Inflazione sulle materie prime: è speculazione, non aumento di domanda
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**, 07.04.2010
Stupirsi per la nuova ondata di aumenti dei prezzi delle materie prime dimostra che, dal fallimento della Lehman Borthers in poi, si è sognato ad occhi aperti. Giustificare la recente impennata inflazionistica con una fantomatica “ripresa” o con la corsa e la sete del cavallo cinese vuol dire perseverare nell’irresponsabilità
L’impennata dei prezzi delle materie prime ha solo un nome: speculazione. Come a vecchi tempi. Dovrebbe essere chiaro che se il sistema viene inondato di liquidità senza che nel frattempo si siano costruiti argini forti per incanalarla, essa prima o poi si riverserà dove può determinare alti ritorni di profitto, anche a spese dell’intera economia.
Il solo costo del salvataggio bancario in America è costato 2.500 miliardi di dollari. Il costo totale della crisi per Washington oscilla tra i 3.500 e i 5.000 miliardi di dollari. Quanto la seconda guerra mondiale in dollari attuali!. Allora quei soldi andarono nella produzione bellica, oggi questa bomba-carta di liquidità è rimasta nei mercati della finanza e nel sistema bancario. Nel contempo si sono registrati il crollo del commercio mondiale che oggi varia tra il 16 e il 20% e il crollo della produzione industriale di tre, quattro volte superiore in misura percentuale alla riduzione del Pil.
A nostro avviso la recente spinta speculativa sulle materie prime non è il risultato della “magia del mercato” ma la decisione della finanza di sfidare in anticipo il sistema politico che continua a parlare di riforme globali ma fatica a realizzarle.
La stessa amministrazione Obama ne è consapevole e denuncia le grandi banche e le finanziarie americane che stanno spendendo 1,4 milioni di dollari al giorno per operazioni di lobbying al fine di “spegnere la volontà politica di cambiamento”.
Per deragliare il treno delle riforme si tenta di provocare preventivamente un’ondata di inflazione che crei una situazione di emergenza e quindi la possibilità di ricatto, come nella crisi bancaria.
Giocare adesso con l’inflazione dei prezzi delle materie prime significa innescare una nuova crisi, forse peggiore di quella che abbiamo sperimentato, perché va a stravolgere il sistema produttivo e la precaria stabilità sociale.
Recentemente in Messico al Forum Internazionale dell’Energia il segretario generale dell’OPEC, Abdallah Salem el-Badri ha dichiarato:” Alla fine del 2008 i prezzi del petrolio sono sfuggiti a ogni controllo a causa della speculazione, oggi dobbiamo lavorare duramente per ridurre la volatilità dei mercati”.
Infatti il prezzo del petrolio non è sospinto in alto da un aumento di domanda di barili reali ma dalla crescita del mercato dei “barili di carta”. Petrolio virtuale viene scambiato nella forma di “futures” che, scommettendo sul rialzo del prezzo, ne determinano l’aumento vero.
Ma la speculazione sta generando volatilità anche sui prezzi dell’acciaio, del rame, del nickel, ecc. Per l’economia italiana ciò potrebbe essere devastante. L’aumento medio dei costi di approvvigionamento di materie prime nel 2010 si calcola in un più 17%, senza contare gli effetti perversi della speculazione.
Per fronteggiare “i nuovi rischi emergenti”, Obama, Sarkozy e i capi del governo inglese, canadese e sud coreano, in quanto ospitanti passati e futuri dei summit del G20, hanno indirizzato una lettera a tutti i governi al fine di stabilire le nuove regole internazionali. Ma, mentre i tempi della loro entrata in vigore sono lontani, nel 2012, la situazione economica potrebbe precipitare ulteriormente.
Negli Usa la Commodity Futures Trading Commission starebbe per imporre limiti ai volumi di petrolio e di altre materie prime che possono essere oggetto di operazioni finanziarie al fine di ridurre gli effetti speculativi. Il “cuore” del problema, come abbiamo da tempo evidenziato, sta però nel meccanismo dei derivati OTC che sono negoziati tra banche e hedge fund fuori dai mercati regolamentati e quindi sottratti a ogni forma di controllo.
E’ tempo di agire. La lettera dell’ex presidente della Commissione Europea Jacques Delors “Per un rinnovo del partenariato euro-americano” indica una strada che si può percorrere insieme.
*Sottosegretario all’Economia nel governo Prodi
**Economista
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14581
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La lezione di Katyn, 08.04.2010
LIETTA TORNABUONI
Fa impressione sentire alla tv della grande cerimonia, con partecipazione di autorità civili e militari della Polonia e anche del presidente russo Putin, svoltasi ieri in memoria dei morti di Katyn. Quello e altri luoghi vicini, tra i boschi, sono stati per oltre sessant’anni sede di una delle contese internazionali più atroci intorno a centinaia e centinaia di ufficiali e soldati polacchi ammazzati e poi sepolti sotto gli alberi in vaste fosse collettive. Avveniva nel 1940. In quel momento e più tardi, la colpa del massacro venne attribuita dai sovietici ai nazisti; i polacchi ne accusavano i sovietici, anzi Stalin in persona.
Pare che all’epoca gli ufficiali dell’esercito costituissero in Polonia una élite insostituibile: erano docenti universitari, architetti, matematici, avvocati, astronomi, almeno laureati o professionisti in genere.
Eliminarli voleva dire decapitare la Polonia, cancellare ogni possibile classe dirigente presente e futura, privare i polacchi di ogni guida. Anche per questo dopo il massacro le loro famiglie vennero disperse, espulse dalla società polacca, ridotte al silenzio: nel suo film «Katyn», Andrzej Wajda ha raccontato la morte fisica e civile a cui quelle vittime, tra le quali l’ufficiale suo padre, furono condannate. Naturalmente, la massa degli uccisi era troppo grande perché la verità restasse nascosta: i polacchi sapevano benissimo chi fosse responsabile del massacro; i sovietici seguitarono ufficialmente e ostinatamente, nonostante ogni prova e testimonianza, a incolparne i nazisti.
E adesso polacchi e russi celebrano insieme il ricordo di quel massacro. Sembra incredibile, nonostante il lungo tempo passato. Sembra incredibile, se si pensa all’atteggiamento tanto diverso dei turchi nel negare le proprie responsabilità internazionali, e la testardaggine con cui tanti europei osteggiano gli stranieri. Sembra incredibile, ma è vero e il progresso dei popoli è anche questo.
Il Sole24ore scrive che il premier russo ammette che ‘per decenni si è tentato di nascondere la verità’, ma non si scusa e non apre gli archivi segreti sulla strage.
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Dalla newsletter di Peacelink del 07.04.2010
Questi che leggete sono codici che tutti siamo tenuti a conoscere. Li ho trovati nel sito internet del Ministero della Difesa[1]. C2 significa “Comando e Controllo”, C3 invece “Comando, Controllo e Comunicazioni” (per chi mastica un peluzzo di matematica è chiaro che si intente C elevato al quadrato e al cubo, ma questa è solo una finezza), C4I infine sta per “Comando, Controllo, Comunicazioni, Computer e Informazioni”.
Le riflessioni da fare ora sono due:
1. due parole ricorrono troppo spesso (Comando e Controllo);
2. nei piani alti dell’intellighenzia ogni singola parola viene scelta con cura incommensurabile.
Per cercare di capire cosa significano, partiamo da un discorso esasperato di chi chiede non giustizia, ma diritto:
“Denunciatemi perché sono entrato in ‘zona rossa’, abito in ‘zona rossa’, mi denunciate perché vado a prendere le macerie di casa mia, che dopo undici mesi non è stato fatto assolutamente niente.” Questo ha detto un aquilano del cosiddetto “popolo delle carriole” davanti a due telecamere, oltre alla terza – almeno – di “iK Produzioni”[2] che ha reso pubblico il video.
Avete mai visto questo documento in un telegiornale o nella cosiddetta “grande informazione”? Avete mai letto questa frase che ho virgolettato in un giornale?
No, lo sapevo. Lo sapevo perché la popolazione de L’Aquila è stata tenuta sotto stretto controllo seguendo scrupolosamente quello che i vertici – qui è bene distinguere, ai volontari bacerei anche i piedi – della Protezione Civile chiamano, in gergo “Il Metodo Augustus”[3], un manuale scritto da Elvezio Galanti per la gestione, il comando ed il controllo delle emergenze.
Quello che segue è solo un piccolo estratto delle 93 pagine:
> La popolazione è comunque sempre coinvolta nelle situazioni di crisi, sia emotivamente
> (teme di essere toccata dagli eventi, partecipa ai problemi di chi è coinvolto), sia
> fisicamente (se non ha subito danni, comunque è costretta a sopportare disagi).
> Questa sua obbligata “partecipazione” si associa prevalentemente a sensazioni di smarrimento
> e di impotenza. Pochi sono in grado di elaborare autonomamente strategie di risposta all’emergenza
> e la maggior parte si dibatte tra il rischio di un panico isterico ed irrazionale ed una ricerca
> ansiosa di aiuto, di riscontri e di punti certi di riferimento.
> Se la sua controparte istituzionale sarà sufficientemente autorevole e determinata, la maggior
> parte dei cittadini sarà disponibile ad abdicare alle proprie autonomie decisionali, a sottoporsi
> a privazioni e limitazioni, ad “ubbidire” alle direttive impartite.
> Questo atteggiamento, una volta concretizzatosi, potrà essere di grande aiuto nella predisposizione
> di piani di evacuazione, di interventi sanitari di massa, di restrizione alla circolazione, di
> razionamento di cibi, acqua e medicinali.
>
> L’aver conquistato la fiducia della popolazione portandola ad assumere un atteggiamento di
> collaborazione e di disciplina, non può essere considerato un risultato finale ed acquisito
> definitivamente.
> Quanto può essere accettato nell’immediato manifestarsi della crisi, può essere rifiutato un momento
> dopo se non si chiariscono le funzionalità e le finalità delle direttive, se non si diffonde la
> sensazione che i sacrifici e le privazioni richieste portano a risultati concreti e contribuiscono a
> migliorare lo stato delle cose.
> È perentorio, quindi, informare la popolazione sull’evolversi della situazione, insistendo
> costantemente su due fronti:
> – evoluzione dell’evento che ha scatenato la crisi;
> – risultati ottenuti con gli interventi posti in essere.
> Un chiaro piano di comunicazione su questi due argomenti permetterà una più agevole accettazione delle
> misure adottate.
> Non solo: qualora il precipitare degli eventi lo rendesse necessario, sarà più facile imporre una
> disciplina più ferrea e chiedere sacrifici più duri.
>
> […]
>
> è inutile perdersi in dettagli poco importanti, per esempio parlare della reazione incontrollata di una
> piccola parte della popolazione, quando la comunità si è comportata, in generale, in maniera corretta;
Io non a cosa serva un centro di Comando e Controllo in una tendopoli, ma so – e ho le prove – che questo esiste. Io non so perché non si può fare volantinaggio in una tendopoli, ma so – e ho le prove – che è così.
Questo piano non è stato concepito dal governo ora in carica; queste modalità operative sono attive da decenni.
Perché nessuno si è mai scandalizzato? Perché i giornalisti non ce le raccontano?
Qualche risposta però inizia a farsi breccia. Basta guardare qui[4], dove Comando e Controllo è un film/documentario che racconta quello che il Tg1 di Minzolini non ha osato farvi vedere. E’ stato presentato in anteprima a New York il 6 aprile 2010.
E’ un racconto corale, lucido e puntuale, della deriva autoritaria della gestione del potere in Italia attraverso le emergenze e le trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, partendo dalla gestione del dopo terremoto all’Aquila, dalla mancata ricostruzione (a quasi un anno dal sisma) e della costruzione (immediata) da zero delle controverse C.A.S.E. di Berlusconi.
Concludo con due domande che lascio aperte:
1. perché il film “Comando e Controllo” non ha ancora trovato una casa distributrice?
2. perché, quelle all’Aquila si chiamano “C.A.S.E.” e non “case”?
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Note
[1] http://www.difesa.it/SMD/CaSMD/Trasformazione_net-centrica/Abbreviazioni.htm
[2] http://www.youtube.com/user/IKPRODUZIONI#p/u/10/psRRX5jI_Yo
[3] http://www.ispro.it/wiki/images/9/95/Metodo_Augustus.pdf
[4] http://www.ikproduzioni.it/blog/index.php/tag/alberto-puliafito/
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Giacomo Alessandroni g.alessandroni@peacelink.it
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Rivoluzioni tranquille, 02.2010
Il potere passa dalle mani di partiti a quelle dei movimenti civili. Lo storico Mark Beylin si chiede se si stia realizzando il sogno di Hannah Arendt di una partecipazione diffusa basata sul dibattito pubblico.
In Europa sono in corso rivoluzioni che hanno un impatto enorme sulla vita di ogni cittadino. Tuttavia solo pochi osservatori notano la loro influenza. Il motivo è semplice: non ci sono né movimenti rivoluzionari, né leader incendiari, né barricate, né prese della Bastiglia. Nessuno vuole spazzare via il potere dello stato o prenderne il posto. Queste rivoluzioni non esplodono, ma scorrono tranquillamente.
La loro visibilità deriva soprattutto dalla forte pressione che i cittadini esercitano sugli apparati statali, in particolare quando si sentono minacciati o disprezzati. In questi casi si organizzano spontaneamente al di fuori delle istituzioni politiche ufficiali. Si contano migliaia di esempi di questo genere in Europa, e in particolare in Polonia. I più noti sono i movimenti ambientalisti e femministi.
Rappresentazione e partecipazione
Gli ecologisti hanno fatto la loro comparsa decenni fa in piccoli gruppi sparsi, fuori dai circoli politici. Negli anni novanta hanno cominciato a formare delle alleanze in diversi paesi europei e a creare una grande rete mondiale composta da associazioni di ogni genere. I movimenti femminili e loro lotte contro le discriminazioni si sono molto rafforzati. Considerati ancora pochi decenni fa come marginali, hanno imposto nuovi modelli di pensiero e di comportamento nella vita politica e sociale. In Europa i partiti sono caratterizzati da una “struttura autocratica e oligarchica, un’assenza di democrazia interna e di libertà, una pretesa di infallibilità”, scriveva Hannah Arendt nel 1963 nel suo saggio Sulla rivoluzione.
Questo sistema non favorisce certo la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica: sono solo rappresentati, e questa rappresentazione riguarda i loro interessi o il loro benessere e non le loro azioni e opinioni. Arendt giudicava con severità la democrazia dell’epoca, ma le sue considerazioni valgono anche per la democrazia contemporanea, condizionata dalle mode del momento e sottomessa agli apparati di partito. La soluzione che raccomandava per introdurre più libertà nella politica è legata alla tradizione perduta dei consigli rivoluzionari, quei forum di discussione che facevano emergere le decisioni più importanti. Ma il libero accesso al dibattito pubblico, questa condizione fondamentale della politica nel senso più nobile del termine, rinasce oggi sotto un’altra forma.
Una rete per ciascuno
Attualmente viviamo una rivoluzione della partecipazione nella sfera pubblica e assistiamo a un cambiamento rivoluzionario nel sistema di formazione delle élite. Una rivoluzione che non è né di sinistra né di destra, che supera largamente le ideologie politiche tradizionali nate nel diciannovesimo secolo. Ormai i cittadini scelgono liberamente i loro impegni pubblici e privati, indipendentemente dallo stato. Grazie alla nuova facilità di comunicazione, creano reti e formano gruppi di pressione. “Anche gli sportivi dispongono oggi di organizzazioni forti.
Lo stesso vale per gli omosessuali, i mercanti d’armi, gli autisti, gli invalidi, i genitori, i divorziati, gli ecologisti, i terroristi e così via”, commentava quasi 20 anni fa l’intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger. Da allora questo fenomeno non ha fatto che intensificarsi. Nessuno sa cosa porteranno queste rivoluzioni, se saranno all’origine di una società di grandi egoismi e violenze. Il pericolo esiste. Ma potrebbero anche guarire la democrazia e i suoi organi, gettando le basi di una politica più nobile, fondata su una partecipazione libera nella sfera pubblica, perché, come scriveva Arendt, la libertà è possibile solo tra uguali. (adr)
http://www.presseurop.eu/it/content/article/224361-rivoluzioni-tranquille
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Europa, come ottenere il 100% di elettricità da rinnovabili, 29.03.2010
L’Europa può arrivare ad ottenere al 2050 il 100% dell’elettricità dalle rinnovabili. A dirlo è un report realizzato da PricewaterhouseCoopers. Uno scenario basato sulla “super rete” che collegherà i grandi impianti ad energia pulita dal Mare del Nord al Nord Africa. Per realizzarlo essenziali rapide e adeguate scelte politiche .
L’Europa può arrivare da qui al 2050 ad ottenere il 100% dell’elettricità dalle rinnovabili. A dirlo è un report realizzato da PricewaterhouseCoopers in collaborazione con il Potsdam Institute for Climate Impact Research, l’International Institute for Applied Systems Analysis e lo European Climate Forum (vedi executive summary in allegato).
Un lavoro che propone uno scenario in cui entro metà secolo il vecchio continente soddisfi l’intero fabbisogno elettrico dalle rinnovabili, con un sistema basato su di una “super rete intelligente” capace di coordinare e distribuire l’energia discontinua delle fonti rinnovabili dalla generazione distribuita e soprattutto dai grandi impianti come quelli eolici off-shore del Mare del Nord e quelli di solare a concentrazione del Nord Africa. Una prospettiva energetica in cui sarà possibile abbandonare le fonti fossili e in cui, pur “senza voler esprimere giudizi di merito”, non trovano posto nemmeno nucleare e cattura della CO2.
Una visione ambiziosa, che presuppone un mercato dell’energia europeo unico e integrato tra Europa e Nord Africa, la sviluppo rapido delle fonti pulite in entrambe le aree e la creazione di una infrastruttura elettrica titanica, come la super-smart grid intercontinentale. Ma una visione tutt’altro che irrealistica. Il messaggio del report: soddisfare l’intero fabbisogno elettrico del continente con le rinnovabili è fattibile nonostante gli svantaggi di alcune di queste fonti, eolico e solare in primis, e cioè la loro intermittenza e aleatorietà.
Lo studio spiega anche passo per passo come questo scenario possa essere realizzato. Una road-map che delinea quel che serve per raggiungere l’obiettivo sui vari fronti: incentivi e politiche industriali, finanza e ricerca. A livello di politiche europee, si sottolinea, ad esempio, che è fondamentale implementare le direttive esistenti e stabilire già ora obiettivi in materia al 2030 e al 2050 per i singoli Stati membri. A questi obiettivi dovrebbero adeguarsi le politiche nazionali di sostegno alle fonti rinnovabili, e al tempo stesso andrebbero creati meccanismi che vanno a disincentivare la costruzione di impianti a fonti fossili. Politiche analoghe dovrebbero essere adottate anche nei paesi nordafricani, molti dei quali si stanno già muovendo in questo senso.
Fondamentale nello scenario proposto è poi l’integrazione di mercati energetici per giungere al 2020 ad un mercato europeo unico dell’energia. La cooperazione tra i diversi mercati è iniziata già ora ed è fondamentale per la pianificazione delle reti elettriche transnazionali che serviranno. Altro punto cruciale i massicci investimenti necessari. Secondo il report la disponibilità di capitali ci sarebbe. Politiche che diano certezze potrebbero sbloccarli, mentre gli sviluppi tecnologici e il calo dei costi di produzione dell’energia verde contribuiranno a rendere gli investimenti più redditizi.
Quanto costi in totale arrivare al 100% di elettricità pulita comunque, avverte il report, non si può quantificare ora: i modelli più recenti prevedono spese minori rispetto a quelli più datati. Molto dipenderà da come si procederà nei vari aspetti – sviluppo delle rinnovabili con relativo calo dei costi, infrastrutture, integrazione dei mercati – e questi progressi si influenzeranno l’un l’altro, a catena. Se lo scenario proposto non è irrealistico, dunque, affinché venga concretamente realizzato dipende da come e con quali tempi ci si inizierà a muovere.
GM
http://qualenergia.it/view.php?id=999&contenuto=Documento
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Pervenuto da Rossana rossana@comodinoposta.org per neurogreen@liste.comodino.org il 07.04.2010
Aprile 2010: la nuova dottrina americana: Nuclear Posture Review Report
In attesa della firma con la Russia per un nuovo trattato Start 2 che ridurrà dal 13 al 30 per cento il numero di testate e missili, la lettura del nuovo NPR delude i pacifisti.
La dottrina nucleare di Obama, pur riducendo il numero di ordigni nucleari, appare molto moderata: se condanna l’uso di armi letali contro i paesi non nuclearizzati lascia però aperta la possibilità di ricorrere
a ordigni nucleari in risposta ad eventuali attacchi chimici o batteriologici, prevede l’uso dell’atomica nei confronti di quei paesi che non si atterranno ai trattati internazionali sulla non proliferazione, come ad esempio l’Iran e, sempre secondo la nuova politica, l’arsenale atomico statunitense dovrà essere considerato un deterrente per scoraggiare eventuali attacchi da parte dei paesi stranieri. Insomma il programma si rivela per quel che è: una operazione di riduzione dei costi, meno ordigni nucleari puntati nella giusta direzione ottengono lo stesso risultato.
Basta leggere l’elenco degli Stati nucleari per capire che la minaccia di un possibile inverno nucleare (http://climate.envsci.rutgers.edu/pdf/ToonRobockTurcoPhysicsToday.pdf ) non è diminuita, e l’impatto globale di un conflitto nucleare, sia pure limitato ai «piccoli» arsenali come quelli di India e Pakistan, sarebbe catastrofico ( http://www.peacelink.it/disarmo/a/31284.html ).
Ma andiamo al Nuclear Posture Review Report (http://www.defense.gov/npr/docs/2010%20Nuclear%20Posture%20Review%20Report.pdf ).
Se è vero che gli Stati Uniti hanno detto per la prima volta che i paesi che hanno ottemperato agli impegni del trattato di non proliferazione non devono temere un attacco nucleare degli Stati Uniti, è pur vero che descrive il “terrorismo nucleare” come una minaccia immediata ed estrema e che quindi non rinuncia al “primo uso” delle armi nucleari. Ciò vuol dire, come lo stesso presidente ha ammesso, che userà “tutti gli strumenti necessari per fare in modo che il popolo americano sia sicuro”.
La Nuclear Posture Review riconosce che la maggiore minaccia alla sicurezza globale degli Stati Uniti non è più uno scambio nucleare fra le nazioni, ma il terrorismo nucleare da parte di estremisti violenti e la proliferazione nucleare in un numero crescente di Stati. Inoltre riconosce che la sicurezza nazionale internae quella degli alleati e partner sarà difesa dalla insuperata capacità militare convenzionale e dalle difese missilistiche. L’America afferma l’importanza centrale del Trattato di non proliferazione nucleare e si impegna nel prossimo vertice sulla sicurezza nucleare (con 47 nazioni) a perseguire l’obiettivo di arrestare la diffusione delle armi nucleari, prevenire il terrorismo nucleare, e proseguire verso un disarmo più consistente.
Entrando nel merito, le forze nucleari statunitensi di terra e di mare resteranno sempre in allarme come quelle in volo, mentre saranno compiuti sforzi per migliorare il “sistema di comando e controllo” per dare al presidente più tempo per prendere una decisione in una crisi nucleare. Gli Stati Uniti non effettueranno test nucleari e cercheranno la ratifica del Comprehensive Test Ban Treaty. Non svilupperanno nuove testate nucleari o nuove funzionalità per le armi nucleari. Miglioreranno le infrastrutture e rafforzeranno la scienza e la tecnologia per sostenere le scorte. L’aeronautica manterrà un combattente dual-capable (possibilità di trasportare armi convenzionali e nucleari) e sostituirà gli F-16s con gli F-35, rimarranno attivi i bombardieri pesanti (B-2 e B-52H). Le B-61 saranno sottoposte ad un programma di estensione di vita e saranno sottoposte a prove per per accertare la funzionalità con gli F-35. Continueranno ad essere schierati gli SSBNs sia nell’Atlantico sia nell’oceano Pacifico oltre che i missili balistici intercontinentali.
La triade nucleare rimane anche se ridotta.
Rispetto alla NATO non ci saranno cambiamenti che non siano concertati e queste decisioni sono da includere in un più vasto metodo da usare a proposito delle sfide emergenti, compresa la difesa antimissile. In sostanza le decisioni contenute nei NPR, BMDR e QDR riflettono il desiderio degli Stati Uniti di aumentare il ricorso ai mezzi non nucleari per raggiungere i propri obiettivi e di riassicurare gli alleati. I rapporti con la Russia e la Cina, che attualmente stanno modernizzando le loro possibilità nucleari, rimangono fondamentali per la stabilità strategica globale per cui il Presidente degli Stati Uniti perseguirà dialoghi bilaterali ad alto livello con entrambe.La Russia dovrà spiegare i suoi programmi di ammodernamento e la relativa dottrina militare corrente (particolarmente il limite dato all’importanza delle armi nucleari), mentre con la Cina si dovrebbe aprire un dialogo sulla stabilità strategica per aumentare la reciproca fiducia. Lo sviluppo di rapporti più stabili con la Russia e la Cina servirebbero come deterrente per programmi nucleari regionali, oltre che impedire la proliferazione nucleare ed il terrorismo nucleare.
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Romano Alquati è morto, 05.04.2010
di Franco Berardi Bifo
Solo tardi, nella mia vita, ho incontrato personalmente Romano Alquati, forse alla fine degli anni novanta, in occasione di una tavola rotonda che si teneva al centro Askatasuna di Torino. Ma ero un ragazzetto quando lessi il suo saggio su forza lavoro e composizione di classe all’Olivetti di Ivrea, e quello scritto mi influenzò in maniera decisiva. Certamente ci trovammo in qualche occasione insieme, negli anni sessanta o nei primi settanta, in una di quelle stanze affollate dell’opedale Molinette dove si riuniva l’assemblea operai studenti, o forse in qualche riunione milanese o torinese. Ma io ero molto più giovane di lui e per me il suo nome rimase quasi mitologico: il nome di colui che ha pensato per primo e con maggiore coerenza – con implacabile coerenza direi – la composizione come concetto essenziale di un operare intellettuale e politico all’altezza dei tempi appassionanti nei quali abbiamo vissuto.
Io mi affacciai all’esperienza operaista solo nella seconda parte del decennio ’60, e già allora il nome di Alquati era legato alla prima esplosione di autonomia, quella di Piazza Statuto del luglio del 1962. La rivolta di cui Romano disse, con la sorniona ironia di chi sa annusare il divenire degli eventi sociali “Noi non ce l’aspettavamo eppure l’abbiamo organizzata.”
Durante gli anni successivi, mentre molti suoi coetanei e la maggioranza di quelli che come me avevano fatto la loro prima esperienza di movimento nel 1968, sceglievano di abbandonare il primato della composizione per scegliere il primato dell’organizzazione, Alquati rimase sempre tenacemente abbarbicato alla verità della trasformazione sociale. Fu lui infatti che per primo intuì ed espresse la novità implicita nel movimento studentesco, e cominciò fin dagli anni del soggettivismo ideologico a parlare di nuova intellettualità di massa. Fu lui che tradusse nel concetto di con-ricerca il carattere collettivo e sociale dell’attività intellettuale.
Ora mi dicono che Romano Alquati è morto. Sono a Stoccolma, dove durante la settimana scorsa ho svolto un seminario con gli studenti dell’accademia di danza di questa città nordica, e per concludere il seminario ho tenuto una conferenza sull’Europa finanziaria e l’Europa sociale in un locale che si trova di fronte all’enorme stabilimento della Ericsson.
Gli artisti danzatori e gli operai che producono telefonia cellulare e alta tecnologia. Figure alquatiane, potremmo dire. E in effetti, passando davanti alla Ericsson, l’altro pomeriggio, non ho potuto evitar di pensare alla Olivetti di Ivrea dove Alquati, secondo la leggenda, si aggirava in anni lontani a bordo di una sua Lambretta.
per Bologna città libera
vedi anche:
Morto a Torino Romano Alquati, operaista e inventore della ‘conricerca’
La camera ardente, per dare l’ultimo saluto a Romano Alquati, sarà allestita mercoledì 7 aprile al centro sociale Askatasuna di Torino (corso Regina Margherita 47), dalle ore 10 alle 13.30. Successivamente (dalle 14) la salma sarà trasferita al cimitero monumentale di Torino in corso Novara, dove verrà tumulata.
http://www.infoaut.org/articolo/romano-alquati-e-morto
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Quando il profitto va anche ai poveri, 08.04.2010
Devo ammettere che sebbene io mi occupi da sempre, o quasi, di economia, non avevo mai sentito parlare di “economia di comunione”. Solo leggendo recentemente un articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore” ne sono venuto a conoscenza.
E mi sembra opportuno dedicare un post a questa forma di gestione delle imprese del tutto particolare, perché è poco conosciuta ed è comunque molto originale.
Le imprese gestite secondo i principi dell’economia di comunione sono contraddistinte da una ripartizione degli utili ben precisa: un terzo è reinvestito nell’azienda, un terzo va ai poveri e un terzo finisce nella formazione culturale della comunità in cui opera l’azienda.
Le imprese così gestite fanno riferimento al movimento cattolico dei Focolari fondato da Chiara Lubich.
In Italia queste imprese sono 200, con 3.000 addetti e un fatturato complessivo che è stimato in 400 milioni di euro. In tutto il mondo sono 700 collocate in sei poli industriali e danno lavoro a circa 12.000 persone.
Nel nostro Paese è presente il polo Lionello Bonfanti a Incisa Val d’Arno, in provincia di Firenze, e sorge a pochi chilometri da Loppiano, la principale cittadella del movimento fondato dalla Lubich.
L’economia di comunione viene così definita nel sito www.edc-online.org gestito dal movimento dei Focolari:
L’Economia di Comunione (EdC) è un progetto che coinvolge imprese dei cinque continenti.
I proprietari di aziende che liberamente aderiscono al progetto, decidono di mettere in comunione i profitti dell’azienda secondo tre scopi e con pari attenzione:
– aiutare le persone in difficoltà, creando nuovi posti di lavoro e sovvenendo ai bisogni di prima necessità, iniziando da quanti condividono lo spirito che anima il progetto;
– diffondere la “cultura del dare” e dell’amore, senza la quale non è possibile realizzare un’Economia di Comunione;
– sviluppare l’impresa, che deve restare efficiente pur se aperta al dono.
Dov’è la novità?
– L’EdC nasce da una spiritualità di comunione, vissuta nella vita civile;
– coniuga efficienza e solidarietà;
– punta sulla forza della cultura del dare per cambiare i comportamenti economici;
– non considera i poveri principalmente come un problema, ma come una risorsa preziosa.
Anche la storia del progetto viene descritta nel sito citato:
“Attraversando la città di San Paolo, Chiara Lubich, nel maggio del 1991, era stata colpita nel vedere di persona, accanto ad una delle maggiori concentrazioni di grattacieli del mondo, grandi estensioni di ‘favelas’.
Cosa fare?
Giunta alla cittadella del Movimento, la Mariapoli Araceli, vicino San Paolo, constatava che la comunione dei beni praticata nel Movimento fino ad allora non era stata sufficiente nemmeno per quei brasiliani, a lei così prossimi, che vivevano momenti d’emergenza.
Spinta dall’urgenza di provvedere al cibo, ad un tetto, alle cure mediche e se possibile ad un lavoro, e con in animo l’enciclica di Giovanni Paolo II “Centesimus Annus” appena pubblicata, aveva lanciato l’Economia di Comunione:
‘Qui dovrebbero sorgere delle industrie, delle aziende i cui utili andrebbero messi liberamente in comune con lo stesso scopo della comunità cristiana: prima di tutto per aiutare quelli che sono nel bisogno, offrire loro lavoro, fare in modo insomma che non ci sia alcun indigente.
Poi gli utili serviranno anche a sviluppare l’azienda e le strutture della cittadella, perché possa formare uomini nuovi: senza uomini nuovi non si fa una società nuova!
Una cittadella così, qui in Brasile, con questa piaga del divario tra ricchi e poveri, potrebbe costituire un faro e una speranza’.
L’adesione dei presenti era stata immediata: tutti si erano sentiti coinvolti, scossi nel profondo, e si erano lanciati a dare il proprio contributo personale nelle maniere più diverse, attuando con nuovo slancio e radicalità la comunione dei beni vissuta nel Movimento sin dagli inizi.
Tutto in comune: soldi e gioielli, terreni e case, disponibilità di tempo, di lavoro, di trasferimento, offerte di dolore, di malattie… come chi ha dato tutti i suoi risparmi, 4.000 dollari, ‘perché facciano parte di questo oceano d’amore, come una goccia d’acqua…e Dio trasformi questo sogno in una grande realtà che illuminerà l’inizio del Terzo Millennio’.
Il sogno di allora sta diventando realtà: molte aziende sono nate e non solo in Brasile, ma in molti Paesi del mondo, imprese già esistenti hanno fatto proprio il progetto, modificando lo stile di gestione aziendale e la destinazione degli utili”.
Indubbiamente le imprese gestite dal movimento dei Focolari fino ad ora non sono moltissime. Quindi la loro importanza è oggettivamente limitata. Ma rappresentano comunque, a mio avviso, un’esperienza interessante e da studiare con attenzione.
poveri economia di comunione chiara lubich focolari
http://paoloborrello.ilcannocchiale.it/2010/04/08/quando_il_profitto_va_anche_ai.html
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Nanocavi energizzanti fanno tutto da soli, 08.04.2010
Una delle più interessanti promesse del nanotech avanza e comincia a mostrare i primi risultati pratici. Sensori nanoscopici sviluppano energia traducendo la pressione in corrente elettrica
Roma – Il professor Zhong Lin Wang, ricercatore presso il Georgia Institute of Technology, lavora ai suoi nanocavi all’ossido di zinco da quattro anni. I nanocavi sono composti piezoelettrici, sono cioè in grado di trasformare la pressione esercitata su di essi in elettricità. Aggiungendo a tale caratteristica le dimensioni estremamente ridotte, Wang dice di poter sintetizzare interi network sensoriali discreti e che non necessitano di alimentazione esterna per funzionare.
L’idea, che qualche anno fa veniva accolta con scetticismo mentre ora comincia a fare breccia sia nell’accademia che nel settore privato (vedi la coreana Samsung), si è via via evoluta sino a mostrare le prime applicazioni pratiche e far intravedere un futuro in cui i nanoapparati non avranno bisogno di ingombranti accumulatori energetici esterni per fare il proprio lavoro, che si tratti di identificare i gas nocivi nell’aria, scovare tracce di veleno nei cib,i o scoprire segnalatori molecolari di patologie in circolo nel flusso sanguigno.
Uno dei principali problemi del design di Wang, che le ricerche di questi anni starebbero contribuendo a risolvere, è la generazione di un voltaggio elettrico sufficiente ad alimentare i dispostivi nanoscopici. Integrando milioni di nanocavi in strati posizionati su un materiale plastico, Wang e colleghi sono riusciti a dimostrare come i suddetti nanocavi siano in grado di generare abbastanza voltaggio da far funzionare sensori di livello del PH e di luce ultravioletta.
All’inizio di aprile, il professor Wang stimava di aver raggiunto un livello di voltaggio pari a 1,2 volt (un valore non molto diverso da quello che caratterizza l’approvvigionamento di energia dei processori Core 2 Duo di Intel), e in seguito il livello raggiunto è ulteriormente cresciuto sino a 2,4 volt.
Stabilito questo importante traguardo, il ricercatore del Georgia Tech dice che il prossimo passo per la finalizzazione dei nanocavi energizzanti è l’integrazione di un accumulatore di carica elettrica (ovviamente nanoscopico anch’esso) con cui meglio regolare il voltaggio da fornire al sensore collegato.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2850073/PI/News/nanocavi-energizzanti-fanno-tutto-soli.aspx
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Pannelli più economici con la plastica, 06.04.2010
Sostituire conduttori metallici molto costosi con polimeri per realizzare celle solari più economiche. Ci sono riusciti alcuni ricercatori di Princeton
Abbattere i costi dei pannelli fotovoltaici per rendere questa tecnologia, dove e quando utile, una soluzione più valida e accessibile per la produzione di energia elettrica. Il modo migliore per riuscirci è, secondo i ricercatori di Princeton (Usa), sostituire con polimeri plastici l’ossido di indio-stagno (Ito), un materiale conduttore molto costoso attualmente usato nella costruzione delle celle solari.
“I polimeri conduttori sono conosciuti da molto tempo – ha spiegato Yueh-Lin Loo, professoressa di ingegneria chimica a Princeton e coordinatrice dello studio pubblicato su Pnas – tuttavia le tecniche usate per trasformarli e renderli utilizzabili annullano la loro capacità di condurre l’elettricità costringendoli in forme rigide”. I ricercatori sono riusciti a modellare i materiali plastici in forme utili e, allo stesso tempo, a mantenerne la proprietà conduttiva trattando i polimeri con l’acido dicloroacetico una volta fatta assumere loro la forma desiderata.
Loo e i suoi colleghi hanno impiegato i materiali così modificati per realizzare un transistor: hanno stampato gli elettrodi di plastica direttamente sulla superficie stessa del transistor. Esattamente come una stampante avrebbe fatto con l’inchiostro su di un pezzo di carta. I ricercatori hanno dimostrato quindi non solo che è possibile sostituire l’ossido di indio-stagno con un materiale più conveniente, ma anche che grazie a questo materiale potrebbe essere possibile realizzare celle solari attraverso tecniche di stampa semplici ed economiche.
“Polimeri plastici in grado di condurre efficacemente l’elettricità potrebbero essere usati anche al posto dell’Ito e di altri materiali molto costosi nella produzione di televisori ultrapiatti, telefoni cellulari e di diversi dispositivi elettronici”, ha concluso Loo. (c.v.)
Riferimenti: Pnas doi: 10.1073/pnas.0913879107
http://www.galileonet.it/news/12593/pannelli-piu-economici-con-la-plastica
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La rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 12.04.2010
Le aperture
“L’Ue vara il piano salva-Grecia”, titola La Repubblica. “Riunione straordinaria dell’Eurogruppo. I rischi di speculazione convincono anche la Merkel. Papandreou: se necessario useremo i fondi. Pronti aiuti per 30 miliardi. ‘Serviranno per convincere i mercati’”. A centro pagina l’arresto dei tre operatori italiani di Emergency in Afghanistan: “Emergency, gli afgani accusano. L’ira di Strada: è una bufala. Le autorità di Helmand: ‘I tre italiani arrestati hanno confessato’. Frattini: se fosse vero, vergogna per il Paese”. In evidenza anche la politica interna: “Gelo tra Napolitano e Berlusconi. Il Pd: così dialogo impossibile. Franceschini: premier come re Sole”.
Di spalla la notizia della morte di Edmondo Berselli, editorialista del quotidiano: “Addio a Berselli, l’intellettuale che sapeva raccontare il pop”, articolo firmato da Michele Serra e Filippo Ceccarelli. A ricordare Berselli è anche Romano Prodi: “Il fuoco dell’intelligenza in quelle sue telefonate”.
Il Corriere della Sera: “Italiani arrestati in Afghanistan. C’è un giallo sullo confessione. Per Kabul hanno ammesso di essere terroristi. Strada: assurdo. Frattini: prego che non sia vero”. Di spalla la politica interna: “Di nuovo gelo tra premier e Quirinale”. Si ricorda la “sortita con la quale sabato Berlusconi aveva parlato dello staff di Napolitano come impegnato ‘addirittura a controllare gli aggettivi’ delle leggi del governo. Il capo dello Stato, irritato e sconcertato, ha chiesto chiarimenti a Gianni Letta (senza peraltro ricevere scuse)”, scrive Marzio Breda.
L’Unità: Foto del Quirinale sotto il titolo “La posta più alta”. Ci si riferisce a quello che viene definito un “attacco frontale al Colle” da parte di Berlusconi.
A centro pagina sul Corriere lo “scudo europeo per Atene”, contro il rischio bancarotta della Grecia. “Evitata una Lehman nella Ue”, dice Lorenzo Bini Smaghi, intervistato dal quotidiano. L’editoriale è firmato da Angelo Panebianco ed è dedicato alla tragedia del disastro aereo che sta decapitando in terra russa buona parte della classe dirigente polacca. “Le vendette della storia”.
La Stampa: “Gli italiani hanno confessato”. “La Cnn: i tre volontari coinvolti anche nell’omicidio dell’interprete di Mastrogiacomo. Rischiano la condanna a morte. Gli afgani: sono terroristi. Strada: Assurdo, spero che il nostro governo non c’entri”. In evidenza anche una intervista al Ministro della Difesa La Russa: “Emergency sia cauta, toccò anche al Pci con le Br. Il Msi ebbe i Nar. Può capitare a tutti di avere qualche infiltrato al fianco”.
A centro pagina gli aiuti alla Grecia: “Pronti 30 miliardi per aiutare Atene. La Grecia: li useremo solo se necessario. Via libera dai 16 all’Eurogruppo”.
Emergency
Il Giornale: “Gli amici di Strada: confessione choc”. L’autore dell’articolo del quotidiano ha però chiamato il portavoce del governatore di Helmand che smentisce i virgolettati del quotidiano britannico Times che accreditava l’accusa e la notizia della confessione: “Non ho mai accusato gli italiani di Emergency di essere in combutta con Al Qaida. Ho solo detto sabato che Marco (il chirurgo della Ong fermato) stava collaborando e rispondendo alle domande”. Il quotidiano fa sapere che l’ambasciatore italiano in Afghanistan ha incontrato ieri mattina i tre fermati. Il portavoce del Governatore ha dichiarato a Il Giornale che il probabile attentato “è responsabilità di alcuni individui”. Questo non significa che l’intero ospedale di Emergency doveva portare a termine la missione. Spero che gli italiani (arrestati) collaborino con noi per fare pulizia di certa gente con intenti criminali. Biloslavo racconta anche che circa 200 persone hanno manifestato all’esterno dell’ospedale gridando “morte ad Emergency”.
Il generale Fabio Mini, ex comandante della forza Nato in Kosovo, intervistato da La Repubblica, dice che “la presenza di Emergency in Afghanistan può essere considerata un fastidio per le operazioni militari internazionali” e “rifiutando la logica della guerra e prestando la loro opera umanitaria a chiunque ne abbia bisogno, finiscono per diventare molto scomodi”. Sulla ‘confessione’: “un servizio segreto come quello afghano” temo sia capace di far confessare chiunque. Per Mini l’organizzazione può essere diventata scomoda ai tempi del sequestro Mastrogiacomo, suscitando sospetti in un governo per i contatti con i taliban.
Anche che Il Giornale ricorda che Emergency “finì in cattiva luce” dopo il sequestro Mastrogiacomo, sottolineando come l’epilogo di quella vicenda ha segnato l’inizio del dente avvelenato degli americani e in seguito degli inglesi nei confronti di Emergency.
Lo stesso Gino Strada, interpellato da La Repubblica, ha parole di fuoco per le accuse rivolte ad Emergency: “Cose già viste nella storia, dalla Russia di Stalin alle dittature sudamericane”. Chiunque può aver messo quelle armi, “magari solo per farle trovare. Basta corrompere qualcuno”. Emergency è “un testimone scomodo, in vista della prossima offensiva”.
Sul Corriere della Sera si spiega chi è il governatore di Helmand, Gulabuddin Mangal: si trova nella provincia più pericolosa dell’Afghanistan, in grande sintonia con le truppe britanniche, è nel mirino dei talebani. Prima delle elezioni del 2009, Karzai avrebbe voluto sostituirlo, ma Mangal ha resistito grazie a Londra e Washington, con il risultato che a Helmand il numero di voti truccati a favore di Karzai è stato ridottissimo.
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa, interpellato da La Stampa, sottolinea invece che “capita di avere infiltrati a fianco”: è accaduto “tante volte” in passato, tanto al Pci con le Br che all’Msi con i Nar. Le presunte confessioni possono essre state estorte? L’ambasciatore italiano li ha incontrati in carcere e dice di averli trovati in buone condizioni di salute. Devo desumere che non siano stati né picchiati né torturati.
Politica
L’Unità intervista la capogruppo del Pd Anna Finocchiaro, secondo cui le intenzioni di Berlusconi sono di “rafforzare il potere del premier, e conservare una legge elettorale per cui gli eletti sono soltanto alle dipendenze di chi li ha messi in lista. Il che, di conseguenza, significa un indebolimento serissimo del ruolo del Parlamento”. La Finocchiaro conferma che il Pd non è disposto a discutere il rafforzamento dei poteri del governo se non si modificherà anche la legge elettorale: “Si può parlare di tutte le riforme costituzionali che si vuole, ma fino a quando il Parlamento sarà popolato da persone nominate dai segretari di partito, non potrà avere un ruolo autonomo e indipendente”.
La Repubblica intervista il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini, che dice di Berlusconi che avendo vinto le elezioni crede di esser diventato “padrone dello Stato”: “Per uno che ha in testa questa idea distorta, diventano un ingombro il Parlamento, la Consulta, la Magistratura e anche il Quirinale”. Per Franceschini Berlusconi guarda alla Francia, ma va ben oltre Sarkozy e De Gaulle: “Guarda al Re Sole”, alla monarchia assoluta (“Lo Stato sono io”).
Il Ministro Frattini, intervistato dal Corriere della Sera, dice: “Il discorso sugli aggettivi controllati dallo staff del Quirinale? Non bisogna fermarsi alla lettera, ma guardare alla sostanza. E la sostanza è che Berlusconi vuole una riforma che rafforzi i poteri del governo, fino ad oggi troppo deboli”. Si dice convinto che Napolitano abbia perfettamente capito.
Pd
“Prodi: serve un Pd federale”. Così La Repubblica sintetizza il pensiero dell’ex premier, che “spara sul quartier generale” e invoca per recuperare le radici un partito a federalismo spinto. Ovviamente la proposta piace molto al sindaco di Torino Chiamparino (“Solo così – spiega – possiamo competere con la Lega o magari anche allearci in certe situazioni”). Sul Corriere della Sera: “Prodi scuote il Pd: via gli ex leader. Alla guida venti segretari regionali. E Bersani: rafforzeremo la struttura federale. Gelo dei veltroniani ed degli ex PPI”. Lo stesso quotidiano intervista il suo ex portavoce, Silvio Sircana, secondo cui la proposta di Prodi “prefigura un tipo di federalismo spinto, che va oltre quello al quale avevamo pensato”. Non gli sembra che l’intenzione di Prodi fosse quella di attaccare il segretario in carica, “è solo uno stimolo per Bersani” Perché finora non si è realizzati il partito federale? “Veltroni aveva un’altra impostazione”, così come Franceschini, ma “se ora Prodi ritira fuori questa idea è perché pensa che con Bersan oggi ci siano le condizioni perché venga realizzata”.
La Stampa riassume così la situazione: “Spunta l’asse Prodi-Chiamparino”, “la richiesta: azzerare le correnti”. Sul Giornale: “Prodi incenerisce il Pd, ‘cancellare i dirigenti, sono lontani dal Paese’”. Polemicamente il quotidiano sottolinea che il Professore ha rinnegato in questo modo le primarie, quando chiede che a scegliere il segretario siano i vertici regionali.
Il caso è comunque partito da un intervento su Il Messaggero dell’ex premier, in cui sottolineava che “l’attuale struttura nazionale del Pd non serviva più”. Prodi sollecitava l’istituzione di “un esecutivo composto esclusivamente dai segretari regionali, senza le infinite code di benemeriti e aventi diritto, compresi gli ex segretari del Partito e gli ex Presidenti del Consiglio”. Sarebbe questo esecutivo a nominare il leader.
Polonia
La Stampa intervista l’ex commissario europeo polacco Danita Hubner: “Era un buon momento per la Polonia, l’economia teneva nonostante la crisi mondiale, il quadro politico si stava facendo meno litigioso, persino le relazioni con la Russia sembravano promettere nuove aperture”. Ma adesso “può succedere di tutto”, poiché può essere il punto di inizio di una nuova fase di riconciliazione oppure qualcuno “potrebbe cercare di sfruttare la fase per rafforzare il proprio potere”. Il riferimento è al fatto che la Polonia dovrà scegliere un nuovo Presidente entro giugno.
Sul fronte Russia, va segnalata la trasmissione in prima serata sulla tv statale russa Rossija del film di Wajda dedicato a Katyn, trasmesso finora soltanto lo scorso 2 aprile sul canale tematico Kultura.
L’ex presidente polacco Kwasniewski, il postcomunista che preceduto Kaczynski alla guida dello Stato viene intervistato dal Corriere della Sera: dice che la tragedia (…tragedia voluta?) “sarà un test cruciale per verificare la tenuta del professato riavvicinamento russo-polacco”, sottolinea che su Katyn russi e polacchi non si erano mai incontrati, che molti elementi vanno chiariti, come i dettagli del dialogo tra pilota e torre di controllo. Cosa pensa del discorso di Putin a Katyn? “Poteva pronunciare frasi più forti. Nel complesso però l’ho trovato un buon testo, paradossalmente più importante per i russi che i polacchi”, perché “i russi non sono ancora pronti a una riflessione onesta sul proprio passato”, “figure come Stalin sono ancora troppo vicine”. “Aspettiamo di sentire cosa diranno Medvedev e Putin alla parata per celebrare la ‘grande guerra patriottica’ della seconda guerra mondiale”.Sul Giornale un titolo dedicato alla vicenda: “Putin toglie la censura in onore dei morti polacchi”.
E poi
Ieri il vescovo emerito di Grosseto ha definito quello contro Benedetto XVI “un attacco sionista”: “Storicamente parlando – ha detto – i giudei sono deicidi, non vogliono la Chiesa, ne sono nemici naturali. Non bisogna credere che Hitler fosse solo pazzo: il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono l’economia tedesca”. In serata il vescovo Babbini ha smentito queste parole, che gli erano state attribuite dal sito di informazione religiosa Pontifex. Ne parla La Stampa. Secondo gli exit poll in Ungheria l’ premier del centrodestra Orban avrebbe raccolto il 57 per cento dei voti degli ungheresi. Il temuto exploit del partito xenofobo e nazionalista Jobbik si è fermato al 15 per cento: resta il terzo partito, mentre i socialisti crollano al 20. Ne parla La Stampa
La Repubblica scrive che in Ungheria ha trionfato la destra, con la maggioranza assoluta per i conservatori: “Volano gli xenofobi di Jobbik, crollano i socialisti”. Il fatto è che il partito Jobbik potrebbe essere decisivo per governare. Il quotidiano intervista lo scrittore ed ex dissidente anticomunista Gyoergy Konrad, secondo cui “non è troppo difficile cadere dalla padella di una dittatura di sinistra nella brace di una dittatura di destra. Specie quando le soluzioni offerte sono quasi simili: paternalismo”. Lo scrittore sottolinea come sia esploso il problema degli zingari, che sotto la dittatura comunista trovavano qualche lavoro, ma col cambio di sistema “vivono di sussidi oppure c’è violenza, tra gli zingari, e tra zingari e altri poveri”. Pesa anche l’antisemitismo, paura strumentalizzata dalla destra radicale, che lancia l’allarme sulle imprese israeliane accusate di comprarsi il Paese. Perché tanta differenza rispetto a Varsavia o Praga? “Nella seconda guerra mondiale Polonia e Cecoslovacchia combatterono a fianco degli alleati”, “l’Ungheria no, fu con l’asse. E dopo il 1989 non è rinata la borghesia come a Varsavia”.
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L’alto e il basso con naturalezza, 12.04.2010
MARIO CALABRESI
Edmondo Berselli aveva due grandi doti non comuni: l’ironia e l’originalità. Era una persona che valeva la pena conoscere e avere la fortuna di incontrare, anche solo per pochi minuti in mezzo a una strada. In quattro frasi riusciva a illuminare una giornata e a sintetizzare tutto quello che c’era da ricordare dei giornali di quella mattina. Saltava da un argomento all’altro, mescolando l’alto e il basso con naturalezza, spiazzandoti continuamente con i suoi guizzi; ti parlava di una canzone, poi scartava sulla politica per chiudere con un pettegolezzo fulminante. Sottolineava questa brillantezza e il suo estro con un’impercettibile irrequietezza del corpo e con un continuo muoversi in treno per l’Italia, quasi un modo per dare sfogo a tutta l’energia che attraversava la sua testa.
Aveva un modo di pensare libero, mai stereotipato: aveva le radici in una terra di valori solidi e pensiero unico come l’Emilia, di cui manteneva la cadenza dialettale come vezzo, ma a lui piaceva scartare e dissacrare, rompere il conformismo e salutarti con una battuta feroce che ti rimaneva in testa per tutta la giornata.
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Berselli, uno sguardo sul più mancino dei Paesi, 12.04.2010
Morto ieri a Modena, aveva 59 anni. Intellettuale disincantato ha saputo raccontare l’Italia con stile ironico e una punta di malinconia
PIERANGELO SAPEGNO
E’ morto presto Edmondo Berselli, a 59 anni. Aveva appena finito di scrivere il suo ultimo libro, lottando come sapeva fare lui contro il dolore e le pene, da modenese con radici trentine, questa strana congerie di pianura e di cime, che lo rendeva alla fine un introverso romantico, così sensibile agli affetti, ai valori e a tutte quelle buone cose che vengono da lontano. Stava male da parecchio, Edmondo Berselli, Eddy, come lo chiamavano gli amici. Ma non ha mai mollato niente, ha continuato fino all’ultimo a scrivere i suoi articoli sulla Repubblica e L’Espresso, e persino a rispondere a tutti quelli che lo tormentavano con email e messaggi telefonici, anche solo per salutarlo. Se gli ponevi un problema, s’affrettava solo, quasi vergognoso: «Adesso non ho tempo. Devo fare questa battaglia».
Ecco, l’ha fatta. Il suo ultimo libro, lui che non era un economista, l’ha scritto sulla crisi economica, ed è un saggio sorprendente dove s’intravede una uscita salvifica cristiana e solidarista, che è quasi un contrito atto di fede lasciato da un intellettuale laico così disincantato come lui. L’eroe di questo libro alla fine è papa Wojtyla. Non ha ancora un titolo. Non ha fatto tempo a darglielo, lui che era un genio nel crearli.
Ci penserà qualcuno. Il suo testamento, in fondo, Eddy l’ha lasciato, e non mi riferisco solo a quella decina di libri che ha mandato dagli anni 90 in poi nelle classifiche dei più venduti, da Post italiani, forse il titolo di maggior successo, agli ironici Sinistrati e Venerati maestri. Con quel suo stile «un po’ lunatico», come l’ha definito qualcuno, quel divagare picaresco da un’idea a un aneddoto e a un’intuizione, nessuno ha saputo raccontare come lui una terra e un Paese così complicati. L’ha fatto con amore e con una sorta di melanconia, quasi leggesse nello scorrere veloce che gli ha dato la vita la capacità di una dolenza misteriosa e di un ironico distacco.
Un po’, era diviso in due. Edmondo Berselli è sempre stato molto esclusivo con gli amici, da vero trentino. Ma poi con loro era un emiliano che faceva la notte suonando alla chitarra tutte le canzoni di Lucio Battisti, scherzando sulla vita davanti a piatti di tigelle e gnocchi fritti. Adesso aveva pure imparato a suonare il pianoforte. Noi che le abbiamo passate, quelle notti, le rimpiangiamo come rimpiangiamo lui. Allora, era il giovane vicedirettore del Mulino (ne sarebbe poi diventato un grande direttore). Magro come un chiodo, il volto scavato. Eravamo tutti magri. Aiutò il cronista che cercava di fare lo scoop con l’ultima intervista a Dino Grandi, ormai cieco e solitario: gliela fece lui, in realtà, perché l’uomo del 25 luglio si fidava solo di Berselli, anche se i meriti andarono al cronista.
Edmondo è stato a tutti gli effetti una scoperta dell’Avvocato della Ferrari Luca di Montezemolo, che leggendo i suoi fondi sulla Gazzetta di Modena diretta da Pier Vittorio Marvasi ne rimase così incuriosito da volerlo conoscere di persona. L’inizio del suo successo lo deve però, in realtà, a un cult book, Il più mancino dei tiri, che lui, dolente e appassionato tifoso juventino, dedicò al «piede sinistro di Dio», l’anarchico fuoriclasse dell’Inter Mariolino Corso, uno che metteva il suo genio e la sua sregolatezza in quell’immagine tanto di moda negli anni 60, con il passo sbilenco e i calzettoni abbassati sulle caviglie, come Omar Sivori o come George Best e Gigi Meroni, gli eroi un po’ folli di quell’era beat che aspettava il ‘68. A differenza del numero dieci argentino, che aveva vestito i suoi amati colori bianconeri, Corso era più identificabile in una sola squadra, l’Inter, che più della Juve aveva rappresentato quell’era, con i suoi successi e la sua epica morattiana.
Il fatto è che quegli anni sono stati uno dei grandi amori di Berselli, un amore emotivo e intellettuale insieme, e non solo perché erano quelli della sua giovinezza, ma perché ci coglieva quella spinta ideale così piena di fiducia nel futuro che noi non abbiamo mai più saputo ritrovare. E si spiegano così, forse, non tanto un altro libro, già esaustivo nel titolo, Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68, in cui la modernizzazione durante il miracolo economico e gli anni Sessanta diventano l’occasione per raccontare «come eravamo» fra il centrosinistra e l’età dei beat, quanto soprattutto il suo lavoro teatrale e televisivo. Sulla scena ha portato Sarà una bella società, un lavoro di nuovo su quegli anni, affidato alla voce e al gruppo musicale dello storico leader dei Rokes, Shel Shapiro, quello della Pioggia che va. E in televisione ha realizzato due piccoli capolavori, trasmissioni cult come Giù al Nord e Sud al Sud, relegate dalla Rai in orari da sonnambuli, eppure quasi poetiche e cronistiche insieme nel riprodurre e ricercare atmosfere e tempi così lontani.
Il fatto è che era tutto questo: scrittore e giornalista (firma, negli anni, della Stampa, del Messaggero, del Sole-24 Ore, dell’Espresso e infine della Repubblica) autore di teatro e di tv, critico televisivo e critico musicale. Sapeva fare tutto bene. Ma la cosa che ha fatto meglio è la lezione che ha lasciato, quello sguardo particolare sugli affetti e sulle cose di tutti i giorni, e la capacità di ritrarre i personaggi e di spiegarli, come se si stesse assieme sotto a un portico nell’aia, dietro ai filari di pioppi. Forse basta davvero accontentarsi di ascoltare le sue storie, accoccolati su un divano, perché Eddy non muoia mai.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/201004articoli/54034girata.asp
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La Banca Mondiale finanzia i cambiamenti climatici
Luca Manes, 09.04.2010
Nonostante una crescente opposizione locale e internazionale, giovedì la Banca mondiale ha deciso di staccare un assegno di ben 3,75 miliardi di dollari intestato alla compagnia sudafricana Eskom. La multinazionale del settore estrattivo impiegherà quel fiume di denaro per la realizzazione della centrale a carbone di Medupi, nel Nord del Paese
Una volta attivo, l’impianto provocherà impatti negativi molto pesanti sui terreni e sulle risorse idriche dell’area interessata, contribuendo inoltre ai cambiamenti climatici tramite l’emissione di 30 milioni di tonnellate di CO2 l’anno.
Per alimentare il nuovo mega impianto, poi, in Sudafrica si apriranno 40 nuove miniere di carbone, condannando così per i prossimi decenni il Paese alla dipendenza dal combustibile fossile più inquinante che si conosca.
Nei giorni scorsi le comunità locali, tramite le organizzazioni Earthlife Africa e Ground Work, hanno inoltrato un reclamo formale all’Inspection Panel, l’organo ispettivo indipendente dell’istituzione di Washington, nel quale si contestano le nefaste conseguenze socio-ambientali del progetto. Una mossa, quella delle realtà della società civile sudafricana, che è un po’ il culmine delle proteste che da settimane hanno investito la Eskom e la stessa World Bank.
I sostenitori di Medupi affermano che l’opera faciliterà l’accesso all’energia elettrica da parte dei più poveri. Una tesi fortemente contestata dagli oppositori del progetto, tra cui lo stesso sindacato sudafricano, il COSATU, che invece pensano che la centrale andrà a beneficiare numerose
compagnie multinazionali particolarmente “energivore” e inquinanti che, grazie ad accordi ancora in vigore dal periodo dell’apartheid, spunteranno delle tariffe inferiori rispetto a quelle previste da Eskom per le famiglie più povere.
Le preoccupazioni sulle implicazioni socio-ambientali del progetto sono così numerose e circostanziate, che i vertici delle Commissioni Esteri e sui Servizi Finanziari del Senato degli Stati Uniti hanno scritto al presidente della Banca mondiale Robert Zoellick per manifestare le loro perplessità. Nella sua risposta, l’ex fedelissimo di George W. Bush però aveva già lasciato intendere come sarebbe andata a finire la votazione, perorando la causa della corporation sudafricana.
D’altronde la Eskom è storicamente un cliente affezionato della Banca mondiale, dal momento che già fra il 1951 e il 1967 i banchieri di Washington avevano aiutato finanziariamente l’azienda. Peccato che all’epoca l’energia prodotta arrivasse a basso costo solo nelle abitazioni dei bianchi, mentre alle famiglie nere non era garantita nessuna possibilità di accesso alla corrente elettrica.
Ma al di là di questi scomodissimi precedenti, l’appoggio della Banca a progetti carboniferi contraddice in pieno le stesse raccomandazioni del suo elaborato ed esaustivo processo di revisione interna del settore estrattivo. Nel 2004 la commissione chiamata a fare una valutazione intimò senza troppi giri di parole alla World Bank di smettere di finanziare il carbone, visto che è il più inquinante tra tutti i combustibili fossili. Purtroppo, come spesso è accaduto nei suoi quasi 70 anni di vita, la Banca mondiale continua a predicare bene – ponendosi in prima fila contro i cambiamenti climatici – ma a razzolare male – sostenendo progetti “sporchi” come quello di Medupi.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14604
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Meglio un minerale che una vita umana?? 09.04.2010
Il colosso petrolifero francese Total ha annunciato di aver realizzato nella Repubblica democratica del Congo un progetto di esplorazione che permetterebbe l’estrazione di quasi 300 milioni di barili di petrolio non ancora utilizzati.
A renderlo noto è stato il direttore dell’Africa Total, Jacques Marroaud de Grottes, secondo cui il progetto sarà sviluppato a partire da pozzi situati al nord del campo di Moho-Bilondo, il più importante giacimento in funzione, che ha permesso di aumentare del 35% la produzione nazionale congolese, stimata a 256.000 barili al giorno.
La Total ha realizzato attualmente “una produzione di più 80mila barili di greggio grazie all’esplorazione del campo Moho Bilondo” ha affermato de Grottes, che non ha celato l’entusiasmo per lo straordinario potenziale petrolifero ancora da sfruttare in Congo.
Secondo il ministero congolese degli idrocarburi, “la Rdc presenta diverse opportunità di trovare petrolio in grandi quantità attraverso le sue enormi riserve provate e presunte nella “cuvette centrale”, nel mare e nel Graben”.
Il Nord e Sud Kivu sono ricchissimi di diamanti, stagno, oro, rame, petrolio, carbone, uranio e zinco. Senza dimenticare gli ormai sfruttati giacimenti di coltan, nobio e cobalto, essenziali per le industrie nucleari, chimiche, aerospaziali e della difesa.
Risorse minerarie che hanno attirato l’attenzione e l’avidità dei grandi della terra – Stati Uniti e Cina in primis – che cercano in tutti i modi di accaparrarsi le simpatie del governo di Kinshasa a suon di soldi.
C’è poi chi – Washington – cerca di ottenere il prezioso bottino nascosto nel sottosuolo congolese armando e finanziando i ribelli, che poi infieriscono sulla popolazione locale, ormai allo stremo delle forze. Il tutto per mantenere il Paese destabilizzato e giustificare l’ormai ingombrante presenza dei caschi blu della missione Monuc – che tutto fanno tranne che difendere i civili – e depredare il Congo delle sue risorse nel caos della guerre civile.
È notizia di questi giorni che l’Esercito della Resistenza del Signore, ribelli dell’Uganda, per quattro giorni, tra il 14 e il 18 dicembre 2009, ha razziato una decina di villaggi nella zona di Makombo, nel nord del Congo, uccidendo come bestie più di 300 persone. Il fatto, divenuto di dominio pubblico dopo ben tre mesi dalla strage, è uscito fuori grazie all’inchiesta lanciata dall’ong umanitaria Human right watch. L’Onu, sotto pressione, non ha potuto che confermare la mattanza.
Un massacro che fa accapponare la pelle al solo leggere i dettagli del rapporto dell’Hrw: gli uomini sono stati legati agli alberi e poi massacrati a colpi di machete; ad altri è stata spaccata la testa con l’accetta e bastoni di legno. Le donne sono state prima violentate e poi decapitate. Crudeltà che non ha risparmiato neppure i bambini. Una bambina di soli 3 anni è stata arsa viva. Molti bambini sono stati costretti ad uccidere altri bambini che disubbidivano agli ordini dell’Lra. I piccoli sono stati poi costretti a formare un cerchio attorno alla vittima e a bastonarla fino a quando non crollava in una pozza di sangue.
Un orrore che è stato compiuto nella più totale tranquillità. Le forze di pace dell’Onu erano infatti troppo impegnate a difendere i giacimenti dei preziosi minerali per poter accorrere a porre fine ad uno dei più mostruosi massacri che siano stati mai compiuti nel Congo.
Sono ben sette milioni i congolesi morti nella guerra civile, ma nessuno ne parla. Tutti chiudono gli occhi su quanto sta accadendo in Congo. È l’Africa e a nessuno importa se qualche “negro” muore.
http://lamiaeconomia.blogspot.com/2010/04/meglio-un-minerale-che-una-vita-umana.html
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India, il villaggio che pianta alberi, 24.03.2010
Sadhana Forest è una villaggio ecocompatibile nato nel 2003 nella regione del Tamil Nadu, nel Sud dell’India. La sua missione? Piantare alberi ed educare i bambini del posto a vivere rispettando il loro territorio
La prima cosa che si nota entrando nel villaggio Sadhana Forest, nel sud dell’India, sono gli alberi. Piccoli e accatastati un po’ ovunque. Pronti per essere piantati: come quelli di un vivaio. Poi, non appena si incontra uno dei simpatici abitanti del villaggio tutto diventa più chiaro. E l’unico luogo “urbano” al mondo che al posto di espandersi costruendo case e togliendo spazio alla foresta, si allarga mettendo tutti quegli alberi nella terra. Pronti per crescere e creare un nuovo bosco. Tutto intorno.
Sadhana Forest nasce nel 2003 da un idea di Yorit and Aviram Rozin in una zona arida a pochi chilometri da Auroville, la città universale, nella regione del Tamil Nadu. Settanta acri completamente vuoti che nel giro di un anno sono diventati un villaggio internazionale ecosostenibile. In sette anni sono stati piantati 20.500 alberi appartenenti a 150 specie indigene diverse. Qui è tutto autoprodotto con materiali recuperati nella zona: le case, la piscina (sì c’è anche una piscina), gli spazi comuni. Ogni settimana ai circa 70 abitanti fissi si uniscono gruppi di volontari che voglio condividere uno stile di vita rispettoso dell’ambiente. Si mangia cibo vegano, ci si riscalda e si produce energia solo con pannelli solari. Poi ci sono le classi di yoga e di qualsiasi altra disciplina olistica. Le auto? Neppure a pensarci. Ci si sposta solo a piedi o in bicicletta: nel villaggio c’è anche un servizio di bike sharing.
Ma non pensate subito a un paesino “fighetto” e alternativo a tutti i costi popolato solo da europei e americani. Magari stanchi dei ritmi cittadini. Sadhana Forest non è questo. Soprattutto perché in questi anni ha coinvolto migliaia di bambini e ragazzi locali per educarli a rispettare il loro territorio. L’idea è quella di riportare in vita un’area dimenticata. E poi ci sono i workshop, l’Eco film festival, la meditazione, la vita comunitaria. A volte basta guardare i bambini per capire che Dio è tornato. Anche qui. (a.p.)
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L’anello mancante dei transuranici, 09.04.2010
Ricercatori russi e statunitensi sintetizzano l’elemento 117, riempiendo il buco della tavola periodica. Aprendo la strada a una nuova era di studi della chimica degli elementi
Roma – Dopo 70 giorni di lavoro intensivo con un acceleratore di particelle in Russia e 6 atomi sintetizzati, un team di ricercatori russo-americano ha finalmente confermato di aver scoperto l’ununseptium, elemento transuranico superpesante dotato di 117 protoni e scarsa propensione alla stabilità atomica. Si tratta dell’anello mancante a lungo cercato per completare la tavola periodica, un elemento altamente radioattivo che conferma il lavoro di ricerca sin qui fatto e alimenta le speranze di andare molto oltre i 118 protoni sin qui raggiunti in laboratorio.
L’ununseptium, nome in codice dell’elemento 117 che sarà destinato a lasciare il passo a quello “ufficiale” ma solo tra un bel po’ di anni, pesa il 40 per cento in più del piombo e resiste allo stato “naturale” per non più di una frazione di secondo, dopo di ché decade in una selva di particelle più leggere con tanto di rilascio di energia come previsto dalla celebre formula E=mc al quadrato.
La sinterizzazione del nuovo elemento ha richiesto un lavoro faticoso e lungo più di due mesi, periodo di tempo nel quale i ricercatori hanno bombardato atomi di calcio contro un altro elemento transuranico raro, il berkelio, dotato di 97 protoni (5 in più dell’uranio). Il risultato, come dimostrano le analisi delle reazioni avvenute nell’acceleratore di particelle, sono appunto 6 atomi di ununseptium con numero atomico 117.
L’individuazione dell’elemento è di notevole importanza perché va a segnare il completamento della tavola periodica sin qui scoperta, conferma la teoria che già aveva portato alla sinterizzazione dei suoi “vicini” elemento 116 e 118, e soprattutto conforta i ricercatori nella loro caccia a una fantomatica “isola di stabilità” di elementi superpesanti stabili.
Da qualche parte oltre un nucleo contenente 120 o 126 protoni (e 184 neutroni), recita la teoria, esistono atomi massicci eppure capaci di mantenere stabilmente la propria esistenza senza decadere, per anni e anche oltre.
Alfonso Maruccia
http://punto-informatico.it/2850988/PI/News/anello-mancante-dei-transuranici.aspx
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Verso la civiltà digitale, il modello UK, 09.04.2010
di Enzo Mazza – L’approvazione della cosiddetta cura Mandelson per il rilancio dell’economia digitale nel Regno Unito scatena polemiche e plausi. La prospettiva dell’industria discografica italiana
Roma – Con la firma apposta dalla Regina Elisabetta, poche ore dopo il voto parlamentare, il Digital Economy Bill è diventato legge nel Regno Unito.
Non è un caso che la prima economia digitale europea, solo nella musica online rappresenta più del 50% del mercato EU, si doti di un complesso normativo di ampio respiro per sostenere lo sviluppo dei contenuti digitali, un messaggio fondamentale lanciato alla comunità internazionale sul valore della rete come strumento per la diffusione della creatività britannica e non solo.
Dopo la Francia dunque anche il Regno Unito avvia quel processo di civilizzazione del web necessario per consentire alle imprese che producono creatività e a quelle che realizzano innovazione di disporre di un framework certo e sicuro dove operare.
Sia la Francia, sia il Regno Unito sono tra le economie europee più avanzate nel mercato dell’offerta di contenuti digitali, in particolare della musica, e sono anche le prime realtà a porsi il problema e ad individuare una soluzione per proteggere la nuova economia digitale dei contenuti.
La frattura già evidenziata, ad esempio sulla penetrazione della broadband e nella diffusione di PC nelle famiglie, tra Regno Unito e Francia da una parte e Spagna ed Italia dall’altra si accentua ancora di più senza che i Paesi mediterranei facciano nulla per colmare il gap.
Ci si avvia così verso una fase nella quale alcuni Paesi dell’Unione Europea si collocano già nella cosiddetta “civiltà digitale” ed altri che restano nel medioevo tecnologico con tutte le pesanti conseguenze che questo causerà allo sviluppo dell’economia.
L’Italia fa di tutto per restare indietro. Mentre governi progressisti o conservatori, come in UK e Francia, lavorano con uno spirito orientato all’innovazione, in Italia non si riescono nemmeno a sbloccare i fondi per la banda larga (che poi larga non è…) ma si spara a pioggia qualche incentivo inutile per cambiare il frigorifero (a meno di considerare innovazione epocale l’incentivo per la banda larga di ben 20 milioni di euro ai giovani tra i 18 e 30 anni che potrà essere sfruttato forse dal 4 % dei giovani aventi diritto). Anzi, nel nostro Paese, un Ministro della Repubblica confida di scaricare musica abusivamente invece di proporre un progetto di legge, magari per modificare anche l’attuale assetto normativo, ma almeno nel rispetto delle regole. Le leggi si cambiano, non si violano, questo dovrebbe valere anche per un ministro.
Se osserviamo nel dettaglio il Digital Economy Bill, superando per un momento l’acceso dibattito sulle norme relative al copyright possiamo individuare le linee di sviluppo di una politica digitale che considera il web come un settore trainante per l’economia britannica del futuro.
Siamo in presenza di un modello legislativo che stabilisce priorità ed obiettivi per far sì che l’economia digitale diventi l’economia del Paese. Questo è un momento chiave nell’era di Internet, si sta passando dal far west all’economia delle regole che attrarrà investimenti e proteggerà gli innovatori.
Certo, c’è ancora chi vende libertà digitali come il diritto di saccheggiare la proprietà intellettuale e c’è chi vende il contrasto alla diffusione di contenuti illegali come censura, ma sempre meno i governi saranno solleticati da queste affermazioni, come dimostra anche l’andamento del trattato ACTA.
La stessa amministrazione USA, e lo confermano anche le recenti dichiarazioni del Presidente Obama, ha ben chiaro che la lotta alla contraffazione digitale e la libertà di espressione o di accesso alla rete sono cose ben distinte e come tali devono rimanere.
Chi cerca di buttare tutto nello stesso calderone si sta accorgendo che la cosa non funziona più.
Se guardiamo alle reazioni di fronte alla presentazione della norma francese e poi di quella britannica i presunti difensori delle libertà digitali hanno sfoderato tutto l’anacronistico armamentario di argomentazioni che alla fine non si è rivelato tecnicamente solido. Sventolare genericamente la bandiera della libertà di espressione, diritto alla privacy, diritto all’esenzione di responsabilità degli ISP, senza corroborarlo con elementi di prova giuridicamente sostenibili si è rivelato un boomerang che i governi hanno respinto al mittente.
Ma torniamo alla questione della tutela dei contenuti. Francia e Regno Unito hanno lanciato un forte messaggio al mondo. I contenuti creativi e la tutela degli stessi vengono posti in cima alla piramide. Solo con una tutela forte della produzione digitale si può credere nell’affermazione di un’economia digitale. Tutta la filiera tecnologica deve essere funzionale allo sviluppo ed alla distribuzione del contenuto. Mai come nel Digital Economy Bill si conferma l’assunto “the content is king”, che qualcuno dava per spacciato con l’affermarsi della rete.
Vedremo ora se l’Italia, di fronte a questa ulteriore dimostrazione di progresso normativo offerta dal Regno Unito intende fare dei passi nella direzione di un’economia digitale civilizzata o se preferirà rimanere nel buio della caverna analogica.
Enzo Mazza
presidente
FIMI, Federazione industria musicale italiana
www.fimi.it
Confindustria
presidente
Comitato IPR – American Chamber of Commerce in Italy
http://punto-informatico.it/2852344/PI/Commenti/verso-civilta-digitale-modello-uk.aspx
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Tumori: il “Besta” di Milano produrrà vaccini, 09.04.2010
L’istituto neurologico “Carlo Besta” di Milano produrrà vaccini antitumorali per combattere il glioblastoma, il più diffuso tumore al cervello.
L’Unità Produttiva per Terapie Cellulari (Uptc) della Fondazione “Besta“, infatti, ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per la produzione di “farmaci cellulari” per uso clinico sperimentale divenendo la prima officina farmaceutica in una struttura monospecialistica in ambito neurologico.
Si tratta della produzione di vaccini anti-tumorali per uso autologo, ovvero utilizzabili solo dallo specifico donatore delle cellule con cui il vaccino è stato realizzato.
Tali vaccini verranno usati per il trattamento del tumore cerebrale maligno più frequente, il glioblastoma multiforme, nell’ambito di due sperimentazioni cliniche approvate da Aifa e coordinate dal dottor Gaetano Finocchiaro, direttore del Dipartimento di neuro-oncologia e della Unità operativa neurologia 8-neuro-oncologia molecolare.
“Dopo l’intervento chirurgico – spiega Finocchiaro – il trattamento con radioterapia e chemioterapia, il glioblastoma tende a riformarsi, a recidivare.
“In queste condizioni non esiste al momento un trattamento la cui efficacia sia condivisa da tutti gli specialisti che agiscono in ambito neuro-oncologico“.
“La vaccinazione anti-glioblastoma a cui lavorerà la Uptc, è basata sull’uso di cellule dendritiche (DC), cellule molto potenti del nostro sistema immunitario che sono presenti nel sangue periferico“.
La procedura di vaccinazione è stata inizialmente verificata in sperimentazioni su modelli animali, coordinate dalla dottoressa Serena Pellegatta, e poi utilizzata in esperienze cliniche preliminari al Besta, con risultati incoraggianti.
“Al momento – conclude il dottor Eugenio Parati – è in corso una sperimentazione negli USA, coordinata dalla dottoressa Linda Liau della University of California Los Angeles. La sperimentazione che inizia al Besta si affiancherà a questa“.
Per approfondire:
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Ministro Zaia: bevete vino e grappa, poi guidate tranquilli
Per il ministro delle Risorse agricole, Luca Zaia, portare il tasso alcolimetrico a zero e’ ‘una cretinata, un’autentica cazzata’.
Fonte: Notiziario Aduc 08/04/2010
‘Adesso posso solo dire a voi di bere vino – ha detto Zaia nello stand del Friuli Venezia Giulia al Vinitaly, commentando l’accordo per la Doc interregionale del Prosecco – perche’ noi vi abbiamo preparato l’imbottigliamento, lo portiamo sui mercati. Io spero di non essere assieme a delle persone che sono convinte che il tasso alcolimetrico deve essere portato a zero, perche’ queste sono cretinate, delle autentiche cazzate’.
Zaia ha proseguito sostenendo: ‘Lo diciamo perche’ siamo stanchi di sentirci dire che bere due bicchieri a pasto e andare a guidare significa essere degli ubriaconi. Evidentemente qualcuno non conosce la legge nazionale, che prevede come limite 0,5 milligrammi di alcool in un litro di sangue, il che significa due bei bicchieroni di vino’.
‘Bevete due bicchieri di vino e state tranquilli. Mettetevi l’anima in pace perche’ il 98 per cento degli incidenti stradali non sono causati dallo stato di ebbrezza ma da tutte le altre cose che nessuno ha il coraggio di affrontare’.
‘E poi visto che ci siamo, bevetevi anche una buona grappa’, perche’ comunque ‘rappresenta per noi un grande ambasciatore, un grande biglietto da visita internazionale. Noi in Italia consumiamo sempre meno grappa; in giro per il mondo ce la chiedono sempre di piu”.
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Il Medioevo che ci attende La profezia di Jacques Attali, 09.04.2010
PARIGI Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all’ attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi». Nel suo ultimo libro ( Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodoe anzi alimentano l’ incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. «Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l’ economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull’ amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura. Quali altre crisi ci aspettano? «La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono “germogli” di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisiè l’ impossibilità per l’ Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un’ adeguata riflessione». Il peggio deve ancora venire? «Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari». Tornando all’ economia, dove finisce il tunnel? «La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell’ iperinflazione scatenata all’ enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della “bolla cinese” per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell’ istruzione, per come l’ abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo». Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto? «Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondoe sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone “fuori controllo”, dove imperverseranno organizzazioni criminalie bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze». E tutto questo sarebbe dovuto anche all’ incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale? «Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi». Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro? «Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell’ attuale modello economico l’ impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell’ invenzione delle stock-options negli Stati Uniti». Non è una visione troppo apocalittica? «Non bisogna farsi prendere né dall’ ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un’ altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un’ opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un’ etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza». Lei suggerisce il dono dell’ ubiquità: cosa significa? «I miei principi sono sette, da attuare nell’ ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall’ intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l’ empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l’ ambiguità o persino l’ ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità». Ci lascia insomma un po’ di speranza… «L’ ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall’ individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: “Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo”». Ha appena pubblicato il primo “iperlibro”, un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura? «Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell’ editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento». – ANAIS GINORI
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Shigeru Ban per L’Aquila: un’occasione recuperata
Channelbeta, 09.04.2010
Dopo tutte le vicende ormai note che si sono susseguite dal G8 di L’Aquila Shigeru Ban è in Abruzzo. Difficile crederlo ma è così
Con enorme piacere rimaniamo colpiti quando alcuni giorni fa il prof. Benedetti, docente presso la Facoltà di Ingegneria di L’Aquila ed architectural consultant dell’Auditorium, ci avvisa invitandoci alla conferenza dell’architetto giapponese per la presentazione del suo Auditorium per il nuovo Conservatorio già realizzato dalla Protezione Civile.
Entusiasti della notizia, partiamo verso la tenso-struttura che funge da aula magna a Coppito, molto incuriositi per quello che Shigeru Ban presenterà di lì a poco. Il prof. Benedetti ci accoglie presentandoci a Shigeru Ban in via ufficiosa, sottolineando il fatto che, anche grazie a Channelbeta e alla caparbietà giornalistica del nostro direttore Gianluigi D’Angelo, si è raggiunto questo traguardo.
La conferenza inizia in un’ aula affollata e piena di studenti attenti ad ascoltare l’architetto. Assieme a loro c’è anche una rappresentanza della Facoltà di Architettura di Harward in cui Shigeru Ban insegna.
La presenza degli studenti americani è dettata dalla volontà che si è instaurata tra le due Università di cooperare e dar vita ad un workshop che interesserà una parte del cantiere dell’Auditorium: gli studenti potranno così apprendere meglio la tecnologia sostenibile ed economica che in diversi ambiti Ban utilizza.
Inizia la conferenza e l’architetto descrive i suoi progetti e i diversi suoi interventi nei luoghi disastrati a causa di catastrofi naturali. Interessante è l’uso che Ban fa di materiali economici e sostenibili, come ad esempio il cartone, utilizzato anche a livello strutturale. Per Ban l’architettura nel corso della storia è stata sempre dal lato della ricchezza e del potere, oggi è arrivato il momento di fare un’ autocritica e capire che l’architettura è a servizio di coloro che vivono all’interno di essa, per cui, a chi meglio rivolgersi se non alle popolazioni e soprattutto a coloro che soffrono e non possono permettersi un riparo?
Shigeru Ban si batte quotidianamente proponendo idee e soluzioni proprio per cercare di fare dell’Architettura un mezzo che soddisfi e aiuti le persone meno ambienti, perché tutti hanno diritto su questo pianeta di godere di spazi confortevoli e dignitosi anche in situazioni post sisma o post alluvione.
Dopo aver descritto all’incirca venticinque progetti che passano da abitazioni residenziali a sistemi elementari di tende rifugio in Ruanda, arriva il momento del progetto dell’Auditorium. Prende la parola il Maestro Bruno Carioti, direttore del Conservatorio di L’Aquila, il quale, in stretto contatto con Ban, descrive minuziosamente l’evoluzione del progetto e le sue diverse funzioni.
L’opera si presenta in pianta di forma quadrata con all’interno un’ellisse disposta diagonalmente che rappresenta la sala principale da 250 posti. Anche per questo progetto sono usati i tubi in cartone che sorreggono la copertura. Al di fuori dell’ellisse vi sono tutti gli spazi di servizio, il foyer, il guardaroba,ecc. Nella sua semplicità geometrica, l’opera ha tutte le caratteristiche tipiche degli edifici di Shigeru Ban, ovvero l’eleganza, la sobrietà e la facile lettura delle gerarchie. Certo è che, abituati rispetto al plastico presentato dal primo ministro Taro Aso a Berlusconi, dalla pianta sinuosa e libera, ci ritroviamo in uno schema più geometricamente rigido e forse anche più “accademico”, ma senza dubbio ugualmente interessante.
La giornata continua nel pomeriggio ad Avezzano, città colpita nel 1915 da uno dei più disastrosi terremoti accaduti nel nostro Paese che causò la morte di oltre 35.000 persone. Ban ha voluto mostrare ai suoi studenti e a quelli del prof. Benedetti il concetto di “temporaneità” degli edifici costruiti in zone post-sisma. Ban Afferma che la temporaneità si ha non per la tecnologia con cui l’edificio è realizzato, essa viene solo attribuita, quanto per la possibilità che gli stessi abitanti hanno nel definire l’edificio temporaneo o no, nel loro decidere o meno di viverlo. Da ciò si deduce che devono essere garantite dai governi tutte le strategie che portino a definire una struttura temporanea, prima tra tutte la garanzia di costruire un’abitazione permanente in grado di soddisfare tutte le esigenza degli abitanti.
L’esempio di Avezzano, ormai ridotto a piccoli nuclei, è comunque negativo, perché queste abitazioni che dovevano essere temporanee continuano ad essere abitate ancora dopo novantacinque anni. Ban si mostra molto interessato a fotografare questi edifici ancor più dei suoi studenti. Continuiamo con loro la passeggiata per la città, mentre Ban, salutandoci in anticipo, riparte per Fiumicino per tornare nel suo studio di Parigi.
La giornata è stata veramente unica, abbiamo apprezzato la capacità di un uomo che ha fatto dell’architettura un’opera di alto profilo politico-sociale.
articolo di Davide Di Virgilio
a cura della redazione di Channelbeta,
Information Channel on Contemporary Architecture
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14600
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La rassegna di http://www.caffeeuropa.it/ del 14.04.2010
Le aperture
La Repubblica: “Al Qaeda, incubo nucleare”. “Accordo tra le 47 nazioni che participano al summit di Washington. Berlusconi: ho sempre sognato un mondo senza atomiche. L’allarme di Obama. Sanzioni all’Iran, compromesso Usa-Cina”.
A centro pagina notizie dall’Afghanistan: “Emergency costretta a lasciare l’ospedale”. I cinque operatori dell’ospedale di Lashkar Gah sono stati trasferiti a Kabul. Dura la reazione di Gino Strada.
La Stampa: “Al Qaeda non avrà l’atomica. Il vertice di Washington non trova però l’intesa sulle sanzioni all’Iran: soltanto un monito per Ahmadinejad. Obama: basterebbe un pugno di plutonio. Patto a 47 contro il terrorismo”. A centro pagina: “Legame tra Gay e pedofilia. Bufera sul cardinae Bertone”, ha ha parlato di un nesso tra le due cose. Affermazioni respinte da associazioni gay e politici bipartisan.
Il Corriere della Sera: “Il Vaticano e i gay. Si apre un nuovo caso. Dopo una frase di Bertone su omosessuali e pedofilia. Scritte contro il Pontefice sulla sua casa natale”. Piero Ostellino firma “una difesa laica del Papa”. L’attuale Papa, dice Ostellino, è paradossalmente colui che “ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all’interno della Chiesa su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto”, e che rischia invece di passare “come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti”.
E poi: “Conti esteri, la lista dei 10 mila. Nel mirino i depositi italiani nella filiale svizzera della HSBC. Task force del ministero. L’elenco dei presunti evasori alla Procura di Torino”. A centro pagina: “Emergency, l’ospedale in mano agli afghani. Via dal sud del Paese i volontari. Frattini scrive a Karzai”.
Il Foglio: “L’agenda antioccidentale di Karzai complica (pure) il caso di Emergency. L’arresto dei tre italiani segue uno schema di pressioni contro gli alleati. Washington corre ai ripari, tardi. La lettera di Frattini”. Da segnalare sulla prima del quotidiano di Ferrara anche una intervista ad Edmondo Bruti Liberati, “magistrato progressista” ed ex presidente dell’Anm, che “si pronuncia contro una giustizia dipietrificata”.
Libero: “Via il Capo, il Pdl balla. Il Cav è in Usa, il governo va sotto. Il premier e Fini preparano il loro incontro inviandosi messaggi di pace, ma i colonnelli si beccano. Gli ex An chiedono le primarie, i berluscones: vi sostituiamo con deputati Pd”. L’editoriale di Maurizio Belpietro è titolato: “A volte anche noi critichiamo Silvio, ma a fin di bene”, in risposta ad un lettore che scrive al direttore che alcuni titoli di Libero gli ricordano quelli di Repubblica o de L’Unità.
Il Giornale: “L’outing dei finiani: ‘Megli gay che leghisti’. “Per Bocchin oun omosessuale può fare il premier, un uoomo del Carroccio no. Sorprendente: gli ex An pongo gli stessi veti di cui furono vittime. E dai quali solo Berlusconi li ha liberati”.
Anche Il Riformista: “Megli gay che leghista. Bocchino riapre la tensione nel centrodestra. Il luogotenente di Fini risponde a Calderoli, che ha profetizzato un premier scelto dal Carroccio. Intanto alla Camera la maggioranza si squaglia e cade il decreto salvaliste”. Di spalla il quotidiano si occupa della proposta prodiana al Pd di costituire un partito federale, mentre a centro pagina spazio per l’intervento di ieri del Presidente della Regione Sicilia Lombardo, che – parlando dallla assemblea regionale siciliana – ha affermato: “Mi volevano uccidere”. I nomi che aveva promesso non li ha fatti, e li ha inseriti in un documento inviato alla Procura.
Il Sole 24 Ore: “Cambia il processo dei Tar. Salta la creazione delle sezioni stralcio per smaltire l’arretrato. Pronto ilnuovo codice unico dei procedimenti amministrativi per tribunali e Consiglio di Stato”.
Politica
Ieri alla Camera è stato bocciato il decreto “salvaliste”, e la vicenda ha creato un “caso nel Pdl”, scrive il Corriere della Sera, per le assenze nella maggioranza. L’episodio, scrive Massimo Franco, “Mostra una maggioranza così convinta di non avere avversari da permettersi un ecesso di assenteismo che l’ha fatta cadere. Il modo in cui il centrodestra è andato a caccia degli assenti, 38 del Pdl e 4 della Lega, conferma però un clima da resa dei conti tutt’altro che smaltito a più di due settimane dalle elezioni regionali. La nebbia che circonda l’ennesimo colloquio chiarificatore tra Berlusconi e Fini comunica un contrasto difficile da minimizzare, e foriero di problemi per le riforme e per la maggioranza, se non sarà ricomposto in qualche modo”.
Per La Stampa tra le idee di riforma di Berlusconi c’è quella della Corte Costituzionale eletta solo dalle Camere, sul modello di quella tedesca, che ha sedici membri scelti tutti dal Parlamento. Al premier l’attuale Consulta non piace affatto, ricorda La Stampa, facendo riferimento alle critiche più rivoltele dal premier, in occasione del lodo Alfano.
Bersani ieri ha dato la sua risposta alla proposta lanciata da Sergio Chiamparino di un partito del Nord, in occasione dell’incontro, ieri, con i segretari regionali del Pd: “Ci organizzeremo per fare un partito dei territori, ma con tutti i territori, non solo il nord”, scrive La Stampa.
La bocciatura da parte di Bersani di un Pd del Nord è raccontata da Corriere, Repubblica, La Stampa. Ma questi quotidiani danno conto anche di un analogo stop da parte di Franco Marini alla proposta di Romano Prodi di un partito federato: “Quello che ha detto Prodi è una follia”, visto che “abbiamo fatto 4 mesi di primarie”. Come si fa a rimettere in discussione il segretario? Marini ha detto di non condividere “nè la lettera né lo spirito” dell’intervento di Prodi.
Il Giornale scrive che la proposta ‘federale’ di Prodi è stata bocciata senza appello anche dai fedelissimi del Professore, che ritengono pericoloso dare il potere ai segretari regionali. Massimo Cacciari, intervistato da La Repubblica, è durissimo: “Guardi, io comincio dall’ineffabile Prodi. Uno che dovrebbe vergognarsi di parlare adesso. E con lui dovrebbero vergognarsi tutti: D’Alema, Rutelli, Fassino: ma come si fa a venire a proporre adesso il partito federalista dopo che per quindici anni, tutti insieme, non hanno voluto ascoltare?”. Se non vogliono far morire il Pd in pochi mesi, dice Cacciari, serve subito il Pd del Nord, con Chiamparino segretario.
Washington
Su La Repubblica, parlando delle pressioni che Washington sta esercitando sulla Cina per ottenere sanzioni contro l’Iran, ci si sofferma sulla contropartita: l’America ha mobilitato i suoi alleati del Golfo Persico, sauditi ed Emirati garantiscono che forniranno alla Cina tutto il petrolio di cui ha sete la sua economia, se l’Iran non fosse più in grado di farlo. Inoltre, Pechino vuole preservare i suoi colossali investimenti nell’industria energetica del Medio Oriente: l’Arabia Saudita le concederà addirittura dei diritti di estrazione.
La Stampa racconta il vertice di Washington e la firma del patto contro i rischi del terrorismo anche con un “retroscena” dedicato ai rapporti tra Usa e Cina: “L’abbraccio calcolato di Hu: sanzioni all’Iran in cambio di Hi-Tech. Manovre cinesi dietro le quinte del vertice Usa”. Secondo il quotidiano la Cina lamenta di essere sottoposta ancora a un regime di sanzioni che preclude la vendita di tecnologie avanzate dal possibile uso duale, civile e militare: Pechino è interessata ai supercomputer o ai satelliti, e la vendita di queste tecnologie potrebbe riequilibrare la bilancia commerciale con gli Usa e spostarla in favore dell’America per alcuni anni. Ma queste tecnologie anche di tipo satellitare possono avere un uso militare: la questione coinvolge anche la sicurezza e il futuro di Taiwan.
MedioOriente
Il Sole 24 Ore intervista Jihad Al Wazir, governatore dell’Autorità monetaria palestinese, figlio di Abu Jihad, tra i fondatori dell’Olp, responsabile anche della strage di Monaco, ucciso dagli israeliani a Tunisi alla fine degli anni 80. Jihad Al Wazir dal suo ufficio di Ramallah annuncia che entro il 2010 quella palestinese sarà una vera Banca centrale in grado di emettere valuta, e la valuta palestinese si chiamerà Gineih, gioé ghinea. Quanto ad Hamas, che in Palestina usava i suoi conti per finanziare la lotta armata, Al Waziri dice che già da due anni le banche palestinesi non accettano denaro di cui non non sia certa la provenienza.
La Stampa concentra invece la sua attenzione sui palestinesi a rischio di espulsione in Cisgiordania. Cita l’ “ordine per la prevenzione della infiltrazione”, emesso dal comandante militare israeliano della Cisgiordania: prevede l’espulsione dalla Cisgiordania di chi non abbia “una licenza regolare e una giustificazione ragionevole”.
Sulla prima pagina de Il Foglio un commento alla notizia che la Siria ha donato parte del proprio arsenale missilistico a Hezbollah, portando i miliziani in territorio siriano per addestrarli all’utilizzo dei nuovi armamenti. Tra le forniture risultano missili Scud a raggio medio lungo, che danno alla donazione un valore simbolico: Hezbollah è ora l’unica organizzazione non statale al mondo a possedere questi armamenti. I nuovi Scud siglano l’atto finale della non applicazione della risoluzione 1701 dell’Onu, che nel 2006 aveva imposto il disarmo ai gruppi armati libanesi. Allora Hezbollah disponeva di 14 mila missili, ora ne avrebbe almeno 40 mila.
E poi (Pulitzer, Katyn, Abu Omar, Ramadan)
Sulla prima pagina de La Stampa una analisi dedicata alla notizia che per la prima volta una inchiesta realizzata da un sito internet ha vinto il premio Pulitzer per il giornalismo: il premio è stato assegnato Sheri Fink, del sito ProPublica.org, per un servizio realizzato negli ospedali di New Orleans durante il passaggio dell’uragano Kathrina. La giornalista aveva documentato in 13 mila parole il dramma dei medici rimasti ad operare nelle sale allagate e prive di energia elettrica: un premio al giornalismo investigativo, quasi scomparso dai quotidiani. ProPublica.org è stato ideato nel 2007 da un gruppo di giornalisti che ha deciso di lasciare la carta stampata: il direttore, Paul Steiger, era caporedattore del Wall Street Journal e il suo principale collaboratore, Stephen Engelberg, era un cronista di punta del New York Times. Il sito si finanzia grazie alla Fondazione Sandler, progressista e finanziatrice del partito di Obama: essendo una organizzazione non profit, ProPublica.org spende tutti i soldi che riceve e non paga tasse. Ha 32 giornalisti e cede i suoi articoli, senza alcun compenso, ad altre pubblicazioni tradizionali.
Se ne occupa anche Il Riformista: “Pulitzer, a guadagnarsi stavolta stavolta sono le no-profit”, dove si scrive che i Sandler hanno elargito nel 2008 10 milioni di dollari. Il quotidiano intervista il responsabile delle comunicazioni del sito Mike Webb, che racconta come i Sandler non vengano neanche messi al corrente delle inchieste del sito. E Webb nega che il sito possa sconfiggere i quotidiani cartacei: “Noi non siamo in competizione con loro, siamo loro partner. Lo stesso quotidiano cita un altro esempio non profit, nel settore dell’editoria e della narrativa: il premio è andato allo sconosciuto 42enne Paul Harding e la pubblicazione del suo libro è stata possibile solo grazie alle donazioni, pubbliche e private, destinate negli ultimi anni ad una piccolissima casa editrice indipendente, nata come costola della facoltà di medicina dell’Università di New York, la Bellevue Literary press. Ma la New York University non tira fuori un centesimo.
La Repubblica intervista Tadeus Z. Mazovieckwi, primo premier democratico polacco nel 1989: “il 7 aprile ero a Katyn con il premier Tusk e sono stato profondamente impressionato dal discorso di Putin”, “apprezzo moltissimo il modo in cui le autorità russe hanno reagito finora”. Ribadisce che “la Polonia dovrebbe continuare nelle sue richieste di chiarezza storica alla Russia”.
Secondo Libero, con i soldi del processo di Milano, l’ex imam di Cremona Abu Omar, vorrebbe fondare un movimento politico islamico in Egitto. Gli è stato riconosciuto un indennizzo di un milione di Euro per esser stato prelevato dalla Cia nel 2003, e un altro mezzo milione andrà alla moglie. Il quotidiano riproduce le dichiarazioni rilasciate da Abu Omar al giornale Al-Sharq- Al Awsat.
Torna sulle pagine de Il Foglio un vecchio bersaglio, il filosofo ginevrino Tariq Ramadan, che ha ottenuto nei mesi scorsi il via libera per tornare negli Stati Uniti, dopo un bando durato sei anni. Momenti di tensione nel confronto con il giornalista del New Yorker George Packer, nel momento in cui si è ricordato il sostegno al nazismo fornito dal nonno di Ramadan, ovvero Hassan Al Banna, il fondatore dei fratelli Musulmani: “Al Banna sostenne il Mufti (di Gerusalemme) nel contesto della lotta contro la silente colonizzazione della palestina ei gruppi terroristici ebraici”, “Al Banna appoggiò chi diceva che la Palestina doveva essere liberata dal tentativo di creare lo Stato di Israele in quel luogo”.
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La prossima stangata segreta di Berlusconi/Tremonti
Bankor*, 13.04.2010
Con le rondini, la primavera inoltrata porterà anche una stangata finanziaria da lacrime e sangue. Il progetto covava nelle segrete stanze del governo già da febbraio scorso, in grandi linee discusso e approvato in incontri segreti tra Berlusconi e Tremonti. Si è preferito aspettare l’esito delle elezioni regionali, a risultati acquisiti dalla maggioranza di centro-destra che, come era nelle proprie speranze e nei sondaggi “di famiglia”, si è vista consegnare gran parte delle Regioni prima in mano al centro-sinistra
Le smentite sono d’obbligo, ma nascondono la gravità della crisi finanziaria del paese e la “disperazione” del Duo di Arcore, Berlusconi-Tremonti.
Stando, però, alle indiscrezioni trapelate da ambienti finanziari molto legati al superministro dell’Economia Tremonti, per contrastare la crisi internazionale di fiducia sul nostro bilancio pubblico (che potrebbe farci finire nel tritacarne della speculazione mondiale, come per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda), la manovra finanziaria si baserebbe su tre linee: Riscadenzamento dei Bond del Tesoro (i vari titoli di stato), allungandone le scadenze del doppio rispetto alle attuali; Tassazione sugli immobili sfitti e di proprietà di banche e società finanziarie (esclusa una reintroduzione dell’ICI); Aumento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie speculative, compreso il regime di doppia tassazione per le banche, più alto per quelle “d’affari”.
Il tutto con la bonaria assicurazione di impegnarsi da subito a riformare il sistema fiscale, riducendo a tre le aliquote e passando dal prelievo sulle “persone fisiche” a quello sui consumi e le “cose”. Ma ci vorrà del tempo, forse a fine legislatura, per accattivarsi i voti dei delusi e del grosso “partito degli astensionisti”.
Va ricordato che la differenza tra i buoni del tesoro tedeschi, quelli più affidabili e appetiti dal mercato, e quelli della Spagna (il cosiddetto “spread”) si aggira attorno ai 100 punti,mentre per l’Italia oscilla tra i 60 e i 70 (Portogallo 160 e Grecia 360). Non c’è proprio da stare tranquilli, anche se per l’Italia la situazione è migliorata, dopo la decisione dell’Unione Europea di offrire un pacchetto di salvataggio alla Grecia per 30 miliardi di Euro, cui potranno aggiungersi altri 15 miliardi da parte del Fondo Monetario Internazionale.
E’, comunque, una stangata quella ipotizzata da Berlusconi-Tremonti, che ha trovato all’inizio qualche resistenza nello stesso Berlusconi, ma che di fronte all’incapacità del governo (segnato da fortissimi conflitti d’interessi in molti settori:media, banche, assicurazioni, telecomunicazioni, poste, immobiliare, energia) di attuare uno straccio di politica economica per contrastare il progressivo decadimento del nostro sistema produttivo e la voragine della disoccupazione, acquista il ruolo di “ultima spiaggia” per la sua deriva autoritaria.
Ed è anche l’unica via di salvezza per non “abbattere tutti i ponti” dietro di sé per questa coalizione di centro-destra, sempre più malvista a livello internazionale per la sua condotta economico-finanziaria troppo allegra, e perché “portatrice sana” del virus Berlusconi, che ormai impensierisce le maggiori Cancellerie del G8 e G20.
Per metter a punto il suo “Piano di uscita dalla crisi e di stabilità del Debito Pubblico”, Tremonti aspetterebbe un’apposita riunione del Financial Stability Board, presieduto dal Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, o di una riunione apposita durante o subito dopo il Meeting ordinario di fine Aprile del Fondo Monetario internazionale (FMI) a Washington.
L’attesa è ovviamente strumentale perché, nelle intenzioni di Berlusconi e del suo “Tesoriere”, le colpe di questa stretta fiscale dovrebbero ricadere sulle istituzioni estere, responsabili prime di fronte all’opinione pubblica di una “volontà politica” che in realtà nasce a Palazzo Chigi, frutto di consultazioni con i maggiori esperti della finanza pubblica e privata. Insomma, uno “scaricabarile politico”, per non ammettere le proprie responsabilità, per continuare a propagandare la favola mediatica di “non abbiamo messo le mani nelle tasche degli italiani, noi siamo quelli che abbiamo abbassato le tasse”; non solo, ma, come Berlusconi ha recitato di nuovo davanti alla platea plaudente della Confindustria a Parma, “la crisi è solo psicologica, noi siamo i più attrezzati a superarla”.
Finora Berlusconi impersonava il “poliziotto buono”, mentre Tremonti quello “cattivo” riguardo alla politica economica e fiscale del paese. Soprattutto, per Berlusconi è stato fondamentale il ruolo di Tremonti in due ambiti: interno, con i suoi proclami barricadieri e pseudo-rivoluzionari contro i “poteri forti”, le banche, i mercati finanziari, i petrolieri, pur di stringere a sé l’alleato “malpancista” Bossi, che ha paura di perdere l’elettorato nordico, fatto di lavoratori ma anche di piccole e medie imprese, ormai sbranate dalla crisi e dalla forte pressione fiscale; internazionale, con i suoi propositi di riforma globale dei mercati e le sue “alchimie finanziarie”, per dare qualche parvenza di autorevolezza e credibilità a Berlusconi nelle istituzioni mondiali e nell’establishment economico che conta davvero.
Ma entrambi sanno che il nostro paese non potrà reggere al ciclone delle turbolenze finanziarie speculative, né risollevarsi dalla profonda crisi economica, dal crollo produttivo e dal declino sociale, che sta attraversando anche nel 2010 un altro “annus horribilis”, un’ altra Via Crucis per il regime mediatico autocratico.
La produzione industriale nel 2009 è diminuita drasticamente rispetto al 2008 del 18,4%, dati Istat. Si tratta della diminuzione più forte dal ’91, primo anno di confronto delle serie storiche. Il Pil, sempre secondo l’Istat, nel 2009 è calato a meno 5,1%, l’indice più basso dal 1971, quando si era in piena crisi sulla scia dell’ “autunno caldo”. Il rapporto Deficit/PIL è salito al 5,3% (il peggiore dal 1996, governi Dini-Prodi). Anche lo scudo fiscale, vera e propria scialuppa di salvataggio per l’enorme platea di evasori fiscali, non ha prodotto quanto sperato da Tremonti, tanto che le entrate totali si sono ridotte del 2%. L’avanzo primario (al netto degli interessi sul debito pubblico) nel 2009 è risultato pari a -0,6% contro il +2,5% dell’anno precedente col governo Prodi (si tratta del primo calo dal 1991!). Negativo anche il saldo corrente (risparmio): -2% nel 2009 contro il +0,8% del 2008. Aumenta la disoccupazione ormai verso quota 10% entro la fine dell’anno, secondo le stime di molti centri studi: addirittura per la CGIL il tasso di disoccupazione reale è già sopra l’11,5%. Oltre un milione e cinquecentomila lavoratori in cassa integrazione nel 2010. Secondo i dati calcolati dall’Osservatorio CIG della Cgil, da gennaio a marzo di quest’anno, la cassa integrazione ha raggiunto 302.217.009 ore con un aumento sul 2009 del 133,88.
Infine, i dati Istat relativi al reddito disponibile delle famiglie italiane per l’anno 2009: ne risulta che rispetto al 2008 è calato del 2,8%, facendo segnare la riduzione più significativa dagli anni ’90. In calo anche la spesa delle famiglie con -1,9%, così come la “propensione al risparmio”.
E nel 2010 le previsioni sono ancora meno rosee: fine della cassa integrazione un po’ dovunque, mobilità lunga, prepensionamenti, licenziamenti, chiusure di fabbriche medie e piccole, uscita forzosa dalle scuole di alcune decine di migliaia di “precari storici”. Senza contare le decine di migliaia di giovani neolaureati che ormai da anni non si registrano in nessun elenco come “inoccupati”: un esercito di disoccupati giovani, sconosciuti alle statistiche, ma non alle famiglie che sopperiscono le carenze dello scarso Welfarestate italiano.
Ecco allora, farsi avanti il Piano, già fatto digerire a settori importanti della finanza italiana e ben visto dalle istituzioni internazionali di vigilanza. Ormai anche l’Italia, che detiene il più alto rapporto Debito pubblico/PIL dell’area Euro (nel 2010 si avvicinerà alla soglia del 120%, ovvero il doppio del parametro fissato dal Trattato di Maastricht!), si avvia ad essere preda delle “turbolenze” dei mercati, e per questo si è deciso di correre ai ripari. Ma il Piano attenderà dopo i tempi della politica elettorale anche quelli delle “reprimende” da parte delle istituzioni internazionali di controllo. Sempre che “la speculazione nemica” non faccia saltare anche i tempi e i modi studiati dal duo di Arcore Berlusconi/Tremonti, che, stando alle ultimissime indiscrezioni potrebbero anche prevedere un “prelievo forzoso” sui depositi bancari e sui titoli di stato, sulla falsariga di quanto fece il governo Amato nel 1992 di fronte alla disastrosa crisi della lira e del bilancio pubblico, eroso da Tangentopoli e dalle “finanze allegre” dei governi craxiani. Forse è utile ricordarlo ai tanti “smemorati di Collegno” sparsi nell’elettorato di destra e di sinistra:l’11 luglio del 1992 Amato emise un decreto da 30.000 miliardi di lire in cui veniva deliberato, retroattivamente al 9 luglio, il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari per un “interesse di straordinario rilievo”, in relazione ad “una situazione di drammatica emergenza della finanza pubblica”; e nell’autunno dello stesso anno varò una manovra finanziaria “lacrime e sangue” da 93.000 miliardi di lire con tagli di spesa e aumenti delle imposte, oltre alla prima riforma delle pensioni.
A volte la memoria serve per comprendere la storia e attrezzarsi per affrontare il futuro!
*Bankor era lo pseudonimo dietro cui si celava il governatore di Bankitalia Guido Carli, estensore negli anni Settanta su L’Espresso, diretto da Eugenio Scalfari, di articoli critici sulla finanza pubblica e il sistema economico italiano.
Viene qui ripescato per tutelare l’identità di alcuni operatori finanziari.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14624
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Una vittoria della democrazia
Elena Marisol Brandolini, 13.04.2010
Sette anni fa, il 20 febbraio del 2003, il giudice Juan del Olmo ordinava la chiusura del quotidiano basco Euskaldunon Egunkaria, l’unico allora completamente edito in euskera, con l’accusa di essere stato creato, finanziato e diretto dall’ETA. Finivano così in manette i responsabili del giornale e della casa editrice, di cui veniva disposta la liquidazione dei beni. ieri la completa assoluzione di tutti gli accusati
Sette anni fa, il 20 febbraio del 2003, il giudice Juan del Olmo ordinava la chiusura del quotidiano basco Euskaldunon Egunkaria, l’unico allora completamente edito in euskera, con l’accusa di essere stato creato, finanziato e diretto dall’ETA. Finivano così in manette i responsabili del giornale e della casa editrice, di cui veniva disposta la liquidazione dei beni.
Ieri, 12 aprile, a Madrid, l’Audiencia Nacional ha finalmente rettificato lo scempio giuridico che si produsse allora, sulla base di un’imputazione che i magistrati Javier Gómez Bermúdez, Manuela Fernández Prado e Ramón Sáez Valcárcel non esitano a definire “incomprensibile”, emettendo una sentenza di piena assoluzione di tutti gli accusati.
Tanto ci è voluto per ristabilire la verità dei fatti e fare piazza pulita di elementi pregiudizievoli ed infondati, mossi da una “visione stretta ed erronea secondo cui tutto ciò che ha a che vedere con l’euskera e la cultura in questa lingua debba essere favorito e/o controllato dall’ETA”.
Sette anni dopo, nel riaffermare la libertà di stampa e il diritto all’informazione come valori fondanti di uno Stato democratico, i magistrati sottolineano come, nel caso di Egunkaria, la sua chiusura abbia comportato un danno aggiuntivo, riguardando quei “lettori in euskera che disponevano solo di questa pubblicazione quotidiana, il che rende più forte il suo apprezzamento dal punto di vista del pluralismo, valore superiore del nostro ordinamento assieme alla libertà, secondo l’art. 1 della Costituzione”.
La chiusura del quotidiano basco e la detenzione di dieci suoi dirigenti si basò sulle accuse dell’Audiencia Nacional e dell’allora Ministero degli Interni secondo cui l’ETA era intervenuta nella designazione della direzione del giornale e nel suo finanziamento attraverso società mercantili. Nei due anni successivi si celebrarono processi, s’imposero cauzioni, i lavoratori di Egunkaria diedero vita ad un’altra società per editare un nuovo giornale in euskera. Il governo basco chiese l’archiviazione del caso, non essendo stata confermata nessuna delle accuse avanzate. Nel 2008, in occasione del quinto anniversario della chiusura del quotidiano, si registrarono numerose manifestazioni ed azioni di protesta. Nel 2009, nonostante il Pubblico Ministero ritirasse l’accusa per mancanza di prove e appoggiasse la richiesta degli avvocati della difesa di archiviare il caso, l’Audiencia Nacional decise di andare avanti con il procedimento, avvalendosi solo delle accuse della Asociación de Víctimas del Terrorismo e Dignidad y Justicia. Gli imputati in quel momento erano cinque; per essi le due associazioni chiedevano da 12 a 15 anni di prigione, per appartenenza all’ETA. Al principio del 2010, tre capi etarra negarono qualunque intervento dell’organizzazione terrorista nella progettazione, finanziamento e nomina della direzione del quotidiano; il Pubblico Ministero tornò a chiedere l‘archiviazione del caso.
Fino alla sentenza di ieri. Dove si legge che: “Non è stato accreditato che alcuna parte del capitale sociale o altre risorse fossero di provenienza illecita. Né tantomeno risulta invio o deviazione di fondi o di attività di qualunque tipo dalla società editrice o dal quotidiano verso la banda terrorista ETA”. Neppure consta che il giornale difendesse i proclami dell’ETA, ne ricevesse gli ordini, o si facesse da questa nominare direttori e rappresentanti legali. “La chiusura provvisoria o cautelativa di Euskaldunon Egunkaria, unico quotidiano che esisteva in euskera, – proseguono i magistrati – non aveva abilitazione costituzionale diretta e difettava di una norma legale speciale ed espressa che l’autorizzasse”. Solo con il pregiudizio, le considerazioni avanzate dall’accusa possono avere carattere di prova: “Ossia, le accuse hanno invertito il processo induttivo. Prima si è deciso qual è la conclusione, della quale si afferma, senza base alcuna, che è indiscutibile, dopo si cercano i segnali, le tracce o gli indizi e, in ultimo si respinge qualunque senso o spiegazione di quelli che non appoggino la conclusione”. “In definitiva – conclude la sentenza – le accuse non hanno provato che gli imputati abbiano la benché minima relazione con l’ETA, la qual cosa in sé determina l’assoluzione”.
E, in più, i magistrati sostengono di non escludere che gli accusati possano essere stati torturati nel momento della loro detenzione, così come da loro denunciato in tribunale, perché “le denunce di questi sul maltrattamento e le torture sofferte durante la detenzione … sono compatibili con le relazioni medico-legali prodotte dopo il riconoscimento nel centro di detenzione …”.
Così la sentenza di assoluzione, accolta con soddisfazione dalla stampa democratica spagnola. E dalle forze del nazionalismo basco, che adesso chiedono la riparazione dei danni morali ed economici ai cinque imputati finalmente assolti.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14628
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Signor giudice ci spieghi
Vincenzo Vita, 13.04.2010
Un processo sotto i riflettori mondiali, il caso “Google- Vivi Down” rappresenta un fenomeno tra i più visti e sentiti dell’epoca del web 2.0
In attesa della sentenza, abbiamo lasciato irrisolti quesiti chiave dell’intera vicenda: internet è davvero uno spazio pubblico autoregolamentabile? Ora abbiamo finalmente i testi.
Secondo il giudice Oscar Magi non può esistere «la “sconfinata” pirateria di Internet dove tutto è permesso e niente può essere vietato». Cosicché il giudice è “in attesa di una buona legge che definisca la responsabilità penale per il mondo dei siti web”.
Per il Tribunale di Milano il provider del servizio risulta responsabile del contenuto messo online. Al contrario, secondo la direttiva europea sul commercio elettronico gli intermediari – che hanno un ruolo passivo nel trasporto di informazioni provenienti da terzi – sono esonerati da qualsiasi responsabilità. E per il decreto legislativo n. 70 del 2003 il provider non è responsabile per i contenuti immessi dagli utenti, se li rimuove appena viene effettivamente a conoscenza di un fatto illecito. Eppure la sentenza, nelle sue 111 pagine, non ha ben chiarito questo punto. Anzi, per il giudice Magi, Google Italia avrebbe dovuto avvertire la ragazza che pubblicava il video e che stava così ledendo la privacy di un compagno di classe autistico.
Ma l’avvertimento all’utente sulla tutela della riservatezza significa – implicitamente – che non si vuole che le piattaforme facciano gli sceriffi del web? Oppure si chiede di fatto un vero e proprio controllo dei contenuti: ancora una volta una censura?
E’ tempo di portare avanti la causa dell'”Internet Bill of Rights”. Dice bene il giudice Magi che il web necessita di norme. Sì, per salvaguardalo, signor giudice. Non per cacciarlo tra i peccatori.
*senatore Pd, Commissione Cultura
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=14630
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La newsletter http://www.movisol.org/ del 14.04.2010
LaRouche avverte: il disastro aereo polacco alimenta la minaccia di attentato britannico contro Obama
Non appena ha appreso della tragedia aerea a Smolensk, in Russia, in cui hanno perso la vita il Presidente polacco Lech Kacynski e numerosi alti funzionari e esponenti delle forze armate, Lyndon LaRouche ha lanciato un forte avvertimento sul significato di questo sviluppo nell’aumentare la minaccia strategica alla vita del Presidente Obama.
“Non si tratta di un avvenimento isolato”, ha dichiarato LaRouche il 10 aprile. “Quando un pilota polacco, un pilota militare, a cui è stato affidato il governo presidenziale, ignora un ordine, un avvertimento dato sul territorio russo sull’atterraggio in Russia in determinate condizioni atmosferiche e invece prosegue e alla fine tutti muoiono, ciò dà da pensare”.
“Questo è parte dell’ambiente di minacce di morte al Presidente Obama. Siamo in una situazione che può essere paragonata, internazionalmente, all’assassinio del Presidente Kennedy. Quando qualcuno vuole assassinare il Presidente degli Stati Uniti, conduce una serie di operazioni che creano un’atmosfera di instabilità, una dinamica che consente loro di avere buone possibilità di poter insabbiare i fatti sui colpevoli.
“Avvenne la stessa cosa con l’11 settembre, all’inizio del 2001. Avevo ammonito che dovevamo aspettarci un attacco, un attacco terroristico contro gli Stati Uniti. Ebbi ragione nel mio avvertimento. C’erano tutte le prove. Ma ci fu anche una tempesta di azioni diversive.
“Il mio è un avvertimento su una minaccia al Presidente degli Stati Uniti. C’è un Presidente che è peggio che inutile. Ha imposto la riforma sanitaria che gli era stata assegnata. Ha completato la sua missione, come Presidente! E i britannici che gli avevano affidato questa missione sono intenzionati a liberarsi di lui, per creare una situazione in cui imporre una vera e propria dittatura negli Stati Uniti, eliminando un Presidente che ha già esaurito tutta la sua utilità politica! In cui membri chiave del suo governo, inclusi Rahm Emanuel ed altri, stanno cercando di dimettersi dal governo perché sanno che è un’area disastrata”.
La dichiarazione di LaRouche giunge nel contesto di un ambiente terribile dal punto di vista della sicurezza per il Presidente Obama nel prossimo periodo. Il 12-13 aprile, 47 capi di stato e di governo si riuniscono a Washington e diplomatici e funzionari esperti del governo hanno ammonito che l’ambiente per la sicurezza è “impossibile”.
Poi tra il 15 ed il 19 aprile ci sarà una serie di manifestazioni di protesta, inclusa una protesta armata che attraverserà il fiume Potomac da Washington alla Virginia settentrionale, a cui sono attesi alcuni noti agenti provocatori delle cosiddette milizie, promosse dai britannici. È in base a questi fatti che Lyndon LaRouche ha emesso i primi avvertimenti di un possibile attentato alla vita del Presidente.
Tuttavia, Obama non ascolta il consiglio degli esperti di sicurezza e, come Nerone, continua a cercare il contatto col pubblico ovunque possibile, per soddisfare il proprio ego.
Il presidente della BCE respinge Glass-Steagall e promuove austerità brutale
Jean-Claude Trichet è sfuggito al tema di una urgente riorganizzazione bancaria in Europa sostenendo che lo “standard Glass-Steagall” sia una cosa americana, rispondendo ad una domanda del condirettore dello Strategic Alert Claudio Celani alla conferenza stampa della BCE a Francoforte l’8 aprile. Dato che il problema principale in Europa non è la Grecia ma la Spagna con la bolla tossica “brasiliana” del Banco Santander, ha osservato Celani, invece di proteggere tutti gli attivi bancari con garanzie della banca centrale, non sarebbe meglio riorganizzare il sistema sulla base di uno standard Glass Steagall, separando i valori dei titoli reali dalla spazzatura speculativa?
Benché Trichet abbia riconosciuto che il sistema finanziario è ancora oberato dai rifiuti tossici, dicendo “non è solo la Spagna, non è solo l’Europa ma è tutto il mondo”, egli ha sostenuto – nell’incredulità generale – che il G20 e il Global Stability Board stanno elaborando le soluzioni al problema (vedi la videoregistrazione sottotitolata). Poiché in realtà non aveva risposto al tema Glass-Steagall, Celani glielo ha ricordato alla fine della conferenza stampa, al che Trichet ha risposto: “Glass-Steagall è una legge americana”, estranea alla tradizione europea.
Trichet ha manifestato una vera e propria ossessione per politiche di austerità draconiane, rispondendo alla domanda di un altro corrispondente dell’EIR, Rainer Apel, che gli ha chiesto come mai la BCE fosse così fissata sulla “stabilità fiscale” quando c’è bisogno di risollevare l’economia reale. Apel ha citato le ultime allarmanti cifre della disoccupazione giovanile in Europa (27,5% in Grecia, 40,7% in Spagna ecc.). Ma lo sventurato capo della BCE ha sostenuto che la priorità è varare “riforme strutturali estremamente coraggiose”, aggiungendo che “i paesi che hanno fatto riforme strutturali oggi stanno meglio”.
Così Trichet ha ammesso pubblicamente ciò che aveva denunciato il prof. Joachim Starbatty, un autorevole critico dell’Euro, in un articolo pubblicato sul Financial Times Deutschland quella stessa mattina. Starbatty aveva scritto: “L’UE sta costringendo la Grecia ad applicare la politica seguita dal Cancelliere Heinrich Bruening durante la crisi economica mondiale per guadagnare reputazione sui mercati finanziari internazionali. Ciò, comunque, incrementò solo la radicalizzazione politica all’inizio degli anni ’30. Oggi la Grecia viene spinta in una profonda depressione grazie alla stessa politica, e il suo credito internazionale verrà ulteriormente indebolito”.
Tremonti: riforma numero uno un nuovo sistema creditizio
La schiacciante vittoria della Lega Nord alle elezioni regionali del 29 marzo scorso rafforza la posizione di Giulio Tremonti, scongiurando per il momento i progetti di chi volesse approfittare di un’eventuale crisi di governo per estromettere il ministro dell’Economia e indire una politica di salvataggi speculativi del sistema finanziario come quelli promossi dalla Federal Reserve e dalla BCE. Tremonti non ha mai fatto segreto delle sue proposte di una drastica riorganizzazione del sistema finanziario e creditizio attuale, sulle linee di quanto propongono da anni l’economista americano Lyndon LaRouche e MoviSol in Italia: una nuova Bretton Woods, il ritorno a Glass-Steagall per imporre una netta separazione tra banche commerciali e banche d’affari, il ricorso al Chapter 11 per la riorganizzazione fallimentare delle banche. Lo ha ribadito negli ultimi giorni a Parma, dicendo che i rischi della crisi economica non sono finiti. “Il rischio non è finito: è come in un videogame. La crisi è mutata. Non è stata gestita come nel New Deal, non con ‘chapter 11′”.
La crescita della Lega e di altri partiti visti come movimenti di protesta è indice di un processo di “sciopero di massa”, attraverso il quale la popolazione si ribella contro le istituzioni ree di non affrontare l’attuale tracollo economico. Al contempo cresce l’interesse in Italia verso le soluzioni vere alla crisi, le proposte di LaRouche per un nuovo sistema creditizio, che sostituisca quello puramente monetario attuale. Oltre ad iniziative con numerosi gruppi di PMI e associazioni, i rappresentanti di MoviSol sono stati intervistati più volte dalla radio ufficiale proprio della Lega Nord, Radio Padania. Il presidente Liliana Gorini è intervenuta sulle possibilità che ha LaRouche di fare adottare tale politica negli Stati Uniti, grazie anche ai suoi candidati una delle quali, Kesha Rogers, ha vinto le primarie democratiche per un seggio al Congresso dal Texas col 53% dei voti. Poco prima delle elezioni Gorini e Andrew Spannaus sono stati ospiti di Roberto Ortelli negli studi di Radio Padania, ricevendo numerose telefonate di sostegno da parte degli elettori della Lega, soprattutto per le proposte di MoviSol sulla creazione del credito produttivo direttamente alle imprese, e su come smettere di rifinanziare i titoli tossici e i derivati delle banche, e finanziare invece l’economia reale. “Glass-Steagall è la riforma strutturale più importante in questo momento” ha commentato la presidente di MoviSol. “Sono questi i temi che interessano i cittadini, il lavoro, il credito alle imprese, l’economia reale”.
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News online? Roba da Pulitzer, 13.04.2010
Per la prima volta due fonti di Internet potranno fregiarsi dell’ambita onorificenza della Columbia University. A vincere, un’inchiesta di ProPublica e una vignetta di un sito legato al San Francisco Chronicle
Roma – Si tratta di una di quelle prime volte che non potranno essere facilmente dimenticate. Non sono passati nemmeno due anni da un annuncio che tanti giornalisti online attendevano da lungo tempo: la Pulitzer Prize Board avrebbe da quel momento preso in considerazione anche le penne tastiere del web. Per l’assegnazione dell’onorificenza più ambita nel panorama del giornalismo internazionale.
E ProPublica è stato il primo a farcela, il primo spazio d’informazione online a fregiarsi del celebre riconoscimento, condito da un assegno di 10mila dollari consegnato dalla speciale commissione della Columbia University. A vincere è stata una lunga e approfondita inchiesta sulla controversa situazione ospedaliera nella New Orleans devastata dall’uragano Katrina.
Risorsa non profit, ProPublica può attualmente contare sull’appoggio di The New York Times Magazine, che aveva pubblicato le circa 13mila parole dell’inchiesta a firma Sheri Fink. “Si tratta di un riconoscimento destinato a ripetersi nel corso dei prossimi anni – ha dichiarato Sig Gissler della commissione del Pulitzer – dal momento che emergono sempre più collaborazioni tra le realtà giornalistiche”.
Ma soprattutto perché questa vittoria potrebbe rappresentare un vitale slancio per certi giornalismi online, più flessibili e aperti all’approfondimento, senza bilanci in rosso da sopportare o redditi stellari da garantire a signori delle news come Arthur Ochs Sulzberger Jr. E ProPublica non è stato il solo spazio online a meritarsi un premio tanto ambito come il Pulitzer.
Una seconda onorificenza è andata al sito sfgate.com, spazio web legato al quotidiano San Francisco Chronicle. Mai una risorsa di Internet si era accaparrata la vittoria per la sezione dedicata agli editoriali a mezzo vignetta. Ma Mark Fiore ce l’ha fatta, insieme a tutto il sistema delle news online, che ha celebrato il suo giorno da vero reporter d’assalto.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2855520/PI/News/news-online-roba-pulitzer.aspx
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Scienziati americani modificano il codice etico di una persona utilizzando stimoli magnetici, 12.04.2010
E’ possibile modificare o addirittura annientare il codice morale ed etico di un individuo?
Secondo alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology è possibile.
Gli scienziati del MIT, sotto la supervisione di Liane Young, hanno arruolato venti volontari ai quali è stato chiesto di assegnare un punteggio a una serie di affermazioni o circostanze che secondo loro erano giuste o sbagliate dal punto di vista morale.
Il questionario è stato loro riproposto immediatamente dopo che i giovani erano stati esposti a una piccola scarica magnetica che aveva colpito una precisa area cerebrale.
Così i ricercatori hanno osservato che il giudizio su cosa era giusto e cosa sbagliato si modificava temporaneamente in maniera significativa.
La zona del cervello coinvolta nell’esperimento si chiama giunzione temporo-parietale destra e, secondo gli scienziati, è il luogo dove risiede il codice di etica morale di una persona.
Un codice che, a quanto pare, può essere modificato con stimoli magnetici.
Fonti
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Se il telefonino annusa il pericolo, 12.04.2010
Paura di un attacco terroristico o semplicemente bisogno di monitorare possibili fughe di agenti chimici altamente tossici: cosa c’è dietro al progetto Cell-All del Dipartimento per la Sicurezza del governo Usa? Trattasi di un dispositivo, ospitato su un chip del costo di meno di un dollaro, da installare come funzionalità aggiuntiva degli smartphone, in grado, se acceso, di identificare la presenza nell’aria di sostanze chimiche pericolose e di avvisare non solo il proprietario del telefono, ma anche una centrale dalla quale possa eventualmente partire una squadra pronta per affrontare le emergenze.
Grazie al crowdsourcing, cioè mettendo insieme gli allarmi provenienti da più telefonini nella stessa zona, sarà così possibile individuare situazioni di rischio in maniera assai più efficace rispetto alle isolate (e sporadiche) segnalazioni dei singoli cittadini, tipicamente imprecise, lacunose e soprattutto molto spesso errate.
Proprio come un software antivirus funziona nel computer in sottofondo, consentendoci di svolgere tutte le normali attività finché non trova un file anomalo e allora attira la nostra attenzione, così il “naso elettronico” si comporterebbe nel nostro smartphone.
A seconda della sostanza “sniffata”, Cell-All manderà un avviso all’utente, sotto forma di suono, vibrazione, messaggio di testo o chiamata. Nel caso di situazioni catastrofiche, come un attacco chimico con gas Sarin, i dettagli, compresa l’ora, il luogo e la composizione della sostanza rilevata, sono anche inviati a un centro operativo. Rilevazione, identificazione e notifica dovrebbero avvenire in meno di un minuto e poiché i dati sono forniti digitalmente il sistema riduce i rischi di errore umano e si evitano i falsi positivi, spesso presenti nelle segnalazioni volontarie dei singoli. I soccorritori possono così giungere sul luogo più velocemente e coprire un’area più vasta rispetto a quella presidiata da sensori fissi.
E la privacy? Resta rigorosamente protetta, secondo quanto afferma Stephen Dennis, il program manager di Cell-All: “La privacy è importante quanto la tecnologia”, dichiara. “Perché Cell-All funzioni, le persone devono fidarsi abbastanza da accendere il dispositivo”. Il sistema funzionerà quindi su base volontaria e i dati saranno trasmessi in maniera anonima. Ma quand’è che avremo in tasca uno smartphone che oltre a fare foto e video sempre più belli e navigare su internet a velocità supersonica ci proteggerà anche dall’inquinamento chimico? Esistono già accordi scritti con diverse aziende private (Qualcomm, LG, Apple e Samsung) sulla base dei quali Dennis si dice convinto di poter avere una quarantina di prototipi nel giro di un anno. I primi saranno programmati per riconoscere il monossido di carbonio e per allertare in caso di incendio. Per la commercializzazione bisognerà aspettare forse qualche anno. Al progetto collabora anche la Nasa.
http://blog.panorama.it/hitechescienza/2010/04/12/se-il-telefonino-annusa-il-pericolo/
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di Andrea Palladino – APRILIA (LATINA)
FESTA D’APRILIA
Aprilia, l’acqua torna pubblica, 09.04.2010
Settemila famiglie che da anni non pagano le bollette al gestore privato, un «tesoretto» nelle casse del comune. Come i cittadini di un comune del basso Lazio riescono a invertire la rotta delle liberalizzazioni
Nelle sede del comitato acqua pubblica di Aprilia oggi ci sono almeno una trentina di persone in attesa. Una fila paziente, silenziosa, con le cartelline in mano, davanti al lungo tavolo bianco dove i militanti del comitato preparano le contestazioni della gestione di Acqualatina. Una scena che si ripete da quattro anni, da quando settemila famiglie decisero di non pagare l’acqua al gestore privato, ma di versare i soldi sul conto corrente del Comune. «Verificammo che il conto corrente della gestione comunale dell’acqua era ancora attivo – ricordano oggi – facendo un versamento di un euro». Poi fu una valanga: contestazione della bolletta inviata dai privati e, contestualmente, pagamento dell’acqua al Comune, con le tariffe che erano state decise dal consiglio comunale.
Oggi, però, è una giornata differente e in molti sorridono. Mostrano le decine di assegni firmati Acqualatina, simboli dei tanti ricorsi già vinti dal comitato, dalle settemila famiglie, avendo come controparte un colosso come Gerit Equitalia, il riscossore che sta cercando di recuperare i soldi per conto di Acqualatina.
Ma c’è di più. Il presidente del consiglio comunale ha convocato le principali tre commissioni, con all’ordine del giorno «la riconsegna dell’impianto idrico comunale da parte di Acqualatina S.p.a.». L’amministrazione comunale – fatta di liste civiche elette un anno fa dopo un lungo governo del centrodestra – ha dunque deciso: la prossima settimana chiederà indietro le chiavi dell’acquedotto al gestore partecipato dalla multinazionale francese Veolia. E loro, i settemila firmatari delle contestazioni, che per anni hanno denunciato le conseguenze della gestione privata dell’acqua, continuando a pagare a quel comune fatto di rappresentanti eletti e non nominati dai consigli di amministrazione francesi, hanno raggiunto un traguardo neanche immaginabile fino a poco tempo fa. Hanno dimostrato che la mobilitazione dei cittadini – al di fuori dei partiti, basata solo sul senso civico e su quel sentimento profondo che respinge le ingiustizie – può cambiare le cose, può rimandare a casa una multinazionale potente come la Veolia.
Tecnicamente la decisione che verrà discussa dal consiglio comunale di Aprilia la prossima settimana è l’attuazione di una sentenza del Consiglio di Stato depositata lo scorso anno. Parole scritte dai giudici amministrativi che riconoscono alcuni principi fondamentali sulla gestione dei beni comuni. Primo, i cittadini non sono semplici sudditi e hanno tutto il diritto – in gergo giuridico si chiama legittimazione – di chiamare in causa una multinazionale quando questa non rispetta i diritti fondamentali. Secondo, l’acqua non è un bene qualsiasi, gode di una tutela superiore. E, terzo, i comuni hanno il pieno titolo di decidere come gestire le risorse idriche, senza dover subire interventi dall’alto. Dunque, conclude il Consiglio di Stato, il comune di Aprilia può decidere a chi affidare la propria acqua senza doversi inchinare alle decisioni prese dalla Provincia di Latina – che di fatto ha voluto imporre la scelta di un gestore privato – guidata dal centrodestra.
La sentenza ha segnato positivamente la storia della gestione dei beni comuni in Italia, ma mancava il primo e fondamentale passo. Da mesi il comitato acqua pubblica chiedeva alla giunta e al consiglio quella decisione che attendeva pazientemente da anni e che ora sta per arrivare. E Aprilia apre la strada a tantissimi comuni, stretti tra acquedotti che non possono più governare e una popolazione sempre più inferocita, che in ogni caso continua a rivolgersi ai primi cittadini, ai loro eletti. È questo il vero paradosso della privatizzazione, che non potrà che peggiorare con il decreto Ronchi. Cosa farsene della mera proprietà delle reti se l’acqua che scorre è gestita da consigli di amministrazione non eletti dai cittadini e non sottoposti ai principi della democrazia rappresentativa?
Acqualatina non ha commentato la decisione del Comune di Aprilia. Fino ad oggi l’azienda ha risposto duramente alle contestazioni: prima mandando pattuglie con vigilantes per ridurre l’acqua a chi contestava, poi affidando ad Equitalia la riscossione delle bollette. In entrambi i casi a nulla è servita la mano pesante, mentre il comitato acqua pubblica si è rafforzato, arrivando a determinare – nelle ultime comunali – la sconfitta del Pdl. E la decisione di riprendersi gli impianti idrici rappresenta un precedente estremamente pesante per la società controllata per il 49% da Veolia. Dunque, la partita non sarà semplice.
Il Comune di Aprilia si prepara a riprendere la gestione degli acquedotti e delle fognature con un vantaggio venuto proprio dagli utenti. Oggi nei bilanci comunali ci sono più di un milione di euro versati dalle settemila famiglie in questi anni. Soldi che se fossero finiti ad Acqualatina oggi sarebbero assorbiti da un bilancio dove pesano i debiti con la banca Depfa, lo stesso istituto sotto inchiesta a Milano per i derivati venduti all’amministrazione comunale. Quei soldi potranno da domani essere immediatamente usati dalla giunta di Aprilia per riavviare la gestione del servizio idrico integrato. Un vero tesoretto messo da parte con determinazione da chi non ha mai accettato le multinazionali e la gestione privata del bene più prezioso. Ad Aprilia da domani la parola democrazia tornerà ad avere senso.
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100409/pagina/05/pezzo/275706/
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«Il Novecento è finito La sinistra si svegli», 13.04.2010
Intervista a Daniel Cohn-Bendit
Per immaginare il futuro della sinistra non conta tanto stabilire da dove veniamo, ma dove vogliamo andare. Non è importante se uno è ecologista, socialista o comunista, la stagione dei partiti è finita in ogno caso. Penso che oggi non abbiano più senso né i partiti-azienda né i partiti-macchina: credo che dovremmo tutti immaginarci qualcosa di diverso, inventare una cooperativa politica, capace di tradurre una tendenza in strategia. E’ necessario ripoliticizzare la società civile e, contemporaneamente, civilizzare la società politica». Daniel Cohn-Bendit questa sua formula la va ripetendo da tempo, già da prima delle recenti elezioni regionali che hanno visto la formazione di Europe Écologie, di cui è stato uno dei fondatori, raccogliere il dodici e mezzo per cento dei consensi, dopo che alle europee del 2008 aveva toccato il sedici.
Figlio di ebrei tedeschi rifugiatisi in Francia durante il nazismo, Cohn-Bendit è stato uno dei protagonisti del Maggio ’68 parigino. Approdato al movimento dei Verdi è stato eletto nel 1989 al consiglio comunale di Francoforte, dove è diventato responsabile per gli affari multiculturali. Dal 1994 è deputato europeo. La sua proposta per la costruzione di una nuova sinistra è stata raccolta nel volume Che fare? pubblicato recentemente da Nutrimenti (pp. 144, euro 12.00).
All’indomani delle recenti elezioni regionali francesi lei ha ribadito un tema su cui sta riflettendo da tempo, quello della fine dei vecchi partiti novecenteschi. Ci può spiegare di che si tratta?
E’ la forma tradizionale di organizzazione dei partiti, così come si è andata definendo nel corso del Novecento, che penso debba essere messa in discussione oggi. Allo stesso modo è un parte del bagaglio ideologico della sinistra, ma anche della destra, che deve essere rivisto: in particolare tutto ciò che è legato all’idea che basti la semplice crescita economica per risolvere ogni problema di redistribuzione della ricchezza e di uguaglianza sociale. Credo che in questo nuovo millennio non si possano più affrontare le cose in questi termini, del resto le nuove povertà e le nuove esclusioni che crescono proprio nei paesi più ricchi e sviluppati sono lì a dimostrarlo.
In quest’ottica, quale percorso auspica per la sinistra?
C’è bisogno che tutta la sinistra si interroghi in modo nuovo, al di là delle diverse sensibilità che esprime attualmente: dai socialdemocratici alla sinistra radicale fino a ciò che io definisco come una nuova posizione politica emergente, vale a dire quella incarnata dall’ecologia. Si dirà che l’ecologia non rappresenta più una novità dell’ultima ora, eppure credo che continui a sfidare l’identità più “tradizionalista” delle sinistre, le loro storie e le loro forme di presenza e azione nella società, il loro stesso modo di fare politica. Ecco, intanto si potrebbe ripartire da questa sfida che mi sembra molto interessante e, potenzialmente, prolifica.
Lei ha detto che i partiti sono morti e che la forma di aggregazione a cui pensa è quella della cooperativa: ma cosa rappresenta una coop in politica?
Parlare di “cooperativa” riguardo alla politica significa un po’ tornare a una parte del nostro patrimonio politico, quella rappresentata dalle pratiche e dall’idea dell’autogestione. Io ne parlo per indicare la ricerca di forme di cooperazione politica che sappiano sottrarsi alla solita “macchina della politica” gerarchizzata e sempre pronta a strumentalizzare la disponibilità e la passione dei militanti. Penso a una “cooperativa politica” dove ciascuno conta per quello che fa, e ogni elettore può far pesare il suo voto, senza che su tutto questo si produca la solita formazione di stati maggiori e di funzionari. Se oggi c’è qualcosa di nuovo che si sta mettendo in moto nella società, non si deve fare l’errore di affidare all’ennesimo “nuovo” partito questa dinamica: si deve immaginare una forma nuova che rispetti la pluralità e, al contempo, la singolarità delle sue componenti.
In “Che fare?” ha scritto che solo questa “nuova politica” potrà cogliere appieno le trasformazioni avvenute nella sfera produttiva e il diffondersi di quel capitalismo cognitivo che sfrutta ogni forma di relazione umana e di sapere. In quale modo potrà avvenire?
Diciamo che la società cognitiva in cui siamo immersi ci consente di immaginare anche nuove forme per l’organizzazione politica, per esempio utilizzando la rete, dove gli scambi sono immediati e privi di “gerarchia”. In questa prospettiva, di una società più libera e aperta, possiamo immaginare che proprio il nuovo ruolo assunto dal sapere ci indirizzi verso il superamento delle fondamenta stesse del capitalismo.
Oggi in Europa non ci si misura solo con la crisi delle sinistre, ma con una potente ventata di destra, se non una vera e propria Rivoluzione Conservatrice che accompagna e interpreta una ristrutturazione economica e sociale. L’ultimo paese da cui è venuto un tale segnale è l’Ungheria dove si è votato nel weekend. Cosa ne pensa?
Intanto, proprio in Ungheria si è assistito alla spettacolare crescita dell’estrema destra razzista e antisemita e della nuova destra neoliberale, al crollo della socialdemocrazia locale, proveniente daggli ambienti postcomunisti, ma anche dall’affermazione, ed è la prima volta in un paese dell’Est, di una forza ecologista di sinistra che ha raccolto circa il sette per cento dei consensi. Quindi anche qui si misurano più o meno le stesse tendenze che vediamo all’opera in Italia o in Francia o in altri paesi più ricchi e organizzati. L’ecologia politica emerge come la migliore risposta alla deriva autoritaria neoliberale, quando non apertamente venata di fascismo, che si sta sviluppando nelle nostre società. Di fonte alle inquietudini sorte nell’ambito delle società globalizzate le due ipostesi sono in campo: personalmente considero l’ecologia la vera alternativa alle spinte reazionarie.
Quindi, come uscire dalla crisi sociale e politica contrastando le spinte regressive e razziste che emergono un po’ ovunque in Europa?
Bisogna mettere la società davanti alle proprie responsabilità. Alla crisi legata alla globalizzazione e alle forme di funzionamento del capitalismo, si può rispondere con l’individualismo generalizzato – in Italia avete un’ottima formula, quella di qualunquismo, per descrivere questa tendenza – incarnato ad esempio dalla figura di Silvio Berlusconi, oppure con la costruzione di una nuova solidarietà. E’ questo il vero tema che fa da sfondo al dibattito che si è aperto nella sinistra europea: un altro modo di fare e vivere la politica e un’innovazione potente nel linguaggio come nelle proposte può cercare di far pendere le nostre società verso lo spazio di una nuova solidarietà, piuttosto che in quello dell’individualismo dove crescono le nuove destre e il razzismo.
Ci sono delle nuove parole d’ordine per spiegare tutto ciò alle persone?
Non è con le parole d’ordine che si possono convincere le persone, ma con una nuova credibilità nel proprio comportamento politico. E soprattutto con una nuova politica.
Guido Caldiron
http://www.liberazione.it/news-file/-Il-Novecento—finito-La-sinistra-si-svegli-.htm
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