I drammatici sms dalle Twin Towers: “Ti prego, dimmi che stai bene” 25.11.2009
Il sito Wikileaks pubblica i messaggi inviati dalle persone coinvolte nel più devastante attacco agli Stati Uniti
TORINO
A partire dalle 9 del mattino di oggi fino alla stessa ora di domani il sito Wikileaks – specializzato nella pubblicazione di documentazione secretata – manderà online oltre un milione e mezzo di sms intercettati l’11 settembre 2001, proprio durante i devastanti attacchi terroristici a New York e Washington. «In questo modo le persone hanno la possibilità di ripercorrere le tappe della tragedia minuto dopo minuto, ora dopo ora, e di capire realmente che cosa accadde», si legge sul sito. E ancora: «Speriamo che con questa rivelazione si arriverà a una comprensione più approfondita dell’evento e delle sue tragiche conseguenze».
Il primo messaggio immesso nel web risale alle 3 del mattino (ora americana) dell’11 settembre, cinque ore prima dell’attacco. I pagers, da cui vengono presi i messaggi di testo, vengono in genere utilizzati da funzionari pubblici e infatti quelli che si possono leggere su WikiLeaks comprendono anche gli scambi tra dipendenti del Pentagono e agenti del Dipartimento della polizia di New York, fino alle comunicazioni sui malfunzionamenti delle reti informatiche man mano che il World Trade Center crollava.
Il sito è già stato inondato di commenti, con contestazioni per la “violazione della privacy digitale”, ma molti altri invece ringraziano WikiLeaks per l’opportunità di scandagliare ancora quel che accadde in quelle tragiche ore.
WikiLeaks, nato nel 2006, si propone di promuovere la libertà di informazione su temi sensibili, siano essi collegati alle politiche dei governi, delle compagnie private, delle confessioni religiose. «Vi aiutiamo a far emergere la verità in sicurezza», recita lo slogan del sito, che assicura l’anonimato a coloro che mettono online materiale sensibile.
Ecco il contenuto di alcuni degli sms pubblicati da WikiLeaks:
7: 05: 57 AM : “Please don’t leave the building. One of the towers just collapsed! Please, please be careful”
“Per favore non abbandonate l’edificio. Una delle torri è appena crollata. Per favore, per favore, fate attenzione”.
8: 51: 31 AM: “World Trade Center – Possible explosion World Trade Center Building – Level 3 mobilization to church”.
“World Trade Center – Possibile esplosione nel World Trade Center – Livello 3 – Dirigersi verso la chiesa”.
11:29:13 AM “I’m OK. I saw the whole thing. Was on the roof looking at the first fire when I saw the second plane plow into the second tower. Unbelievable, literally…I was inside when they collapsed. Still in my apt, nowhere to go…This is the end of the world as we know it… “.
“Sto bene. Ho visto tutto. Ero sul tetto a guardare la prima esplosione quando ho visto il secondo aereo schiantarsi nella seconda torre. Letteralmente incredibile. Ero dentro quando sono crollate. Sono ancora in casa. Non so dove andare…Questa è la fine del mondo…”.
9:25: 16 AM “Call your son when you get a chance. Calling to see if you’re allright”.
“Chiama tuo figlio appena puoi. Ti sto chiamando per sapere se stai bene”
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49741girata.asp
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Ambiente, impegno di Obama: taglio delle emissioni del 17% entro il 2020
A Copenaghen gli Usa proporranno una riduzione del 42% entro il 2030
WASHINGTON 25.11.2009
Barack Obama andrà alla conferenza sul clima di Copenaghen e metterà sul tavolo dei negoziati una proposta concreta sul taglio delle emissioni di CO2. Una decisione che apre la strada al raggiungimento di un nuovo accordo internazionale che sostituisca il protocollo di Kyoto. «È decisivo che il presidente americano partecipi al summit», ha commentato il responsabile dell’Onu per i cambiamenti climatici, Yvo de Boer, spiegando che la comunità internazionale aspettava che fossero gli Stati Uniti a fare il primo passo.
Obama spera che con la sua partecipazione alla conferenza sul clima si possa imprimere una «svolta» ai negoziati e, secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, non si presenterà a mani vuote, ma con una proposta di taglio delle emissioni di CO2 del 17% entro il 2020 – rispetto ai livelli del 2005 – del 30% entro il 2025 e del 42% entro il 2030, per arrivare a un taglio dell’83% entro il 2050. Un traguardo, quello previsto dagli Usa per il 2020, considerato insufficiente dalle associazioni ambientaliste, ma forse l’unico per trovare il consenso di tutta la comunità internazionale. L’agenzia energetica internazionale ha spiegato che il taglio del 17% entro il 2020 è certamente un passo nella giusta direzione, ma da parte dei Paesi più inquinatorì al mondo (Cina e Usa in testa) è necessario fare di più.
Pechino ha ribadito che non intende sacrificare il suo sviluppo per tagliare le emissioni di CO2. Per questo, è necessario che i Paesi ricchi decidano di stanziare finanziamenti per quelli in via di sviluppo al fine di ottenere il via libera al taglio delle emissioni. Il numero che Obama porterà sul tavolo dei negoziati è quello già approvato dalla Camera dei Rappresentanti americana e che deve andare ancora al vaglio del Senato.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49749girata.asp
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Vaticano, spy story da 180 milioni di euro 26.11.2009
I soldi fatti transitare in modo anonimo su Unicredit. Bankitalia e Procura aprono un’inchiesta: riciclaggio
GIACOMO GALEAZZI
CITTÀ DEL VATICANO
Un fiume di denaro gestito dalla banca vaticana, operazioni finanziarie «anomale», fondi intestati allo Ior e privi di proprietari dichiarati. Ora la procura di Roma vuol conoscere chi si cela sotto l’acronimo «Istituto per le opere di religione» che dal 2003 ha aperto alcuni conti nella filiale Unicredit di via della Conciliazione, al confine con le Mura Leonine. Depositi creati quando la filiale era ancora della Banca di Roma, prima del passaggio a Unicredit.
Il mistero è racchiuso soprattutto in un tesoro da 180 milioni di euro i cui veri titolari sono per ora sconosciuti e «protetti» dallo «schermo opaco», come lo hanno definito gli investigatori, costituito dallo Ior. Per statuto la banca d’Oltretevere, che si è sempre ritagliata un ruolo autonomo al punto da non figurare nemmeno nei bilanci della Santa Sede, può avere come clienti enti ecclesiastici, sacerdoti e laici residenti in Vaticano, stranieri purché destinino parte dei fondi a opere di bene. L’incognita, però, è a monte: la titolarità dei conti Ior, «top secret» e non sottoposti a tassazione.
Gli accordi con lo Stato italiano consentono all’Istituto vaticano (in passato protagonista di scandali clamorosi come la maxitangente Enimont ed il crack dell’Ambrosiano), un’operatività da banca offshore. La clientela riceve discrezione totale nelle operazioni utilizzando una banca che gestisce transazioni finanziarie fuori dagli accordi interbancari e dai filtri internazionali. Con il rischio che diventi una «lavanderia», un paradiso fiscale che non risponde a nessuna legislazione. Dietro il conto all’Unicredit può esserci chiunque, osservano in procura.
Quella provvista poteva servire a coprire qualunque tipo di attività: una sorta di bacino finanziario che assicurava flussi di denaro da e per i correntisti protetti dalla discrezione propria della finanza d’Oltretevere. Lì sono transitati dal 2003 circa 60 milioni di euro all’anno. Per ora i magistrati hanno aperto un fascicolo ipotizzando la violazione della legge 231 del 2007 che disciplina, per gli istituti di credito, una serie di norme antiriciclaggio, tra cui la trasparenza della titolarità, sul deposito di conti correnti.
L’indagine è appena agli inizi e per il momento è focalizzata sui rapporti tra Ior e Unicredit. Ma l’inchiesta, che ha creato non pochi imbarazzi in Vaticano, riguarderebbe anche altri conti correnti, nella titolarità dello Ior, aperti nella stessa filiale. Depositi di differente importanza: sia di grande entità sia di valore più contenuto. La segnalazione alla Procura della «non trasparenza» della titolarità dei conti è stata fatta dalla «Unità di informazione finanziaria» (la struttura di «financial intelligence» della Banca d’Italia) al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza che indaga su delega del procuratore aggiunto della Capitale Nello Rossi e del pubblico ministero Stefano Rocco Fava.
Il sospetto di chi indaga è che dietro la sigla Ior si possano celare persone fisiche o società che abbiano costituito un canale per il flusso di risorse tra la banca del Papa e l’Italia. Per l’indagine non sarà necessario attivare richiesta di rogatoria con lo Stato vaticano. Del resto, il nuovo presidente dell’Istituto, l’economista Ettore Gotti Tedeschi, intende assicurare trasparenza e collaborazione con la magistratura rispetto ad operazione riconducibili alla precedente gestione. Unicredit, secondo le indagini, ha emesso assegni e bonifici intestati sempre e solo alla banca vaticana. Anche su questo sono in corso indagini della Finanza per risalire ai beneficiari delle operazioni: il gruppo milanese fa sapere di essersi adeguato da tempo alle normative collaborando con le autorità di vigilanza.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200911articoli/49759girata.asp
Dalla rassegna di http://www.caffeeuropa.it/
“Depositi creati quando la filiale era ancora della Banca di Roma, prima del passaggio al gruppo Unicredit”
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Nel documento riservato dito puntato anche contro un sacertote belga e uno ruandese
Onu, accuse a due preti italiani «Soldi ai guerriglieri hutu in Congo» 26.11.2009
Il rapporto denuncia il fallimento della missione di pace: denaro alle milizie responsabili di stupri e massacri
MASSIMO A. ALBERIZZ
NAIROBI – Due sacerdoti italiani, un ruandese naturalizzato italiano che celebra nella diocesi di Lucca e un prete belga premiato con un milione di dollari dall’Opus Dei, sono accusati dal rapporto degli esperti nominati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di finanziare i gruppi hutu responsabili di efferati massacri nella repubblica Democratica del Congo. Il documento, che è ancora riservato ma di cui il Corriere è riuscito a procurarsi una copia e la cui lettura tiene incollati come un avvincente romanzo d’azione, è durissimo e accusa senza mezzi termini i caschi blu dell’Onu di non essere in grado di mantenere la pace, l’Uganda di continuare a sfruttare le risorse minerarie, la Cina di giocare un ruolo equivoco e contraddittorio, e alcune organizzazioni non governative spagnole di aver abbandonato la loro attività umanitaria per finanziare sanguinari ribelli ruandesi hutu, che combattono contro il governo di Kigali dominato dai tutsi.
SACERDOTI SOTTO ACCUSA – La relazione non perdona sacerdoti cattolici impegnati a combattere la loro guerra privata. Il gruppo di esperti – c’è scritto nel rapporto – ha ottenuto le mail originali che mostrano i collegamenti tra il missionario saveriano Piergiorgio Lanaro, che vive a Kasongo in Congo, e il presidente dell’Fdlr (Fronte democratico per la liberazione del Ruanda), Ignace Murwanashyaka, arrestato in Germania il 17 novembre accusato di stupro, crimini di guerra e contro l’umanità. Secondo gli investigatori dell’Oonu, l’Fdlr è coinvolto nello sfruttamento delle risorse minerarie del Congo orientale, dove operano i suoi miliziani, soprattutto oro. Lanaro avrebbe deliberatamente deviato fondi raccolti in Europa a fini umanitari verso i combattenti dell’Fdlr, cosa che avrebbe fatto con la complicità di padre Franco Bordignon, tesoriere regionale dei saveriani, residente a Bukavu. Padre Bordignon, raggiunto per telefono a Bukavu, ha dichiarato di essere a conoscenza del documento degli esperti, ma di non volerlo commentare perché non ufficiale. Gli investigatori, per altro, sostengono le loro ragioni citando una mail con cui lo stesso padre Piergiorgio racconta della sua abilità nel raccogliere danaro per sostenere la causa del Fdlr. In un messaggio di risposta Murwanashyaka conferma il suo desiderio di ricevere questo finanziamento.
RIFUGIATO IN ITALIA – Sul banco degli accusati per relazioni con i ribelli hutu anche Jean-Berchmans Turikubwigenge, prete rifugiato ruandese che ha preso la cittadinanza italiana. Secondo un rapporto di Rakiya Omar, consulente del governo ruandese per la demobilizzazione e la reintegrazione e anima del gruppo di difesa ei diritti umani, African Right, padre Jean è stato ordinato sacerdote nel 1990 da Papa Giovanni Paolo II. Divenuto cappellano militare durante il genocidio del 1994 e scappato dal suo Paese per non subire rappresaglie. Esule a Roma, si è laureato all’università gregoriana e ora è vice direttore dell’ufficio missionario e direttore per l’immigrazione della diocesi di Lucca.
PREMIATO DALL’OPUS DAY – L’accusa più grave viene rivolta a un sacerdote cattolico belga fiammingo: Constant Goetschalckx, leader dell’organizzazione religiosa Brothers of Charity (fratelli della carità) con rappresentanze in tutto il mondo, con lo statuto di membro consultivo del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, la cui missione è sostenere progetti per aiutare i profughi ruandesi che vivono nei campi di Kigoma, in Tanzania. Per il suo impegno caritatevole padre Constant – che lavorava nel campo – ha ricevuto il premio Opus Prize: un milione di dollari stanziati dall’Opus Dei. Costant Goetschalckx, è imputato per aver finanziato i guerriglieri hutu ruandesi responsabili di aver bruciato villaggi, ammazzato gli uomini, violentato le donne e rapito i bambini: venivano a ritirare il denaro direttamente a casa sua.
I SIGNORI DELLA GUERRA – Accuse specifiche sono rivolte a organizzazioni umanitarie spagnole, basate nelle Baleari, come la Fundaciò S’ Olivar e la Inshuti,,entrambe con sede nelle Baleari e finanziate del governo locale dell’arcipelago. Il rapporto articola le accuse meticolosamente. Cita testimonianze, messaggi mail e conversazioni telefoniche, ricevute di pagamento e di trasferimento di denaro che svelano connessioni all’apparenza assurde. Al capezzale delle ricchissime regioni orientali del Congo siedono i sanguinari signori della guerra, accusati di spietati eccidi, le grandi multinazionali, che si spartiscono le risorse minerarie, le potenti diplomazie di tutto il mondo, con il loro cinismo che non si cura di stragi, carneficine e macelli, e organizzazioni non governative che parlano di l’assistenza umanitaria ma invece aiutano e armano feroci miliziani e guerriglieri. L’ex colonia belga è ancora una volta sull’orlo del disastro.
(malberizzi@corriere.it)
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Grazie a particolari specchi e ad altri macchinari si produce energia elettrica
Firenze: ecco la macchina che cattura e concentra l’energia del Sole 24.11.2009
Giovedì il Cnr inaugura all’Osservatorio di Arcetri il «Concentratore solare con specchi adattivi rotanti»
FIRENZE – Visto da vicino il prototipo del Cnr ti spedisce lontano nel tempo. Un ritorno al passato con le tecnologie del futuro. E non è strampalato pensare al grande Archimede, ai suoi specchi ustori, alle meraviglie di una pre-tecnologia così sofisticata da sembrare mitica. E invece l’oggetto misterioso che sarà inaugurato giovedì all’Osservatorio di Arcetri, sulle colline di Firenze, è un esempio di altissima tecnologia, unica al mondo. Si chiama «Concentratore solare con specchi adattivi rotanti» ed è capace di sviluppare energia elettrica pulita e a basso costo, circa tre volte in meno rispetto a quanto si spende per l’energia prodotta da un impianto fotovoltaico e a ridurre l’impatto paesaggistico.
LA TECNOLOGIA – «Con questa tecnica si possono realizzare impianti capaci di arrivare a 1500 gradi di calore – spiega Francesco D’Amato, primo ricercatore all’Istituto nazionale di ottica applicata del Cnr di Firenze – e produrre 200 chilowatt elettrici capaci di alimentare energia in una sessantina di appartamenti». Un impianto del genere deve avere una grandezza di 2500 metri quadrati, ed ha una forma di un cerchio di 50 metri di diametro. Il prototipo (funzionante) che sarà mostrato giovedì ad Arcetri è invece un semicerchio ed formato da otto metri quadrati di specchi. Perché proprio come l’invenzione di Archimede, anche il Concentratore funziona con gli specchi. Qual è il suo cuore meccanico? «Un binario semicircolare di 25 metri di diametro dove si muove un carrello – continua D’Amato – e su questo carrello è stato montato un telaio di 8 metri quadri di specchi. Il carrello segue il movimento del sole e rimanda luce su un altro specchio speciale collocato al centro binario. Da qui, grazie a un motore Stirling, cioè un sistema che trasforma energia termica in elettrica, si crea l’energia». Un concentratore solare è in via di sperimentazione da parte dell’Enel in Sicilia, ma quello fiorentino è realizzato con una tecnologia all’avanguardia capace di produrre maggiore energia, ameno sulla carta.
DIFETTI – I difetti? Se c’è poco sole funziona male, dunque è per ora un ottimo impianto da utilizzare soprattutto al Sud. Il progetto è stato elaborato dagli Istituti nazionali di ottica applica e di biometereologia del Cnr, e dalla Ronda Hight-Tech, un’azienda di Vicenza. I progetto è stato firmato anche dalla Regione Toscana. «Abbiamo sostenuto la realizzazione del concentratore con grande convinzione – dice Fabio Roggiolani, presidente della Commissione sanità della Regione Toscana – anche perché siamo la prima Regione in Italia che sta riconvertendo a energia pulita tutti gli ospedali e il parco auto del servizio sanitario che tra poco sarà elettrico. Il progetto di Arcetri può ridurre di tre quarti la superficie occupata dal fotovoltaico. E questo per una regione dove il paesaggio è così importante, come la Toscana, può essere decisivo per la svolta ecologica. Dopo il solare termodinamico e fotovoltaico, ecco dunque il solare ottico. Insomma, abbiamo messo gli occhiali ai pannelli solari».
Marco Gasperetti
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Perché i porti italiani contano per la Cina
Gabriele Catania, 23.11.2009
L’Italia, al centro del Mediterraneo, può tornare a essere un grande hub commerciale, se riesce a rendere più competitivi i suoi porti. La geografia sta dalla nostra parte. La storia anche
Tutti sanno che l’economia cinese è basata sull’export, che rappresenta il 40% del suo PIL. Di questo passo il nomignolo “Exportweltmeister” (campione mondiale delle esportazioni), coniato naturalmente per la Germania, dovrà passare alla Repubblica Popolare Cinese, “la fabbrica del mondo” già terzo esportatore mondiale dopo Germania e Stati Uniti.
Pechino è il maggior fornitore dell’Europa, e i sedici paesi dell’eurozona rappresentano per gli imprenditori cinesi un mercanto assai più importante del vicino Giappone, che pur essendo la seconda potenza economica del mondo non certo può competere con mezzo miliardo di consumatori europei.
Secondo la Commissione Europea le importazioni dalla Cina sono cresciute attorno al 21% annuale dal 2003 al 2007, e soltanto nel 2007 l’Unione Europea ha importanto merci cinesi per oltre 230 miliardi di euro. È ovvio che i beni cinesi possono essere venduti ai ricchi consumatori del Vecchio Continente solo se riescono materialmente a raggiungere i suoi negozi e i suoi centri commerciali. Ecco perché i porti italiani sono importanti per la prosperità cinese.
Attualmente le società cinesi preferiscono inviare la loro merce nei più efficienti porti del Nord Europa, a cominciare da quello di Rotterdam, nei Paesi Bassi. In realtà il Benelux è da sempre al centro dei commerci europei: a ovest, oltre la Manica, c’è la Gran Bretagna, a est la Germania e l’Est Europa, a sud la Francia e a nord la Scandinavia (non stupisce che per secoli le principali potenze europee si siano azzuffate per il controllo dei porti di Anversa, Rotterdam e Amsterdam).
Comunque la distanza tra i principali porti cinesi e Rotterdam è assai maggiore di quella tra gli stessi e quelli italiani: dopo il canale di Suez le navi della Repubblica Popolare devono attraversare il Mediterraneo, passare lo stretto di Gibilterra, costeggiare Portogallo, Spagna, Francia e Belgio prima di intravedere le banchine di Rotterdam. E un viaggio più lungo non richiede solo più tempo, ma anche più carburante, più rischi e, in una sola parola, più soldi.
Come ha riconosciuto lo stesso governo italiano, i porti della nostra penisola hanno il vantaggio di poter essere raggiunti dalle navi che passano il canale di Suez una settimana prima di quelli nordeuropei.
Gli armatori cinesi però stanno sempre più puntando sul Pireo, il grande porto di Atene famoso sin dai tempi di Pericle. Secondo l’ex primo ministro greco Costas Karamanlis i porti del suo paese “possono fungere da centri di transito per i prodotti cinesi destinati all’Unione Europea, ma anche per gli stati dell’Europa sudorientale e del Mediterraneo Orientale”.
Certo, la Grecia è vicina alla Turchia, alla Bulgaria, ai Balcani. Tuttavia le economie della regione non sono paragonabili a quelle di Germania, Francia o Italia, e la stessa Grecia è un paese di scarso peso economico, e con una forte instabilità sociale e politica: gli attentati terroristici e le violenze, sia di destra che di sinitra, ad Atene sono all’ordine del giorno; e i portuali del Pireo non sembrano molto contenti di lavorare per i cinesi.
Inoltre l’Austria, “la porta dell’Occidente”, dista dal Pireo assai più che dall’Italia meridionale, e per raggiungerla un camionista greco deve attraversare paesi come la FYROM (Macedonia), la Serbia, la Bosnia e la Croazia. Inoltre questi paesi, fino a ieri in gravissime condizioni politiche ed economiche, non sono ancora membri dell’Unione Europea, né lo saranno a breve (con l’eccezione della Croazia) e pertanto bisogna attraversare almeno cinque frontiere prima del sospirato confine austriaco.
Il governo italiano, dal suo canto, è particolarmente desideroso di rendere l’Italia la prima fermata europea della nuova “Via della Seta” tra la Cina e l’Europa.
I porti italiani giocano già ora un ruolo importante negli scambi tra la Repubblica Popolare e il Vecchio Continente: nel porto di Napoli, dove opera la COSCO, entrano ogni anno 1,6 milioni di tonnellate di beni cinesi; e la Evergreen Marine Corp., di Taiwan, opera a Taranto.
Senza contare che il porto di Gioia Tauro e quelli liguri o dell’Italia centrale hanno un potenziale immenso, mentre il porto di Trieste, un tempo il più grande del Mediterraneo, dista meno di duecento chilometri dall’Austria.
Naturalmente per rendere più competitivi i porti italiani servono grandi investimenti, sia nazionali che internazionali. Ma sarebbe tragico se l’Italia perdesse l’occasione di tornare a essere un hub commerciale mondiale, come nel Quattrocento. E i cinesi dovrebbero ricordare che puntare tutto su un solo grande porto, sia esso quello di Rotterdam o di Atene, comporta rischi e costi che una superpotenza economica non può sottovalutare.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13579
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I palestinesi che usano come arma la nonviolenza
di Richard Boudreaux*
Los Angeles Times, 19 novembre 2009
Bil’in, Cisgiordania – Ogni venerdì, le forze di Mohammed Khatib si radunano per combattere la loro battaglia contro l’esercito israeliano, e preparano le loro armi: un megafono, degli striscioni – e la forte convinzione che la protesta pacifica possa portare alla creazione di uno stato palestinese.
A centinaia marciano verso la barriera israeliana che separa la piccola comunità agricola di Bil’in dalla maggior parte delle sue terre. Cantano e gridano. Alcuni teenager lanciano pietre.
Khatib ha contribuito a dare il via a questo rito settimanale cinque anni fa, nel tentativo di “dare un nuovo carattere” alla lotta palestinese, spesso associata agli attacchi con i razzi e agli attentati suicidi.
“La non violenza è la nostra arma più potente”, dice il ‘mediatico’ segretario del consiglio del paese di Bil’in. “Se non ci possono accusare di terrorismo, non possono fermarci. Il mondo ci sosterrà”.
Il problema è che questo progetto non gode di molto sostegno all’interno della comunità palestinese. Dopo due rivolte in venti anni (la prima e la seconda Intifada), i palestinesi sembrano essere in gran parte indifferenti di fronte al suo donchisciottesco invito ad intraprenderne una terza.
Il suo messaggio è difficile da ‘vendere’: Khatib, 35 anni, è un Gandhi moderno in una cultura che contempla il linguaggio delle armi, benché la maggior parte dei palestinesi non ne abbia mai usata una. E i rischi del suo attivismo sono enormi.
L’esercito israeliano lo ha preso di mira. Quest’estate, nel corso di una serie di raid notturni nel paese venne arrestato, malmenato brutalmente e minacciato di morte. Fu liberato a condizione che ogni venerdì si presentasse ad una stazione di polizia israeliana all’ora della protesta settimanale.
Sebbene il villaggio abbia continuato a compiere le sue marce e sia diventato un simbolo di disobbedienza civile largamente acclamato, il suo progetto di esportare il modello “Bil’in” in tutta la Cisgiordania non si è materializzato.
Solo alcune migliaia di attivisti palestinesi negli ultimi cinque anni hanno ricevuto training sui principi e le tattiche della resistenza nonviolenta, secondo l’indipendente “Holy Land Trust”, con sede a Betlemme, che gestisce il corso. Le loro sporadiche iniziative hanno portato ad un miglioramento molto limitato delle restrizioni imposte da Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Ma questi sforzi non si sono concretizzati in un movimento di massa, tanto meno hanno costretto Israele a muoversi in direzione di un accordo su uno stato palestinese.
Gli attivisti dicono di essere ostacolati dagli attacchi israeliani, dalla rassegnazione diffusa tra i palestinesi, e da una profonda spaccatura della leadership politica, divisa tra la difesa della lotta armata, caldeggiata da Hamas, e la speranza dell’Autorità Palestinese in una rinascita dei colloqui di pace con Israele sotto l’egida degli Stati Uniti.
Nei territori palestinesi prevale una calma relativa, ma secondo Khatib questa impasse diplomatica non potrà durare a lungo.
Quest’uomo calvo, distinto e raffinato, assorto nei suoi pensieri, irradia una forte intensità. In una lunga conversazione, parla dei suoi idoli – Mohandas Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela – mentre riceve telefonate riguardo alla prossima mossa del suo progetto, volta a sfidare legalmente la barriera di separazione.
Egli crede che Israele stia cercando di schiacciare gli attivisti non violenti, perché preferirebbe piuttosto affrontare un’insurrezione armata.
“Questo non ci aiuta a convincere la gente che il nostro percorso di resistenza sia quello giusto”, afferma Khatib. “E sarà un processo lento. Finora non si sono visti molti successi”.
Khatib ha conosciuto la militanza da adolescente durante la prima Intifada, la rivolta che ha avuto inizio nel 1987. Bloccò le strade per cercare di tenere l’esercito fuori dal suo paese, dipinse slogan sui muri e sventolò la bandiera palestinese (allora un’azione illegale) alle manifestazioni.
La partecipazione di massa e lo svolgimento relativamente pacifico di quella rivolta, quando pochi erano i palestinesi armati non soltanto di pietre, ottenne la simpatia dell’opinione pubblica internazionale e portò ad una grande concessione: nei primi anni novanta Israele riconobbe l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e cominciò a prendere in considerazione la creazione di uno stato palestinese.
Le iniziative nonviolente di oggi derivano dalla nostalgia per la prima Intifada – quella che Khatib definisce una sobria reazione alla rivolta armata che ha insanguinato la prima metà di questo decennio, dopo che erano falliti i colloqui di pace. Sono morti più di 4 mila palestinesi e milla israeliani.
Khatib, che abbandonò la resistenza quando le cose stavano per farsi violente, ricorda gli omicidi che lo cambiarono.
Era il 2001. Khatib vide con orrore dei soldati israeliani che sparavano ad un amico disarmato presso un posto di blocco. Due settimane più tardi, i militanti delle brigate dei martiri di Al-Aqsa si vendicarono al posto di blocco, uccidendo sette soldati.
“La mia prima reazione fu “bravi!”, dice Khatib. Poi si accorse che i soldati uccisi appartenevano ad un’altra unità, distinta da quella in servizio quando fu ucciso il suo amico.
“E mi sono chiesto: come possiamo rompere questo ciclo di morte, di azione e reazione violenta?”
La sua risposta è stata di organizzare un movimento contro l’eredità lasciata dall’Intifada: la barriera che Israele ha costruito per proteggersi contro gli attacchi dei militanti, ma che, al tempo stesso, divide profondamente la Cisgiordania in più parti, isolando i palestinesi dall’ 8% del loro territorio. La serie di panelli di cemento, recinzioni e strade di pattugliamento si estende per oltre 280 miglia.
Khatib ha coinvolto attivisti israeliani e internazionali perché marciassero ogni venerdì a fianco dei residenti di Bil’in fino alla recinzione, che qui è alta 4 metri. Essa protegge una parte del tentacolare insediamento ebraico di Modiin Illit, che si erige sulle terre del villaggio palestinese.
Egli ha fatto in modo che i manifestanti potessero servirsi di videocamere per documentare l’uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma da parte dell’esercito israeliano per tenerli lontani. Ha sempre applicato una tolleranza zero nei confronti dell’uso della violenza da parte degli attivisti, fallendo solamente nel caso di qualche ragazzo che lanciava pietre e, occasionalmente, colpiva i soldati.
Michael Sfard, un avvocato israeliano ingaggiato dal paese, attribuisce a Khatib il merito della “brillante” idea che, due anni fa, trasformò il trend avviato dal movimento in una vittoria giuridica storica.
Col favore dell’oscurità, Khatib portò una squadra di costruzione clandestina al di là della barriera, e costruì una capanna di fortuna sulle terre del villaggio che erano state usurpate per costruire un nuovo quartiere appartenente all’insediamento ebraico. (Questa manovra clandestina si ispirava alla strategia espansionistica di Israele, volta a creare “fatti sul terreno”).
Quando l’esercito minacciò di demolire la capanna, il villaggio si rivolse alla Corte Suprema di Israele denunciando la costruzione del nuovo quartiere, che non possedeva l’autorizzazione formale da parte del governo. Il tribunale ordinò allo stato di Israele di fermare la costruzione del quartiere, spostare la barriera di separazione, e ripristinare circa la metà dei 575 ettari di uliveti che gli agricoltori di Bil’in avevano perso.
Khatib poi istituì un’alleanza con 11 villaggi della Cisgiordania, perché condividessero le sue strategie, e in qualche caso questo ha portato dei frutti. Sei comunità hanno denunciato con successo il percorso della barriera costruita sulle loro terre. Gli attivisti si sono messi in comunicazione con alcuni sostenitori esterni per introdurre di nascosto camion che trasportavano acqua alle comunità isolate dall’esercito, e per proteggere i raccoglitori di olive dalle molestie dei coloni israeliani.
Ma a Bil’in, la vittoria legale ha incontrato molti ostacoli.
L’esercito non si è ancora conformato alla sentenza, e non ha ancora spostato la barriera, il cui nuovo itinerario è oggetto di dispute. Nel frattempo, i soldati hanno cominciato a reagire alle proteste con maggior forza, e la maggior parte degli israeliani, che considerano la barriera come uno scudo contro la violenza, è rimasta indifferente.
Nel mese di aprile, Khatib si trovava a pochi metri di distanza, quando un suo compagno, Bassem Abu Rahma, è stato ucciso da una granata di gas lacrimogeno ad alta velocità sparata sulla folla dei manifestanti.
La morte di Abu Rahma lo ossessiona ancora. Per ben due volte, afferma, i soldati lo hanno avvertito che avrebbe fatto ” la stessa fine di Bassem”, se avesse continuato ad opporsi alla loro presenza in Cisgiordania.
Khatib e altri 27 compagni, tra leader della protesta e altri partecipanti, sono stati arrestati nelle loro case durante i raid notturni che hanno avuto inizio nel mese di giugno. Diciassette sono tuttora detenuti. Khatib è accusato di incitamento alla violenza.
Interrogato sul motivo della repressione, un comandante israeliano ha affermato che erano stati fotografati e arrestati alcuni manifestanti che stavano provocando danni alla recinzione. Ma dopo una settimana di inchieste, l’esercito non ha presentato alcuna prova di danneggiamento.
Uno degli ultimi venerdì, gli abitanti del villaggio hanno lasciato un segno visibile sul recinto, una bandiera palestinese appesa al filo spinato. Dopo che i manifestanti erano andati a casa, un soldato l’ha tirata giù, ci si è pulito le mani e se l’è messa in tasca.
(Traduzione a cura di Medarabnews)
L’articolo in lingua originale
* è stato corrispondente da più di 50 paesi in America Latina, in Europa, nell’ex Unione Sovietica e in Medio Oriente; vive a Gerusalemme
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=8523
http://www.medarabnews.com/2009/11/19/i-palestinesi-che-usano-come-arma-la-non-violenza/
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Barbara Spinelli
Chi vogliamo essere 22.11.2009
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (…) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti nel regime, nei giornali interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo»
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Il Bilderberg Club dietro la nomina di Van Rompuy a presidente Ue 20.11.2009
Designato a una cena del gruppo tenutasi il 12 novembre nel Castello di Hertoginnedal, alle porte di Bruxelles
La decisione di nominare presidente permanete della nuova Unione europea disegnata dal Trattato di Lisbona il premier belga Herman Van Rompuy – membro del partito dei Cristiani Democratici Fiamminghi e appassionato di poesia giapponese – è stata presa la sera del 12 novembre in una cena a porte chiuse nel Castello di Hertoginnedal, alle porte di Bruxelles.
A organizzare la cena, cui ha parteciapto lo stesso Van Rompuy, il famoso Bilderberg Club: il più potente, riservato e discusso organo decisionale privato del mondo che dal 1954 riunisce i vertici politici, finanziari, industriali, militari e mediatici dei paesi occidentali.
Secondo la indiscrezioni apparse sulla stampa belga, in particolare sul quotidiano De Tijd (poi riprese anche dal Times di Londra), durante la cena il futuro presidente europeo ha dichiarato che una volta in carica si sarebbe fatto promotore di una tassa europea.
Proprio nel Castello di Hertoginnedal, di proprietà della famiglia reale belga e in passato sede di un antico priorato religioso femminile, nel 1956 si tennero i primi negoziati per la creazione della Cee e dell’Euratom, embrioni dell’odierna Unione europea.
Van Rompuy, nonostante il suo apparente basso profilo, è da tempo un frequentatore sia del Bilderberg Club che della Commissione Trilaterale, altro potente organismo sovranazionale fondato e presieduto da David Rockefeller.
http://it.peacereporter.net/articolo/19039/Mister+Bilderberg
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Banche cinesi in difficoltà 26.11.2009
Dopo la crisi senza precedenti che ne ha eroso il capitale, le cinque principali banche cinesi hanno presentato alle autorita’ di regolamentazione dei piani per raccogliere denaro e aumentare le proprie basi patrimoniali. Lo scrive Bloomberg citando fonti vicine agli istituti. La Industrial & Commercial Bank of China, China Construction Bank, Bank of China, Agricultural Bank of China e Bank of Communications hanno illustrato alla China Banking Regulatory Commission, la commissione di controllo sul settore bancario, gli interventi attraverso i quali possono innalzare i propri ratios patrimoniali. I programmi per gli aumenti di capitale sottoposti all’autorita’ dalle banche in questione sono comunque informali e soggetti ad essere modificati.
Dott Fabio Troglia
fabio.troglia@gmail.com
www.lamiaeconomia.blogspot.com
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Francia/ La morte annunciata del museo di Montmartre 26.11.2009
Roma, 26 nov. (Apcom) – Il comune di Parigi deve fare economia e a farne le spese sono i piccoli musei: in rosso da diversi anni, quello di Montmartre – scrive oggi il sito online del Journal du Dimanche – potrebbe addirittura essere chiuso entro la fine dell’anno. Gestito dalla società “Vieux Montmartre” il museo ritraccia la vita del quartiere più celebre di Parigi e dei suoi artisti. Ma il Comune ha deciso, a fine ottobre, di tagliargli tutte le sovvenzioni, comprese quelle per il 2009. Le sovvenzioni ammontano a 124.000 euro l’anno ma sono sempre le stesse da dieci anni, mentre l’affitto è aumentato. Inaugurato nel 1960 e inserito nel 2003 dal Ministero dei beni culturali nella lista ufficiale dei Musei di Francia, il museo si trova al numero 12 di rue Cortot, in una delle case più vecchie di Montmartre. La dimora di Rosimond, amico di Moliere, che qui ha vissuto nel XVII secolo, è stata poi trasformata in atelier nel XIX secolo dove hanno lavorato fior di artisti, da Renoir a Suzanne Valadon e suo figlio, Maurice Utrillo. La casa appartiene alla citta di Parigi che l’ha affittata al museo. Nonostante gli oltre 50mila visitatori l’anno, il museo è in deficit cronico di almeno 150mila euro l’anno da diversi anni. Ospita le opere di oltre 6.000 artisti che illustrano la storia del quartiere.
http://www.apcom.net/newsesteri/20091126_112300_4acf1b2_77123.html
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La crisi di Dubai spaventa le Borse – Bankitalia: nessun problema per l’Italia
ROMA (27 novembre) – Borse europee di nuovo giù dopo il tonfo di giovedì e anche l’Asia sconta l’effetto Dubai. Bankitalia però rassicura: nessun problema per l’italia.
Il Msci Asia Pacific Index (-3%) accusa la flessione più grande in tre mesi sui timori di un crack di Dubai World, il conglomerato pubblico dell’emirato che mercoledì ha chiesto una moratoria sul debito di 59 miliardi di dollari, dando il via a una nuova fase di turbolenze sulle piazze finanziarie internazionali.
Tokyo oggi ha perso il 3,22%, Hong Kong scivola di oltre il 5% e Shanghai arretra del 2%. In calo in avvio anche le piazze europee. Milano, dopo aver registrato una flessione superiore al 2% in avvio, recupera ora terreno e perde meno di un punto percentuale.
I settori più colpiti dalla vendite sono assicurazioni, auto, banche e materie prime. I cali più consistenti a Piazza Affari sono di Banco Popolare, Unicredit e Intesa Sanpaolo.
Il Governo di Dubai prova intanto a rassicurare i mercati. L’economia del Paese è «durevole» e «i fondamentali economici, le infrastrutture e il nostro centro finanziario permetteranno a Dubai di restare un posto attrattivo nella regione», sostiene in una nota il presidente del comitato fiscale, lo sceicco Ahmed ben Said Al Maktoum. Ma i mercati hanno i nervi scoperti e il timore di un eventuale crack della holding dell’Emirato, che ha chiesto alle banche di sospendere per sei mesi i pagamenti sul debito di 59 miliardi, per ora sulle Borse fa prevalere il pessimismo.
Nessun problema per il sistema finanziario italiano. Lo ha assicurato il direttore generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni. «Per quanto riguarda il sistema Italia non ci sono problemi – ha detto – l’esposizione è molto contenuta, non c’è alcuna preoccupazione». In merito alla possibile
estensione su scala mondiale delle ripercussioni del crac di Dubai World, Saccomanni si è limitato a rispondere che «bisognerà vedere cosa succede».
Tra i creditori di Dubai World ci sono una settantina di banche: in testa l’Abu Dhabi Commercial Bank con 1,9 miliardi di dollari. Coinvolte, Credit Suisse, Hsbc, Lloyds e Rbs (nota: ilsole24ore cita anche Deutsche Bank e marginalmente Impregilo). Tra le italiane Unicredit ha un’esposizione «non rilevante», ha commentato un portavoce. Per gli analisti di Goldman Sachs, Hsbc avrebbe una perdita potenziale di 611 milioni di dollari, Standard Chartered di 177 milioni di dollari.
Sumitomo Mitsui Financial potrebbe essere esposta per 225 milioni e Mizuho Financial per 100 milioni di dollari.
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=82017&sez=HOME_ECONOMIA
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Se nascono nuove bolle 27.11.2009 (oltre a quelle che ormai sono la norma, pensando ai futures)
Le difficoltà finanziarie di Dubai rischiano di configurare un caso di grave insolvenza. Le ripercussioni internazionali possono mettere a tacere le fragili prospettive di ripresa sulle quali si esercita da qualche tempo l’ottimismo di non pochi operatori e politici. Oltre all’impatto diretto sulle banche creditrici, molte delle quali europee, il pericolo può diramarsi al sistema finanziario globale e a settori più o meno direttamente collegati all’economia degli emirati e al mondo immobiliare. Le Borse e i premi di assicurazione sui titoli di debito, compresi quelli «sovrani», cioè garantiti dai governi, hanno subito registrato la gravità del problema.
Il quale però non si limita alla potenziale diffusione del danno causato dal caso specifico di Dubai e dei suoi progetti in difficoltà. E’ vero che si tratta di un caso per molti versi particolare e davvero costruito sulla sabbia. Ma, per quanto gravi siano i suoi riflessi, limitandosi a guardarlo in sé e per sé si sottovaluta il significato di quanto sta succedendo. Lo scenario diventa più buio se il fatto di Dubai viene interpretato come un sintomo del permanere di squilibri e distorsioni nei mercati monetari e finanziari del mondo le cui malattie, emerse con la crisi cominciata nel 2007, sono ancor lungi dalla guarigione.
Purtroppo viene in mente che, per molti mesi, anche le gravi disavventure del mercato dei prestiti sub-prime americani sono state considerate un «caso particolare».
Un grave incidente con possibili conseguenze diffuse ma pur sempre un incidente specifico a quell’angolo del sistema economico-finanziario globale. E’ occorso molto tempo per capire che si trattava invece del sintomo di un vastissimo malessere radicato nell’eccesso di indebitamento dei più svariati tipi di operatori economici privati e pubblici, collocati un po’ dovunque nel mondo. Un incauto indebitamento incentivato da anni di politiche economiche imprudenti, soprattutto quelle monetarie, di carenze nelle regole dei mercati finanziari e nelle vigilanze delle autorità nazionali e internazionali. Il mondo non è stato contagiato da un virus fabbricato dagli ingegneri dei sub-prime: il mondo era già globalmente infetto e la crisi dei sub-prime era un sintomo.
Anche Dubai rischia di rendere più evidente quello che prima dicevamo in pochi ma negli ultimi tempi vanno dicendo in molti: che la crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata curata male e lentamente. Si è fatto troppo conto sulle iniezioni di liquidità e sui tassi di interesse superbassi. Gli intermediari e i mercati finanziari ne hanno approfittato per tornare a cercar rischi speculativi alimentati con fondi a basso costo. A questo atteggiamento, che ha gonfiato bolle di vario genere e spiega in parte notevole la ripresa dei corsi azionari e obbligazionari di questi ultimi mesi, va ricondotta anche la mancata cautela nei confronti dei pasticci di Dubai e delle autorità preposte a quella regione. Le iniezioni di liquidità e di debito pubblico e i tassi bassi dovevano servire a «comprare tempo» per fare le riforme delle regole e dei controlli finanziari, ristrutturare e ricapitalizzare banche e imprese, accelerare la centralizzazione regionale e mondiale della vigilanza finanziaria, rimettere le politiche macroeconomiche e l’economia mondiale su un sentiero di crescita più sostenibile. Sono passati due anni e mezzo dall’inizio della crisi e c’è un diffuso parlare di ripresa. Ma il processo di riforma, anche se ben abbozzato sul piano tecnico, stenta a trovare la forza politica e la cooperazione necessaria per venir messo in atto. Tutto è troppo lento, sta sparendo il senso dell’urgenza, il tempo comprato con la droga della liquidità a buon mercato e l’ingigantirsi dei deficit pubblici non viene usato con la dovuta intensità. Come ha osservato due settimane fa il presidente del Financial Stability Board, Mario Draghi, «il miglioramento della situazione accresce la forza dei gruppi di interesse che sono contrari a qualunque riforma sostanziale».
Bisognerebbe sperare che il guaio di Dubai rinfocoli la consapevolezza dell’urgenza di riforme, di nuove regole, di vertici internazionali più concreti nelle loro deliberazioni, di politiche economiche meno legate all’effimero miglioramento degli indici congiunturali. Ma ci sono due rischi. Il primo è che quel guaio ne faccia emergere altri, fabbricati in questo periodo di «ripresa» o residuati tossici rimasti nascosti dai tempi prima della crisi. Il secondo è che ci si limiti a reagire comprando ancora tempo con nuovi salvataggi, nuovi debiti, altra liquidità, tassi vicini allo zero per chissà quanto: che Dubai venga presentato come un incidente specifico in una piazza d’affari screditata, del quale occuparsi mettendo toppe a un sistema che non si fa toccare nella sostanza delle sue regole e dei suoi assetti di potere.
franco.bruni@unibocconi.it
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USA – La discriminazione genetica bandita dalle aziende 21.11.2009
Il 21 novembre entra in vigore in Usa Genetic Information Nondiscrimination Act (GINA). Ciò significa che le aziende non potranno più pretendere dal personale o dai clienti il prelievo del sangue, il Dna, e nemmeno porre domande sugli precedenti familiari. “Un’immensa vittoria per tutti gli americani che non sono nati con i geni perfetti, vale a dire per tutti noi”. E’ in questi termini trionfanti che la rappresentante democratica di New York , Louise Slaughter, ha salutato l’entrata in vigore del provvedimento. Oggetto di trattativa aperta in Congresso per tredici anni e firmata dal presidente Bush nel 2008, la legge proibisce alle società di oltre 15 dipendenti di chiedere informazioni sul loro profilo genetico e di usarle per assumere, licenziare, promuovere o decidere della copertura sanitaria. La legge riguarda anche le assicurazioni (tranne le polizze vita). Il New York Times considera GINA come “la legge antidiscriminazione più importante degli ultimi vent’anni”.
http://www.aduc.it/notizia/discriminazione+genetica+bandita+dalle+aziende_114041.php
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Privatizzano l’acqua? e allora compriamocela
Post n°1413 pubblicato il 23 Novembre 2009 da kudablog
Il decreto Ronchi, ormai diventato legge, di fatto rende impossibile la gestione pubblica delle risorse idriche. Come sinistra, ambientalisti, possiamo incazzarci, raccogliere firme per cancellare la legge tramite referendum, provare a patteggiare con la Lega una nuova leggina, oppure, oltre a queste cose, scendere sul campo del capitalismo e batterlo dal di dentro.
Quella che sto per scrivere è un’idea che mi frulla in testa da questa mattina e sulla quale vorrei raccogliere i pareri di quanti ne sanno più di me. La legge Ronchi manda in soffitta tutte le gestioni in house entro il 31 dicembre 2011 a meno che entro questa data la società che gestisce il servizio non sia per il 40% affidata a privati. E qui sta il punto.
Il 40% privato potranno essere le grandi multinazionali come la Nestlè o la Coca Cola, che sta assetando la Basilicata, oppure potremmo essere noi. Sì, sto proprio proponendo ai partiti di sinistra, al PD, ai Verdi, a Sinistra e Libertà, al movimento etico solidale, ai gas di creare un fondo di investimento che faccia da partner privato alle aziende pubbliche. (non so se è la forma finanziaria giusta, ma adesso mi interessa il concetto).
Questo si sarebbe un bel colpo alle multinazionali dell’acqua che contavano di fare grandi affari sulla nostra sede. In queste nuove società avremo un doppio controllo, con il voto e con il portafoglio, perchè saremo noi, soci, a determinare chi siederà in consiglio di amministrazione e quindi ad impostarne le politiche. E questo farebbe davvero girare le balle a molti, ve li immaginate, costretti ad usa l’acqua venduta da un fondo di sinistra?
Ho provato a fare due conti, giusto per verificare la fattibilità o meno della proposta. Ho preso a modello Amiacque, la società che fornisce acqua a 242 comuni lombardi e che nel 2008 ha avuto un attivo netto di 370.947 €. Questa società ha un capitale sociale di 23.667.606 €, dovrà privatizzarne il 40%, cioè circa 9 milioni e mezzo di euro. Basta trovare 100.000 lombardi disposti ad investire 100 € e diventiamo azionisti della società. Cosa ci vuole?
Basta trovare 414 persone per comune (compreso Milano, per capirci)
Alle primarie del PD hanno votato, solo in Lombardia 300.000 persone. Gli iscritti sono circa 50.000 la metà della cifra da raggiungere.
Alle ultime europee Sinistra e Libertà ha preso 106.000 voti, l’Italia dei Valori 349.000, il PD 1.146.000.
E scommetti che solo vedendo organizzare una cosa di questo tipo, i cari parlamentari correranno ai ripari riscrivendo per benino la legge? Abbiamo due anni per organizzarci, troviamoci, parliamone, verifichiamo se l’ipotesi è percorribile perchè mi sono stancato di liberarmi la coscienza firmando appelli, sono pronto a mettere mano al portafoglio!
Vorrei capire chi siede in consiglio regionale, provinciale, comunale cosa ne pensa? e Chi sta organizzando la Costituente Ecologista? e chi è già pronto a raccogliere le firme per un referendum minato dal quorum? e chi va nei palazzetti a sentire grillo? e chi fa parte del più grande partito d’opposizione?
http://blog.libero.it/KudaBlog/8035120.html
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La rassegna stampa di http://www.caffeeuropa.it/ del 30.11.2009
“No della Svizzera ai minareti”, titola Il Corriere della Sera. Si è votato infatti in Svizzera un eferendum proposto dai partiti della destra populista e della destra cristiana che proponeva la messa al bando dei simboli religiosi musulmani. E’ passato con il 57 per cento dei voti. “Passa il referendum anti-islam. Proteste nel mondo musulmano. Preoccupati i vescovi. Esulta la Lega. Castelli: ora la croce sulla bandiera italiana”. A centro pagina le polemiche di politica interna: “Berlusconi all’attacco: contro di me accuse ignobili. Dell’Utri: vanno cambiate le regole sui pentiti”.
Sulle accuse al premier apre La Repubblica: “Mafia: Berlusconi all’attacco. Continua la polemica dopo le critiche alle fiction e ai libri su Cosa Nostra. Il Pdl respinge le condizioni di Bersani per il dialogo. ‘Ho fatto tanto contro le cosche’. E il premier querela Repubblica”. In prima anche un commento di Adriano Sofri dal titolo: “Chi si vergogna della piovra”. A centro pagina (con la foto del minareto di una moschea a Zurigo) la notizia dalla Svizzera: “La Svizzera dice no ai minareti. La Lega: ora la croce nel tricolore”. Commento di Renzo Guolo: “Adesso l’Europa teme il contagio”.
La Stampa: “Berlusconi contro la mafia mai nessuno più duro di me. La rabbia del Cavaliere dopo la smentita dei Pm di Firenze: attacco ignobile, un indegno killeraggio. Dell’Utri difende il premier in tv: ‘Lo stalliere Mangano? Era un eroe”. Il titolo di apertura del quotidiano torinese è per l’Iran: “Nucleare, l’Iran rilancia la sfida. Sì ad altri dieci impianti. Obama: si isolano dal mondo”. Il governo di Teheran ha deciso di costruire cinque nuovi impianti nucleari e di trovare la collocazione di altri cinque nei prossimi due mesi. Dura la replica di Washington”. A centro pagina, oltre alla notizia del referendum svixxero, una foto-notizia sugli Usa. “Un piccolo su quattro mangia con i buoni del governo. Usa, record di bimbi poveri”. Tra le notizie di prima pagina anche un approfondimento su un rapporto “choc” del Senato Usa sulla guerra in Afghanistan: “Così ci scappò Bin Laden”. Nel 2001 era possibile catturare il capo di Al Qaeda, “ma il Pentagono mandò pochi uomini”, scrive il quotidiano torinese.
Il Giornale: “Berlusconi, due patacche di Repubblica”. Si parla delle “origini dei capitali Fininvest”, oggetto di rinnovato interesse da parte del quotidiano di Ezio Mauro. “Il quotidiano di De Benedetti per inventare soci occulti del premier si aggrappa a una perizia del 1997 e a un libro inchiesta. Peccato che il perito due anni fa ammise di essersi sbagliato e l’autore del saggio oggi dica: mai scritto di soldi mafiosi”.
L’Unità torna sul terremoto in Abruzzo: “Come marcisce L’Aquila. Dilettantismo, incuria, speculazione. Dopo più di otto mesi mosaici, arredi, organi delle chiese giacciono tra i ruderi esposti alle intemperei”.
Italia
Secondo La Repubblica, che ne parla in un retroscena, “Il Pdl accelera sul concorso esterno”, sulla legge ad hoc per “neutralizzare” questo reato. “Doveva essere la carta segreta da giocar esubito dopo aver chiuso la partita del processo breve”.
Sullo stesso quotidiano la lettera del direttore comunicazioni della Fininvest per contestare il contenuto degli articoli pubblicati nei giorni scorsi, che sono costati a La Repubblica la querela per diffamazione. E la risposta dei giornali Bolzoni e D’Avanzo, autori dell’articolo contestato.
Il Corriere della Sera offre una sintesi delle dichiarazioni di Marcello Dell’Utri, ieri ospite da Lucia Annunziata: “Io ho un evidente conflitto di interessi ma dico che la legge sui pentiti dovrebbe essere modificata. Lo chiedo a nome delle migliaia di persone che hanno avuto la vita rovinata dai collaboratori e che poi sono state assolte. I pentito sono utili ma vanno regolamentati”. Dell’Utri ha anche confermato il suo aggettivo “eroe” per Vittorio Mangano, il mafioso che fu assunto come stalliere dal premier negli anni 70, perchè “fu invitato a parlare di me e di Berlusconi con la promessa di andare a casa” e non lo fece.
Lo stesso quotidiano offre una intervista al vicesegretario del Pd Enrico Letta che – a proposito di Berlusconi – dice che, come ha detto Bersani, “consideriamo legittimo che, come ogni imputato, Berlusconi si difenda ‘nel’ processo e ‘dal’ processo. Certo, legittimo non vuol dire né opportuno né adeguato al comportamento di uno statista”. Il titolo dell’intervista è: “Il Pd eviterà scorciatoie per far cadere il governo”.
Svizzera
Gli elettori svizzeri hanno votato ieri contro la costruzione di nuovi minareti: il 57 per cento dei cittadini ha deciso che ci si fermerà ai 4 attualmente esistenti nel Paese. I sondaggi indicavano invece una facile vittoria dei no alla proibizione dei minareti, che invece si sono fermati al 42,5 per cento. Il Corriere della Sera sottolinea l’affluenza “record”, che è stata del 54 per cento. I musulmani svizzeri sono circa 400 mila, la maggior parte dei quali non praticanti, scrive il quotidiano milaese. Secondo L’Unità la maggior parte dei musulmani arriva da Bosnia, Kosovo, Macedonia e Turchia. Una popolazione giovane: nel 2000 uno su due aveva meno di 25 anni. Esistono tra i 130 e 160 centri di cultura o di preghiera islamici.
A commentare questi risultati su La Repubblica sono il sociologo dell’islam Renzo Guolo (che sottolinea “i timori del contagio”) il ministro leghista Roberto Calderoli (“messaggio all’Europa, fermiamo i loro simboli”) e il politologo ginevrino Tariq Ramadan (“Un risultato scioccante, è il trionfo della paura”).
La Stampa evidenzia nei titoli le dichiarazioni del viceministro italiano Castelli, che parla di “lezione di civiltà” e promette una legge costituzionale per mettere “la croce nel tricolore”.
L’Unità ricorda che ieri i cittadini elvetici si sono anche espressi su un altro referendum che prevedeva il divieto di export di armi, che è stato respinto dal 68 per cento dei votanti. I promotori del referendum sui minareti erano politici del Udc, il più grande partito svizzero, destra populista, insieme all’Unione democratica federale, destra cristiana. Walter Wobmann, presidente del comitato promotore, dice: “Noi vogliamo fermare l’islamizzazione della svizzera. I musulmani possono continuare a praticare la loro religione”, “vogliamo fermare i futuri sviluppi, dai minareti alla sharia”. Preoccupata la chiesa dei cattolici elvetici: il presidente della conferenza espiscopale svizzera ha fatto invece notare che il referendum è stato bocciato a Basilea e a Ginevra, dove vive il maggior numero di musulmani.
Sul Corriere della Sera, opinioni a confronto sui risultati del referendum: Vittorio Messori sottolinea che “così si riscoprono le radici cristiane e la nostra cultura”, mentre Pier Luigi Battista dice che è stata “bocciata la libertà religiosa”.
Iran
La Stampa parla di una triplice sfida venuta da Teheran nelle ultime 36 ore alla comunità internazionale: ha deciso dieci nuove centrali nucleari, ha minacciato di ridurre la collaborazione con l’agenzia atomica dell’Onu, ha approvato aiuti per venti milioni di dollari a imprecisati militanti anti-americani e anti-britannici. I fondi sono stati assegnati alle Guardie della rivoluzione e al ministero della cultura, ma il destinatario finale non è stato reso pubblico, anche se sono noti i finanziamenti a gruppi come Hezbollah, Hamas e Jihad Islamica palestinese. Sullo stesso quotidiano un ritratto del nuovo capo dell’Aiea, che rimpiazzera l’egiziano El Baradei: è un diplomatico giapponese, si chiama Yukiya Amano, e La Stampa lo descrive come “il mastino atomico che piace agli americani”. Non dispiace a Mosca, ha detto che è necessario trattare con l’Iran “con rispetto” ed ha dichiarato di sentirsi in sintonia con l’approccio di Obama tanto su Teheran che sulla necessità di fermare la proliferazione nucleare. Soprattutto, si sente un interprete del radicato rifiuto nipponico per le armi atomiche, frutto dello choc di Hiroshima e Nagasaki.
E poi
Su La Repubblica una inchiesta sugli “sprechi di Stato”. L’attenzione è focalizzata sul Cnel, “l’Ente dei pareri inutili finanziato per sopravvivere”. Più dell’ottanta per cento dei fondi serve a pagare stipendi e indennità.
Su tutti i quotidiani ampi resoconti dei risultati cui è arrivata la commissione del Senato Usa, presieduta dal democratico John Kerry: il rapporto documenta errori ed omissioni della guerra in Afghanistan ed evidenzia che nel 2001, soprattutto per responsabilità della gestione militare del segretario alla Difesa Rumsfeld, ci si è lasciati sfuggire il capo di Al Qaeda Bin Laden. Il rapporto si riferisce alla battaglia di Tora Bora, sottolinea La Stampa: il comando centrale per le operazioni speciali mandò solo un piccolo contingente di un centinaio di agenti, tra uomini della Cia e militari, per fronteggiare un migliaio di militanti islamici che stavano proteggendo la fuga di Bin Laden in Pakistan.
Su Il Giornale il verdetto della commissione di Kerry è un vero e proprio “aiutino”, nel senso che è una sentenza di assoluzione per le imminenti decisioni del nuovo Presidente, poiché vi si legge, tra l’altro, che “la nostra incapacità di portare a termine il lavoro, alla fine del 2001, ha contribuito a un conflitto che mette a rischio non solo le nostre truppe e quelle dei nostri alleati ma la stabilità dell’intera regione”.
Domani il Presidente Obama terrà all’accademia di West Point un discorso per illustrare la svolta strategica della guerra in Afghanistan. Secondo La Stampa verrà raddoppiata la presenza americana nelle zone da riconquistare come Kandahar, la principale città del sud, e verrà raddoppiata la presenza americana nella provincia dell’Helmand, la regione del sudest dove i taleban hanno le proprie roccaforti. Saranno i marines a farsene carico.
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Geotermico per tutti 26.11.2009
Una nuova sonda facilita la costruzione di impianti che sfruttano il calore del sottosuolo. Una ricerca delle Università di Urbino, delle Marche e di Camerino
di Roberta Pizzolante
Ha impatto zero sull’ambiente, è sicuro perché non utilizza gas metano o gpl e non pone problemi di integrazione architettonica perché non è visibile. Il geotermico ha numerosi vantaggi. Eppure, mentre da oltre 30 anni in molti paesi europei gli impianti con sonde e pompe di calore geotermico hanno trovato un loro spazio, in Italia stentano a decollare. Perché? Uno dei motivi è rappresentato dai costi delle perforazioni necessarie per rendere operativo un impianto.
Come rendere allora la geotermia alla portata di tutti? Ci si sta provando con una speciale sonda a spirale sviluppata dall’azienda Energy Resources e già brevettata a livello internazionale, che trasporta il calore del sottosuolo per riscaldare gli ambienti (o viceversa per raffreddarli) in modo molto più efficiente delle sonde tradizionali. L’innovazione trova supporto scientifico nello studio “Sistemi avanzati di produzione per geotermia” condotto da Università Politecnica delle Marche, Università di Urbino, Università di Camerino e laboratorio di ricerca Eta.
La nuova sonda ha la forma di una molla e può essere inserita in perforazioni che vanno da 8 a 25 metri di profondità, con diametro di 60-80 centimetri. Un bel vantaggio se si pensa che il modello standard, cosiddetto “ad U”, deve arrivare fino ad 80-120 metri (sebbene bastino 15-20 centimetri di diametro). Rispetto a quella tradizionale, inoltre, la sonda a spirale consente una perforazione più veloce e permette di estrarre maggiore energia termica dal terreno a parità di lunghezza di perforazione. In termini di costi ciò si traduce in un abbattimento del 50 per cento delle spese di impianto. Già applicata nella nuova sede della Rainbow a Loreto (la casa di produzione creatrice delle famose fatine Winx) e nell’eco-resort Ca’ Virginia a San Giorgio di Montecalvo in Foglia, nel pesarese, la sonda promette di essere conveniente anche nelle normali abitazioni. In un impianto domestico di medie dimensioni, grazie alla detrazione fiscale del 55 per cento e ad altri incentivi disponibili, è possibile recuperare l’investimento iniziale in 1-3 anni, e il risparmio annuo ammonta a circa 1.500-2.000 euro rispetto al sistema tradizionale.
Per il resto, il sistema funziona come quello tradizionale, sfruttando il sottosuolo come serbatoio di calore. Nei mesi invernali il calore viene trasferito in superficie, viceversa in estate il calore in eccesso presente negli edifici, viene fornito al terreno. Un’ operazione resa possibile dalle pompe di calore che, abbinate a sonde collocate nel sottosuolo, sfruttano la temperatura costante che quest’ultimo ha durante tutto il corso dell’anno: “Già a partire dai 5-7 metri di profondità la temperatura del sottosuolo non risente più delle condizioni atmosferiche stagionali o delle escursioni nelle 24 ore, e si possono avere temperature costanti, tra 13 e 15 gradi centigradi: più della media invernale e di gran lunga al di sotto di quella estiva”, spiega Alberto Renzulli, docente di petrologia e vulcanologia dell’Università di Urbino, che ha partecipato allo stuudio.
La sonda a spirale consente di ottenere questo scambio termico già a pochi metri di profondità. Ma se è vero che ciò la rende più conveniente e alla portata di tutti, è anche vero che il suo utilizzo deve essere valutato caso per caso. “Ogni terreno ha le sue caratteristiche e per sfruttare al meglio la resa termica è sempre necessario effettuare dettagliati studi geologici e idrogeologici prima di decidere quale tipo di sonda installare, se a spirale o di tipo tradizionale”, continua Renzulli: “Questa sonda ha notevoli potenzialità in terreni dove è presente una falda superficiale, con circolazione di fluidi e continua rigenerazione termica del sottosuolo, come avviene nelle pianure alluvionali. Inoltre, è necessario che l’impianto funzioni a pieno regime sia in estate che in inverno per evitare che il terreno si raffreddi dopo qualche anno”.
Aumenta la convenienza, dunque, ma resta la complessità, anche perché lo strumento assorbe più o meno calore in base alla distanza delle spire. “Per questo sarebbe auspicabile realizzare una cartografia tematica del potenziale geotermico in regioni come le Marche, che ha in programma la costruzione di nuovi impianti con pompe di calore geotermico. Se disponessimo di carte del sottosuolo della predisposizione naturale allo scambio termico, si potrebbero progettare piani energetici ad hoc su scala provinciale e regionale”, conclude Renzulli.
http://www.galileonet.it/primo-piano/12112/geotermico-per-tutti
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Raggi gamma dal Cigno 27.11.2009
Cyg X-3 della costellazione del Cigno, all’interno della nostra galassia, è il primo microquasar identificato come sorgente di queste radiazioni ad alta energia. La conferma su Nature e Science
Trent’anni alla ricerca di una conferma e poi, a distanza di soli cinque giorni, ne arrivano persino due dalle riviste scientifiche più importanti, Nature e Science. Il microquasar Cyg X-3 (cioè il piccolo sistema binario formato da una stella risucchiata da un oggetto compagno molto compatto, qui il video) è senza più ombra di dubbio una sorgente di raggi gamma ad alta energia (gamma ray burst).
La scoperta, importante perché è la prima volta che un microquasar viene identificato come fonte di questo tipo di “violente” emissioni, porta la firma italiana, grazie alla grande partecipazione dei ricercatori dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).
Cyg X-3 si trova nella nostra galassia ed è visibile nell’emisfero boreale all’interno della costellazione del Cigno (detta anche Croce del Nord). Il sistema è stato identificato negli anni Sessanta come sorgente di raggi X, la cui emissione varia con un periodo di 4,8 ore (la ciclicità indica che si tratta di due corpi che ruotano l’uno intorno all’altro, oscurandosi in modo alterno; la radiazione X viene emessa dal corpo più compatto, che si “nutre” della materia della grande stella vicina). Una caratteristica lo distingue però dagli altri sistemi binari: la produzione random di spettacolari emissioni radio, tipiche dei grandi quasar che si trovano al centro delle lontane galassie, che gli hanno valso la definizione di microquasar.
Tali potenti emissioni radio si verificano solo quando vi sono particelle accelerate ad elevate energie, stessa condizione a cui si possono produrre anche i gamma ray burst. Fino ad oggi però, nessuno strumento era stato in grado di stabilire che Cyg X-3 fosse anche una sorgente di questi raggi. La certezza è arrivata grazie agli avanzati strumenti gamma che si trovano sul satellite Agile (Astrorivelatore gamma ad immagini ultra leggero) dell’Asi e sul Fermi Gamma-ray Space Telescope della Nasa.
I dati raccolti da Agile e pubblicati lo scorso 22 novembre su Nature rivelano che, subito prima delle emissioni radio, vi è anche un’emissione variabile di raggi gamma ad alta energia. Le rilevazioni del satellite Fermi, riportate oggi su Science, forniscono la prova del nove, stabilendo che queste radiazioni gamma variano con un periodo di 4,8 ore, firma inconfondibile di Cyg X-3.
Per Enrico Flamini, responsabile dei programmi di osservazione dell’Asi, la scoperta è un premio per quasi quindici anni di studi e di investimenti italiani nella fisica delle alte energie, dal momento che Fermi deve buona parte dei suoi risultati a tecnologie nate nel nostro paese e che dietro la scoperta vi è il lavoro di molti ricercatori italiani. (t.m.)
Riferimenti: doi:10.1038/nature08578; DOI: 10.1126/science.1182174
http://www.galileonet.it/news/12114/raggi-gamma-dal-cigno
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Dubai: l’insostenibile leggerezza della finanza
Nane Cantatore, 28.11.2009
Le grandi banche europee, con l’eccezione dei soliti volponi britannici, sembrano in gran parte al riparo dalla crisi di Dubai. Il crollo finanziario dell’emirato, però, ha valenze di sistema che vanno ben al di là del livello di coinvolgimento degli istituti di credito, e che mettono in questione il modello del cosiddetto turbocapitalismo
La fretta con cui si sta cercando di archiviare la crisi finanziaria del fondo Dubai World desta qualche sospetto. Se è certamente vero che le banche italiane, e in generale quelle dell’area euro, non sono particolarmente esposte verso l’emirato, se è altrettanto vero che anche gli istituti asiatici e americani non dovrebbero soffrire troppo, se infine è certo che i meno di 100 miliardi di debito difficilmente solvibile non sono, al di là delle apparenze, una così gran cosa, va detto che la caduta di Dubai non è un semplice episodio come altri, un esempio di gestione poco oculata o una vittima un po’ più illustre della crisi mondiale.
Dubai, infatti, non è un posto qualsiasi, ma è il laboratorio più importante del modello di capitalismo globale che ha dominato il mondo negli ultimi dieci o quindici anni, e come tale è stato magistralmente raccontato in un celebre saggio di Mike Davis (http://www.newleftreview.org/?view=2635). L’emirato del Golfo ha messo a punto la massima sintesi tra l’assoluta libertà di movimento del capitale, la totale flessibilità legislativa, la rigorosa autocrazia familistica e il completo asservimento di ogni essere umano, convenientemente disposto in una gerarchia fatta tutta di servi, dal manovale immigrato al manager americano, giapponese o europeo. La fortuna di Dubai si è costruita, in questi anni, su una sola cosa: la garanzia che tutti i capitali sufficientemente grandi da essere presi in considerazione avrebbero ottenuto tutto ciò di cui avevano bisogno. In poche parole, niente tasse, niente controlli, niente vincoli, niente diritti per i lavoratori: insomma, il tutto del turbocapitalismo che si traduce in un nulla rigorosamente protetto, dove i capitali avrebbero potuto crescere indefinitamente.
La massima espressione di questo modello si trova nella zona franca di Jebel Ali, l’immenso parco industriale alle porte della vera e propria città di Dubai, dove ogni settore di impresa può contare sulla massima libertà di azione, anche grazie a una straordinaria innovazione nel campo dell’asservimento del pubblico al privato: le cosiddette “bolle normative”, che definiscono porzioni di spazio in cui vigono le leggi più vantaggiose per le aziende che vi operano, come l’assenza di censura nell’area dei media, la mancanza di controlli per i provider web nella zona delle imprese internet, e così via. In altre parole, le leggi dell’emirato di Dubai non sono fatte per i cittadini ma per le imprese, e le persone giuridiche hanno soppiantato nel principio di cittadinanza le persone fisiche, realizzando un approccio ben indagato da Richard Sennet. Il simbolo di questa evoluzione perversa è il capo di tutto, lo sceicco Al-Maktoum che preferisce il titolo di amministratore delegato a quello di emiro.
Il grande fallimento dell’emirato si gioca proprio sulla falsità dell’aspettativa della crescita indefinita, e il fatto che esso si manifesti in primo luogo nel mercato immobiliare ne è la prova migliore. A Dubai si costruiva quello che si voleva, con la certezza che tutto sarebbe già passato di mano diverse volte nel percorso dal progetto iniziale alla realizzazione dell’opera, a prezzi ogni volta maggiori: questo modello di investimento ha attirato capitali da tutto il mondo, che finanziavano il progetto potendo contare su ampi ritorni di profitti fin da subito. È ovvio che, in un sistema fondato integralmente su un fabbisogno di capitali sempre crescente, prima o poi si sarebbe arrivati al redde rationem, e che tutto quanto si sarebbe trasformato in un gioco del fiammifero su scala titanica.
È facile prevedere che lo stesso avverrà anche per Jebel Ali, in cui la scommessa è del tutto analoga: mettere al centro di tutto le imprese significa dare per scontata una crescita continua, indefinita e quasi automatica del capitale, prescindendo totalmente dalla realtà esterna. La crisi dei mercati priva le aziende del bisogno di crescere e le costringe a ripensare la loro sostenibilità economica e sociale, svuotando completamente di attrattiva un luogo che campa esclusivamente di capitali esterni.
Se, a queste condizioni, è chiara la portata simbolica del fallimento di Dubai, il suo valore reale sembra smorzato dalle rassicurazioni delle banche e dalla ripresa dei mercati finanziari. In realtà non è così, anche se non c’è da stupirsi per l’allegra incoscienza con cui gli operatori del mercato danzano verso un nuovo baratro.
Dubai è un modello perché le sue soluzioni hanno trovato, in diversi gradi, applicazioni in tutto il mondo, per cui il meccanismo esplicito della gestione dei capitali globali si basa su un doppio sfruttamento della grande massa di lavoratori e consumatori, che prima vengono pagati con salari troppo bassi rispetto ai livelli di produttività e poi sono spinti all’indebitamento per accedere ai beni offerti sul mercato. Sfruttamento che produce profitti i, quali tendono ad accumularsi nei punti specifici del globo in cui viene assicurata la maggior crescita possibile, garantita a sua volta dal continuo afflusso di capitali prodotto da questo sistema di sfruttamento. Ma il giocattolo si è rotto a Dubai, e non c’è posto al mondo dove si possa ripararlo.
http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=13639
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Con i resistenti in Honduras 29.11.2009
Assalti ai media partecipativi e alle associazioni sospettate di favorire il boicottaggio proclamato dalla Resistenza delle elezioni farsa benedette dal Dipartimento di Stato. Mentre in Uruguay, contemporaneamente, le elezioni sono davvero una festa della democrazia in un altro punto della “Patria grande latinoamericana”, l’Honduras, le elezioni sono la fine della democrazia.
Tegucigalpa si sveglia oggi in un’alba tragica nella quale ancora una volta, nella piena logica alla George Bush di esportazione della democrazia, ed esattamente come è avvenuto in Afghanistan, si svolgono “elezioni pur che siano”. Con brogli, senza opposizione, senza osservatori internazionali, mentre si violano i diritti umani. Non importa.
Se qualcuno va a votare, vedremo quanti saranno, allora il simulacro di democrazia è mantenuto anche se ad imporlo sono gli squadroni della morte. Era la filosofia di Donald Rumsfeld e lo rimane per Hillary Clinton.
Le elezioni di oggi, tra golpisti e per i golpisti, che ricordano quelle in Argentina negli anni ‘60 dove al partito che avrebbe vinto non era permesso partecipare, vanno ripudiate per due motivi.
In primo luogo perché sono la forma trovata da chi manovra il dittatore di Bergamo Alta Roberto Micheletti per essere un colpo di spugna sulle almeno 4.000 documentate violazioni dei diritti umani (dai 30 ai 100 morti) negli ultimi cinque mesi e per rilegittimare il colpo di stato stesso come strumento per la risoluzione di conflitti in America.
In secondo luogo perché sono la forma trovata dalle oligarchie, dai narcotrafficanti, dagli interessi delle grandi compagnie bananiere e dal Dipartimento statunitense di far tramontare anche quella pallidissima speranza di cambiamento rappresentata da Mel Zelaya, impedire il referendum per l’assemblea costituente e assicurare che in Honduras, il secondo paese più disgraziato, dopo Haiti, nel Continente, tutto resti uguale.
Zelaya non è Jacobo Arbenz. Se il golpe in Guatemala nel 1954, quando la sola promessa di una riforma agraria bastò a rovesciare tutti i cannoni della guerra fredda sul presidente, è di gran lunga ancora l’esempio principale per capire i fatti honduregni, sicuramente non vale la pena di “morire per Mel”. Ma solo quella “quarta urna” per chiedere un’Assemblea costituente, all’origine della quale vi fu il golpe, avrebbe potuto mettere in marcia progressiva il cambiamento dell’Honduras. Quella “quarta urna” era l’inizio del cambio che il golpe e adesso queste elezioni farsa hanno fatto deragliare.
Adesso, comunque vada oggi, la speranza violata non torna nelle catacombe in Honduras. Esiste un movimento popolare forgiato da cinque mesi (e cinquecento anni) di lotta contro il golpe. Ma soprattutto la speranza si chiama ancora una volta integrazione latinoamericana. L’attitudine dignitosa del governo brasiliano, che al contrario di quello statunitense, non riconoscerà la farsa di oggi, dà tutta la misura di quello che sta succedendo: o si sta con i paesi integrazionisti o si sta con la reazione dei Micheletti, degli Álvaro Uribe e dei Felipe Calderón.
http://www.gennarocarotenuto.it/11549-con-i-resistenti-in-honduras/
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Uruguay, America latina: Pepe Mujica presidente, “il mondo alla rovescia” 30.11.2009
Pepe Mujica, l’ex guerrigliero Tupamaro, per 13 anni prigioniero della dittatura fondomonetarista, per nove anni rinchiuso in un pozzo e torturato continuamente, è il nuovo presidente della Repubblica in Uruguay. Ha ottenuto il 51,9% dei voti, superando il 50.4% con il quale Tabaré Vázquez era stato eletto cinque anni fa. Il suo rivale, Luís Alberto “Cuqui” Lacalle, del Partito Nazionale, si è fermato al 42.9% dei voti.
E’ uno scarto di nove punti, superiore a tutte le aspettative e, con un’affluenza alle urne superiore al 90% in uno dei paesi dal più alto senso civico al mondo, conferma che quella del presunto rifiuto per la figura popolana e popolare e dal passato guerrigliero di Mujica era una menzogna cucinata e venduta a basso costo dal complesso disinformativo-industriale di massa.
Il trionfo di Mujica (nella foto incredibilmente in giacca, ma senza cravatta) è espressione di quello che negli anni del Concilio Vaticano II si sarebbe definito “segno dei tempi”. Come ha detto lo stesso dirigente politico tupamaro, emozionatissimo nel suo primo discorso sotto la pioggia battente a decine di migliaia di orientali che hanno festeggiato con i colori del Frente Amplio, quello che lo porta alla presidenza è proprio “un mondo alla rovescia”.
Un mondo nuovo i contorni del quale non sono ancora del tutto visibili nella prudenza dei grandi dirigenti politici che rappresentano il fiorire dei movimenti sociali, indigeni, popolari del Continente ma che si tratteggia in due grandi temi di fondo: uguaglianza tra i cittadini e unità latinoamericana.
Mujica è stato chiarissimo: il primo valore della sua presidenza sarà il mettere l’uguaglianza tra i cittadini al primo posto e il primo ringraziamento è andato oltre che al popolo orientale “ai fratelli latinoamericani, ai dirigenti politici che li stanno rappresentando e che rappresentano le speranze finora frustrate di un continente che tenta di unirsi con tutte le sue forze”.
Proprio il trionfo di Mujica, la quarta figura che viene dal basso, plebea se preferite, e non espressione delle classi dirigenti, illuminate o meno, a divenire presidente in appena un decennio, testimonia che l’America latina sta riscrivendo la grammatica politica della rappresentanza democratica in questo inizio di XXI secolo in una misura perfino insospettabile e incomprensibile in Europa.
Mujica, nonostante la militanza politica di più di mezzo secolo, è un venditore di fiori recisi nei mercati rionali. E’ uno che quando è diventato deputato per la prima volta e fino a che non ha avuto responsabilità di governo ha accettato dallo Stato solo il salario minimo di un operaio e, siccome questo non è sufficiente per vivere, ha continuato a vendere fiori nei mercati rionali. Per campare. Indecoroso per un parlamentare, ma solo così, solo dal basso, oggi Mujica può permettersi a testa alta di rappresentare il popolo e proporre a questo “un governo onesto”.
Non è un medico, come Tabaré Vázquez o Salvador Allende o Ernesto Guevara, né ha un dottorato in Belgio come l’ecuadoriano Rafael Correa. Non ha studiato dai gesuiti come Fidel Castro né proviene dalla classe dirigente illuminata come Michelle Bachelet in Cile o i coniugi Kirchner in Argentina. Non è, soprattutto, un pollo di batteria, allevato per star bene in società come tanti burocratini dei partiti politici della sinistra europea, che infatti passa di sconfitta in sconfitta e di frammentazione in frammentazione mentre invece in America l’unità delle sinistre è un fatto.
Pepe il venditore di fiori recisi nei mercatini rionali è un uomo del popolo come l’operaio Lula in Brasile, come il militare di umili origini Hugo Chávez in Venezuela e come il sindacalista indigeno Evo Morales in Bolivia. Non a caso sono tre uomini politici che hanno mantenuto un rapporto privilegiato con la loro classe di provenienza, che non hanno tradito e che sono ricompensati con alcuni tra i più alti indici di popolarità al mondo, nonostante siano costantemente vittime di campagne ben orchestrate di diffamazione da parte dei complessi mediatici nazionali e internazionali.
Non è un caso che da questi dirigenti politici venga posto sul piatto dell’agenda politica lo scandaloso problema dell’uguaglianza che trent’anni di retorica neoliberale avevano umiliato, vilipeso e cancellato e che invece è più che mai l’unico motore dell’unico futuro possibile non solo in America latina.
L’America latina integrazionista, dove diventa presidente un ex-guerrigliero venditore di fiori recisi nei mercatini dei quartieri popolari di Montevideo, è davvero “il mondo alla rovescia”, ma è anche la speranza di un “mondo nuovo”, di un nuovo inizio e un futuro migliore in pace e in democrazia. Questa speranza non poteva che venire dal Sud del mondo, da quella “Patria grande latinoamericana” che sta riscrivendo la Storia.
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