità nella quale si sono crogiolate finora molte multinazionali padrone incontrastate dell’America Latina.
Nel primo caso, Chiquita ha raggiunto un accordo con il dipartimento di Giustizia Usa per le colpe di Banadex, società affiliata. Sulla base del patteggiamento, Chiquita sta pagando una multa di 25 milioni di dollari, essendosi dichiarata colpevole di avere violato la legge degli Stati Uniti per avere effettuato, dal 2001 al 2004, pagamenti a entità affiliate con l’organizzazione “Autodefensas Unidas de Colombia” (AUC). Nel secondo caso, invece, la Procura della Repubblica colombiana si è appena rivolta al Direttore degli affari criminali del Dipartimento di giustizia Usa, Thomas Black, affinché notifichi ai cittadini statunitensi a capo della Chiquita Brands Inc., un tempo United Fruit Company, John Paul Olivo, Charles Dennis Keiser e Dorn Robert Wenninger, l’avviso di garanzia affinché si difendano dall’accusa di “associazione a delinquere aggravata”. A questo seguirà, nei prossimi giorni, la richiesta di estradizione, che potrebbe riguardare altri 19 dirigenti della multinazionale, che avrebbero finanziato i paracos in operazioni finalizzate alla “protezione” dell’impresa bananiera, all’occupazione di terre mediante lo sfollamento forzato e all’eliminazione dei sindacalisti.
Sono già 127 le famiglie colombiane che si sono dichiarate parte civile, facendo appunto di questo processo il più grande caso di terrorismo della storia recente. E sulla delicata questione dell’estradizione si è già pronunciata anche la relatrice generale delle Nazioni Unite sull’indipendenza giudiziaria, Gabriela de Alburquerque, in visita in Colombia propri in questi giorni, definendola “imprenscindibile”. Se per gli Usa, dunque, questo è un caso chiuso, in Colombia è tutto ancora da snocciolare.
Per decenni, “repubblica delle banane” sono stati chiamati tutti quei paesi, Honduras in testa, i cui governi non erano che prestanome delle grandi compagnie della frutta Usa, le quali facevano il bello e cattivo tempo a colpi di corruzione e arbitrarietà. E anche nella complessa Colombia, le multinazionali hanno e giocato e lo giocano tutt’ora, un ruolo chiave nei rapporti di forza. Proprio in questi giorni, ricorre l’81esimo anniversario della “mattanza delle bananiere” compiuta dall’esercito nella stazione centrale di Ciénaga, su richiesta della United Fruit Company, e così ben descritta in Cento anni di solitudine da Gabriel García Márquez.
A inchiodare alla sbarra del tribunale colombiano Chiquita, sono le dichiarazioni di alcuni dei più spietati capi paramilitari, come Salvatore Mancuso, Raúl Emilio Hasbún, Ever Veloza e Fredy Rendón, i quali, avvalendosi della legge uribista Giustizia e Pace che garantisce loro impunità in cambio di un improbabile addio ad armi e malaffare e di una altrettanto improbabile riparazione alle vittime, hanno parlato dettagliatamente di pagamenti milionari alle Autodifese unite colombiane (le Auc, il maggior gruppo paramilitare, ormai sciolto) da parte della multinazionale Usa. Loro compito, sfollare a sangue e fuoco i contadini dalle loro terre, avvalendosi della complicità del governo. Una pratica messa in atto in tutto il paese da gruppi militari al soldo di molti altri gruppi economici legati al malaffare, e che perdura tutt’ora nonostante la scomparsa della sigla Auc. Non è bastato cancellare la sigla per voltare una delle pagine più violenti della storia colombiana: i paracos sono tutt’oggi vivi e vegeti e in azione sotto altra bandiera, quella delle Aquile nere, e non solo.
Nonostante le smentite di Chiquita, le confessioni degli storici leader del paramilitarismo colombiano mettono a nudo una prassi che andava ben al di là della consegna di soldi. Raúl Emilio Hasbún, per esempio, parla di 4200 fucili AK-47 e di 5 milioni di proiettili provenienti dalla Bulgaria ricevuti in una imbarcazione della United Fruit Company. Non solo: corrompendo le autorità doganali, la multinazionale avrebbe creato un porto privato a Turbo (in Antioquia, culla di violente stragi paramilitari) che sarebbe servito anche per attività legate al narcotraffico. In particolare, nel 2001, le navi Chiquita Bremen e Chiquita Belgie avrebbero imbarcato in questo porto una tonnellata e mezzo di cocaina nascondendola tra la frutta. Ma la multinazionale non ci sta e a tambur battente ha più volte ribadito che tutto questo è una montatura.
E mentre la ricostruzione dei fatti sarà attività primaria dei giudici nel processo, molte cose sono cambiate nella filosofia e nel modus operandi della banana dieci e lode. Dopo aver pubblicamente recitato un mea culpa, ha venduto capre e cavoli in Colombia e ha cercato di voltar pagina puntando a un codice etico e all’ecosostenibilità. Ma qualcuno insinua grossi dubbi. Il procuratore speciale del caso United Fruit Company, Alicia Domínguez, è convinta che Chiquita non abbia mai lasciato le coltivazioni colombiane. Anzi, con maestria finanziaria, avrebbe creato imprese dai nomi nuovi quali Olinsa, Invesmar e Banacol S.A.,e continuato a finanziare i paramilitari per proteggerle. E dato che Olinsa sembra avere un contratto con Chiquita Brands fino al 2012 e che è, secondo il procuratore, un prestanome di Chiquita, la multinazionale delle banane, sempre secondo l’accusa, non avrebbe mai lasciato il paese dall’eccidio del 1928.
http://it.peacereporter.net/articolo/19456/Chiquita+Connection
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Fotovoltaico: nasce in Italia la “trasformazione” degli elementi troppo costosi
La sofisticata e rivoluzionaria tecnologia è stata messa a punto dai ricercatori della Dichroic Cell in collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara e CNR–INFM
‘Trasformare’ un elemento fotovoltaico in un altro, per ottimizzare le sempre più rare e preziose materie prime disponibili, ma anche per snellire tempi e costi di produzione. Quello che fino a ieri era un ambizioso progetto scientifico, oggi è una realtà grazie alla rivoluzionaria tecnica messa a punto dalla Dichroic Cell in collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara e CNR-INFM (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto Nazionale per la Fisica della Materia).
Gli elementi alla base delle celle fotovoltaiche sono Silicio, Arseniuro di Gallio (GaAs), Fosfuro di Indio e Gallio (InGaP), ma soprattutto Germanio (Ge). Tutti rari e costosi, soprattutto il Germanio.
Per aggirare questo ostacolo, la Dichroic Cell ha iniziato a sviluppare una metodologia del tutto innovativa, che mira a convertire un elemento costoso e raro come il Germanio in un altro elemento, il Silicio, più reperibile e meno dispendioso. Il procedimento si basa sull’utilizzo di un macchinario ultratecnologico, il reattore L.E.P.E.C.V.D. (Low Energy Plasma Enhanced Chemical Vapor Deposition), che lavora come una sorta di forno in grado di depositare il Germanio sul Silicio e di consentire appunto la ‘trasformazione’ di un elemento nell’altro.
In base alle previsioni formulate, attraverso questa sofisticatissima tecnologia è possibile abbattere il costo del substrato delle celle fotovoltaiche di oltre il 60%. Una riduzione dei costi che diventa del 30% quando si prendono in esame le celle fotovoltaiche più costose, con substrato in puro Germanio.
Quella impiegata dal gruppo di ricercatori è una tecnologia davvero sofisticata, il cui sfruttamento commerciale ha preso avvio in ambito aerospaziale negli anni ’90 per applicazioni esclusivamente orientate a tale settore.
La grande intuizione della Dichroic Cell e del gruppo di ricerca pubblico-privato è stata quella di trasferire dall’ambito aerospaziale a quello terrestre una metodologia altamente sofisticata e dai costi proibitivi, riuscendo a renderla applicabile ad un’economia per uso terrestre su scala industriale. Gli straordinari risultati di questa ricerca sono stati tenuti secretati fino ad oggi, e finalmente dallo scorso settembre Dichroic Cell ha iniziato a produrre e a vendere i primi Substrati Virtuali, risultato di una tecnologia che ha quindi disponibilità di materiali, costi ed efficienze per soddisfare sino al 10% del fabbisogno energetico nazionale.
“Coraggiosi imprenditori, soprattutto veneti, hanno investito negli studi e nella ricerca applicata dell’Università di Ferrara – spiega Federico Allamprese Manes Rossi, Amministratore Unico della Dichroic Cell S.r.l. – I laboratori messi a disposizione da CNR-INFM hanno portato alla realizzazione di una tecnologia strategica e all’avanguardia, valida non solo per il settore fotovoltaico, ma anche per quello aerospaziale e dell’automotive. La lungimiranza dello scorso e dell’attuale governo sta consentendo di portare all’industrializzazione questa iniziativa, patrimonio esclusivo della nostra nazione”.
La tecnica, del tutto rivoluzionaria e messa a punto per la prima volta in Italia, consente realmente al team di scienziati di guidare l’innovazione tecnologica del fotovoltaico nel nostro Paese e nel Mondo.
Come afferma Patrizio Bianchi, economista industriale e Rettore dell’Università di Ferrara, “questa rivoluzionaria scoperta, messa a punto con la collaborazione del nostro Dipartimento di Fisica, conferma come la nostra sia davvero un’Università di ricerca e come, in questo ambito, svolgiamo una funzione di sperimentazione e traino dell’intero sistema nazionale. Abbiamo lavorato intensamente sulla ricaduta industriale della nostra ricerca e sulla creazione d’impresa”.
Altra voce autorevole dell’Università di Ferrara è quella del Prof. Giuliano Martinelli, Direttore del Dipartimento di Fisica e coordinatore scientifico del gruppo di ricercatori. “Ritengo – osserva il Prof. Martinelli – che l’investimento fatto da Dichroic Cell in questa innovativa ricerca sia stato davvero lungimirante. Ora mi auguro che gli Enti di riferimento mostrino, non solo nelle proclamate intenzioni, ma anche nei fatti, la stessa lungimiranza. In primis, promuovendo l’accesso al ‘Conto energia’ anche per i sistemi a concentrazione, ritenuti particolarmente idonei per la produzione di energia su larga scala. Questo potrebbe cancellare o limitare le perplessità di istituti finanziari e altri potenziali investitori, per ora restii a riversare le proprie risorse in una tecnologia che, non avendo accesso all’incentivo, di fatto soffre di carenza di mercato. Solo così i risultati della ricerca potranno rapidamente trasferirsi in una realtà industriale in grado di apportare un importante contributo al nostro fabbisogno energetico, fornendo un prodotto di alto valore commerciale per la nostra esportazione, in particolare nel bacino del mediterraneo”.
Attualmente, tra tutti i dispositivi fotovoltaici presenti sul mercato, le celle solari basate su composti con substrato in Germanio hanno mostrato la più alta efficienza di conversione. Celle solari multigiunzione basate su questi materiali hanno ormai raggiunto efficienze record di conversione di oltre il 39% , mentre nell’immediato futuro è prevedibile che vengano raggiunte efficienze superiori al 40%.
“Energie rinnovabili ed efficienti, oltre che alla portata di tutti: con questo obiettivo il Consiglio Nazionale delle Ricerche si cimenta da anni” – tiene a sottolineare il Presidente del CNR, Prof. Luciano Maiani – “Ogni progresso in tal senso costituisce dunque un passo in avanti verso un traguardo tanto ambizioso quanto strategico per il Paese. La scoperta di una tecnica in grado di ottenere una maggiore efficienza delle celle fotovoltaiche, risparmiando sui materiali, rappresenta in tal senso un successo di cui i ricercatori del CNR-INFM, in collaborazione con quelli dell’Università degli Studi di Ferrara e della Dichroic Cell, possono andare orgogliosi. In più, la sinergia tra impresa, Università ed Ente pubblico rimarca ancora una volta l’importanza strategica del dialogo tra pubblico e privato, per il benessere e la ricchezza dell’Italia. Oltre che per il progresso e il futuro della ricerca”.
Roma, 15 dicembre 2009
La scheda:
Chi: Dichroic Cell, Università degli Studi di Ferrara e Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto Nazionale per la Fisica della Materia – CNR-INFM
Che cosa: messa a punto una nuova tecnica per ‘trasformare’ un elemento fotovoltaico in un altro
Per informazioni:
Dott.ssa Damiana Schirru, Ufficio Stampa Dichroic cell S.r.l.; e-mail: damiana.schirru@libero.it;
Dott. Andrea Maggi, Resp. Com. Università di Ferrara, e-mail: andrea.maggi@unife.it –
Dr. Guido Schwarz, Portavoce del Presidente del CNR, e-mail guido.schwarz@cnr.it –
http://www.stampa.cnr.it/DocUfficioStampa/comunicati/italiano/2009/Dicembre/106_DIC_2009.HTM
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23/12/2009 – SCOPERTA DEL CONSORZIO CON BASE A PADOVA: «STIAMO IMPARANDO PIU’ EFFICIENTE IL PLASMA PER I FUTURI REATTORI»
Energia pulita e illimitata: l’Italia è tra i leader della fusione nucleare
BARBARA GALLAVOTTI
Nelle favole le principesse sfoggiano un manto di stelle. E in effetti che cosa può esserci di più esclusivo del possedere una stella tutta nostra? Ora il sogno dei affabulatori viene rivisitato dagli scienziati, che vogliono costruire sulla Terra stelle artificiali: «oggetti» in grado di fornire energia pulita, inesauribile e disponibile per tutti, cancellando buona parte dei conflitti mondiali.
Come accade nei casi più fortunati, i sogni si sono trasformati in finanziamenti, dando il via alla sfida di realizzare reattori per la fusione nucleare. L’impresa è segnata da balzi in avanti, come la collaborazione internazionale che sta realizzando l’impianto sperimentale Iter, e da molti successi tecnici. Tra questi, c’è una scoperta italiana che ha guadagnato la copertina della rivista «Nature Physics» e che riguarda il comportamento del plasma, il «carburante» della fusione. Lo studio si deve al consorzio «RFX», che ha il suo centro a Padova.
Sappiamo che a far brillare il Sole e le stelle sono reazioni di fusione di nuclei di idrogeno, che portano alla produzione di nuclei di elio, liberando energia. La formula della reazione è di una semplicità disarmante, ma, se vogliamo seguirne lo schema per produrre energia sulla Terra, ci sono molte difficoltà. In primo luogo l’efficienza: un metro cubo di materia solare produce solo l’energia necessaria per accendere una lampadina e quindi una centrale in grado di soddisfare i bisogni energetici di grandi città dovrebbe sfruttare una reazione dalla resa migliore. La cosa, fortunatamente, non è difficile. Basta far reagire al posto del più comune idrogeno due varianti: il deuterio, presente in buona quantità anche nell’acqua, e il trizio, ricavabile dal litio, pure abbondante. Insomma, le nazioni non dovranno mai contendersi i materiali per la fusione.
La reazione, poi, è pulita, perché non genera scorie radioattive, se non qualche residuo in piccola quantità e di tipo tale da dover essere custodito per poche decine di anni. Inoltre non c’è il rischio di incidenti catastrofici, perché un reattore a fusione è come un accendino: brucia solo fino a che lo si tiene acceso e ogni malfunzionamento ne causa lo spegnimento. Proprio qui però si annida il problema più grave: ottimizzare il rapporto fra energia impiegata per sostenere la reazione ed energia ottenuta.
«L’energia necessaria per far funzionare una fusione nucleare è spesa principalmente per ottenere e controllare uno stato della materia composto da nuclei atomici ed elettroni che si chiama plasma: è l’ingrediente base delle reazioni di fusione e deve raggiungere temperature altissime», spiega Piero Martin, responsabile scientifico di «RFX». Plasmi si producono naturalmente nell’atmosfera come conseguenza dei lampi e si trovano anche nelle comuni lampade al neon. Il plasma per la fusione, però, dev’essere portato a decine di milioni di gradi. Ovviamente non c’è nessun contenitore in grado di resistere e quindi nei test le particelle cariche del plasma vengono tenute «in posizione» da campi magnetici con forme diverse. Ne sono stati sperimentati tre tipi: il tokamak, lo stellarator e «RFP».
Il primo è quello su cui gli scienziati puntano di più e proprio un tokamak costituirà il cuore del maggiore esperimento mai concepito: il reattore «Iter», frutto di una collaborazione internazionale e in costruzione in Francia. Tuttavia anche gli altri due modelli di campi magnetici vengono studiati. «Sono come diversi punti di vista con cui guardare lo stesso problema e forniscono indizi importanti», continua Martin. In particolare, il consorzio «RFX» studia la configurazione magnetica «RFP» (Reversed Field Pinch, cioè strizione a campo magnetico rovesciato). Il nome deriva dalla geometria delle linee di campo magnetico che si dispongono secondo un’elica, con spire più strette man mano che ci si allontana dal centro del plasma.
Nella configurazione «RFP» il plasma viene attraversato da una corrente crescente, che serve per riscaldarlo e per produrre il campo magnetico che lo terrà in posizione. In queste condizioni però si comporta un po’ come un elastico torto un numero eccessivo di volte: forma avvolgimenti irregolari e «si ingroppa». Dal punto di vista della fusione le irregolarità nell’avvolgimento del plasma sono molto negative, perché rendono la reazione meno efficiente e dunque peggiorano il rapporto tra energia spesa ed energia ottenuta.
«Ciò che abbiamo scoperto è che, aumentando la corrente elettrica che attraversa il plasma fino a superare il milione e mezzo di Ampere, l’aggrovigliamento si perde e il plasma assume una conformazione molto regolare, offrendo prestazioni migliori – spiega Martin -. Un altro esperimento, sempre condotto da “RFX” mira invece a sviluppare sistemi di controllo sulla stabilità del plasma. In questo settore siamo i primi al mondo: abbiamo ottenuto un sistema di sensori che registra immediatamente le minime deformazioni del plasma e corregge il campo magnetico, riportandolo in una frazione di secondo nella forma ottimale».
Come tutte le migliori, anche quella condotta nell’ambito di «RFX» si nutre dell’apporto di giovani ricercatori: in 10 anni 200 studenti hanno fatto la tesi nei laboratori padovani e da tre anni è stato istituito un dottorato europeo che vede gli studenti impegnati a Padova, Monaco e Lisbona: caratteristiche che rendono «RFX» uno dei centri di eccellenza per lo studio della fusione.
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Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 29.12.2009
Lo scrittore pakistano Mohsin Hamid, autore del “Fondamentalista riluttante”, intervistato da La Repubblica commenta la vicenda del giovane nigeriano che ha tentato di farsi esplodere sul volo Amsterdam Detroit, e ammonisce: “Attenti al razzismo anti-islamico, è così che si alimenta il radicalismo”. “Quando un musulmano va in occidente, e in particolare in Europa, gli viene detto che è musulmano, non europeo. E questo rinforza la sua idea di identità musulmana”. Si viene etichettati, perché l’Europa sta cercando di darsi una identità. Ma al mondo ci sono miliardi di musulmani e uno su un milione sarà forse un terrorista. La migliore difesa contro il terrorismo sono i musulmani stessi, come il padre di questo ragazzo che per primo ha messo in guardia sul figlio. E’ lo stesso quotidiano ad occuparsi del padre dell’arrestato, considerato uno degli uomini più potenti d’Africa. La famiglia è sotto choc, e ricorda che aveva chiesto aiuto per farlo tornare a casa, ma nessuno ha risposto. Ci si occupa poi, con un reportage, della moschea di Londra, da lui frequentata.
E ancora, con copyright New York Times, viene spiegata l’offensiva Usa nello Yemen, terzo fronte contro Bin Laden. Il sud della penisola arabica è diventato un santuario di jihadisti.
Anche su Il Sole 24 Ore, una analisi di Alberto Negri racconta “il terzo fronte dell’America”.
Sul Corriere della Sera Paolo Mieli analizza ampiamente “l’islam tollerante che liberò gli ebrei”, ovvero l’epoca d’oro in cui i musulmani erano meno duri dei cristiani. Vi fu un’epoca che durò alcuni secoli, quelli precedenti e quelli immediatamente successivi all’anno Mille, in cui i rapporti tra ebrei e musulmani furono assai diversi, e migliori, degli attuali. Punti di riferimento sono la “Breve storia degli ebrei” dello storico tedesco Michael Brenner, “Gli ebrei nel mondo islamico” di Bernard Lewis, e “Che cosa ha colto Maometto dall’ebraismo”, di Abraham Geiger, tra gli altri.
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Il Corriere della Sera intervista Antonio Maccanico che parla di riforme. Torna il suo lodo che servirà ad evitare gli eccessi. Maccanico dice: “Avremmo dovuto approvarlo nel 1993, perché così non si sarebbe alterato il rapporto tra giustizia e politica. Lo scudo per tutti i parlamentari valido per l’intera durata del mandato, immaginata nel 1993 e nota come Lodo Maccanico, fu approvata dall’Assemblea di Palazzo Madama, ma venne bocciata da Montecitorio perché giunse in contemporanea con la discussione dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi.
Marcello Pera ieri scriveva sul Corriere della Sera segnalando la mancata “rivoluzione liberale” del centrodestra. Questa mattina gli risponde Piero Ostellino sulla prima pagina del Corriere della Sera, puntando l’attenzione sulle possibili riforme condivisibili con il centrosinistra. Il problema per Ostellino non è chiedersi se la sinistra di Bersani sia ancora comunista, ma se sia pronta a fare riforme condivisibili sul terreno già percorso dalle socialdemocrazie europee (ripudio della subordinazione dell’individuo alla collettività, accettazione di una cultura liberale). Ma, “dopo quindici anni che ne parla, è certo che il centrodestra voglia fare una rivoluzione che accresca davvero la libertà degli italiani? Non rafforzerà solo i poteri di decisione del governo, col rischio che, poi, un esecutivo più forte, quale che ne sia il colore, faccia per le libertà ciò che hanno fatto tutti gli ultimi, deboli, governi, cioè poco o niente?”.
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Il futuro frugale che ci aspetta 29.12.2009
MARIO DEAGLIO
I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire.
Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c’è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare.
I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all’insù come un elastico, secondo l’immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse.
Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri – spesso di dubbia validità – né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia.
Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta.
Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza.
Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.
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Tra pochi giorni si celebra il decennale della scomparsa dell’ex leader Psi
La scelta della Moratti : «Una via o un parco intitolati a Bettino Craxi» 29.12.2009
Il sindaco ne ha già parlato con i figli Bobo e Stefania: «Diede una svolta al nostro Paese». Ed è polemica
MILANO — Nomi barrati. Sotto tiro. Nomi a cui si aggiungono sempre se e sempre ma. Combattuti da una parte politica e dall’altra. Ma questa volta Milano vuole giocare la partita fino in fondo. A dieci anni dalla morte, il sindaco Letizia Moratti ha deciso di intitolare una via o un giardino a Bettino Craxi. Lo farà subito prima o subito dopo il 19 gennaio, quando lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ricorderà il leader socialista con una cerimonia al Senato. L’iniziativa milanese è destinata a creare nuove feroci polemiche, ma questa volta si inserisce in un contesto storico diverso che vede la progressiva rivalutazione della figura di Craxi statista. A partire dalle iniziative del Capo dello Stato. I tecnici comunali milanesi della Toponomastica sono già al lavoro: hanno individuato quattro o cinque aree, le più vicine possibili al centro. Una via, o molto più probabilmente un parco come è stato fatto per Don Giussani a cui è stato dedicato parco Solari.
Il sindaco ne ha già parlato con la famiglia, con Stefania, con Bobo. È fermamente convinta che sia il giusto riconoscimento «per un uomo che ha dato una svolta al Paese». Quasi una promessa mantenuta. «Sono sicura che la Moratti renderà giustizia a Craxi» aveva detto la figlia Stefania un anno fa. Adesso il ricordo di Craxi diventerà tangibile a Milano. La cronaca, però, consiglia prudenza. La storia dell’intitolazione di una targa o di una via a Craxi nella «sua» Milano arriva da lontano. Costellata da polemiche durissime. Di passi in avanti e di marce indietro. Tante le lettere che la figlia Stefania ha scritto all’ex sindaco, Gabriele Albertini chiedendo che la città ricordasse suo padre. La prima nel 2002. L’ultimo intervento nel 2008 quando si rivolse direttamente alla Moratti con la richiesta di «una grande via o in alternativa di un parco dove giocano i bimbi».
In mezzo, contestazioni durissime. Come quando si arrivò a un soffio dall’apporre una targa sul portone dell’ufficio di Craxi in piazza Duomo 19. Dopo il via libera della giunta di centrodestra arrivò la sonora bocciatura del Consiglio comunale. Non se ne fece niente. Conseguenza anche delle parole scolpite nel marmo dall’ex pool di Mani Pulite: «Va bene una targa a Craxi — aveva detto Antonio Di Pietro— Basta che si aggiungano le cariche che aveva quando era in vita: politico e latitante». «Non mi meraviglio più di niente — era stato il commento di Gerardo D’Ambrosio — È perfettamente coerente con la politica del centrodestra delegittimare Mani Pulite. E guarda caso: la targa a Craxi non si mette in un posto qualunque, ma sotto l’ufficio dove venivano ricevute le tangenti».
Senza contare che anche la Lega si mise di traverso: «Ero rimasto che le targhe si mettevano per gli eroi, per chi dava qualcosa al Paese non per chi prendeva qualcosa» era stato il commento di Matteo Salvini. Ci ha provato anche Vittorio Sgarbi nel suo mandato di assessore alla Cultura. Mise il nome di Craxi in un pacchetto di nuove vie milanesi. Altra bufera. Con la Moratti a fare da pompiere. «I nomi devono essere condivisi. Penso anche che per le personalità politiche l’attesa di dieci anni dalla morte sia corretta». Il 19 gennaio 2010 sono dieci anni esatti dalla morte di Craxi.
Maurizio Giannattasio e Andrea Senesi
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Ritrovata la «Piccola chitarra» di Ricasso che l’artista realizzò per la figlia Palma 29.12.2009
Denunciato commerciante di Pomezia: l’aveva sottratta con l’inganno e nascosta in una scatola da scarpe
ROMA – Pablo Picasso la donò all’amico artista Giuseppe Vittorio Parisi e non avrebbe mai pensato che un prezioso «giocattolo» costruito per la figlia Paloma potesse finire nelle mani di un commerciante privo di scrupoli e per di più dentro una scatola di scarpe. Sono stati i Carabinieri della Stazione Roma Porta Cavalleggeri a ritrovare la «Pequena Guitarra para Paloma» a casa di un noto commerciante, cinquantenne di Pomezia che due anni fa ebbe gioco facile nel raggirare l’allora novantaduenne Parisi, facendosi consegnare l’opera con la scusa di costruire una degna bacheca dove custodirla. Parisi, morto a gennaio di quest’anno, accettò, senza sapere che non avrebbe mai più rivisto la «Pequena Guitarra» già destinata al Museo Civico d’arte contemporanea di Maccagno sul lago Maggiore, a lui intitolato.
SCATOLA DI SCARPE – I militari, dopo mesi di indagine partite dalla denuncia della moglie del defunto Parisi, hanno ricostruito senza non poche difficoltà l’intera vicenda fino ad arrivare al tassello finale, quella scatola di scarpe malmessa nascosta in una ricca abitazione, nell’anonimato della provincia laziale. L’opera d’arte, ora custodita dai Carabinieri, verrà restituita al Museo Civico sul lago Maggiore. Così avrebbe voluto il grande artista.
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di Immanuel Wallerstein
Obama, l’handicap del presidente nero 27.12.2009
Il Black Caucus del Congresso (associazione che riunisce i membri del Congresso afroamericani, ndt) è sempre più insofferente nei confronti del presidente Obama, e questa tensione politica sta ormai filtrando sulla stampa. I membri del Caucus ritengono che Obama non abbia dedicato sufficiente attenzione al fatto che le attuali difficoltà economiche hanno avuto un impatto maggiore sugli afroamericani e sulle altre minoranze che sul resto della popolazione, e che quindi per loro si renda necessario un intervento extra.
«Obama ha tentato disperatamente di stare lontano dalla razza – ha detto il deputato Emanuel Cleaver secondo quanto riferito dai media – e tutti noi comprendiamo quello che sta facendo. Ma, con un numero così spropositato di afroamericani disoccupati, sarebbe irresponsabile non destinare attenzione e risorse alle persone che stanno soffrendo maggiormente».
Il ruolo di Barack Obama in quanto nero è una questione importante, della quale si è molto discusso sin da quando Obama annunciò la propria candidatura per la presidenza nel 2007. All’inizio Obama non aveva ricevuto un sostegno entusiastico dai politici neri americani. Molti di loro avevano appoggiato pubblicamente Hillary Clinton. Nei media afroamericani ci si chiedeva se Obama fosse «abbastanza nero».
Questa esitazione cambiò radicalmente dopo i caucus dell’Iowa nel gennaio 2008, che Obama vinse cogliendo quasi tutti di sorpresa. L’Iowa è uno stato quasi completamente bianco. Il fatto che fosse riuscito a conseguire un sostegno significativo era il messaggio per i politici afroamericani che poteva essere eletto. L’idea che un nero potesse infine diventare presidente degli Stati Uniti si dimostrò essere la principale preoccupazione per gli afroamericani – non soltanto per i politici, ma anche per la popolazione afroamericana nel suo insieme.
Quando è stato eletto, Obama aveva conquistato l’appoggio entusiastico virtualmente di tutti i neri degli Stati Uniti – ricchi e poveri, giovani e vecchi. Le lacrime di gioia erano genuine, e per i bambini afroamericani quella elezione stava a dimostrare che anche loro potevano aspirare a raggiungere qualunque obiettivo. La domanda è: come ha fatto Obama ad ottenere i voti necessari per la vittoria? Non avrebbe potuto vincere con i soli voti degli afroamericani, neanche se ciascun avente diritto al voto avesse votato per lui. Oltre al nucleo degli elettori democratici affidabili, Obama ha ottenuto l’appoggio di tre gruppi, i cui voti erano precedentemente incerti. Il primo gruppo era costituito da coloro che normalmente non votavano affatto: molti afroamericani (soprattutto quelli meno istruiti e più poveri) e molti elettori giovani (sia neri che bianchi). Il secondo gruppo era costituito da elettori di centro: spesso residenti in comunità suburbane, e in gran parte bianchi. Il terzo gruppo era costituito da lavoratori qualificati bianchi che negli ultimi decenni avevano abbandonato il Partito democratico per le loro opinioni sulle questioni sociali (e che spesso avevano espresso sentimenti apertamente razzisti). Se Obama ha ottenuto i voti degli ultimi due gruppi (gli elettori suburbani di centro e i lavoratori qualificati bianchi riconquistati dal partito repubblicano), è stato proprio perché li ha persuasi di non essere un «nero arrabbiato». Si è presentato, cosa che effettivamente è, come un politico di centro, pragmatico, bene istruito, con un portamento molto «cool». Egli ha conservato questa immagine non solo durante la campagna elettorale, ma anche dopo essere stato eletto.
Ora i politici afroamericani capiscono di aver fatto un patto col diavolo. Hanno raggiunto un obiettivo dal valore simbolico, infrangere la barriera della razza per la carica elettiva più alta degli Stati Uniti sostenendo un candidato nero che «ha cercato disperatamente di stare lontano dalla razza». Obama lo ha fatto per due ragioni. In parte perché quello è veramente il suo profilo e il suo impegno di una vita, ma lo ha conservato anche perché, come politico, lo considera essenziale per la sua rielezione nel 2012 e per l’elezione di un numero di parlamentari democratici sufficiente a consentirgli l’attuazione della sua agenda legislativa.
Se riguardasse solo Obama e il suo rapporto con gli afroamericani, questa questione potrebbe essere considerata di importanza marginale in un lungo processo storico, ma in effetti è soltanto un aspetto di una questione politica più generale in tutto il mondo.
Le conquiste simboliche sono un elemento centrale della politica mondiale. L’elezione di una persona proveniente da un gruppo cui in precedenza non era consentito aspirare a tale carica è molto importante in qualunque paese. Si pensi solo alla gioia e al senso di progresso suscitati dalla elezione di Nelson Mandela a primo presidente africano del Sudafrica, di Evo Morales a primo presidente indigeno della Bolivia, di quelle donne che sono diventate le prime presidenti di paesi musulmani. L’elezione di Barack Obama a primo presidente afroamericano degli Stati Uniti è stata un avvenimento di pari portata. Tutti questi eventi politici sono stati di rilievo, e la loro importanza non deve mai essere sottovalutata.
Tuttavia le vittorie simboliche debbono tradursi in cambiamento reale, o possono lasciare alla fine un sapore amaro. In che misura questo leader possa produrre un cambiamento reale dipende in parte dalle sue priorità, ma anche dai particolari limiti politici del paese in questione.
Nel caso degli Stati Uniti, il margine di manovra di Obama è piuttosto limitato. Le poche volte in cui ha reagito in quanto nero, ha immediatamente perso consenso politico. E’ accaduto durante la campagna elettorale, quando sono venute alla luce alcune dichiarazioni «incendiarie» del suo pastore della Trinity Chuch di Chicago, Jeremiah Wright. La reazione iniziale di Obama fu di tenere un discorso sofisticato sulla razza nella vita americana, in cui disse: «non posso disconoscere (Jeremiah Wright) più di quanto posso disconoscere la mia nonna bianca». Ma subito dopo Obama ha dovuto fare marcia indietro e disconoscere il suo pastore, abbandonando la sua chiesa.
È successo nuovamente subito dopo l’elezione di Obama, quando il prof. Henry Lewis Gates dell’Università di Harvard (un afroamericano) è stato arrestato dopo essere entrato nella propria casa forzando la serratura che si era inceppata. Mentre si trovava in casa propria il professor Gates è stato affrontato da un poliziotto bianco che, dopo un diverbio, l’ha arrestato per «resistenza». In un primo momento Obama ha dichiarato che il poliziotto aveva «agito stupidamente». Poi però c’è stato uno strascico politico, e Obama ha invitato i due uomini alla Casa Bianca per un riappacificamento.
Per Obama la lezione è stata chiara. Sul piano politico non può permettersi in nessuna circostanza di essere visto come un «presidente nero». Questo però significa andare incontro a limitazioni nel fare o dire cose che un presidente bianco con le sue stesse opinioni politiche potrebbe voler fare o dire. Nel contesto americano attuale, essere un presidente afroamericano si rivela un traguardo simbolico ma, allo stesso tempo, un handicap politico. Obama lo capisce, il Black Caucus del Congresso lo riconosce. Il punto è cosa eventualmente Obama o il Caucus hanno intenzione di fare, o possono fare, a questo riguardo.
Copyright Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091227/pagina/10/pezzo/267789/
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di Joseph Halevi
La deflazione salariale blocca la ripresa 27.12.2009
Fino a tutto il primo trimestre del 2009 regnava la grande paura del meltdown, cioè della liquefazione del sistema finanziario mondiale. Il contesto della grande paura apriva delle fratture assai profonde tra i principali paesi capitalistici e tra questi ed i paesi detti emergenti. Infatti divergenze gravi emersero alla riunione dei ministri delle finanze e dell’economia dei G20 tenutasi a Londra lo scorso aprile. Francia e Germania, appoggiati dall’India, volevano regole dure per i prodotti derivati ed i titoli tossici, per le società di rating e via dicendo, mentre gli Stati uniti favorivano il salvataggio del sistema bancario così com’era compresi i titoli tossici. Malgrado gli scontri, l’incontro si chiuse con l’impegno di promuovere misure di stimolo pari al 4% del Pil e di regolamentare la gestione di fondi di investimento hedge che hanno ricoperto un ruolo centrale nella propagazione dei rischi e dei prodotti derivati ad essi connessi. Alla riunione di capi di governo dei G20 svoltasi a Pittsburgh a fine settembre era già possible verificare che gli impegni concernenti il rilancio economico e quelli riguardanti i fondi speculativi di investimento hedge non erano stati mantenuti.
Nella sostanza dopo il trimestre della paura, il 2009 ha visto affermarsi la linea di Washington, elaborata dal Segretario al Tesoro, fondata appunto sul salvataggio dei titoli tossici. Questo tipo di politica destina i soldi pubblici prevalentemente al sistema finanziario senza un significativo impatto positivo reale ma con un effetto esplosivo sul debito pubblico. Le banche hanno ottenuto denari pressochè gratuitamente e – come ammesso da Bernanke in un’intervista – addirittura in maniera automatica, che poi hanno ricollocato in altrettante attività puramente finanziarie e di rendita. Inizialmente, per via della precarietà degli altri titoli, i fondi forniti dallo Stato sono stati depositati in conti presso le stesse banche centrali. Poi, dati i bassissimi tassi di interesse e la manifesta determinazione delle autorità di condonare ogni recidività – chiamata dagli economisti ‘rischio morale’ – il continuo afflusso di denaro pubblico è stato ridiretto verso collocamenti vieppiù speculativi ma anche vieppiù disgiunti da attività su cui si sostiene l’occupazione ed il reddito delle famiglie. Ne è scaturito un processo pirandelliano in cui il settore finanziario, additato populisticamente come principale se non unica causa della crisi, otteneva quantità crescenti di soldi pubblici senza liberarsi dei titoli tossici, aumentando enormemente il suo peso politico sia nazionalmente che internazionalmente. La vicenda degli hedge fund ne costuisce un ottimo esempio. Durante il trimestre della paura essi sembravano moribondi, ora sono nuovamente sulla cresta dell’onda. La loro specialità e proprio quella di gestire il rischio, ovvero di trovare/creare il rischio e renderlo speculativmente profittevole. Con tutti i soldi erogati dalle banche centrali e con nessuna volontà di regolamentare i fondi di investimento, è naturale aspettarsi che gli hedge funds ritornino alla ribalta.
Nel rilancio dell’economia della speculazione finanziaria gli Usa, proprio sotto la direzione di Barack Obama, hanno giocato il ruolo principale perchè i governi dei paesi maggiormente critici hanno avuto un atteggiamento sia populista che confuso per cui la loro posizione è risultata irrilevante. La Francia di Sarkozy rientra nel primo caso, mentre la Germania appartiene al secondo. Le banche multinazionali francesi partecipano ampiamento al rilancio delle operazioni dei fondi hedge e, conseguentemente, hanno poi apertamene messo un bemolle sulle dicharazioni contro il capitalismo finanziario del presidente. Dal canto suo la cancelliera Angela Merkel aveva elaborato fino all’estate del 2009 una visione assai semplice della posizione tedesca. La Germania, ha sostenuto Merkel in diverse interviste, deve vivere di esportazioni. Non può quindi puntare sulla spesa pubblica per sostenere la domanda interna, nè contribuire al rilancio degli altri paesi europei che potrebbero entrare in concorrenza con la Germania. La riforma della finanza mondiale veniva considerata urgente in quanto non si poteva far dipendere le esportazioni di Berlino da una domanda basata sulla instabilità finanziaria. Lo schema è poi crollato con la caduta delle esportazioni ed a questo punto Berlino ha abbandonato ogni reticenza riguardo la spesa pubblica interna.
Se complessivamente i due maggiori paesi europei si sono in defintiva avvolti in se stessi, nulla di propositivo poteva venire dal Giappone. Il salvataggio delle banche nipponiche negli anni Novanta ha molto in comune con le attuali misure di Geithner solo che venne attuato in maniera ancora più nebulosa ed opaca. Il problema del Giappone è il cronico eccesso di capacità produttiva che dura da un trentennio e pare aggravarsi ogni 10 anni, malgrado la droga di spesa pubblica erogata dal 1992 in poi abbia portato il rapporto del debito sul Pil ai livelli più alti dell’Ocse. La speranza risiede in massicce esportazioni verso la Cina e, ulteriomente, l’India. L’alternativa è la deindustrializzazione a favore della Cina. Pertanto lo spazio internazionale acquisito da Washington per l’attuazione della politica di riabilitazione finanziaria è reale e condiviso anche da componenti del campo dei critici.
La divaricazione in corso tra occupazione, stato di crisi delle imprese da un lato e rivalutazione delle finanza dall’altro deve per forza informare le idee riguardo le prospettive future. Forse bisogna sperare che gli hedge funds ricomincino ad erigere grattacieli per le loro sontuose sedi. Allo stato attuale si nota un generalizzato calo dei salari, mentre quel poco di ripresa che viene propagandata continua a creare disoccupazione. Lo stesso rilancio della crescita cinese si basa sull’ utilizzo senza pietà del meccanismo di marxiano dell’esercito industriale di riserva: dopo aver licenziato in due anni oltre 20 milioni di lavoratori l’economia capitalistica cinese sta riassumendo a salari più bassi. La finanziarizzazione dell’economia mondiale è stata principalmente sostenuta dall’implosione della resistenza salariale e delle condizioni di lavoro. Questo sciagurato fenomeno è destinato a continuare.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20091227/pagina/07/pezzo/267774/
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Montano le tensioni politiche con Stati Uniti, Russia e Cina che competono per il controllo delle riserve mondiali di petrolio e gas
Cina, Russia, USA :::: Fawzia Sheikh :::: 28 dicembre, 2009
Fonte: OilPrice.com – 2009/12/18
Con il completamento, da parte della Cina, dello storico gasdotto per il gas naturale dal Kazakhstan, che aggira la Russia, questa settimana, il colosso asiatico stringe la morsa sulle risorse energetiche necessarie per alimentare un’economia fiorente; un desiderio che l’ha anche costretta a una ricerca di giacimenti di petrolio e gas in altri angoli del globo.
La Cina non è sola in questa lotta per la sicurezza energetica. Affamati di petrolio e gas, le potenze mondiali come Russia e Stati Uniti si basano anch’esse su diverse strategie per appropriarsi dei tesori energetici, ma i loro sforzi sollevano interrogativi su eventuali conflitti, al termine della corsa.
La US Energy Information Administration descrive la Cina come il secondo consumatore di energia dopo gli Stati Uniti. Approfittando della crisi finanziaria mondiale, la potenza asiatica ha sfruttato le riserve di valuta per fare investimenti, sia in Russia che in Asia centrale, contribuendo a costruire centrali elettriche e altre infrastrutture nazionali, in cambio di forniture a lungo termine di petrolio e di gas, ha detto Ben Montalbano, un ricercatore presso la Energy Policy Research Foundation di Washington.
Mancante di riserve energetiche, la Cina sta “lavorando sodo per sbloccare gli investimenti in Africa, Asia centrale e in Venezuela”, ha detto Montalbano a OilPrice.com. Il paese ha, inoltre, cercato gas naturale per soddisfare i consumi crescenti e costruito molti terminali per ricevere gas naturale liquefatto, nel corso dell’ultimo anno, ha aggiunto.
”Se esclusa dalle risorse naturali africane… la crescita della Cina si fermerebbe”, avverte Peter Pham, direttore del Progetto Africa del National Committee on American Foreign Policy di New York, e professore associato presso la James Madison University di Harrisonburg, Virginia.
Questa offerta ad alta intensità di energia, tuttavia, ha causato attriti con la comunità mondiale. Nell’ambito della strategia degli investimenti in Africa, la Cina “conquista facilmente le élite governanti, ma non necessariamente conquista il popolo”, ha rincarato Pham.
Le società di proprietà dello stato cinese tendono a non investire nelle esplorazioni, ma preferiscono offrire “incentivi”, ha detto. L’offerta cinese di crediti, di molti miliardi di dollari, all’Angola, è stata fondamentale per la nazione africana per “sottrarsi” ai negoziati con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale, che chiedevano “una riforma seria e determinate condizioni”, prima che le organizzazioni concedessero tali strutture, ha sostenuto Pham. La Cina, poi, ha acquistato le partecipazioni di parte della società petrolifera statale angolana, ha detto.
La Cina, inoltre, ha aiutato il governo di Khartoum a sottrarsi alle sanzioni delle Nazioni Unite, fornendo assistenza per la costruzione di almeno tre fabbriche di armi in Sudan, ha detto.
Non essendo da meno, la Russia è tornata in Africa, e con “forza considerevole”, ricerca le risorse naturali, in parte per recuperare il suo “status di grande potenza”, ha detto Pham. Le aziende russe stanno cercando di “stipulare partnership” con i produttori di risorse per formare, ad esempio, “un’Opec del gas naturale”, ha detto.
La Russia detiene le più grandi riserve mondiali di gas naturale e l’ottava riserva di petrolio, secondo la US Energy Information Administration. L’anno prossimo, il suo bilancio federale sarà quasi al 50 per cento proveniente da esportazioni di petrolio e gas, enfatizzando l’affidamento sulle esportazioni di gas per “alimentare il bilancio”, ha detto Montalbano a OilPrice.com. In una certa misura, la Cina e la Russia hanno lavorato insieme nel settore del petrolio e del gas. All’inizio di quest’anno, la Cina ha annunciato prestiti per 25 miliardi di dollari a favore di aziende russe, in cambio dell’approvvigionamento ventennale di petrolio greggio.
La Russia non è il colosso “delle riserve finanziarie” qual’è stata due anni fa, e ha un sistema bancario e industriale “abbastanza debole”, sostiene Montalbano. Mentre il paese sta discutendo alcuni progetti con l’Iran e, potenzialmente, con l’Iraq, è soprattutto interessata all’apertura degli enormi giacimenti di gas nell’Artico, perché i suoi attuali giacimenti sono in calo, ha osservato.
La Russia e altri paesi del nord hanno sempre rivolto attenzione allo scioglimento dei ghiacci dell’Artico, ma la regione “dev’essere definita”, ha detto Boyko Nitzov, direttore del Eurasia Energy Center presso il Consiglio Atlantico, a Washington. “L’Artico è ancora abbastanza off limits per la produzione su larga scala del petrolio e del gas”, e di difficile accesso, in particolare durante l’inverno, ha spiegato Nitzov.
Le compagnie petrolifere americane, per l’eccessivo affidamento sul Medio Oriente per il fabbisogno di energia, hanno spostato la loro attenzione verso l’Africa, uno dei principali produttori di energia degli ultimi anni, affiancando il Golfo Persico nelle importazioni di energia negli Stati Uniti, ha spiegato Pham. Le imprese statunitensi tendono a stringere accordi di ripartizione della produzione o ad esplorare lo sviluppo delle risorse, ma soffrono la mancanza di carta bianca nel loro perseguimento dei giacimenti di petrolio in luoghi come l’Africa, a causa delle sanzioni del governo degli Stati Uniti e della pressione dell’opinione pubblica, ha detto. Questo pone gli Stati Uniti in “lieve svantaggio” rispetto a Russia e Cina, ha aggiunto.
La competizione per le attività energetiche, probabilmente, non porterà a scatenare conflitti, ma piuttosto ad aumentare la tensione politica, prevede africanista Pham. Le principali organizzazioni africane, l’Europa e gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto il colpo di Stato militare nella Guinea dello scorso anno, che ha portato ad un altro massacro dei membri dell’opposizione. Eppure la Cina ha firmato un accordo con la giunta militare, rischiando la percezione come “operatore canaglia col solo scopo di ottenere risorse”, ha avvertito.
La Russia e la Cina, nel frattempo, hanno entrambe beneficiato degli investimenti comuni sul petrolio e sul gas, rendendo un conflitto dubbio, nel prossimo futuro; “ma fra 10, 20 anni, chi lo sa”, ha aggiunto Montalbano.
Fawzia Sheikh, di OilPrice.com, si occupa di combustibili fossili, energia alternativa, metalli e geopolitica. Per saperne di più visitate il sito web: http://www.oilprice.com
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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I pasdaran: la sedizione è finita, i responsabili pagheranno
Arrestata in Iran la sorella di Shrin Ebadi
Teheran, 29-12-2009
Hanno arrestato la sorella del premio Nobel per la pace Shrin Ebadi. E’ lei stessa a denunciarlo. “Lo hanno fatto affinchè fermi il mio lavoro”, ha affermato l’attivista, 62 anni, in una telefonata da Londra.
“Non stava facendo niente di male, non è implicata nella lotta per i diritti umani, nè ha mai partecipato ad alcuna protesta”. Ebadi spiega di averle parlato per l’ultima volta lunedì, poche ore prima dell’arresto.
Membri del ministero dell’informazione iraniana avevano avvertito più volte la donna di non contattare la sorella.
“Ieri sera mia sorella, la dottoressa Nushin Ebadi, docente presso la facolta’ di Medicina dell’Universita’ Azad di Teheran, e’ stata arrestata nella sua
abitazione da agenti dell’Intelligence e portata in un luogo sconosciuto”, afferma la Premio Nobel in una dichiarazione diffusa dal sito Rahesabz.
Shirin Ebadi aggiunge che due mesi fa la sorella, che non e’ impegnata in alcuna attivita’ politica, era stata convocata dagli apparati di sicurezza. “In quella occasione – afferma la Premio Nobel – le e’ stato detto che doveva convincermi a cessare le mie attivita’ in difesa dei diritti umani, altrimenti sarebbe stata arrestata”.
Shirin Ebadi, che si trova all’estero dalle elezioni presidenziali dello scorso giugno, ha continuato a criticare il regime. “L’arresto di mia sorella – aggiunge la Premio Nobel – e’ un atto illegale. Il Paese ha bisogno ora di calma piu’ che in qualsiasi altro momento e questo puo’ essere ottenuto solo rispettando la legge. Ogni atto illegale avra’ conseguenze negative”.
La repressione attuata in questi giorni “cosi’ come gli arresti, di oltre 1500 persone, e’ illegale, fatta per spaventare la gente”, ha affermato in un’intervista a
SkyTg24 il premio Nobel iraniano Shirin Ebadi.
Commentando la vicenda della sorella, arrestata ieri sera da un reparto della sicurezza, la Ebadi – raggiunta a Londra – ammette: “Non sappiamo dove sia rinchiusa.
Gli avvocati non hanno avuto il permesso di incontrarla, come per tutti gli arrestati di questi giorni. Mia sorella e’ stata arrestata senza neanche un ordine di carcerazione: non avevano il diritto di farlo”.
Quanto alle prospettive nel paese, il premio Nobel spiega: “Le conseguenze saranno negative per un regime che si dice islamico e che prende la sua legittimita’ dall’Islam. Eppure la gente e’ stata attaccata nel giorno sacro dell’Ashura. Il governo parla di 8 morti e 60 feriti, ma sono le cifre sono molto piu’ alte”. Quanto alla diffusione nel paese del movimento anti-governativo la Ebadi afferma che “in alcune citta’ le proteste sono ancora piu’ forti”.
Arrestato giornalista della tv di Dubai
Il procuratore generale di Teheran ha confermato l’arresto di un giornalista della Tv di Dubai, del quale si erano perse le tracce da due giorni. “Non e’ scomparso nessuno, una persona e’ stata arrestata e se il ministero della cultura confermera’ che aveva il permesso per lavorare sara’ rimessa in liberta’”, ha detto Abbas Jafari
Doulatabadi, citato dall’agenzia Mehr.
http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=135925
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Nuova tecnica restituisce vista a paziente cieco 23.12.2009
Una nuova tecnica pioneristica che utilizza cellule staminali ha restituito completamente la vista a un uomo cieco a un occhio.
L’inglese di 38 anni, di nome Russell Turnbull, era stato colpito da ‘ammoniaca ad un occhio mentre cercava di interrompere una rissa in un autobus durante il suo ritorno a casa.
L’attacco chimico, che gli ha ustionato la cornea, gli ha offuscato la vista a un occhio. L’uomo sentiva forti dolori addirittura quando sbatteva le ciglia.
Ora, grazie a un trattamento sviluppato dai ricercatori del North East England Stem Cell Institute, Turnbull è di nuovo in grado di vedere.
”L’offuscamento della cornea è considerata una delle maggiori cause di cecità, e colpisce 8 milioni di persone ogni anno in tutto il mondo”, ha detto Francisco Figueiredo, chirurgo e consulente del team di scienziati che si è occupato dell’intervento, i cui dettagli sono stati pubblicati sulla rivista Stem Cells.
”Grazie all’uso delle cellule staminali – ha detto Figueirido – ora siamo in grado di fornire una possibile soluzione a questa malattia, senza la necessità di lunghe e dolorose cure”.
I ricercatori hanno prelevato un gruppo di cellule staminali dall’occhio sano di Turnbull, e le hanno fatto crescere 400 volte il loro numero in laboratorio. In seguito, hanno rimpiazzato la cornea danneggiata con il nuovo tessuto, restituendo completamente la vista a Turnbull.
Turnbull è solo il primo di 25 pazienti su cui questo tipo di metodo sarà prossimamente applicato. ”Mi sento come se la mia vita di un tempo fosse tornata”, ha detto Turbull.
Per approfondire:
Vedere è bello e la vista va protetta
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